Archivio mensile:luglio 2015

DAI PROTOCOLLI DEI SAVI DI SION AL “NUOVO ORDINE MONDIALE”

Le rivelazioni sconvolgenti dei protocolli dei Savi di Sion sono sempre oggetto di discussione sulla genuinità della scrittura. Rectius, della riscrittura, ma non sui contenuti. Essi sono in linea con il Talmud, il testo sacro ebraico secondo solo alla Bibbia. E il Taimud, che significa insegnamento, studio, discussione dalla radice ebraica, non è certo un falso. In sintesi, è il contratto di lavoro fra Dio e il popolo ebraico per dare un servizio all’umanità e l’ebreo vi viene visto come sacerdote e servo dell’umanità in una sorta di culto cosmico al Creatore. Traggono da qui molte interpretazioni della superiorità del popolo ebraico sugli umani. I Farisei furono i sacerdoti del Taimud e furono combattuti da Gesù.

I PROTOCOLLI DEI SAVI DI SION

1-LIBRO dei SAVI di SION

..UNA LETTURA IMMANCABILE PER CHI VUOLE CAPIRE..

di Giacoletto Dario

..un documento, può essere vero oppure, può essere falso. Un documento vero, può dire il vero, oppure può dire il falso (esempio: certificato di nascita vero, con data errata). Viceversa, anche un documento falso può  dire sia il vero che  il falso. Se io falsifico, ovvero produco,  un documento falso che dice esattamente ciò che dice l’originale vero; avrò fatto un falso che dice il vero. Ripeto, non necessariamente un documento falso, dice il falso.

I protocolli dei savi di Sion, vengono generalmente presentati come un’opera letteraria che precede l’attuale concetto di cospirazionismo ovvero, l’idea secondo il quale esiste nel mondo un piano per manipolare e gestire l’umanità “Goym”  da parte dei cosi detti “eletti” chiamati a governare su di loro.

Circa il documento ”Protocolli dei savi di Sion”, si è lungamente dibattuto circa la sua genuinità. Poco invece si è dibattuto circa il fatto che dicano o meno il vero. Perché?.. Semplice la risposta: La loro genuinità non è dimostrabile (ma neanche la loro non genuinità) e, chi dispone dell’informazione non ha interesse che ne vengano valorizzati e pubblicizzati i contenuti. Perché?.. Perché il contenuto dimostra che dicono il vero indipendentemente dal fatto che siano veri o falsi. A mio parere, potrebbero essere benissimo una riproduzione falsa di documenti veri. Direbbero quindi il vero, ma permetterebbero all’informazione di affermare che sono dei falsi. Ciò che però secondo me conta, è che questi documenti, sono di tipo profetico, in quanto chi li ha scritti afferma ciò che avverrà in seguito e, in seguito tutto quanto si è regolarmente avverato. Da quando si suppone siano stati scritti, sono passati  più di cento anni e, si può ipotizzare che i documenti prevedano ancora un po’ di tempo a venire. Constatando che nel tempo passato da quando sono stati scritti sino ad ora, tutto si è avverato secondo i piani riportati dal documento; come si può affermare che sono falsi nel loro contenuto?.. E difatti si preferisce attrarre l’attenzione sulla loro genuinità originale; ma non sul contenuto che si sceglie di non evidenziare.  Io però, cerco la verità (parziale e mai assoluta) e, quindi mi va bene anche un documento del genere. A cosa mi servirebbe un documento autentico che dicesse il falso?

A parte queste considerazioni, ve ne sono altre di altro genere. Supponendo che  si tratti di un falso, l’autore che in questo caso avrebbe inventato quanto sostenuto dai protocolli, gli si dovrebbe riconoscere una fantasia notevole e se poi la sua fantasia si traduce in realtà; dovrebbe pure essere ammirato per la sua enorme dote profetica.

Colui che li ha scritti, avrebbe avuto la possibilità di affermarsi come scrittore, senza nulla rischiare; perché rischiare mettendo in circolazione un documento falso che nulla gli da e tutto gli può togliere?.. A suo tempo, venne messa in circolazione la notizia, secondo il quale l’autore falsario era un rampollo di  famiglia benestante. Questo potrebbe ipoteticamente essere vero, in quanto solamente i facenti parte di famiglie benestanti inserite ad alto livello nella mafia di sistema, conoscono l’apparato occulto che opera dietro le quinte!.. Ma questo non fa altro che confermare ciò che sostengono coloro che considerano veri i  Protocolli. Li ha scritti certamente una persona che conosce l’apparato sionista occulto ovvero, la dottrina rabbinica e il Talmud.

Di fronte alla disastrosa situazione sociale (vedi mafia di stato, di stati, globale), culturale, economica attuale; non si può continuare a pensare che tutto sia il risultato della casualità. Siamo di fronte ad una azione mafiosa di portata mondiale del quale la casta politica non è l’artefice ma, una mercenaria presenza al servizio di essa. Semplicemente puttane!.. Lo dimostrano gli atteggiamenti apparentemente d’opposizione mentre, portano ai risultati che la mafia internazionale e globalista (bancaria) a loro impone. Ora in Italia, abbiamo addirittura un bipolarismo a quattro!.. Un governo tecnico, due opposizioni con destra e sinistra, un centro per le evenienze di mercato!.. Ci viene detto che vi è la crisi, che occorre pagare il debito!.. perché nulla fanno per impedire l’affermazione della strategia dello spreco?.. se il debito ci danneggia; perché ora cercano di imporre il debito europeo e collettivo?.. perché nessun politico o giornalista, parla mai della vera causa che sta alla base del debito di stato?.. ovvero il “Signoraggio bancario”?.. Le puttane che stanno lungo le strade, hanno ancora una loro apparente dignità; queste non più!.. Esattamente come dimostrato nei “Protocolli dei savi di Sion”.

Uomini siate, e non pecore matte,

Sì che ‘l giudeo tra voi di voi non rida.

(Dante: Par. c. V; v. 80, 81)

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PS: Il libro è facilmente reperibile in internet. (Introvabile l’edizione dell’immagine).Sono riportati i protocolli nel libro “LE SOCIETA’ SEGRETE e il loro potere nel ventesimo secolo”.

A proposito della questione sull’autenticità dei “Protocolli dei Savi Anziani di Sion” (articolo di Francesco Lamendola)

Nell’articolo sui “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, il professor Francesco Lamendola affronta, con il consueto equilibrio, un tema molto spinoso. L’autore, dopo aver ripercorso la fortuna dei Protocolli, dalla loro comparsa nella Russia dello czar Nicola II Romanov, esamina la portata del libro, inquadrando la questione nell’ambito degli studi inerenti alla cospirazione globale. Esemplare è il discorso circa le fonti cui possono attingere solo gli storici accademici, laddove gli studiosi che desiderano addentrarsi negli oscuri meandri della storia vera, debbono accontentarsi di indizi, parallelismi, “coincidenze”, giacché è fatale che i burattinai non lascino documenti scritti.

Circa i famigerati Protocolli, ferve il dibattito sulla loro paternità: alcuni li attribuiscono alla polizia segreta russa, altri ai Sionisti, altri ancora ai Gesuiti. Stabilire chi li vergò è esercizio ozioso: piuttosto se ne può verificare, punto per punto, la plausibilità, quando, ad esempio, l’ignoto autore descrive i piani politici ed economici della feccia satanista. Chi guardi all’odierna situazione della Grecia, preludio di altri tumultuosi eventi, vedrà nei Protocolli il canovaccio (trama, si potrebbe scrivere con intento anfibologico) di quanto sta accadendo oggigiorno. Anche il continuo e gattopardesco “ricambio” delle classi dirigenti, in cui ad una generazione di corrotti ne subentra un’altra illibata solo all’apparenza, ma in verità ancora più immorale, è una strategia illustrata nei Protocolli.

Dunque l’analisi di questo testo è illuminante, sebbene resti poi da scrutare il vertice della Piramide. E’ come, infatti, se si potessero scorgere da lontano le pendici di una gigantesca montagna, mentre la vetta è sottratta alla vista, a causa di dense e spesse nubi che la nascondono. Così si può soltanto tentare di indovinare la forma e le dimensioni della cima. Ad ogni modo, non ci sbaglieremo, se collocheremo al culmine del potere gli Arconti: su costoro sappiamo poco, ma è certo, piaccia o no, che non sono uomini.

Da quando hanno fatto la loro comparsa nella storia d’Europa (la prima traduzione italiana apparve nel 1921 a cura di Giovanni Preziosi), i «Protocolli dei Savi Anziani di Sion» non hanno cessato di polarizzare l’attenzione degli storici, dei politologi e dell’opinione pubblica intorno alla controversia sulla loro autenticità. Il libro, apparso nella Russia di Nicola II all’interno di un’opera più vasta del mistico russo Sergej Nilus, è scritto in prima persona da un “grande vecchio” che rivolge le sue parole ad un’assemblea di anziani ebrei, esponendo le linee guida di un piano strategico dalla straordinaria vastità di concezione e mirante, addirittura, alla conquista e alla sottomissione del mondo da parte degli Ebrei, il “popolo eletto”.

Infiltrandosi come una prodigiosa, efficientissima e segretissima quinta colonna nelle società cristiane e segnatamente nei centri del potere economico, finanziario, culturale e dell’informazione, gli Ebrei – stando a questo testo – si porrebbero l’obiettivo dichiarato di indebolire la fibra morale di tutte le società non ebree, sovvertendo gradualmente, ma inesorabilmente, tutti i valori, tutte le certezze, tutte le tradizioni, fino a creare le condizioni adatte perché il mondo intero cada, come un frutto maturo, in potere dell’ebraismo internazionale, che agisce per mezzo di banchieri, uomini politici, giornalisti ed esponenti del mondo della cultura.

Dal momento che i «Protocolli» si prestano ad una lettura in chiave antisemita e che, effettivamente, essi entrarono a far parte del bagaglio propagandistico antisemita del nazismo (e, in misura molto più blanda, del fascismo, ma solo all’epoca delle leggi razziali del 1938), con tutto quello che ne è derivato, gli storici della seconda metà del Novecento hanno liquidato l’intera questione della loro autenticità, dichiarandoli un falso confezionato dalla «Ochrana», il servizio segreto zarista, probabilmente a Parigi e con lo scopo di creare una sorta di giustificazione morale per i “pogrom” che infuriavano, di quando in quando, in Russia, in Ucraina, in Polonia.

Anche il saggista Sergio Romano, col suo libro del 1992 «I falsi protocolli», ha impostato così tutta la problematica ad essi relativa, come già il titolo suggerisce chiaramente: come se, una volta assodata la loro non autenticità, venisse a cadere interamente l’altra questione, ad essa collegata, ma che nessuno osa anche soltanto accennare, tanto forte è il timore di essere accusati di antisemitismo o addirittura di simpatie per il nazismo: se, cioè, le cose espresse in quel documento possano corrispondere a fatti reali e se, inoltre, siano o meno in linea con la Legge ebraica e con il sentire ebraico nei confronti dei “gojm”, dei Gentili.

Ma torniamo al legame fra l’«Ochrana» e i «Protocolli».

Ora, a parte il fatto che si potrebbe discutere se tutti i “pogrom” fossero voluti e organizzati dagli ambienti antisemiti della Russia e dai servizi segreti zaristi, o se non possano ricondursi anche, almeno in parte, ad una manovra delle potenti lobbies ebraiche dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, proprio allo scopo di screditare il governo zarista (ne abbiamo già parlato nell’articolo «Possono darsi delle verità così tremende che nessuna voce umana riuscirebbe a pronunziarle», inserito sul sito di Arianna Editrice in data 28/02/10), forse sarebbe il caso di domandarsi se la questione della autenticità, affermata o negata che sia, costituisca davvero la questione centrale che ci si dovrebbe porre davanti a questo impressionante documento.

Infatti, posto e stabilito che nessuna seria società segreta lascia documenti scritti relativi ai suoi complotti (e, in questo senso, i «Protocolli», nella versione in cui li conosciamo, sono quasi certamente un falso), il punto è che non si dovrebbe guardare il dito che indica la Luna, ma la Luna in se stessa: si dovrebbe cioè vedere se, nello sviluppo della storia moderna e nelle prescrizioni e invocazioni della “Torah”, della “Mishna” e del “Talmud”, i concetti espressi nei «Protocolli» trovino corrispondenza, oppure no.

A proposito dell’intera questione, Julius Evola, autore della «Introduzione» all’edizione italiana del 1938 dei «Protocolli», curata dalla rivista di Giovanni Preziosi «La vita italiana», così si esprimeva (pp. 9-10): «Due punti vengono particolarmente in risalto nei “Protocolli”. Il primo si riferisce direttamente alla questione ebraica. Il secondo ha una portata più generale e conduce ad affrontare il problema delle forze vere in atto nella storia. Perché il lettore si renda pienamente conto dell’uno e dell’altro punto, crediamo opportuno svolgere alcune considerazioni, indispensabili per un giusto orientamento. Per un tale orientamento, occorre anzitutto affrontare il famoso problema della “autenticità” del documento, problema sul quale si è voluto tendenziosamente concentrare tutta l’attenzione e misurare la portata e la validità dello scritto. Cosa invero puerile. Si può infatti negare senz’altro l’esistenza di una qualunque direzione segreta degli avvenimenti storici. Ma ammettere, sia pure come semplice ipotesi, che qualcosa di simile possa darsi, non si può, senza dover riconoscere che, allora, s’impone un genere di ricerca ben diverso da quello basato sul “documento” nel senso più grossolano del termine. Qui sta precisamente – secondo la giusta osservazione del Guénon – il punto decisivo, che limita la portata della questione dell’”autenticità”: nel fatto, che NESSUNA ORGANIZZAZIONE VERAMENTE E SERIAMENTE SEGRETA, QUALE SI SIA LA SUA NATURA, LASCIA DIETRO DI SÉ DEI “DOCUMENTI” SCRITTI. Solo un procedimento “induttivo” può dunque precisare la portata di “testi”, come i “Protocolli”. IL CHE SIGNIFICA CHE IL PROBLEMA DELLA LORO “AUTENTICITÀ” È SECONDARIO E DA SOSTITUIRSI CON QUELLO, BEN PIÙ SERIO ED ESSENZIALE, DELLA LORO “VERIDICITÀ”. Giovanni Preziosi già sedici anni or sono, nel pubblicare per la prima volta il testo, aveva ben messo in rilievo questo punto. La conclusione seria e positiva di tutta la polemica, che nel frattempo si è sviluppata, è la seguente: CHE QUAND’ANCHE (cioè: dato e non concesso) I “PROTOCOLLI” NON FOSSERO AUTENTICI NEL SENSO PIÙ RISTRETTO, È COME SE ESSI LO FOSSERO, PER DUE RAGIONI CAPITALI E DECISIVE:

1) Perché i fatti ne dimostrano la verità;

2) Perché la loro corrispondenza con le idee-madre dell’Ebraismo tradizionale we moderno è incontestabile.»

Che l’antisemitismo di Evola non fosse di tipo biologico – e quindi razzista – è attestato, peraltro, dal seguente passaggio (che, ove ipotizza una strumentalizzazione degli stessi Ebrei da parte di poteri occulti corrispondenti ad un livello più alto, che potrebbe far capo a forze non interamente umane, ricorda, sia detto fra parentesi, la posizione sostenuta al presente da David Icke; op. cit., p. 21-22): «Diciamo subito che noi personalmente non possiamo seguire, qui, un certo antisemitismo fanatico che, nel suo voler vedere dappertutto l’Ebreo come “deus ex machina”, finisce col cader esso stesso vittima di una specie di tranello. Infatti dal Guénon è stato rilevato che uno dei mezzi usati dalle forze mascherate per la loro difesa consiste spesso nel condurre tendenziosamente tutta l’attenzione dei loro avversari verso chi solo in parte è la causa reale di certi rivolgimenti: fattone così una specie di capro espiatorio, su cui si scarica ogni reazione, esse restano libere di continuare il loro giuoco. Ciò vale, in una certa misura, anche per la questione ebraica. La constatazione della parte deleteria che l’Ebreo ha avuto nella storia della civiltà non deve pregiudicare una indagine più profonda, atta a farci presentire forze di cui lo stesso Ebraismo potrebbe esser stato, in parte, solo lo strumento. Nei “Protocolli”, del resto, spesso si parla promiscuamente di Ebraismo e di Massoneria, si legge” cospirazione massonico-ebraica”, “la nostra divisa massonica, ecc., e in calce della loro prima edizione si legge: “firmato dai rappresentanti di Sion del 33 grado”. Poiché la tesi, secondo la quale la Massoneria sarebbe esclusivamente una creazione e uno strumento ebraico è, per varie ragioni, insostenibile, già da ciò appare la necessità di riferirsi ad una trama assai più vasta di forze occulte pervertitrici, che noi siamo perfino inclini a non esaurire in elementi puramente umani. Le principali ideologie consigliate dai “Protocolli” come strumenti di distruzione e effettivamente apparse con questo significato nella storia – liberalismo, individualismo, scientismo, razionalismo, ecc. – non sono, del resto, che gli ultimi anelli di una catena di cause, impensabili senza antecedenti, quali per esempio l’umanesimo, la Riforma, il cartesianismo: fenomeni dei quali però nessuno vorrà seriamente far responsabile una congiura ebraica, così come il Nilus, in appendice, mostra d credere, inquantoché fa retrocedere la congiura ebraica niente di meno che al 929 a. C. Bisogna invece restringere l’azione distruttrice positiva dell’internazionale ebraica ad un periodo assai più recente e pensare che gli Ebrei hanno trovato un terreno già minato da processi di decomposizione e d’involuzione, le cui origini risalgono a tempi assai remoti e che sui legano ad una catena assai complessa di cause: essi hanno utilizzato questo terreno, vi hanno, per così dire, innestato la loro azione, accelerando il ritmo di quei processi. La loro parte di esecutori del sovvertimento mondiale non può dunque essere assoluta. I “Savi Anziani” costituiscono invero un mistero assai più profondo di quanto lo possano supporre la gran parte degli antisemiti, e così pure, per un altro verso, coloro che invece fanno cominciare e finire ogni cosa nell’internazionale massonica, o simili.» Per Evola, la questione dell’autenticità o meno è una falsa questione, perché quello che conta è la piena concordanza fra lo spirito della Legge ebraica e lo spirito che emerge dalle pagine dei «Protocolli; e, in particolare, l’idea della rivincita mondiale dell’ebraismo su tutto il resto dell’umanità, sui Gentili, considerati alla stregua di bestiame, se non di autentica spazzatura destinata, comunque, ad un ruolo totalmente subalterno nel “nuovo ordine mondiale” che verrà instaurato nel gran giorno (idem, pp. 24-26):

«Per ben inquadrare il problema ebraico e comprendere il vero pericolo dell’Ebraismo bisogna partire dalla premessa che alla base dell’Ebraismo non sta tanto la razza (in senso strettamente biologico), ma la Legge. La Legge è l’Antico Testamento, la “Torah”m, ma altresì, e soprattutto, i suoi ulteriori sviluppi, la “Mishna” e essenzialmente il “Talmud”. È stato giustamente detto che, come Adamo è stato plasmato da Jehova, così l’ebreo è stato plasmato dalla Legge: e la Legge, nella sua influenza millenaria attraverso le generazioni, ha destato speciali istinti, un particolar modo di sentire, di reagire, di comportarsi, è passata nel sangue, tanto da continuare ad agire anche prescindendo dalla coscienza diretta e dall’intenzione del singolo. È così che l’unità d’Israele permane attraverso la dispersione: in funzione di un’essenza, di un incoercibile modo d’essere. E insieme a tale unità sussiste e agisce sempre, fatalmente, o in modo atavico e inconscio, o in modo oculato e serpentino, il suo principio, la Legge ebraica, lo spirito talmudico.

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È qui che interviene un’altra prova della veridicità dei “Protocolli” quale documento ebraico, inquantoché trarre da questa Legge tutte le sue logiche conseguenze nei termini di un piano d’azione significa – esattamente – venire più o meno a quanto di essenziale si trova nei “Protocolli”. Ed è essenziale questo punto, CHE MENTRE L’EBRAISMO INTERNAZIONALE HA IMPEGNATO TUTTE LE SUE FORZE PER DIMOSTRARE CHE I “PROTOCOLLI” SONO FALSI, ESSO HA SEMPRE E CON LA MASSIMA CURA EVITATO IL PROBLEMA DI VEDERE FINO A CHE PUNTO QUESTO DOCUMENTO, FALSO O VERO CHE SIA, CORRISPONDE ALLO SPIRITO EBRAICO. E proprio questo è il problema che ora vogliamo considerare. L’essenza della Legge ebraica è la distinzione radicale fra Ebreo e non-Ebreo più o meno negli stessi termini che fra uomo e bruto, fra eletti e schiavi; è la promessa, che il Regno universale d’Israele, prima o poi, verrà, e che tutti i popoli debbono soggiacere allo scettro di Giuda; è il dovere, per l’Ebreo, di non riconoscere in nessuna legge, che non sia la sua legge, altro che violenza e ingiustizia e accusare un tormento, una indegnità, dovunque il dominio, che egli ha, non sia l’assoluto dominio; è la dichiarazione di una doppia morale, che restringe la solidarietà alla razza ebraica, mentre ratifica ogni menzogna, ogni inganno, ogni tradimento nei rapporti fra Ebrei e non-Ebrei, facendo dei secondi una specie di fuori-legge; è, infine, la santificazione dell’oro e dell’interesse come strumenti della potenza dell’Ebreo, al quale soltanto, per promessa divina, appartiene ogni ricchezza della terra e che deve “divorare” iogni popolo che il Signore gli darà. Nel “Talmud” si arriva a dire: “Il migliore fra i non-Ebrei (“gojm”), uccidilo”. Nel “Shemoré Esré”, preghiera ebraica quotidiana, si legge: “Che gli apostati perdano ogni speranza, che i Nazzareni e i Minim (i Cristiani) periscano di colpo, siano cancellati dal libro della vita e non siano contati fra i giusti”. “ Ambizione senza limiti, ingordigia divoratrice, un desiderio spietato di vendetta e un odio intenso” si legge nei “Protocolli” (XI) e difficilmente si saprebbe dare una più adeguata espressione di ciò che risulta a chi penetri l’essenza ebraica. E mai è venuta meno, all’Ebreo, la speranza del Regno, è in essa che sta, anzi, in gran parte, il segreto della forza inaudita che ha tenuto in piedi ed ha conservato uguale a sé stesso Israele, tenace, caparbio, orgoglioso e vile ad un tempo, attraverso i secoli. Ancor oggi, annualmente, nella festa del Rosch Hassanah, tutte le comunità ebraiche evocano la promessa: “Innalzate le palme e acclamate, giubilando, Dio, poiché Jehova, l’altissimo, il terribile, sottometterà tutte le nazioni e le porrà sotto ai vostri piedi”.»

Le considerazioni di Evola ci sembrano non prive di un certo spessore concettuale e meritevoli, comunque, di essere prese seriamente in esame, piaccia o non piaccia la figura di colui che le ha formulate ed il ruolo da lui rivestito nella cultura antisemita dell’epoca. La prima domanda che ci dovremmo porre è se una cospirazione globale sia possibile e verosimile e se sia dato di scorgerne non già le prove – abbiamo visto che nessuna società segreta ne lascerebbe alle proprie spalle -, ma almeno degli indizi abbastanza riconoscibili. La seconda domanda è se sia possibile che non già gli Ebrei indiscriminatamente, ma alcuni gruppi ebraici potenti e sperimentati, facendo leva su una Legge che è stata loro inculcata per innumerevoli generazioni, non possano essersi prestati ad un disegno del genere, magari in collaborazione con altri centri di potere occulto. Alla prima domanda ci sembra sia difficile rispondere in maniera assolutamente negativa.

Che i membri del “villaggio globale” si trovino in una condizione di vera e propria schiavitù psicologica e culturale, instupiditi da demenziali programmi radiofonici e televisivi, disinformati da una stampa asservita e fuorviati da sedicenti intellettuali che fanno a gara, ormai da lungo tempo, nel fare a pezzi ogni parvenza di valore tradizionale e nel descrivere la vita come decadenza, dolore, noia e disperazione: tutto questo è sotto gli occhi di tutti, se si possiedono ancora – beninteso – occhi per vedere e una mente per riflettere. Ora, è difficile pensare che tutto questo sia frutto del caso o di una spontanea convergenza di circostanze; senza contare che l’esperienza ci insegna che i grandi gruppi finanziari e industriali non tralascerebbero alcuna strategia, alcuna manovra, alcuna bassezza, per quanto criminosa, nel perseguire i loro fini inconfessabili: che non consistono solamente nel vendere una quantità sempre crescente di prodotti inutili o addirittura nocivi, ma anche nel distruggere ogni residuo di spirito critico nel suddito-consumatore, in modo da renderlo il più simile possibile ad uno “zombie”: perché solo così si può essere certi che egli non prenderà consapevolezza della sua reale condizione e non tenterà di sottrarvisi.

Scatenare guerre e rivoluzioni, finanziare gruppi terroristici magari di opposta matrice ideologica, istigare colpi di stato, provocare crisi finanziarie, promuovere filosofie e movimenti artistici che inneggiano al nichilismo e alla distruzione della società: sono tutte azioni che un tale gruppo di potere occulto, attraverso le sue innumerevoli ramificazioni, non esiterebbe a mettere in atto e che non presentano, sotto il profilo tecnico, ostacoli insormontabili, specialmente se si dispone di possibilità finanziarie praticamente illimitate.

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“Siamo sul punto di una trasformazione globale. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è la giusta maggiore crisi e le nazioni accetteranno il Nuovo Ordine Mondiale.”

Alla seconda domanda ci sembra che si possa egualmente rispondere in maniera affermativa; o, quanto meno, che una risposta affermativa possa costituire una ragionevole ipotesi di lavoro sulla quale indagare. Gruppi di potere occulto sappiamo che esistono, primo fra tutti la Massoneria, che affonda le proprie radici in una tradizione ormai plurisecolare e la cui regia nascosta è ormai accertata dietro fatti storici rilevanti, a cominciare da quelli riguardanti la nascita del nostro Stato nazionale, nel corso del Risorgimento. Che, poi, esista una sorta di federazione tra tali gruppi, ciascuno dei quali persegue, in realtà, un proprio disegno egemonico e ciascuno dei quali spera di servirsi degli altri per realizzare i propri fini particolari: anche questo rientra nell’ambito del possibile e perfino del probabile; come suggerisce, ancora una volta, l’osservazione di fatti storici ormai noti, come la collaborazione che si instaura fra organizzazioni criminali internazionali, ciascuna delle quali particolarmente interessata ad un certo ambito delle attività illecite. Che, infine, salendo di livello in livello, si giunga al vertice della piramide che nessuno ha mai potuto conoscere di persona, anche perché i suoi membri più importanti, i burattinai supremi del grande gioco, sono – forse – creature di origine non umana: ebbene, ciò può essere solo oggetto di speculazione teorica, mancando prove o anche indizi concreti tali, da poter dirimere la questione per via documentaria. Chi studia il fenomeno della cospirazione mondiale non può servirsi dei normali metodi di ricerca dello storico professionista, perché la materia stessa è completamente diversa da quella della storia. Lo storico procede di documento in documento; ma lo studioso della cospirazione globale sa che non troverà mai dei “documenti” paragonabili a quelli di cui si servono i suoi colleghi della storia, chiamiamola così, profana. Possiamo da ciò trarre la conclusione che non è cosa da persone serie mettersi a studiare la cospirazione globale, dato che, a rigore, non siamo affatto certi nemmeno del fatto che esista il soggetto di una tale ricerca? Certamente no. Il fatto che non esistano prove assolutamente certe e incontrovertibili di una costante presenza aliena sul nostro pianeta non è un argomento per squalificare gli studi che si possono fare in proposito o per denigrare quanti decidono di dedicarvisi; e la stessa osservazione può farsi per tutti quegli ambiti di studio che abbracciano materie prive di un riscontro materiale oggettivo, a cominciare dalle religioni.

Gli studiosi “seri”, però, temono il ridicolo: sono persone che ha molto amor proprio, anche se non esitano a mangiare nella greppia di istituzioni, giornali o televisioni che si aspettano da loro appunto quel tipo di “serietà” che consiste nel non fare mai, assolutamente mai, delle domande veramente scomode, ma nel blandire, al contrario, la pigrizia mentale del pubblico. Ora, il ridicolo (o peggio) è quasi inevitabile per chiunque si addentri nel labirinto della cospirazione globale; e i più petulanti nel ridere alle spalle di un tale ricercatore sono, senza dubbio, proprio coloro i quali – ne siano consapevoli o no – hanno subito in dosi più massicce l’opera di omologazione e istupidimento perseguita dal Pensiero Unico dominante. Perché a quei signori pieni di sussiego e di serietà, magari baroni universitari con ampie gratificazioni professionali, non va molto a genio l’idea di prendere in esame la possibilità, anche solo teorica, di essere, né più né meno di chiunque altro, soltanto dei poveri burattini eterodiretti.

Come se non bastasse, fa parte, da sempre, della tecnica di tutti i gruppi di potere occulto, quella di operare una sistematica disinformazione, lasciando trapelare brandelli di verità, mescolati però a tali e tante inverosimiglianze, da confondere completamente le carte e da screditare anche il lavoro di quanti concentrano le proprie spassionate ricerche proprio su quei brandelli.

Certo, finché il conformismo intellettuale continuerà a dominare incontrastato, i signori dei poteri occulti potranno dormire sonni tranquilli ancora a lungo.

Finché qualcuno, un poco alla volta, comincerà a scuotersi dal torpore e a farsi delle domande scomode e politicamente scorrette: a farle a se stesso in primo luogo; e poi, in un secondo tempo, a farle anche agli altri. Allora, i signori del Pensiero Unico cominceranno a non sentirsi più tanto tranquilli. Avranno paura che la verità cominci a venir fuori: non quella mezza verità che essi stessi lasciano fuggire, di quando in quando, aprendo e chiudendo il rubinetto della disinformazione; ma la verità vera, quella che a loro non piace affatto, perché disturba i loro progetti e i loro affari.

Quel giorno, forse, si sta avvicinando. Un principio di consapevolezza incomincia a soffiare, qua e là, nella stagnante palude in cui siamo sprofondati. Speriamo che quella brezza si trasformi quanto prima in un vento impetuoso e che sia abbastanza forte da disturbare i piani e gli affari di chi ci vorrebbe eternamente schiavi, e sia pure schiavi di lusso, imprigionati mani e piedi con delle catene d’oro massiccio.

UN PM CORAGGIOSO HA APERTO UN PROCESSO CONTRO IL GOLPE FINANZIARIO: NON LASCIAMOLO SOLO.

Antonio Maria Rinaldi ha ripubblicato questo articolo dell’avv. Marco Mori, italiano doc, che “dovete” leggere.

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Nel 2011 l’Italia subì un colpo di Stato. Il governo capeggiato da Silvio Berlusconi, non convinto di percorrere la via dell’austerità, parlò di uscita del nostro Paese dall’euro e la finanza immediatamente passo all’attacco sostituendo Berlusconi con un proprio governo, quello di Mario Monti. Qui il punto non è difendere o meno Berlusconi, che dopo aver subito tutto questo, per bieca convenienza, si alleò con chi lo aveva deposto votando un atto eversivo come il pareggio in bilancio in Costituzione. Il pareggio in bilancio rappresenta infatti la resa dell’Italia alla dominazione straniera, impedendo al Paese il libero esercizio della propria sovranità economica con violazione evidente dei principi fondamentali della Costituzione (artt. 1-11).

Che cosa accadde nel 2011 lo sappiamo bene. La banca centrale europea annunciò che non avrebbe più comprato i nostri titoli di Stato sul mercato secondario. Le agenzie di rating iniziarono a declassare i nostri titoli di Stato e Deutsche Bank vendette i titoli italiani in suo possesso. L’azione coordinata degli organismi finanziari provocò l’impennata artificiale dello spread. Tutto questo ovviamente non bastava a portare alla resa di Berlusconi che ben sapeva che uscendo dall’euro e recuperando la sovranità monetaria in un Paese di grande produttività e forza industriale come l’Italia non avrebbe avuto alcun problema a disintegrare il dominio finanziario. Allora la finanza colpì le sue aziende e la paura di perdere la propria ricchezza lo portò alla resa ed all’avvento di Mario Monti, ovvero colui che con le sue politiche ha distrutto il Paese rendendo scientemente molto più difficile di allora un’uscita dal cappio europeo. Monti ha infatti distrutto, con politiche mirate, i settori trainanti dell’economia italiana a finché la ribellione non potesse più essere una scelta praticabile.

Il disegno fu semplice e chiaro, la crisi dello spread si concluse non per le azioni distruttive di Monti ma unicamente quando la banca centrale tornò ad annunciare che avrebbe comprato illimitatamente i titoli di Stato italiani sul mercato secondario. Ovviamente tale azione fu subordinata a politiche lacrime e sangue volte allo smantellamento della sovranità italiana. Insomma nel 2011 subimmo un’occupazione paragonabile a quelle di carattere militare.

Il Paese non reagì all’aggressione e la classe politica si posizionò sulle tipiche posizioni collaborazioniste che vediamo in atto ancora oggi con Padoan al timone. Avete letto bene, ho scritto Padoan e non Renzi. Renzi infatti è l’uomo immagine scelto dalle forze d’occupazione, ma il Paese è governato dal ministro dell’economia, uomo di stretta fiducia della finanza.

E veniamo a Michele Ruggiero, è questo il nome dell’unico PM italiano che ha avuto le “palle” di reagire concretamente a questa situazione. Ovviamente visto che la competenza in merito agli atti eversivi commessi (delitti contro la personalità dello Stato punibili ex artt. 241 e ss. c.p.) appartiene alla dormiente Procura di Roma, Ruggiero ha dovuto “inventarsi” qualcosa per dare una prima spallata agli invasori. E la sua intuizione giuridica ha portato al superamento dell’udienza preliminare ed all’apertura del dibattimento in un processo dove i fatti del 2011 verranno analizzati con attenzione. Si celebrerà un processo dove la sovranità e l’indipendenza del Paese saranno al centro del dibattito.

L’intuizione del PM di Trani è brillante. Ruggiero infatti ha trovato il modo di attaccare la finanza portando alla sbarra otto tra analisti e manager delle agenzie di rating Fitch e Standard&Poor’s. Tali agenzie sono accusate di manipolazione del mercato (ecco come il PM ha aggirato la competenza romana) per aver fornito false informazioni sull’affidabilità dell’Italia come creditore. Lo scopo che il PM ben conosce fu una destabilizzazione dell’Italia sui mercati finanziari deprezzando i titoli di Stato. Tutto questo per imporre un colpo di Stato che mantenesse l’Italia sotto il dominio finanziario.

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Michele Ruggiero ha svelato all’Italia, grazie ad un’e-mail interna di S&P dell’agosto del 2011, che già tre mesi prima delle dimissioni di Berlusconi, prima ancora della lettera con cui BCE detto la politica di austerità che l’Italia avrebbe dovuto attuare per avere il suo supporto, l’agenzia sapeva del cambio di governo in Italia. Nella lettera, come confermato da numerosi organi di informazione, si consigliava agli investitori di “prendere tempo” perché in Italia c’era la possibilità che venisse imposto un governo tecnico perché Berlusconi era sotto pressione da ogni parte. Ecco che l’oggetto del processo riguarderà indirettamente proprio quei delitti contro la personalità dello Stato che la Procura romana ignora. Insomma da Trani, in caso di condanna e conferma che nel 2011 l’Italia subì un colpo di Stato, potrebbe partire l’offensiva nazionale all’occupazione straniera che ci sta annientando giorno dopo giorno con l’avvallo dei collaborazionisti al governo.

L’economia da sola non salverà il Paese. Non può farlo. Il Paese si salverà solo se assieme alla ripresa di politiche economiche volte all’interesse nazionale la Magistratura colpirà, Costituzione e codice penale alla mano, quel potere finanziario costituito che ci ha portato in questo incubo, recuperando da essi il maltolto con quegli strumenti giuridici che l’azione penale consente. Dobbiamo riprenderci quel tessuto produttivo che ci è stato sottratto con azioni criminali.

Peraltro tornando a Padoan è tutt’altro che irrilevante rammentare ai lettori che lo stesso ha deciso di non far costituire lo Stato contro le agenzie di rating nel processo in corso, non procedendo neppure alle richieste di risarcimento per quei danni erariali che la Procura aveva evidenziato (su tutti i 2,5 miliardi pagati da Monti senza fiatare a Morgan Stanley in forza del declassamento dell’Italia da parte di S&P. Soldi dovuti in virtù di una clausola di un contratto derivato incredibilmente sottoscritto dal governo italiano. Clausola prontamente onorata dal servile Monti nonostante S&P, che conta tra i suoi azionisti proprio Morgan Stanley, fosse già sotto inchiesta).

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Insomma mentre qualche euro imbecille insiste nel dire che Monti ha salvato il Paese la realtà è che un PM ed un GUP hanno già dimostrato il contrario e questo nonostante l’assordante silenzio mediatico e l’ostruzionismo del governo che si schiera con i nemici del Paese. Ruggiero ha ironicamente definito sorprendente la scelta di Padoan di non costituirsi, comunque ciò che conta è che il processo va avanti.

Sosteniamo questa Procura coraggiosa che può fare il primo fondamentale passo che porterà anche alla futura condanna di almeno 3/4 della classe politica italiana che ha lavorato al fianco dei nostri nemici perseguendo lo smantellamento della sovranità e dell’indipendenza nazionale.

Ruggiero da speranza a tutto il Paese e noi non dobbiamo lasciarlo solo. Diffondiamo quanto sta accadendo rammentando anche che durante il processo saranno escussi come testi tra gli altri addirittura Monti, Padoan, Draghi e Prodi. Ovvero alcuni dei principali traditori della nostra Repubblica.

Seguiremo il processo passo dopo passo soprattutto perché proprio da tali testimonianze si potrà dare ulteriore impulso alle denunce che porto da tempo avanti contro la cessione della sovranità nazionale. Sarà istruttivo sentire Monti e Padoan che raccontano quanto da essi compiuto davanti ad un PM che li vorrebbe alla sbarra con il ben diverso ruolo di imputati.

Speriamo che anche a Roma qualche Magistrato sappia rendere onore al lavoro del Collega e trovi il coraggio di procedere.

KRUGMAN: GLI IRRITANTI DIFENSORI DELL’EURO

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Il Nobel Paul Krugman scrive un articolo un po’ velenoso contro quelli che lo accusano di non capire, da economista, le motivazioni politiche dell’euro e la sua importanza per il “progetto europeo”. Krugman rifiuta di essere considerato così ingenuo, e mostra di capire benissimo queste motivazioni. Il problema è che un progetto (l’euro) che non solo non era fondato economicamente, ma era palesemente votato alla catastrofe, non poteva servire nessuno scopo politico positivo, e i fatti lo stanno dimostrando.

di Paul Krugman, 22 luglio 2015

C’è un qualsiasi buon argomento per non dire che la creazione dell’euro è stato un errore di dimensioni epiche? Forse. Ma gli argomenti che ho sentito finora sono alquanto pessimi. E sono anche decisamente irritanti.

Un argomento che continuo a sentire è che gli economisti critici, come me, non capiscono che l’euro è stato un progetto politico e strategico, anziché un mero fatto economico con dei costi e dei benefici. E certo, infatti io sono un rozzo e ottuso economista che non sa nulla dell’importanza della politica e delle strategie internazionali nelle decisioni politiche, uno che non ha mai sentito parlare di progetto europeo e del suo fondamento nel tentativo di lasciarsi dietro le spalle una storia di guerre, per non parlare del rafforzamento della democrazia durante la Guerra Fredda.

Certo, io non so nulla di tutto ciò. Il punto, però, è che mentre il progetto europeo, in ogni sua fase, ha combinato obiettivi economici con dei più ampi obiettivi politici – si parlava di pace e democrazia attraverso l’integrazione e la prosperità – non ci si può aspettare che l’intero progetto funzioni se le misure economiche che vengono decise non sono valide in sé e per sé, o quantomeno che non siano catastrofiche. Ciò che è successo durante la marcia verso l’euro è che le élite europee, per amore della moneta unica presa come un simbolo, hanno chiuso la mente ad ogni avvertimento sul fatto che un’unione monetaria – a differenza della semplice rimozione delle barriere al commercio – era quantomento ambigua nella logica economica, e nei fatti, per quanto si può dire e già era stato detto fin dall’inizio, una pessima idea.

Un altro argomento, che stiamo sentendo dalle economie europee depresse come la Finlandia, è che i costi a breve termine dell’inflessibilità sono più che compensati dai presunti enormi guadagni ottenuti da una maggiore integrazione. Ma dov’è l’evidenza di questi enormi guadagni? In un articolo si dice che siano dimostrati dalla forte crescita della Finlandia negli anni che hanno preceduto la crisi. Ma si può riconoscere il merito del boom della Nokia alla moneta unica?

Be’, il grafico qui sotto mostra un confronto che ho trovato interessante tra la Finlandia e la vicina Svezia, paese, quest’ultimo, che nel 2003 ha rifiutato l’appartenenza all’euro tramite referendum. (Mi ricordo quel voto: gli amici svedesi che condividevano con me le preoccupazioni sull’euro mi telefonarono nel cuore della notte per festeggiare.) Per entrambi i paesi considero il 1989 come punto di partenza. Si tratta dell’anno prima della grande recessione scandinava degli anni ’90, dovuta ad una corsa agli sportelli e ad una enorme bolla immobiliare.

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Dopo quella recessione la Finlandia a conosciuto un lungo periodo di solida crescita economica. Ma anche la Svezia, e tra i due paesi è difficile scorgere una qualsiasi differenza nella loro buona performance economica. Di certo non c’è nulla che indichi che l’appartenenza all’euro [della Finlandia, ma non della Svezia, NdT], abbia avuto un qualche ruolo speciale nella crescita. Dal 2008, invece, la Svezia ha iniziato – nonostante una gestione incostante della politica monetaria – a fare molto meglio.

Come ho detto, forse esistono anche degli argomenti da opporre all’affermazione che l’euro è stato un errore, ma far notare che la politica è importante, e che le economie crescono, non funziona. Le scorciatoie che credete voi non ci sono.

CHI E’  PAUL ROBIN KRUGMAN:

Krugman (/ˈkɹuːɡmən/) (Long Island, 28 febbraio 1953) è un economista e saggista statunitense. Attualmente professore di Economia e di Relazioni Internazionali all’Università di Princeton, ha vinto il Premio Nobel per l’economia 2008 per la sua analisi degli andamenti commerciali e del posizionamento dell’attività economica in materia di geografia economica. Autore di numerosi volumi, dal 2000 collabora con il New York Times scrivendo editoriali d’opinione bisettimanali.

Krugman è famoso nel mondo accademico per i suoi studi riguardanti la teoria del commercio, lavori nei quali espone modelli presentando i vantaggi che le economie dei paesi potrebbero derivare dall’imposizione di barriere protezionistiche, e per i suoi libri di testo sulle crisi valutarie e sull’economia internazionale, in particolare sull’analisi degli effetti reali delle fluttuazioni dei tassi di cambio. È stato critico della New Economy degli anni novanta del XX secolo, dei regimi di cambio fisso dei paesi sud-est asiatici e della Thailandia prima della crisi del 1997, delle politiche attuate dai governi per difendere i cambi fissi sui quali specularono fondi speculativi (quali Long Term Capital Management) prima della crisi debitoria russa del 1998.

La filosofia economica di Krugman può essere descritta come neo-keynesiana. Proprio lui ha tentato di rendere accessibile questo filone degli studi economici in testi divulgativi come “Peddling Prosperity” (uscito in Italia col titolo “L’incanto del benessere”), nel quale critica le politiche dei Repubblicani nei tardi anni ottanta e nella prima metà degli anni novanta.

Krugman è stato, inoltre, apertamente critico verso la politica interna ed estera dell’amministrazione di George W. Bush. È membro del Gruppo dei Trenta dal 1988, che riunisce economisti noti a livello internazionale.

Sull’ennesimo regalo alle banche del Governo Renzi: il pignoramento dei fondi patrimoniali

Il prof. Antonio Maria Rinaldi, nonché amico, ha posto l’accento su un ulteriore provvedimento legislativo, naturalmente in forma di decreto legge, a favore del sistema bancario e a sfavore delle famiglie. Diciamo ulteriore in quanto segue nel solco alla tassazione della prima casa e, più in generale, alla progressiva diminuzione delle tutele a favore della famiglia Nel particolare, il D.L. 83/2015 va a incidere pesantemente sull’autonomia dei beni costituiti in fondo patrimoniale (introdotto dalla L. 17/05/1975 n.151), rispetto a quelli di uno o di entrambi i coniugi. Sul punto, abbiamo raccolto alcuni commenti e ne proponiamo uno di nostro.
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ENNESIMO REGALO ALLE BANCHE DEL GOVERNO RENZI: IL PIGNORAMENTO DEI FONDI PATRIMONIALI

Il Governo Renzi, si sa, è molto sensibile alla crisi.
Non di noi comuni cittadini, si badi bene, ma di quella delle banche, che, nonostante i vari LTRO, T-LTRO e QE con i quali la caritatevole BCE ha provveduto ad imbottirle di liquidità a buon prezzo (liquidità utilizzata più che altro per lucrare gli interessi dei titoli pubblici con essa acquistati) soffrono il deterioramento dei crediti che vantano nei confronti di aziende e famiglie.
Sensibile a queste “sofferenze”, come si chiamano appunto in gergo tecnico i mancati rimborsi dei prestiti erogati, il buon Renzi ha deciso di dare loro una mano, con un decreto legge che è passato quasi inosservato, tranne agli addetti ai lavori: la pignorabilità diretta dei fondi patrimoniali.
Cerchiamo di spiegare ai non addetti ai lavori di cosa stiamo parlando, anche per capire la portata della norma inserita nel corpo del provvedimento varato il 27 giugno scorso, intitolato “Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria.”.
Innanzitutto, cos’è un fondo patrimoniale? Un fondo patrimoniale è un patrimonio separato da quello personale dei coniugi, costituito da beni immobili, mobili registrati o anche titoli, destinati esclusivamente al soddisfacimento dei bisogni della famiglia. Generalmente in un fondo patrimoniale viene conferita la casa di abitazione per far sì che il diritto di godimento ed abitazione della famiglia non venga leso, a causa di debiti dei singoli coniugi che derivino da scopi estranei dal soddisfacimento dei bisogni della stessa. In definitiva tale fondo è una riserva a garanzia del mantenimento del nucleo familiare. I beni conferiti non erano pignorabili, né espropriabili da parte dei creditori dei coniugi, a meno che non provassero lo scopo fraudolento nella costituzione stessa del fondo, ovvero che il fondo era stato creato al fine di sottrarre dei beni ai creditori e non per vere esigenze familiari. Non erano, appunto.
Con la norma del DL 83/2015 le cose sono cambiate: l’art 12 del decreto infatti recita:
Al codice civile, dopo l’articolo 2929 è inserita la seguente Sezione:
Sezione I-bis
Dell’espropriazione di beni oggetto di vincoli di indisponibilità o di alienazioni a titolo gratuito
«Art. 2929-bis (Espropriazione di beni oggetto di vincoli di indisponibilità o di alienazioni a titolo gratuito). – Il creditore che sia pregiudicato da un atto del debitore, di costituzione di vincolo di indisponibilità o di alienazione, che ha per oggetto beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri, compiuto a titolo gratuito successivamente al sorgere del credito, può procedere, munito di titolo esecutivo, a esecuzione forzata, ancorché non abbia preventivamente ottenuto sentenza dichiarativa di inefficacia, se trascrive il pignoramento nel termine di un anno dalla data in cui l’atto è stato trascritto. La disposizione di cui al presente comma si applica anche al creditore anteriore che, entro un anno dalla trascrizione dell’atto pregiudizievole, interviene nell’esecuzione da altri promossa.
Quando il pregiudizio deriva da un atto di alienazione, il creditore promuove l’azione esecutiva nelle forme dell’espropriazione contro il terzo proprietario.
Il debitore, il terzo assoggettato a espropriazione e ogni altro interessato alla conservazione del vincolo possono proporre le opposizioni all’esecuzione di cui al titolo V del libro III del codice di procedura civile quando contestano la sussistenza dei presupposti di cui al primo comma, nonché la conoscenza da parte del debitore del pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore.».
Non so se dalla lettura del testo abbiate potuto comprendere la portata del mutamento, ma si tratta di un totale stravolgimento: il creditore (solitamente una banca) che si senta danneggiato dalla costituzione di un fondo patrimoniale, può ora procedere direttamente a pignorare i beni del fondo, senza necessità di provare lo scopo fraudolento, purché agisca entro l’anno dalla sua costituzione. Non solo! Il debitore (solitamente uno dei coniugi) può opporsi a questo pignoramento esclusivamente all’interno del procedimento di esecuzione e solo provando che il creditore non ha ricevuto alcun pregiudizio dalla costituzione del fondo, senza quindi poter opporre come giustificative le ragioni di tutela dei bisogni della famiglia, ovvero lo scopo fondamentale per cui si procede al conferimento dei beni! Nel frattempo l’esecuzione va avanti e, se è stata conferita la casa coniugale, si può rischiare, nelle more del procedimento di opposizione, di essere cacciati dalla propria abitazione.
Se quindi il fondo è stato legittimamente creato per vere ragioni di tutela economica della famiglia, ma successivamente ad un credito di uno dei suoi componenti (credito che può essere anche professionale e del tutto avulso quindi alla famiglia) non vi è alcuna difesa nei confronti di quel creditore e di quelli che intervengono successivamente nell’esecuzione. Il fondo patrimoniale in pratica non esiste più.
Questa disposizione, se ce n’era bisogno, peggiora notevolmente la situazione dei patrimoni immobiliari degli italiani, già colpiti duramente dalle varie IMU, TASI, ecc., che ora vedono minacciata anche la prima casa, senza possibilità di destinarla ai bisogni economici futuri propri e dei figli ed è, come detto, l’ennesimo regalo alle banche che hanno prestato in passato con troppa leggerezza e che ora, per paura degli “stress test” europei, vogliono rientrare a tutti i costi.
Anche quello di distruggere il futuro delle famiglie.
Il governo all’epoca giustificò la necessità di queste modifiche a favore del sistema bancario con la scusa che l’intangibilità del fondo patrimoniale avrebbe privato un eventuale imprenditore della possibilità di utilizzare, se conferiti, i propri beni personali per l’investimento nell’attività economica: infatti non essendo escutibili i beni del fondo patrimoniale non sarebbero utilizzabili a garanzia di un finanziamento.
Una soluzione possibile avrebbe potuto essere una modifica della legislazione sul fondo che, se successivo al debito contratto, pur mantenendo la possibilità di pignoramento, conceda al debitore un periodo di grazia, ad esempio di 36 mesi, prima di subire l’esecuzione. Una soluzione del genere permetterebbe al debitore ed alla sua famiglia di trovare, nel frattempo, altre soluzioni per incrementare le proprie entrate economiche. Inoltre il “periodo di grazia” potrebbe essere utilizzato tra le parti per trattare una diversa ristrutturazione temporale del debito, attraverso la presentazione di un piano da parte del debitore, soluzione che potrebbe essere facilitata da incentivi fiscali per il creditore che lo accetta. Un Governo interessato al benessere delle famiglie avrebbe posto tali incentivi e, all’opposto, dei disincentivi alle azioni esecutive nei confronti dell’abitazione principale, sotto forma ad esempio di indetraibilità fiscale dei costi e delle perdite relative in caso di incapienza. Tutto questo avrebbe facilitato una seria e proficua contrattazione fra le parti, evitando dolorose evizioni per molte famiglie cadute in miseria.
Ma i cittadini e le famiglie non sembrano essere nel cuore di questo esecutivo, per lo meno non come le banche…

Antonio Maria Rinaldi

Contro queste conclusioni del prof. Rinaldi, è stato obbiettato che la norma ha esattamente l’inverso significato, in quanto l’opponibilità alla costituzione del fondo patrimoniale era di 5 anni dalla sua costituzione ed è, ora, ridotta a 1 anno, ma solo per debiti ANTECEDENTI la costituzione del fondo stesso.
A “nostro” sommesso parere, il punto non verte sul problema del più o meno favorevole termine per l’opponibilità. Infatti, bene ha colto il prof. Rinaldi il vulnus subito dal concetto stesso di regime patrimoniale convenzionale costituito dal fondo patrimoniale, quindi, dal diritto di famiglia, che con la riforma del 1975 volle erigerlo a strumento della sua sicurezza economica, di grado superiore al regime della comunione legale. Un siffatto strumento è indispensabile nell’ordinamento che non riconosce alla comunione legale una personalità giuridica, come alla fondazione.
Con il D.L. 83/2015, questo centro autonomo di interessi, distinto dal restante patrimonio dei coniugi, è venuto a perdere la sua più marcata destinazione: il vincolo ai bisogni della famiglia, sottomettendosi, in buona sostanza, alle ragioni del sistema bancario. E’ quanto si evince dall’aver disposto la facoltà per il creditore, di ottenere un titolo esecutivo, per sottoporre i beni del fondo patrimoniale a esecuzione forzata, ancorché non siano stati ancora oggetto di una sentenza dichiarativa di inefficacia, con il solo vincolo per il creditore di trascrivere il pignoramento nel termine di un anno dalla data in cui l’atto è stato trascritto. Tralascio volutamente la possibilità, per l’interessato alla conservazione del vincolo, di proporre le opposizioni all’esecuzione di cui al titolo V del libro III del codice di procedura civile, perché la ritengo di poco pregio ai fini del principio della tutela della sicurezza economica della famiglia, che si era voluto affermare nel diritto di famiglia, coerentemente con il C.C. e che, sostengo, è stato contraddetto dal Governo, con uno strumento: il Decreto Legge, a mio parere insufficiente, come strumento, costituzionalmente parlando, ma, soprattutto nei riguardi della materia.
Osservo, che le ragioni del creditore potevano essere soddisfatte con uno strumento diverso dall’esecuzione forzata senza sottrarre immediatamente i beni del fondo all’economia della famiglia con una procedura pignoratizia, che, poi, è lo stesso concetto rappresentato dal prof. Rinaldi con la proposta di un “periodo di grazia”; ammesso che si possa subordinare a una “grazia” un sì tale strumento di tutela. In estrema sintesi, si sono posti i coniugi (soprattutto se imprenditori) nella pratica impossibilità di contrattare con il creditore le garanzie e i tempi di soddisfacimento del debito, essendo quest’ultimo arbitro di procedere esecutivamente, senza riguardo per i “bisogni della famiglia”.
Non si può non notare una certa confusione portata nei riguardi dei principi che regolano il regime patrimoniale della famiglia. Una confusione che riesce difficile motivare, essendo chiaro e inequivocabile l’intento del legislatore del 1975 di salvaguardare la speciale destinazione dei beni costituiti in fondo patrimoniale a soddisfare i beni della famiglia.
Quali che fossero le soluzioni da adottare per andare a sanare le sofferenze del sistema bancario, con quest’ulteriore esempio di obbrobrio legislativo dei governi dei non eletti, il diritto del creditore viene a trovarsi in posizione di prevalenza sul vincolo di destinazione dei beni in fondo patrimoniale; arrivo a dire che, nei suoi confronti, sembra porsi quasi come fosse assistito da una garanzia reale o al livello del privilegio che garantisce l’obbligazione di contribuire ai carichi dello Stato e che va a colpire i beni come diritto reale.
Non è troppo pensare che questa costanza nello stravolgimento della trama dei principi su cui poggia la nostra società e la concomitante politica deindustrializzante ed economica, risponda a un fine ben determinato. Per questa ragione, per la quale deve valere l’inversione dell’onere della prova, dissento dall’uso della parola “crisi” fatto dal mio amico e maestro.

I TRATTATI EUROPEI SPIEGATI DA GIUSEPPE PALMA

Il mio speciale, in quattro Parti, pubblicato su Scenari Economici!

In questo post troverete il lavoro completo, cioè tutti e quattro i link dai quali poter accedere alla lettura degli articoli.

1) PARTE PRIMA

LA STORIA DEL PROGETTO EUROPEO. DA PARIGI A LISBONA: http://scenarieconomici.it/i-trattati-dellue-come-non-ve-l…/

2) PARTE SECONDA

L’ASSETTO ISTITUZIONALE DELL’UE E I MECCANISMI PREVISTI DAI TRATTATI IN MERITO ALL’ESERCIZIO DELLA FUNZIONE LEGISLATIVA: http://scenarieconomici.it/i-trattati-dellue-come-non-ve-l…/

3) PARTE TERZA

IL RAPPORTO GERARCHICO NEL SISTEMA DELLE FONTI DEL DIRITTO: IL PRIMATO DEL DIRITTO DELL’UE RISPETTO AL DIRITTO INTERNO. GRAVI ASPETTI DI CRITICITA’: http://scenarieconomici.it/i-trattati-dellue-come-non-ve-l…/

4) QUARTA ED ULTIMA PARTE

SULLA ILLEGITTIMITA’ DELLE CESSIONI DI SOVRANITA’: LA GRAVE MANIPOLAZIONE INTERPRETATIVA DELL’ART. 11 DELLA COSTITUZIONE: http://scenarieconomici.it/i-trattati-dellue-come-non-ve-l…/

Lo speciale, quindi tutti e quattro i lavori, sono scritti con metodo scientifico (cioè attraverso la consultazione delle Fonti) ma con un linguaggio semplicissimo, in modo tale da rendere un argomento così spinoso comprensibile a tutti!

Ho lavorato tantissimo per scrivere lo speciale, sottraendo tempo prezioso soprattutto a mia figlia! Il tutto gratuitamente e senza alcun tornaconto personale, anzi, semmai avrò un po’ di noie per aver divulgato alcuni aspetti che il Vero Potere vorrebbe tenere nascosti!

Buona lettura !

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I TRATTATI DELL’UE COME NON VE LI HANNO MAI SPIEGATI. PARTE PRIMA (di Giuseppe PALMA)

 

PARTE PRIMA

 Presento per Scenari Economici – in quattro speciali – i TRATTATI DELL’UNIONE EUROPEA e i loro gravi aspetti di criticità, da Maastricht a Lisbona!

Il mio obiettivo è quello di rendere l’argomento, di per sé molto complesso, comprensibile a chiunque.

Il contenuto di tutti e quattro i lavori è ripreso dal mio ultimo libro intitolato “IL MALE ASSOLUTO. Dallo Stato di Diritto alla modernità Restauratrice. L’incompatibilità tra Costituzione e Trattati dell’UE. Aspetti di criticità dell’Euro”, Editrice GDS (prima edizione ottobre 2014; seconda edizione febbraio 2015).

I quattro speciali sono scritti con metodo scientifico, seppur con un linguaggio semplicissimo.

Buono studio.

PARTE PRIMA

“LA STORIA DEL PROGETTO EUROPEO:

DA PARIGI A LISBONA”

 

  1. Brevi cenni sulla nascita del progetto europeo e sul suo sviluppo: i principali Trattati dell’UE e i più importanti aspetti di criticità del Trattato di Maastricht

Una prima “unione”, seppur di carattere prettamente economico, si ebbe già agli inizi degli anni Cinquanta tra sei Stati del Vecchio Continente, infatti Italia, Germania ovest, Francia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo diedero vita alla CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), un Trattato sottoscritto a Parigi il 18 aprile 1951 con l’obiettivo di creare un “mercato comune” per il carbone e per l’acciaio. Successivamente, nel 1957, con i Trattati di Roma[1] venne istituita sia la CEE (Comunità Economica Europea), che aveva come obiettivo principale quello della libera circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone al di fuori dei confini nazionali (in pratica una prima integrazione di carattere economico-commerciale), sia l’EURATOM (Comunità Europea dell’Energia Atomica), che aveva invece lo scopo di coordinare i programmi di ricerca degli Stati membri relativi all’energia nucleare. Nel 1973 gli Stati membri divennero nove con l’adesione del Regno Unito, della Danimarca e dell’Irlanda e, nel 1979, il Parlamento europeo venne eletto per la prima volta a suffragio universale e diretto. Il 1979 fu un anno importante anche per un altro motivo: il 13 marzo entrò in vigore lo SME (Sistema Monetario Europeo), ossia l’accordo per il mantenimento di una parità di cambio prefissata che poteva oscillare entro una fluttuazione del ±2,25% (del ±6% per Italia, Gran Bretagna, Spagna e Portogallo), avendo a riferimento una unità di conto comune (l’ECU, cioè unità di conto europea), determinata in rapporto al valore medio dei cambi del paniere delle divise dei Paesi aderenti. Fu un primo passo verso il progetto futuro di moneta unica europea. Nel 1986 venne sottoscritto l’AUE (Atto Unico Europeo) con lo scopo di completare la costruzione del “mercato interno” (che aveva avuto una battuta d’arresto dopo le crisi economiche degli anni Settanta) ed avviare un primo embrione di Unione politica. Tuttavia, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e fino a tutto il 1991, il mondo era rigidamente diviso in due a causa della guerra fredda tra i due grandi blocchi USA – URSS, quindi gli equilibri internazionali non avrebbero potuto discostarsi da questa netta divisione. E’ alla fine degli anni Ottanta che si verifica il vero spartiacque: il 9 novembre 1989 cade il muro di Berlino, quella barriera in pietra e cemento che divideva la Germania ovest dalla Germania est (che vengono unificate), e quindi il mondo occidentale che faceva capo agli Stati Uniti d’America e il mondo dell’est europeo che faceva riferimentoall’Unione Sovietica. Da un lato è la fine della guerra fredda, dall’altro è l’inizio di un nuovo Ordine che nasconde quello che diverrà il Neo-Feudalesimo globale. Dal 1991 in poi, con fin troppa consapevole coscienza, inizia un percorso irreversibile che condurrà l’intero Vecchio Continente a disegnare un progetto grandioso solo nell’apparenza ma che, nella sostanza, è marcatamente criminale ed anti-democratico.

Ed eccoci giunti al 1992: è l’anno del TRATTATO DI MAASTRICHT (o TRATTATO SULL’UNIONE EUROPEA – TUE), sottoscritto il 7 febbraio 1992 a Maastricht, nei Paesi Bassi (nostro Presidente del Consiglio dei Ministri è il democristiano Giulio Andreotti mentre Ministro degli Esteri è il socialista Gianni De Michelis), tra i dodici Stati membri dell’allora Comunità Europea (Italia, Paesi Bassi, Danimarca, Spagna, Grecia, Lussemburgo, Belgio, Regno Unito, Francia, Germania, Irlanda e Portogallo). Il Trattato entra in vigore il 1° novembre 1993 ed ha come obiettivo quello di preparare la creazione dell’unione monetaria europea e gettare le basi per un’unione politica (cittadinanza, politica estera comune e affari interni). Oltre ad istituire l’Unione Europea (che sostituisce la Comunità Europea), il Trattato introduce un’apparente quanto inefficace procedura di codecisione tra il Parlamento e il Consiglio nell’adozione degli atti giuridici dell’Unione. Il suo contenuto pone altresì le basi della futura moneta unica, infatti viene sancita la nascita dell’UEM (Unione Economica e Monetaria dell’Unione Europea) che, attraverso tre successive fasi, deve concludere un percorso che porti al conio di una moneta unica europea in sostituzione di ciascuna valuta nazionale dei Paesi membri. Con la creazione dell’IME (Istituto Monetario Europeo) nel 1994, viene prevista la nascita – entro il 1° gennaio 1999 – della BCE (Banca Centrale Europea) e del SEBC (Sistema Europeo delle Banche Centrali) che avrebbe coordinato la politica monetaria unica. Al fine di poter giungere alla fase finale, ciascuno Stato firmatario del Trattato deve rispettare cinque criteri di convergenza (più comunemente conosciuti come “parametri di Maastricht”):

  1. Rapporto tra deficit pubblico e PIL non superiore al 3%;
  2. Rapporto tra debito pubblico e PIL non superiore al 60% (Italia e Belgio vengono esentati dal rispettare questo parametro);
  3. Tasso d’inflazione non superiore dell’1,5% rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi;
  4. Tasso d’interesse a lungo termine non superiore al 2% del tasso medio degli stessi tre Paesi più virtuosi;
  5. Permanenza negli ultimi due anni nello SME senza fluttuazioni della moneta nazionale.

Ciò detto, il parametro maggiormente discusso è quello del rapporto tra deficit pubblico e PIL che non deve sforare il tetto rigido del 3%. Il numero 3 fu deciso inizialmente dall’ex Presidente della Repubblica francese François Mitterrand che voleva un numero qualsiasi da opporre alle continue richieste di denaro da parte dei suoi ministri. Il 3 rievocava la “Trinità”, quindi poteva andar bene. Sembra una favola, ma è andata proprio così! E’ il 1981 quando i socialisti francesi guidati da Mitterrand vincono le elezioni, e, per far fronte alle promesse elettorali, portano il deficit da 50 a 95 miliardi di franchi. Al fine di “rientrare”, Mitterrand incaricò l’allora vice-direttore del dipartimento del Bilancio al ministero delle Finanze Pierre Bilger di individuare una regola che evitasse spese pubbliche “pazze”. Bilger contattò due giovani esperti economici, Roland de Villepin e Guy Abeille, e sarà proprio quest’ultimo (all’epoca non ancora trentenne) ad elaborare – su sua stessa ammissione senza alcuna base scientifica – il tetto del 3%[2]. Dirà più avanti Guy Abeille: «Prendemmo in considerazione i 100 miliardi del deficit pubblico di allora. Corrispondevano al 2,6 % del Pil. Ci siamo detti: un 1% di deficit sarebbe troppo difficile e irraggiungibile. Il 2% metterebbe il governo sotto troppa pressione. Siamo così arrivati al 3%. Nasceva dalle circostanze, senza un’analisi teorica»[3]. Lo stesso parametro fu poi utilizzato quale “regola europea” (anche perché Mitterrand intendeva tenere sotto controllo la forza economica di una Germania unita) ed entrò a far parte del Trattato di Maastricht. Questa regola del 3%, a distanza di circa vent’anni, è diventata una vera e propria disgrazia che impedisce agli Stati membri di far leva sulla spesa pubblica al fine di risolvere le problematiche economico-sociali. Lo stesso dicasi in merito al tetto previsto per il tasso d’inflazione (cioè non superiore dell’1,5% rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi): un altro limite capestro che impedisce l’adozione di qualsiasi soluzione ragionevole per far fronte a periodi di recessione.

Il 2 ottobre 1997 viene sottoscritto il TRATTATO DI AMSTERDAM (nostro Presidente del Consiglio dei Ministri è Romano Prodi, capo della coalizione di centro-sinistra che aveva vinto le elezioni politiche del 1996, mentre Ministro degli Esteri è Lamberto Dini), entrato in vigore il 1° maggio 1999. Esso riforma le Istituzioni europee in vista dell’adesione di nuovi Stati, quindi modifica, rinumera e consolida il Trattato di Maastricht e il Trattato di Roma. Prevede inoltre un processo decisionale apparentemente più trasparente attraverso un più ampio ricorso alla c.d. procedura di codecisione tra Consiglio dell’UE e Parlamento europeo nell’adozione degli atti giuridici dell’Unione. In realtà si tratta di una vera e propria “truffa procedurale” che, riformata (anche nel nome) dal Trattato di Lisbona, altro non è che uno specchietto per le allodole di cui mi occuperò approfonditamente nel secondo speciale.

Il 26 febbraio 2001 viene firmato il TRATTATO DI NIZZA (nostro Presidente del Consiglio dei Ministri è l’ex socialista Giuliano Amato che presiede un esecutivo sostenuto da una maggioranza di centro-sinistra, mentre Ministro degli Esteri è sempre Lamberto Dini), che entra in vigore il 1° febbraio 2003. Il Trattato, oltre a riformare le Istituzioni europee per consentire all’UE di funzionare in maniera più efficiente dopo l’allargamento a 25 Stati membri, adotta nuovi metodi per modificare la composizione della Commissione europea e ridefinire il sistema di voto in seno al Consiglio.

Dal Trattato di Maastricht al Trattato di Lisbona (di cui mi occuperò in breve nel prossimo paragrafo) gli euro-burocrati hanno introdotto una serie di norme incomprensibili e scoordinate tra loro (sconosciute anche ai parlamentari europei) che mirano nella sostanza a svuotare le competenze dei Parlamenti nazionali e rendere inefficaci le Costituzioni di ciascuno degli Stati membri.

  • Il Trattato di Lisbona. Cenni

Prima di entrare nel vivo del c.d. Trattato di Lisbona, è necessario fare una breve premessa.

Il 29 ottobre 2004 viene firmato a Roma il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (la c.d. Costituzione europea), ma in realtà – sotto l’aspetto meramente formale – non si tratta di una vera e propria Costituzione come quelle di cui sono dotati ciascuno degli Stati membri, bensì di un Testo Unico (o Trattato di base) in cui vengono riordinati e recepiti i Trattati preesistenti, con poche innovazioni e senza formali trasferimenti di sovranità. Il vero obiettivo di questo Trattato di base è quindi quello di sostituire tutti i Trattati che fino a quel momento avevano costituito le fondamenta giuridiche primarie dell’Unione Europea, stabilendo un chiaro assetto politico riguardo alle sue Istituzioni, alle sue competenze, alla politica estera e alle modalità decisionali.  Gli “architetti” di questo progetto sono l’ex Presidente della Repubblica francese Valéry Marie René Georges Giscard d’Estaing (che presiederà un’apposita Convenzione sul futuro dell’Europa), il nostro ex Presidente del Consiglio dei Ministri Giuliano Amato ed il belga Jean-Luc Joseph Marie Dehaene (entrambi vice-presidenti della Convenzione medesima). Un lavoro importantissimo lo svolge anche la Commissione Europea (all’epoca presieduta da Romano Prodi), la quale elabora un progetto (il c.d. Progetto Penelope) quale punto di riferimento per la Convenzione. Questa lavora per diciassette mesi, fino al 10 luglio 2003. La cerimonia ufficiale per la firma della c.d. Costituzione europea avviene a Roma il 29 ottobre 2004 e trasmessa in eurovisione. Il Parlamento italiano, a stragrande maggioranza (sia alla Camera che al Senato), autorizza la ratifica del Trattato tra il gennaio e l’aprile del 2005.

Il vero obiettivo della c.d. Costituzione europea, in realtà, non è quello di armonizzare le norme contenute nei Trattati sottoscritti e ratificati fino a quel momento, né quello di riordinare le Istituzioni europee e le loro competenze, ma è soprattutto quello di creare un unico testo rafforzato che – sostanzialmente – esautori sia l’efficacia delle Costituzioni nazionali che gli effetti della produzione legislativa di rango ordinario degli Stati membri. L’intenzione degli euro-burocrati è quella di inglobare in un unico testo tutte le norme dei Trattati preesistenti (riordinandole, armonizzandole e innovandole se necessario) in modo tale che l’intera struttura politica e di produzione giuridica dell’Unione abbia un’autorità tale che, nel tempo, possa sostanzialmente sostituire i principi costituzionali e le garanzie procedurali sancite nelle Carte fondamentali di ciascuno Stato membro. Gli euro-burocrati, tuttavia, commettono un “grave errore”: avallano la possibilità di sottoporre la Costituzione europea a referendum popolari. Gli elettori francesi ed olandesi esprimono un netto voto contrario[4], determinando uno stop fondamentale all’iter di ratifica. A quel punto, di fronte al no franco-olandese, il Consiglio europeo (composto dai capi di Stato e di Governo dei Paesi membri) decide di risolvere il problema entro il 2008 (e comunque prima delle elezioni per il Parlamento europeo del 2009). Alla fine prevale la soluzione di elaborare un Trattato di riforma (il c.d. Trattato di Lisbona) da non sottoporre a referendum popolare! In altre parole, la Costituzione europea è uscita dalla porta (per volere democratico del popolo francese e di quello olandese) ed è rientrata dalla finestra.

Ed ecco che l’apparato eurocratico, sconfitto da un inaspettato sussulto di indipendenza nazionale, individua una strada più “sicura” che sfocia nel c.d. TRATTATO DI LISBONA (ufficialmente “Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità Europea” o Trattato di riforma), sottoscritto il 13 dicembre 2007 (nostro Presidente del Consiglio dei Ministri è Romano Prodi, leader della coalizione di centro-sinistra che ha vinto di appena lo 0,01% le elezioni politiche del 2006, mentre Ministro degli Esteri è l’ex comunista Massimo D’Alema) ed entrato ufficialmente in vigore il 1° dicembre 2009. Il nostro Parlamento ne autorizza la ratifica all’unanimità: al Senato il 23 luglio 2008, alla Camera dopo appena otto giorni. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano vi appone la propria firma per la ratifica il 2 agosto e il deposito avviene sei giorni dopo. Il tutto nel più assoluto silenzio e senza informare adeguatamente i cittadini: non è un caso, infatti, che l’iter di ratifica avvenga tra la fine di luglio e gli inizi di agosto, mentre gli italiani sono distratti dai bagni e dal calcio-mercato.

Ma entriamo nello specifico. Perché è così importante il Trattato di Lisbona? In realtà, come ho evidenziato pocanzi, si tratta di un Trattato che modifica sia il Trattato sull’Unione Europea (cioè il Trattato di Maastricht del 1992 – TUE) che il Trattato che istituisce la Comunità Europea (il Trattato di Roma del 1957 – TCE, fatta eccezione per il Trattato Euratom). In altre parole non si è giunti a redigere un unico Trattato (come era invece avvenuto con la c.d. Costituzione europea), ma si sono riformati (e di qui la denominazione di Trattato di riforma) sia il Trattato sull’Unione Europea (TUE o Trattato di Maastricht) che il Trattato che istituisce la Comunità Europea (TCE). Il primo ha mantenuto la sua denominazione, mentre il secondo è stato denominato Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). A questi vanno poi aggiunti sia la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (la c.d. Carta di Nizza) che il Trattato Euratom (il quale non era stato integrato nella Costituzione europea). Un bel grattacapo che rende particolarmente difficile la comprensione dello stesso diritto originario dell’UE… e posso garantire che non è un caso! Trattandosi di Trattati, e quindi bisognosi di ottenere un’autorizzazione alla loro ratifica da parte dei Parlamenti di ciascuno degli Stati membri, è più difficile per quei pochi parlamentari nazionali indipendenti comprendere l’obiettivo dell’apparato eurocratico se non vi sono le condizioni per capire, non dico tanto il contenuto, ma addirittura gli aspetti formali di base dei Trattati medesimi. Non è una barzelletta, è andata proprio così! I nostri parlamentari, infatti, da un lato fanno finta di accapigliarsi di fronte alle proposte di revisione della Costituzione, dall’altro, quando si tratta di autorizzare la ratifica dei Trattati dell’UE (che esautorano la nostra Costituzione), non battono ciglia e applaudono ipocritamente.

In merito al contenuto dei predetti Trattati (TUE e TFUE così come riformati dal Trattato di Lisbona), occorre ammettere anzitutto che si è data forma e sostanza alla Costituzione europea del 2004, seppur con qualche modifica non particolarmente significativa […].

***

Tra qualche giorno pubblicherò la PARTE IIa con la quale mi occuperò di spiegarvi, nello specifico, come il c.d. Trattato di Lisbona ha ridisegnato l’assetto istituzionale dell’UE, per poi passare al funzionamento dei meccanismi giuridico-istituzionali in merito all’esercizio della funzione legislativa. Il tutto ponendo l’attenzione sul rapporto tra i Trattati dell’UE e la nostra Costituzione.

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PARTE SECONDA

“L’ASSETTO ISTITUZIONALE DELL’UE
E I MECCANISMI PREVISTI DAI TRATTATI IN MERITO
ALL’ESERCIZIO DELLA FUNZIONE LEGISLATIVA”

1 Gli atti giuridici e l’esercizio della funzione legislativa dell’Unione Europea. Lo strapotere del duo Commissione europea/Consiglio dell’UE: il sostanziale esautoramento sia del Parlamento europeo che della Costituzione italiana. Gravi aspetti di criticità
Il diritto dell’Unione Europea è composto dal diritto originario (rappresentato dai Trattati istitutivi dell’UE e loro successive modifiche, quindi dai testi con valore equiparato, oltre che dai Principi generali di diritto comuni agli Stati membri), dal diritto c.d. “intermedio” [che si pone tra il diritto originario e quello derivato, ed è rappresentato dal diritto internazionale consuetudinario (quando non derogato dai Trattati istitutivi) e pattizio (quando vincola l’Unione)], ed infine dal diritto derivato, ossia dagli atti giuridici emanati dalle Istituzioni europee. In merito a quest’ultimo, il Trattato di Lisbona prevede che l’UE possa adottare cinque tipi di atti giuridici (veri e propri atti legislativi frutto di un complesso sistema di produzione legislativa dell’Unione):
• il REGOLAMENTO: è un atto giuridico che ha portata generale (esattamente come la legge nazionale), è obbligatorio in tutti i suoi elementi ed è direttamente applicabile (self-executing) in ciascuno degli Stati membri. Utilizzando una terminologia più semplice, è una vera e propria “legge europea” che produce effetti diretti e vincolanti in ciascuno degli Stati membri. E’ un atto giuridico c.d. vincolante, cioè produce i suoi effetti non solo nei confronti degli Stati membri ma anche nei confronti dei singoli. Per la sua efficacia non sono necessari né procedimenti di ratifica né atti di recepimento o di attuazione da parte degli Stati dell’Unione;
• la DIRETTIVA: è un atto giuridico che persegue l’obiettivo di armonizzazione delle normative degli Stati dell’UE. Essa vincola lo Stato membro cui è rivolta solo per quanto riguarda il risultato da raggiungere, ferma restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi da adottare. A differenza del Regolamento, la Direttiva – oltre a non avere portata generale (cioè si riferisce ad uno o più Stati membri) – necessita di un atto di recepimento o di attuazione da parte dei Parlamenti degli Stati cui è rivolta;
• la DECISIONE: è anch’essa un atto giuridico vincolante, tant’è che è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Qualora designi i destinatari (Stati membri, gruppi di Stati, persone fisiche e giuridiche), è obbligatoria soltanto nei confronti di questi, quindi – a differenza del passato – può assumere anche portata generale. Se rivolta agli Stati è simile alla Direttiva, ma lascia minore discrezionalità; se rivolta invece ai singoli costituisce addirittura titolo esecutivo. E’ spesso adottata dalla Commissione in materia di concorrenza;
• la RACCOMANDAZIONE: è un atto giuridico non vincolante ed invita il destinatario (normalmente uno o più Stati membri) a conformarsi (e quindi ad adeguarsi) ad un certo comportamento per l’interesse comune dell’Unione;
• il PARERE: mentre la Raccomandazione è un invito rivolto allo Stato membro perché si adegui ad un determinato comportamento o regola, il Parere è semplicemente uno strumento idoneo a rendere noto il punto di vista dell’Istituzione europea che lo emette. Non è un atto giuridico vincolante.
La FUNZIONE LEGISLATIVA (vale a dire il potere legislativo, cioè quello di fare e leggi) è esercitata – nella sostanza – dal duo Commissione europea/Consiglio dell’Unione Europea (quest’ultimo detto anche Consiglio dei Ministri o semplicemente Consiglio). In pratica la Commissione – che esercita il potere esecutivo – ha anche la titolarità dell’iniziativa legislativa, cioè sottopone sia al Consiglio dell’UE (da non confondere con il Consiglio europeo) che al Parlamento europeo le proprie proposte degli atti giuridici da adottare e, nella sostanza, il Consiglio adotta l’atto uniformando quasi sempre la sua posizione alla proposta della Commissione. Nella realtà, infatti, benché sia formalmente prevista una procedura legislativa consistente nell’adozione congiunta dell’atto da parte di Consiglio e Parlamento (che in passato era chiamata “procedura di codecisione”), quest’ultimo è di fatto esautorato da quella che dovrebbe essere la sua “funzione naturale”, cioè l’esercizio della potestà legislativa (fare le leggi). L’aspetto drammatico, tra tutti i gravissimi aspetti di criticità evidenziabili, è quello che sono morte milioni di persone perché si giungesse alla conquista del sacrosanto principio che a fare le leggi fosse esclusivamente un’assemblea eletta direttamente dal popolo ed esercitante la sovranità popolare, ma, con l’avvento dell’Unione Europea, tale principio è stato quasi del tutto calpestato e tradito. La conquista democratica del binomio inscindibile “Parlamento eletto – Legge” ha quindi avuto attuazione attraverso le disposizioni contenute in ciascuna delle Costituzioni nazionali degli Stati membri dell’Unione, ma i Trattati dell’UE (per ultimo il Trattato di Lisbona) ne hanno – non solo sostanzialmente – evirato l’essenza! Il Consiglio dell’UE, infatti, è composto da un rappresentante per ciascuno Stato membro, a livello ministeriale, di volta in volta competente per la materia trattata, il quale é abilitato ad impegnare il governo dello Stato membro che rappresenta ed a esercitare il diritto di voto, ma trattasi di soggetti non eletti che il popolo il più delle volte neppure conosce; e stesso discorso dicasi anche per la Commissione, un organismo potentissimo composto da soggetti non eletti da nessuno (fatta eccezione per quanto si dirà più avanti).
Riassumendo questi concetti, è bene che il lettore ricordi che la Commissione europea (esercitante sia il potere esecutivo che l’iniziativa legislativa) e il Consiglio dell’UE (esercitante la funzione legislativa), essendo entrambi composti da membri non eletti dai cittadini, sono totalmente immuni dagli eventuali “scossoni” scaturenti dai processi elettorali. E il Parlamento? Pur essendo l’unica Istituzione europea eletta direttamente dal popolo, e quindi alla quale sarebbe dovuta legittimamente spettare – come ci insegnano le conquiste democratiche costate milioni di morti – l’esercizio esclusivo della funzione legislativa, svolge sostanzialmente il ruolo di “assistente” alle decisioni del duo Commissione – Consiglio! Per di più, considerato che i due grandi partiti europei sono il PSE (Partito del Socialismo Europeo) e il PPE (Partito Popolare Europeo), in Parlamento v’è e vi sarà sempre la maggioranza assoluta per non bloccare le decisioni della premiata ditta Commissione – Consiglio! Capito l’inganno e il tradimento? Non è uno scherzo, la questione è proprio in questi termini! E non è finita qui: mentre la nostra Costituzione prevede che il Governo (al quale è affidato sia l’esercizio della funzione esecutiva che l’iniziativa legislativa) debba godere necessariamente della fiducia del Parlamento (altrimenti non può esercitare a pieno le sue funzioni ed è addirittura obbligato a dimettersi), in Europa non è così! Il Parlamento europeo, infatti, non vota e non revoca alcuna fiducia alla Commissione (e neppure al Consiglio), la quale esercita la funzione esecutiva e l’iniziativa legislativa unicamente per volere di coloro che hanno scritto i Trattati e senza alcun controllo – neppure indiretto – da parte dei rappresentanti del popolo (vedesi, a tal proposito, la precisazione tecnica a seguire nella quale affronto nello specifico la questione fiducia/sfiducia Parlamento/Commissione). Può sembrare una barzelletta, ma è esattamente la realtà! Il Parlamento europeo, per la prima volta a partire dal 2014, ha solo il diritto di eleggere (a maggioranza dei suoi membri) il Presidente della Commissione europea: considerato che alle ultime elezioni del maggio 2014 nessuno tra PSE e PPE ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, questi hanno “pensato bene” di mettere insieme i propri numeri in Parlamento esprimendo un voto corale in favore del candidato del PPE Jean-Claude Juncker (sulla base del fatto che il PPE ha ottenuto la maggioranza relativa dei seggi). Quindi a nulla – o quasi – sono valse le vittorie elettorali di Marine Le Pen in Francia e di Nigel Farage in Inghilterra: il sistema elettorale per l’elezione del Parlamento europeo è stato concepito e realizzato proprio perché siano sempre il PSE e il PPE a farla da padrona! Non c’è alcuna via di scampo. E’ così e basta!
§§§
PRECISAZIONE TECNICA
I Trattati dell’UE, oltre a prevedere che il Presidente della Commissione europea sia eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono e tenuto conto dei risultati elettorali per l’elezione del Parlamento medesimo (circostanza sopra evidenziata), prevedono anche che quest’ultimo (cioè il Parlamento) esprima un VOTO DI APPROVAZIONE nei confronti della Commissione (e più precisamente nei confronti del Presidente, dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e degli altri commissari collettivamente considerati), il quale non equivale assolutamente ad un voto di fiducia come quello che – ad esempio – il Parlamento italiano esprime nei confronti del Governo; si tratta infatti di una cosa ben diversa che, nella sostanza, si traduce in un mero “giudizio di gradimento” del tutto ovvio e scontato in quanto il voto di approvazione del Parlamento è preceduto dal voto con cui questo ha già eletto il Presidente della Commissione. Per di più, dopo che il Parlamento europeo ha espresso il voto di approvazione nei confronti della Commissione, è necessario un ulteriore passaggio consistente nella nomina ufficiale della Commissione da parte del Consiglio europeo (da non confondere con il Consiglio dell’UE), e ciò dimostra come il voto di approvazione espresso dal Parlamento nei confronti della Commissione non possa considerarsi tecnicamente come un vero e proprio voto di fiducia. Per quanto riguarda, invece, un eventuale “voto di sfiducia” del Parlamento nei confronti della Commissione (che obbligherebbe quest’ultima alle dimissioni), è opportuno anzitutto evidenziare che è del tutto azzardato parlare di “sfiducia” perché è quasi impossibile che ciò possa verificarsi nella realtà: la c.d. MOZIONE DI CENSURA prevista dai Trattati è una mera previsione formale del tutto irrealizzabile nella sostanza, infatti perché il Parlamento europeo possa “sfiduciare” la Commissione occorre che l’eventuale mozione di censura venga approvata con una maggioranza di addirittura i 2/3 dei voti espressi dall’aula parlamentare, sempre che il predetto risultato non sia inferiore alla maggioranza dei membri che compongono il Parlamento. Una vera e propria “truffa” che rende la forma palesemente soccombente al cospetto della sostanza.
§§§
E’ pur vero che – nella forma – il Trattato di Lisbona prevede l’esercizio congiunto della funzione legislativa da parte del Consiglio dell’UE e del Parlamento europeo (posti formalmente sullo stesso piano quanto meno nella procedura legislativa ordinaria), ma è altrettanto vero che – nella sostanza – il Parlamento non esercita a pieno la funzione legislativa come invece avviene per tutte le assemblee legislative di ciascuno degli Stati membri. Il Parlamento europeo ha – di fatto – un misero ruolo di “compartecipe” o di “notaio in differita”.

2 Le procedure legislative dell’UE per l’adozione degli atti giuridici
Le procedure legislative di adozione degli atti giuridici dell’Unione Europea si distinguono in ordinaria e speciali.
LA PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA (che rappresenta la regola nella formazione degli atti giuridici dell’UE) è composta di quattro fasi:
• Ia FASE (fase della prima lettura) – La Commissione europea presenta una proposta congiuntamente sia al Consiglio dell’UE che al Parlamento europeo, e su di essa quest’ultimo formula la sua posizione (cioè il Parlamento può presentare o meno una serie di emendamenti) e la invia al Consiglio. Qualora quest’ultimo non elabori proposte di emendamento, ovvero accetti gli emendamenti (la posizione) proposti dal Parlamento, l’atto viene adottato senza ulteriori adempimenti. Se invece il Consiglio non approva la posizione del Parlamento, adotta una propria posizione in prima lettura e la trasmette al Parlamento;
• IIa FASE (fase della seconda lettura) – Se entro un termine di tre mesi da tale comunicazione il Parlamento: a) approva la posizione espressa dal Consiglio in prima lettura oppure non si pronuncia, l’atto in questione si considera adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione del Consiglio; b) respinge, a maggioranza dei membri che lo compongono, la posizione espressa dal Consiglio in prima lettura, l’atto proposto si considera non adottato; c) propone, sempre a maggioranza dei membri che lo compongono, emendamenti alla posizione espressa dal Consiglio in prima lettura, il testo così emendato è inviato al Consiglio e alla Commissione che formula un parere su tali emendamenti. A questo punto (cioè in quest’ultima ipotesi), entro un termine di tre mesi dal testo così emendato, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può: 1) approvare tutti gli emendamenti e quindi l’atto in questione si considera adottato; 2) non approvare tutti gli emendamenti e il suo Presidente, d’intesa con il Presidente del Parlamento, convoca entro sei settimane un organo denominato Comitato di conciliazione;
• IIIa FASE (fase della Conciliazione) – Il Comitato di conciliazione (composto da membri o rappresentanti del Consiglio e del Parlamento) ha il compito di giungere ad un accordo su un progetto comune (“testo di compromesso”) sulla base delle posizioni del Parlamento e del Consiglio in seconda lettura. Se entro un termine di sei settimane dalla sua convocazione il Comitato di conciliazione non approva un progetto comune, l’atto in questione si considera non adottato;
• IVa FASE (fase della terza lettura) – Qualora entro il termine di sei settimane il Comitato di conciliazione riesce invece ad approvare un progetto comune, il Parlamento e il Consiglio dispongono ciascuno di un termine di sei settimane (a decorrere dall’approvazione del progetto comune da parte del Comitato di conciliazione) per adottare l’atto in questione in base al progetto comune. Il Parlamento delibera a maggioranza dei voti espressi mentre il Consiglio a maggioranza qualificata. Se entrambe le Istituzioni deliberano l’adozione dell’atto in questione, questo si intende adottato e la procedura si conclude; in mancanza invece di una decisione, ovvero qualora l’atto non venga adottato con le maggioranze predette, lo stesso si considera non adottato e la procedura si conclude.
LE PROCEDURE LEGISLATIVE SPECIALI, invece, non godono di una descrizione analitica da parte dei Trattati quindi, in mancanza di specifiche indicazioni e in attesa che si consolidi una prassi nel merito, si ritiene che si possa parlare di procedure legislative speciali tutte le volte che i Trattati prevedono procedure legislative differenti da quella ordinaria. Nell’ambito delle procedure speciali, ritengo sia necessario soffermarsi sull’ipotesi in cui è il Consiglio ad adottare l’atto con la partecipazione del Parlamento. In questo caso si hanno due tipi di procedure: la “procedura di consultazione” e la “procedura di approvazione”:
• La procedura di consultazione: prima che il Consiglio adotti un atto, è necessaria la consultazione del Parlamento (in tal caso la consultazione può essere obbligatoria o facoltativa, a seconda di quanto prevedono i Trattati). Il parere espresso dal Parlamento non è vincolante né per la Commissione (che non è obbligata ad uniformare la sua proposta alle osservazioni ivi contenute), né per il Consiglio, che può disattenderlo;
• La procedura di approvazione: il Consiglio non può validamente legiferare in talune materie se il Parlamento non concorda pienamente, a maggioranza assoluta dei suoi membri, con il contenuto dell’atto. In mancanza di tale approvazione l’atto non può essere adottato. In pratica si tratta di un diritto di veto da parte del Parlamento nei confronti del Consiglio[1].

Concentrando l’analisi sulla PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA, uno dei suoi aspetti di maggiore criticità è quello che nella fase della seconda lettura il Parlamento può respingere la posizione espressa dal Consiglio in prima lettura solo a maggioranza dei suoi membri (cioè a maggioranza assoluta), quindi occorre un voto del 50% più uno dei componenti l’assemblea, una maggioranza che – come abbiamo visto – è possibile raggiungere solo se si sommano i deputati di PSE e PPE. Considerato che si tratta di partiti (entrambi) sui quali si fonda l’intero apparato eurocratico, è praticamente impossibile per il Parlamento trovare la forza numerica (che ricordo è della metà più uno dei suoi membri) per respingere una posizione espressa dal Consiglio[2]. Inoltre, come il lettore ha avuto modo di rendersi conto, in seconda lettura l’atto si intende adottato nel testo corrispondente alla posizione espressa dal Consiglio in prima lettura se il Parlamento, entro il termine di tre mesi, non si pronuncia sulla predetta posizione. Oppure, rimanendo sempre nell’esempio della fase della seconda lettura, il Parlamento può, sì, proporre emendamenti alla posizione espressa dal Consiglio in prima lettura, ma solo e sempre a maggioranza dei suoi membri. Appare dunque evidente che, rispetto ad esempio alla normale procedura di adozione delle leggi prevista dalla nostra Costituzione (artt. 70 e segg. Cost.), le procedure dettate dai Trattati europei presentano un pericoloso deficit di democrazia, tanto più che non è previsto neppure un controllo come quello che la nostra Costituzione assegna al Presidente della Repubblica, il quale ha la facoltà di rinviare la legge alle Camere per chiederne una nuova deliberazione (art. 74 Cost.)!
In Italia sia centro-destra sia centro-sinistra (che ritengono questa UE come un punto di non ritorno) osannano e votano acriticamente tutto quello che decidono i burocrati di Bruxelles, tant’è che il Trattato di Lisbona ha ottenuto dal Parlamento italiano l’autorizzazione alla ratifica con un voto all’unanimità, senza alcun adeguato dibattito né parlamentare né con i cittadini. Pazzesco, ma è la verità!
***
Le argomentazioni sinora svolte dimostrano come le Rivoluzioni e le lotte del passato, costate milioni di morti, non siano servite assolutamente a nulla. L’Ancien Régime, pur mutando pelle ed affinando i suoi strumenti, è uscito dalla porta ma è rientrato – prepotentemente – dalla finestra: una nuova forma di Aristocrazia europea ha preso piede a partire dal 1992 ed oggi rappresenta il Vero Potere! Altro che le scaramucce nostrane sulle proposte di riforma della legge elettorale o di revisione della Parte II della Costituzione… tutte “sciocchezze” per distrarre un popolo totalmente inconsapevole e indifferente. Nonostante l’evidenza dei fatti, c’è chi continua a sostenere questa Unione Europea come conquista irreversibile; una conclusione inaccettabile di fronte alle analisi sinora svolte e al cospetto delle evidenti storture che si sono evidenziate.
Del resto, e lo scrivo senza alcuna vena polemica, da questa Unione Europea non ci si poteva aspettare altro. Uno dei personaggi ritenuti tra i suoi principali fondatori – Jean Monnet -, aveva un motto: “Gli uomini accettano il cambiamento solo sotto il dominio della necessità”. Cosa ci si poteva aspettare di buono?[3]
Tutto quanto sinora premesso prova che la DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE è stata ormai superata dai Trattati dell’UE, nati non per fare gli interessi dei popoli ma per esautorarne – nella sostanza – la sovranità e l’autodeterminazione!!!

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PARTE TERZA

“ IL RAPPORTO GERARCHICO NEL SISTEMA DELLE FONTI DEL DIRITTO: IL PRIMATO DEL DIRITTO DELL’UE RISPETTO AL DIRITTO INTERNO. GRAVI ASPETTI DI CRITICITA’ ”

Se non fosse per quanto sto per scrivere, tutto quello che ho argomentato nei precedenti due articoli (Parte I e II di questo speciale) non sarebbe eccessivamente preoccupante. E invece lo è.

Fatta salva la supremazia gerarchica della Costituzione nei confronti delle norme europee di qualunque fonte (supremazia meramente formale visto che le norme costituzionali sono state sostanzialmente superate dal contenuto dei Trattati), la produzione legislativa nazionale di rango ordinario (le leggi e gli atti aventi forza di legge) si colloca su un livello inferiore (rapporto gerarchico) rispetto alla produzione legislativa dell’UE, tant’è che, qualora una norma nazionale non fosse conforme ad una norma europea, il giudice nazionale (al quale i cittadini si rivolgono per ottenere giustizia) deve disapplicare la norma nazionale e applicare quella europea, anche se questa è antecedente alla norma interna. Non è uno scherzo, è proprio così.

Ma andiamo per gradi. Cosa vuol dire rapporto gerarchico? Vuol dire che un atto giuridico deve essere conforme ad un altro atto giuridico posto su un livello superiore nella scala gerarchica delle Fonti del diritto, cioè – ad esempio – un regolamento del Governo deve essere conforme alla legge ordinaria, questa deve essere conforme al Regolamento dell’UE (che ricordo al lettore è un atto giuridico che fa parte del diritto derivato dell’Unione) e quest’ultimo non deve essere in contrasto con i Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale, con la Parte I della Costituzione e con la forma repubblicana (intesa nel suo significato più ampio). La conformità alla Costituzione è richiesta anche al diritto europeo originario (rappresentato dai Trattati dell’UE), e a tal riguardo va evidenziato – come si è già visto nella Parte II di questo speciale – che gli atti legislativi dell’Unione sono adottati attraverso le procedure stabilite dai Trattati che nulla hanno a che fare con le procedure democratiche dettagliatamente stabilite dalla Parte II della nostra Costituzione, la quale attribuisce la funzione legislativa esclusivamente ad un Parlamento eletto direttamente dal popolo (fatta eccezione per i casi del decreto legge e del decreto legislativo che sono invece di competenza del Governo, la cui funzione legislativa è comunque limitata al verificarsi di specifiche condizioni).

Ciò detto, i cittadini italiani sono soggetti a norme europee (che superano quelle nazionali) adottate attraverso procedure legislative meno garantiste e meno democratiche di quelle stabilite dalla Costituzione, le quali sono costate – lo ripeto per l’ennesima volta – milioni di morti. Capito adesso perché la Costituzione è stata – di fatto – esautorata sin dalle sue viscere? Come si fa a dire di essere europeisti di fronte a tali verità? Come si può accettare che la Commissione europea e il Consiglio dell’UE (quindi funzione esecutiva, iniziativa legislativa e funzione legislativa), deputati rispettivamente a proporre e ad emanare atti legislativi direttamente vincolanti e superiori alle leggi nazionali, siano composti da soggetti nominati (e quindi non eletti) che non ricevono neppure un voto di fiducia da parte del Parlamento, unico organismo europeo eletto direttamente dal popolo?

In pratica, se la Rivoluzione francese aveva strappato la funzione legislativa dalle mani del re (e del suo “Consilium Principis”) per attribuirla ad un’assemblea elettiva che rappresentasse ed esercitasse la sovranità popolare, l’UE ha annullato le conquiste rivoluzionarie attribuendo sostanzialmente la potestà legislativa dell’Unione (il cui frutto supera la produzione legislativa nazionale) ad un organismo – il Consiglio dell’UE – i cui componenti (al pari dei componenti della Commissione), non essendo eletti dai cittadini, rispondono unicamente a logiche di potere e di interesse del tutto contrapposte alle “naturali” esigenze dei popoli. Come si può essere europeisti senza provare un briciolo di vergogna o di imbarazzo?

  • §§

Come ho già scritto nella Parte IIa di questo speciale, i Trattati europei (da ultimo quello di Lisbona) prevedono che la funzione legislativa dell’UE sia esercitata congiuntamente da Parlamento europeo e Consiglio dell’UE, ma, come ho potuto argomentare nel precedente articolo, la potestà legislativa del Parlamento europeo è circoscritta al mero ruolo di “compartecipe” o di “notaio in differita”. Nella sostanza, gli atti giuridici dell’Unione sono adottati dal Consiglio e dalla Commissione, due organi non eletti dal popolo e che non rispondono a criteri democratici! La funzione legislativa dell’Unione mira esclusivamente alla tutela del capitale internazionale (anche attraverso l’Euro), al perseguimento degli scopi delle multinazionali e alla salvaguardia degli interessi dei mercati. Il rispetto della sovranità popolare e la tutela dei diritti fondamentali non fanno parte dell’agenda politica e legislativa dell’UE! Con buona pace dei falsi europeisti!

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Ma entriamo nello specifico.

Nonostante quanto scriverò nella IVa ed  ultima Parte di questo speciale in merito alla palese manipolazione interpretativa dell’art. 11 Cost., la nostra Corte Costituzionale (le cui Sentenze sono considerate da un certo tipo di politica nostrana come espressione derivata del Vangelo), già nel 1964 affermava che le norme comunitarie sono da porre sul medesimo piano delle leggi ordinarie, e che un eventuale conflitto tra norma interna e norma comunitaria si sarebbe dovuto risolvere attraverso il criterio della successione delle leggi nel tempo (il c.d. principio lex posterior derogat priori), ossia che la norma successiva deroga (sostituisce) quella precedente (Sent. n. 14 del 7 marzo 1964 – Costa c. Enel). Successivamente, nel 1973, la Consulta si spinge addirittura oltre riconoscendo sia il primato del diritto comunitario sul diritto interno che l’efficacia diretta dei Regolamenti (Sent. n. 183 del 1973 – conosciuta come Sentenza Frontini). Forse toccata da un sussulto di indipendenza, nel 1975 la nostra Corte Costituzionale (con Sentenza n. 232/1975) enuncia il principio che, affinché potesse essere disapplicata, la norma nazionale doveva essere abrogata o dichiarata costituzionalmente illegittima dall’organo costituzionale competente, lasciando in tal modo allo Stato (attraverso se stessa) un minimo di controllo sull’efficacia della normativa comunitaria nell’ordinamento giuridico nazionale. Ma nel 1978 interviene un’importante Sentenza della Corte di Giustizia europea (causa Simmenthal – Sent. 9 marzo 1978) che risolve ogni empasse in favore della legislazione comunitaria: “il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni del diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere od ottenere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”. Trascorrono circa sei anni durante i quali la Consulta mantiene sostanzialmente le proprie posizioni, ma nel 1984 il conflitto tra la giurisprudenza della Corte di Giustizia e quella della Corte Costituzionale viene definitivamente risolto da quest’ultima con l’emanazione della Sentenza n. 170 dell’8 giugno 1984 (causa Granital c. Ministero delle Finanze), con la quale la nostra Consulta si è allineata totalmente alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, stabilendo che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare addirittura anche la normativa nazionale posteriore confliggente con le disposizioni europee, superando in tal modo l’obbligo previsto nel 1975 di un preventivo giudizio di legittimità costituzionale. Successivamente, nel 1985 (Sent. del 23 aprile 1985 n. 113 – causa BECA S.p.A. e altri c. Amministrazione finanziaria dello Stato), la Consulta – oltre a ribadire quanto già affermato con Sentenza n. 170/1984 – chiarisce che la normativa europea entra e permane in vigore in Italia senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge ordinaria dello Stato, ogni qualvolta la normativa europea soddisfa il requisito dell’immediata applicabilità, quindi i Regolamenti UE e – per espressa previsione – le statuizioni risultanti dalle Sentenze interpretative della Corte di Giustizia.

Tuttavia, l’applicazione e l’efficacia diretta delle norme del diritto europeo incontrano un limite invalicabile (quanto meno da un punto di vista formale) rappresentato dai Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dai diritti inalienabili della persona, infatti la stessa Corte Costituzionale – con Sentenza del 13 luglio 2007 n. 284 – afferma: “Ora, nel sistema dei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, quale risulta dalla giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi, in forza dell’art. 11 della Costituzione, soprattutto a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, le norme comunitarie provviste di efficacia diretta precludono al giudice comune l’applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno, quando egli non abbia dubbi – come si è verificato nella specie – in ordine all’esistenza del conflitto. La non applicazione deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite, sindacabile unicamente da questa Corte, del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona”. A tal proposito, Luciano Barra Caracciolo sostiene che tra i limiti che incontra la prevalenza del diritto europeo rispetto al diritto interno, anche in relazione all’interpretazione dell’art. 11 Cost., non vi sono solo quelli di parità con gli altri Stati o di promozione della pace e della giustizia fra le Nazioni, ma anche quello sancito dall’art. 139 Cost. (la forma repubblicana, intesa nella sua accezione più vasta) e quello del rispetto dei Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona. Il novero di questi limiti, inoltre, non si ferma ai diritti inalienabili della persona, ma si estende – come si è visto –, oltre che ai Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale, anche alle disposizioni di cui alla Parte I della Costituzione, le quali rappresentano (queste ultime) la proiezione programmatica dei Principi Fondamentali[1].

Sempre in merito ai rapporti tra ordinamento costituzionale italiano e prevalenza del diritto comunitario, Barra Caracciolo riporta un’illuminante argomentazione di uno dei più grandi giuristi italiani del XX Secolo, il calabrese Costantino Mortati: “Passando all’esame dei limiti, è da ritenere che essi debbano ritrovarsi in tutti i principi fondamentali, sia organizzativi che materiali, o scritti o impliciti, della Costituzione: sicché la sottrazione dell’esercizio di alcune competenze costituzionalmente spettanti al Parlamento, al Governo, alla giurisdizione,…dev’essere tale da non indurre alterazioni del nostro Stato come Stato di diritto democratico e sociale”, il che renderebbe fortemente dubbia – scrive Barra Caracciolo – la stessa ratificabilità del Trattato di Maastricht e poi di Lisbona[2].

Tutto ciò premesso, chiarita la subordinazione gerarchica del diritto europeo ai Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale, alla Parte I della Costituzione e alla forma repubblicana (dove per “forma repubblicana” non si intende solo la forma di Stato opposta alla monarchia, ma anche quell’ampio spazio creativo del concetto di Repubblica necessariamente assunto come inscindibile da quello di democrazia[3] e di uguaglianza sostanziale), “non mi spiego” come sia stato possibile che si siano poste le basi per il superamento della legislazione nazionale a vantaggio di una legislazione sovranazionale adottata (secondo quanto previsto dai Trattati, quindi dal diritto europeo originario) attraverso meccanismi meno democratici e meno garantisti di quelli dettati dalla nostra Carta Costituzionale, cioè quelli sanciti nella Parte II. La nostra Costituzione, tutta, rappresenta la madre delle Fonti del diritto dell’ordinamento giuridico italiano, quindi è la Carta fondamentale dello Stato alla cui difesa deve provvedere (da un punto di vista giuridico) la Corte Costituzionale. Pertanto, considerato che la Consulta ha la funzione di sindacare sulla conformità delle leggi alla Costituzione, si può affermare che essa non è stata sufficientemente “vigile” nei confronti del diritto europeo originario (e, nello specifico, nei confronti delle leggi nazionali di autorizzazione alla ratifica dei Trattati), il quale, nonostante sia anch’esso posto nella scala gerarchica delle Fonti del diritto su un livello inferiore rispetto alla Costituzione, ha sostanzialmente sostituito le norme costituzionali che disciplinano la funzione legislativa e il procedimento di adozione delle leggi (contenute nella Parte II della nostra Costituzione) con norme meno garantiste che, anche da un punto di vista formale, tradiscono addirittura tutte quelle conquiste democratiche (costate milioni di morti) che sono l’essenza stessa dello Stato di Diritto[4]. Una su tutte quella dell’attribuzione della funzione legislativa unicamente ad un’assemblea eletta direttamente dal popolo, pilastro di civiltà costituzionale che l’Unione Europea (insieme ai Parlamenti nazionali che hanno approvato con larghe maggioranze le leggi di autorizzazione alla ratifica dei Trattati) ha palesemente tradito attribuendo la predetta funzione ad organismi sovranazionali non eletti e sostanzialmente immuni dai processi elettorali.

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Tra qualche giorno pubblicherò la QUARTA ED ULTIMA PARTE di questo speciale con la quale mi occuperò di spiegarvi, in breve, la manipolazione interpretativa dell’art.11 della Costituzione che i nostri governanti e parlamentari, a libro paga del capitale internazionale, hanno vigliaccamente e illegittimamente sfruttato quale base giuridica atta a giustificare le vili cessioni di sovranità in favore dell’Unione Europea!

QUARTA ED ULTIMA PARTE

 

“SULLA ILLEGITTIMITA’ DELLE CESSIONI DI SOVRANITA’:

LA GRAVE MANIPOLAZIONE INTERPRETATIVA

DELL’ART. 11 DELLA COSTITUZIONE”

 

La norma costituzionale sulla quale i nostri governati, parlamentari e giudici della Consulta hanno fatto leva per giustificare le irragionevoli ed illegittime cessioni di sovranità realizzatesi con la sottoscrizione – e successivamente con l’autorizzazione alla ratifica –  dei Trattati dell’UE, è l’art. 11:

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

Le cessioni di sovranità nazionale (fatte passare illegittimamente per limitazioni) in favore dell’Unione Europea troverebbero pertanto fondamento costituzionale (per quanto riguarda ovviamente la posizione del nostro Paese) in quest’ultimo frammento della disposizione di cui all’art. 11 Cost. (“consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”), ma, come il lettore potrà rendersi conto, tali limitazioni sono fortemente circoscritte, oltre a quanto predetto nella Parte Terza di questo speciale, a due rigidi requisiti: 1) le condizioni di parità con gli altri Stati; 2) la necessità di assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni.

In ordine alle condizioni di parità con gli altri Stati preferirei stendere un velo pietoso perché ogni commento sarebbe superfluo: il concetto di parità (che non può essere sganciato da quello di reciprocità) è stato del tutto svilito dall’acritica ed incondizionata adesione da parte del nostro Paese al “progetto europeo” e ai suoi Trattati, i quali, come ho già dimostrato nelle precedenti Parti di questo speciale, hanno volutamente esautorato la nostra Costituzione rendendola sostanzialmente inefficace al cospetto del diritto originario dell’Unione. Il tutto nel più assoluto silenzio. In merito, invece, alla necessità di assicurare pace e giustizia fra le Nazioni, è doveroso sottolineare che il progetto europeo ha garantito – per la prima volta nella Storia del Vecchio Continente – che in Europa non si spari più un solo colpo di fucile da circa settant’anni, tuttavia il mondo è “cambiato” e le nuove guerre si combattono “semplicemente” con le armi del debito, della speculazione finanziaria, della svalutazione del lavoro, della disoccupazione e dell’impoverimento generale! E i morti che ne derivano sono sullo stesso piano dei morti da bombardamento, anche se fanno meno clamore e sono maggiormente assorbibili dall’indignazione popolare!

La disposizione costituzionale di cui all’art. 11 – scritta quindi solo per favorire la nostra adesione ad organizzazioni internazionali che avessero la mera finalità di garantire la pace e la giustizia fra le Nazioni e non per altro – è stata successivamente utilizzata quale trampolino di lancio della Comunità/Unione Europea, infatti i nostri politici, super-tecnici e professoroni, un attimo dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo del comunismo sovietico, ne hanno completamente snaturato il significato sfruttandone in mala fede una ratio che essa non aveva e non ha.

Scrive Simonetta Gerli: «Il ricorso all’articolo 11 Cost. è frutto di una manipolazione interpretativa, come risulta chiaramente dai lavori preparatori dell’Assemblea Costituente […]. Le limitazioni di sovranità, cui l’articolo 11 si riferisce, sono da intendersi come relative ad operazioni di carattere militare in un contesto in cui l’Italia, da poco uscita dalla seconda guerra mondiale, rinunciava formalmente all’uso della forza bellica e desiderava inserirsi nei meccanismi di risoluzione delle controversie che l’ONU aveva predisposto, accettandone i condizionamenti […]. »[1].

Inoltre, come ho già evidenziato nella Parte Terza di questo speciale, i limiti di cui allo stesso art. 11 Cost. non possono circoscriversi unicamente alle condizioni di parità con gli altri Stati o all’assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni, ma sono da ampliare includendo anche i Principi Fondamentali sui quali si fonda la Repubblica (dall’art. 1 all’art. 12 Cost.), le disposizioni della Parte I della Costituzione (dall’art. 13 all’art. 54 Cost.) e la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quest’ultima nella sua accezione più vasta[2].

  • §§
  • SULLA DIFFERENZA TRA “LIMITAZIONI” E “CESSIONI” DELLA SOVRANITA’. ULTERIORE APPROFONDIMENTO SULLA MANIPOLAZIONE INTERPRETATIVA DELL’ART.11 DELLA COSTITUZIONE: l’art. 11 della Costituzione fa riferimento a “limitazioni” di sovranità e non, come qualcuno tenta in mala fede di propinare, a “cessioni”. La differenza, sia nella forma che nella sostanza, è abissale. Sull’illegittimità delle cessioni di sovranità e sulla leva dell’art. 11 Cost. se ne è occupato anche – in maniera molto più ampia e approfondita – l’amico e collega avv. Marco Mori. In merito alla distinzione tra cessioni e limitazioni di sovranità nazionale, Mori sostiene che la Repubblica acconsente soltanto alle limitazioni di sovranità, peraltro in condizioni di reciprocità con gli altri Stati ed unicamente finalizzate all’adesione nei confronti di un ordinamento che promuova la pace e la giustizia tra i popoli. Le cessioni, invece, costituiscono un atto illecito sanzionato addirittura penalmente (artt. 241 e ss. c.p.). La differenza tra “limitare” la sovranità e “cederla” risiede nella circostanza che “limitare” significa semplicemente contenere il potere di imperio proprio di uno Stato sovrano, mentre la “cessione” comporta la consegna di tale potere (che può risiedere solo in uno Stato sovrano) ad un terzo soggetto estraneo al nostro ordinamento costituzionale, e infatti l’Assemblea Costituente si guardò bene da scrivere “cessioni”. L’intero impianto europeo, retto unicamente sulla base di “cessioni” della sovranità nazionale, costituisce pertanto una palese e grave violazione dell’art. 11 Cost., infatti l’UE è il frutto di illegittime “cessioni” di sovranità ad un soggetto sovranazionale che la Costituzione repubblicana non riconosce quale idoneo ad esserne “fruitore”. L’argomentazione di Mori è quindi condivisibile, infatti leggendo i lavori preparatori ritengo che l’Assemblea Costituente, nello scrivere l’art. 11 della Costituzione, intendesse soltanto collocare il nostro Paese – appena uscito da una guerra sanguinosa – in quello spazio internazionale di non belligeranza (rifiuto formale del ricorso alle armi) inserendolo in quei meccanismi sovranazionali di risoluzione delle controversie che l’ONU aveva predisposto, accettandone le condizioni e – appunto – le limitazioni. Ciò detto, la costruzione dell’UE facendo leva sull’art. 11 della Costituzione costituisce una grave manipolazione interpretativa della Costituzione stessa!
  • SULLA LEVA RAPPRESENTATA DALL’ART. 10 DELLA COSTITUZIONE: una parte della dottrina, minoritaria per la verità, sostiene che le limitazioni di sovranità nazionale in favore della Comunità/Unione Europea troverebbero piattaforma costituzionale giustificativa anche in virtù della disposizione di cui all’art. 10 co. I Cost.: “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. Si tratta, tuttavia, di un orientamento non condivisibile, infatti il diritto originario dell’Unione Europea (rappresentato principalmente dai Trattati europei) non può inquadrarsi in quel complesso di norme – siano esse pattizie o consuetudinarie – del diritto internazionale generalmente riconosciute, fatta eccezione per quel che concerne il cosiddetto “diritto intermedio” (che si colloca tra il diritto originario e quello derivato dell’UE) rappresentato dal diritto internazionale consuetudinario (quando non derogato dai Trattati istitutivi dell’Unione) e pattizio (quando vincola l’Unione).
  • §§

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Lo speciale sui Trattati dell’UE, che ho curato in quattro Parti per Scenari Economici, finisce qui. Mi auguro di essere riuscito a fornirvi, seppur in linea generale, un quadro completo sul contenuto dei Trattati, sui loro gravi aspetti di criticità e sui reali obiettivi di questa Unione Europea, la quale – e non temo smentite – è stata costruita non per tutelare, ampliare e/o sviluppare la democrazia e i diritti fondamentali, bensì per salvaguardare a tutti i costi il capitale internazionale a scapito proprio di democrazia, diritti e lavoro!

 

Per quel che concerne l’indicazione delle Fonti, in merito a tutti e quattro i lavori dello speciale, è possibile prenderne visione all’interno del mio libro intitolato: “IL MALE ASSOLUTO. Dallo Stato di Diritto alla modernità Restauratrice. L’incompatibilità tra Costituzione e Trattati dell’UE. Aspetti di criticità dell’Euro”, Editrice GDS (prima edizione ottobre 2014; seconda edizione febbraio 2015).

Grazie a tutti per l’attenzione e l’interesse mostrati nei confronti di questo mio faticoso lavoro. Sarà utile a svegliare le coscienze? Forse no, ma tuttavia non è possibile – in ogni caso – far finta di niente di fronte al vile superamento, sia formale che sostanziale, della nostra bellissima Costituzione costata milioni di morti e vigliaccamente tradita sull’altare di una modernità Restauratrice!

Giuseppe PALMA

[1] L’intera esposizione inerente le procedure legislative dell’UE (sia quella ordinaria che quelle speciali) sono tratte, fatta eccezione per alcune parti, dal seguente volume: Simonetta Gerli (a cura di), “Compendio di Diritto dell’Unione Europea. Aspetti istituzionali e politiche dell’Unione”, Edizioni Giuridiche Simone, Napoli 2014.
[2] Sia il Consiglio dell’UE (che esercita la funzione legislativa), sia la Commissione europea (che esercita il potere esecutivo e l’iniziativa legislativa), sono entrambi organismi europei non eletti e composti da sconosciuti burocrati.
[3] Il motto di Jean Monnet ha avuto una fedele proiezione sino ai giorni nostri, infatti il nostro ex Presidente del Consiglio Mario Monti ha affermato che «non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi – e di gravi crisi – per fare passi avanti. I passi avanti dell’Europa sono, per definizione, cessioni di parti delle sovranità nazionali a un livello comunitario. È chiaro che il potere politico, ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale, possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle perché c’è una crisi in atto visibile e conclamata […]» (http://www.youtube.com/watch?v=tIUqi9yVV_A).

Finalmente emerge la verità su Srebrenica: i civili non furono uccisi dai Serbi ma dagli stessi musulmani bosniaci per ordine di Bill Clinton

Ho sempre rifuggito dal parlare della mia vita militare, vuoi perché superata dagli studi costituzionali, vuoi perché l’ho vissuta religiosamente, nel solco di quella di mio padre; anzi, direi, amorosamente verso la Patria, la mia gente e i miei compagni d’arme. Mi piace definirmi come fece il mio ex comandante e Capo di Stato Maggiore Stelio Nardini, presentandomi al DG dell’ENAV circa 25 anni fa: “Le presento il tenente colonnello Donnini, un ufficiale pericoloso perché studia sempre”. Così, quando chiesi di lasciare il servizio per dedicarmi interamente allo studio, fui inviato, invece come esperto, un anno e mezzo a Tirana, presso quel governo. Era il 1998 e da lì, assistetti alle manovre di sottobosco degli americani nei Balcani, in vista della nascita dell’euro. Appresi anche cosa sono i servizi informazioni dell’Est. Ero a Tirana da un giorno e andai da un barbiere. Dopo soli 5 minuti mi chiese se m’interessavano le armi antiche: “E tu che ne sai che m’interessano le armi antiche?”. In Albania si compravano bene gli orologi di marca; perché le armi antiche? Vivevo in un appartamento del centro, in affitto e cenavo spesso in uno dei tre ristoranti frequentati da occidentali. Fra questi, spesso sedevano al mio tavolo alcuni cittadini USA, esperti di agricoltura. C’erano circa 1500 americani in città, contro i quasi 300 italiani con vari incarichi. Quegli esperti di agricoltura, però, conoscevano a mena dito l’elicottero da combattimento Apache e le cisterne volanti. Su queste ho volato anch’io e sapevo, perciò, chi avevo di fronte. Li provocavo: “Tu sei agricoltore come me!” La qualità del mio impegno richiamò l’amicizia degli ufficiali albanesi, che cominciarono a considerarmi dei loro. Avevano ancora i turni di servizio dei nostri centri di comando e controllo: nomi,cognomi, grado e abitudini! Così, un sabato sera e, poi, altri ancora, mi invitarono vedere i carichi d’armi che partivano per il Kossovo, ancora in pace. Gli americani c’erano pure e non come spettatori. Il Kossovo, a quel tempo, chiedeva l’autonomia punto e basta. Una sera a cena, il ristorante era quasi vuoto. Chiesi: “E gli americani dove sono?” “Sono partiti per il Nord, hanno disdetto appartamenti e automobili e torneranno fra qualche mese”. Mentre i bombardieri della NATO, quindi tutti anche quelli italiani comandati da D’Alema spianavano i serbi, nacque l’UCK. Dopo pochi mesi, al mio rientro in Italia, fu giocoforza partecipare alla pianificazione della missione in Kossovo e lì fu un’altra storia: di ricordi orribili e di orgoglio italiano.
Avevo chiaro chi fossero gli attori e intuivo chi fossero state le vere vittime di quella guerra, come le avevano falsate i media, così come per tutte le guerre del secolo passato; ma, oggi, mi capita di leggere questo libro “Caos pianificato” di Ibran Mustafic che vi propongo nella sua recensione. Buona domenica.
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Dopo la confessione shock del politico bosniaco Ibran Mustafić, veterano di guerra, chi restituirà la dignità a Slobodan Milošević, ucciso in carcere, a Radovan Karadžić e al Generale Ratko Mladić, ancora oggi detenuti all’Aja?
Lo storico russo Boris Yousef, in un suo saggio del 1994, scrisse quella che ritengo una sacrosanta verità: «Le guerre sono un po’ come il raffreddore: devono fare il loro decorso naturale. Se un ammalato di raffreddore viene attorniato da più medici che gli propinano i farmaci più disparati, spesso contrastanti fra loro, la malattia, che si sarebbe naturalmente risolta nel giro di pochi giorni, rischia di protrarsi per settimane e di indebolire il paziente, di minarlo nel fisico, e di arrecare danni talvolta permanenti e imprevedibili».
Yousef scrisse questa osservazione nel Luglio del 1994, nel bel mezzo della guerra civile jugoslava, un anno prima della caduta della Repubblica Serba di Krajina e sedici mesi prima dei discussi accordi Dayton che scontentarono in Bosnia tutte le parti in campo, imponendo una situazione di stallo potenzialmente esplosiva. E ritengo che tale osservazione si adatti a pennello al conflitto jugoslavo. Un lungo e sanguinoso conflitto che, formalmente iniziato nel 1991, con la secessione dalla Federazione delle repubbliche di Slovenia e Croazia, era stato già da tempo preparato e pianificato da alcune potenze occidentali (con in testa l’Austria e la Germania), da diversi servizi segreti, sempre occidentali, da gruppi occulti di potere sovranazionali e transnazionali (Bilderberg, Trilaterale, Pinay, Ert Europe, etc.) e, per certi versi, anche dal Vaticano.
La Jugoslavija, forte potenza economica e militare, da decenni alla guida del movimento dei Paesi non Allineati, dopo la morte del Maresciallo Tito, avvenuta nel 1980, era divenuta scomoda e ingombrante e, di conseguenza, l’obiettivo geo-strategico primario di una serie di avvoltoi che miravano a distruggerla, a smembrarla e a spartirsi le sue spoglie.
Si assistette così ad una progressiva destabilizzazione del Paese, avviata già nel biennio 1986-87, destabilizzazione alla quale si oppose con forza soltanto Slobodan Milošević, divenuto Presidente della Repubblica Socialista di Serbia, e che toccò il culmine con la creazione in Croazia, nel Maggio del 1989, dell’Unione Democratica Croata (Hrvatska Demokratska Zajednica o HDZ), partito anti-comunista di centro-destra che a tratti riprendeva le idee scioviniste degli Ustascia di Ante Pavelić, guidato dal controverso ex Generale di Tito Franjo Tuđman.
Sarebbe lungo in questa sede ripercorrere tutte le tappe che portarono al precipitare degli eventi, alla necessità degli interventi della Jugoslosvenska Narodna Armija dapprima in Slovenia e poi in Croazia, alla definitiva scissione dalla Federazione delle due repubbliche ribelli e all’allargamento del conflitto nella vicina Bosnia. Si tratta di eventi sui quali esiste moltissima documentazione, la maggior parte della quale risulta però essere fortemente viziata da interpretazioni personali e di parte degli storici o volutamente travisata da giornalisti asserviti alle lobby di potere mediatico-economico europee ed americane. Giornalisti che della Jugoslavija e della sua storia ritengo che non abbiano mai capito niente.
Come ho scritto poc’anzi, ritengo che la saggia affermazione di Boris Yousef si adatti molto bene al conflitto civile jugoslavo. A prescindere dal fatto che esso è stato generato da palesi ingerenze esterne, ritengo che sarebbe potuto terminare ‘naturalmente’ manu militari nel giro di pochi mesi, senza le continue ingerenze, le pressioni e le intromissioni della sedicente ‘Comunità Internazionale’, delle Nazioni Unite e di molteplici altre organizzazioni che agivano dietro le quinte (Fondo Monetario Internazionale, OSCE, UNHCR, Unione Europea e criminalità organizzata italiana e sud-americana). Sono state proprio queste ingerenze (i vari farmaci dagli effetti contrastanti citati nella metafora di Yousef) a prolungare il conflitto per anni, con la continua richiesta, dall’alto, di tregue impossibili e non risolutive, e con la pretesa di ridisegnare la cartina geografica dell’area sulla base delle convenienze economiche e non della realtà etnica e sociale del territorio.
Ma si tratta di una storia in buona parte ancora non scritta, perché sono state troppe le complicità di molti leader europei, complicità che si vuole continuare a nascondere, ad occultare. Ed è per questo che gli storici continuano ad ignorare che la Croazia di Tuđman costruì il suo esercito grazie al traffico internazionale di droga (tutte quelle navi che dal Sud America gettavano l’ancora nel porto di Zara, secondo voi cosa contenevano?). È per questo che continuano a non domandarsi per quale motivo tutto il contenuto dei magazzini militari della defunta Repubblica Democratica Tedesca siano prontamente finiti nelle mani di Zagabria.
Si tratta di vicende che conosco molto bene, perché ho trascorso nei Balcani buona parte degli anni ’90, prevalentemente a Belgrado e a Skopje. Parlo bene tutte le lingue dell’area, compresi i relativi dialetti, e ho avuto a lungo contatti con l’amministrazione di Slobodan Milošević, che ho avuto l’onore di incontrare in più di un’occasione. Sono stato, fra l’altro, l’unico esponente politico italiano ad essere presente ai suoi funerali, in una fredda giornata di Marzo del 2006.
Sono stato quindi un diretto testimone dei principali eventi che hanno segnato la storia del conflitto civile jugoslavo e degli sviluppi ad esso successivi. Ho visto con i miei occhi le decine di migliaia di profughi serbi costretti a lasciare Knin e le altre località della Srpska Republika Krajina, sotto la spinta dell’occupazione croata delle loro case, avvenuta con l’appoggio dell’esercito americano.

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Ho seguito da vicino tutte le tappe dello scontro in Bosnia, i disordini nel Kosovo, la galoppante inflazione a nove cifre che cambiava nel giro di poche ore il potere d’acquisto di una banconota. Ho vissuto il dramma, nel 1999, dei criminali bombardamenti della NATO su Belgrado e su altre città della Serbia. Ed è per questo che non ho mai creduto – a ragione – alle tante bugie che riportavano la stampa europea e quella italiana in primis. Bugie e disinformazioni dettate da quell’operazione di marketing pubblicitario (non saprei come altro definirla) pianificata sui tavoli di Washington e di Langley che impose a tutta l’opinione pubblica la favoletta dei Serbi ‘cattivi’ aguzzini di poveri e innocenti Croati, Albanesi e musulmani bosniaci. Favoletta che ha però incredibilmente funzionato per lunghissimo tempo, portando all’inevitabile criminalizzazione e demonizzazione di una delle parti in conflitto e tacendo sui crimini e sulle nefandezze delle altre.
La guerra, e a maggior ragione una guerra civile, non è ovviamente un pranzo di gala e non vi si distribuiscono caramelle e cotillon. In guerra si muore. In guerra si uccide o si viene uccisi. La guerra significa fame, sofferenza, freddo, fango, sudore, privazioni e sangue. Ed è fatta, necessariamente, anche di propaganda. Durante il lungo conflitto civile jugoslavo nessuno può negare che siano state commesse numerose atrocità, soprattutto dettate dal risveglio di un mai sopito odio etnico. Ma mai nessun conflitto, dal termine della Seconda Guerra Mondiale, ha visto un simile massiccio impiego di ‘false flag’, azioni pianificate ad arte, quasi sempre dall’intelligence, per scatenare le reazioni dell’avversario o per attribuirgli colpe non sue. Ho già spiegato il concetto di ‘false flag’ in numerosi miei articoli, denunciando l’escalation del loro impiego su tutti i più recenti teatri di guerra.
Fino ad oggi la più nota ‘false flag’ della guerra civile jugoslava era la tragica strage di civili al mercato di Sarajevo, quella che determinò l’intervento della NATO, che bombardò ripetutamente, per rappresaglia, le postazioni serbo-bosniache sulle colline della città. Venne poi appurato con assoluta certezza che fu lo stesso governo musulmano-bosniaco di Alija Izetbegović a uccidere decine di suoi cittadini in quel cannoneggiamento, per far ricadere poi la colpa sui Serbi.
E quella che io ho sempre ritenuto la più colossale ‘false flag’ del conflitto, ovvero il massacro di oltre mille civili musulmani avvenuto a Srebrenica, del quale fu incolpato l’esercito serbo-bosniaco comandato dal Generale Ratko Mladić, che da allora venne accusato di ‘crimi di guerra’ e braccato dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja fino al suo arresto, avvenuto il 26 Maggio 2011, si sta finalmente rivelando in tutta la sua realtà. In tutta la sua realtà, appunto, di ‘false flag’.
I giornali italiani, che all’epoca scrissero titoli a caratteri cubitali per dipingere come un ‘macellaio’ il Generale Mladić e come un folle criminale assetato di sangue il Presidente della Repubblica Serba di Bosnia Radovan Karadžić, anch’egli arrestato nel 2008 e sulla cui testa pendeva una taglia di 5 milioni di Dollari offerta dagli Stati Uniti per la sua cattura, hanno praticamente passato sotto silenzio una sconvolgente notizia. Una notizia a cui ha dato spazio nel nostro Paese soltanto il quotidiano Rinascita, diretto dall’amico Ugo Gaudenzi, e fa finalmente piena luce sui fatti di Srebrenica, stabilendo che la colpa non fu dei vituperati Serbi, ma dei musulmani bosniaci.
Ibran Mustafić, veterano di guerra e politico bosniaco-musulmano, probabilmente perché spinto dal rimorso o da una crisi di coscienza, ha rilasciato ai media una sconcertante confessione: almeno mille civili musulmano-bosniaci di Srebrenica vennero uccisi dai loro stessi connazionali, da quelle milizie che in teoria avrebbero dovuto assisterli e proteggerli, durante la fuga a Tuzla nel Luglio 1995, avvenuta in seguito all’occupazione serba della città. E apprendiamo che la loro sorte venne stabilita a tavolino dalle autorità musulmano-bosniache, che stesero delle vere e proprie liste di proscrizione di coloro a cui «doveva essere impedito, a qualsiasi costo, di raggiungere la libertà».
Come riporta Enrico Vigna su Rinascita, Ibran Mustafić ha pubblicato un libro, Caos pianificato, nel quale alcuni dei crimini commessi dai soldati dell’esercito musulmano della Bosnia-Erzegovina contro i Serbi sono per la prima volta ammessi e descritti, così come il continuo illegale rifornimento occidentale di armi ai separatisti musulmano-bosniaci, prima e durante la guerra, e – questo è molto significativo – anche durante il periodo in cui Srebrenica era una zona smilitarizzata sotto la protezione delle Nazioni Unite.
Mustafić racconta inoltre, con dovizia di particolari, dei conflitti tra musulmani e della dissolutezza generale dell’amministrazione di Srebrenica, governata dalla mafia, sotto il comandante militare bosniaco Naser Orić. A causa delle torture di comuni cittadini nel 1994, quando Orić e le autorità locali vendevano gli aiuti umanitari a prezzi esorbitanti invece di distribuirli alla popolazione, molti bosniaci fuggirono volontariamente dalla città. «Coloro che hanno cercato la salvezza in Serbia, sono riusciti ad arrivare alla loro destinazione finale, ma coloro che sono fuggiti in direzione di Tuzla ( governata dall’esercito musulmano) sono stati perseguitati o uccisi», svela Mustafić. E, ben prima del massacro dei civili musulmani di Srebrenica nel Luglio 1995, erano stati perpetrati da tempo crimini indiscriminati contro la popolazione serba della zona. Crimini che Mustafić descrive molto bene nel suo libro, essendone venuto a conoscenza già nel 1992, quando era fuggito da Sarajevo a Tuzla.
«Lì – egli scrive – il mio parente Mirsad Mustafić mi mostrò un elenco di soldati serbi prigionieri, che furono uccisi in un luogo chiamato Zalazje. Tra gli altri c’erano i nomi del suo compagno di scuola Branko Simić e di suo fratello Pero, dell’ex giudice Slobodan Ilić, dell’autista di Zvornik Mijo Rakić, dell’infermiera Rada Milanović. Inoltre, nelle battaglie intorno ed a Srebrenica, durante la guerra, ci sono stati più di 3.200 Serbi di questo e dei comuni limitrofi uccisi».
Mustafić ci riferisce a riguardo una terribile confessione del famigerato Naser Orić, confessione che non mi sento qui di riportare per l’inaudita credezza con cui questo criminale di guerra descrive i barbari omicidi commessi con le sue mani su uomini e donne che hanno avuto la sventura di trovarsi alla sua mercé. Ma voglio citare il racconto di uno zio di Mustafić, anch’esso riportato nel libro: «Naser venne e mi disse di prepararmi subito e di andare con la Zastava vicino alla prigione di Srebrenica. Mi vestii e uscii subito. Quando arrivai alla prigione, loro presero tutti quelli catturati precedentemente a Zalazje e mi ordinarono di ritrasportarli lì. Quando siamo arrivati alla discarica, mi hanno ordinato di fermarmi e parcheggiare il camion. Mi allontanai a una certa distanza, ma quando ho visto la loro furia ed il massacro è iniziato, mi sono sentito male, ero pallido come un cencio. Quando Zulfo Tursunović ha dilaniato il petto dell’infermiera Rada Milanovic con un coltello, chiedendo falsamente dove fosse la radio, non ho avuto il coraggio di guardare. Ho camminato dalla discarica e sono arrivato a Srebrenica. Loro presero un camion, e io andai a casa a Potocari. L’intera pista era inondata di sangue».
Da quanto ci racconta Mustafić, gli elenchi dei ‘bosniaci non affidabili’ erano ben noti già da allora alla leadership musulmana ed al Presidente Alija Izetbegović, e l’esistenza di questi elenchi è stata confermata da decine di persone. «Almeno dieci volte ho sentito l’ex capo della polizia Meholjić menzionare le liste. Tuttavia, non sarei sorpreso se decidesse di negarlo», dice Mustafić, che è anche un membro di lunga data del comitato organizzatore per gli eventi di Srebrenica. Secondo Mustafić, l’elenco venne redatto dalla mafia di Srebrenica, che comprendeva la leadership politica e militare della città sin dal 1993. I ‘padroni della vita e della morte nella zona’, come lui li definisce nel suo libro. E, senza esitazione, sostiene: «Se fossi io a dover giudicare Naser Orić, assassino conclamato di più di 3.000 Serbi nella zona di Srebrenica (clamorosamente assolto dal Tribunale Internazionale dell’Aja!) lo condannerei a venti anni per i crimini che ha commesso contro i Serbi; per i crimini commessi contro i suoi connazionali lo condannerei a minimo 200.000 anni di carcere. Lui è il maggiore responsabile per Srebrenica, la più grande macchia nella storia dell’umanità».
Ma l’aspetto più inquietante ed eclatante delle rivelazioni di Mustafić è l’ammissione che il genocidio di Srebrenica è stato concordato tra la comunità internazionale e Alija Izetbegović , e in particolare tra Izetbegović e il presidente USA Bill Clinton, per far ricadere la colpa sui Serbi, come Ibran Mustafić afferma con totale convinzione.

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«Per i crimini commessi a Srebrenica, Izetbegović e Bill Clinton sono direttamente responsabili. E, per quanto mi riguarda, il loro accordo è stato il crimine più grande di tutti, la causa di quello che è successo nel Luglio 1995. Il momento in cui Bil Clinton entrò nel Memoriale di Srebrenica è stato il momento in cui il cattivo torna sulla scena del crimine», ha detto Mustafić. Lo stesso Bill Clinton, aggiungo io, che superò poi se stesso nel 1999, con la creazione ad arte delle false fosse comuni nel Kosovo (altro clamoroso esempio di ‘false flag’), nelle quali i miliziani albanesi dell’UCK gettavano i loro stessi caduti in combattimento e perfino le salme dei defunti appositamente riesumate dai cimiteri, per incolpare mediaticamente, di fronte a tutto il mondo, l’esercito di Belgrado e poter dare il via a due mesi di bombardamenti sulla Serbia.
Come sottolinea sempre Mustafić, riguardo a Srebrenica ci sono inoltre state grandi mistificazioni sui nomi e sul numero reale delle vittime. Molte vittime delle milizie musulmane non sono state inserite in questo elenco, mentre vi sono stati inseriti ad arte cittadini di Srebrenica da tempo emigrati e morti all’estero. E un discorso simile riguarda le persone torturate o che si sono dichiarate tali. «Molti bosniaci musulmani – sostiene Mustafić – hanno deciso di dichiararsi vittime perché non avevano alcun mezzo di sostentamento ed erano senza lavoro, così hanno usato l’occasione. Un’altra cosa che non torna è che tra il 1993 e il 1995 Srebrenica era una zona smilitarizzata. Come mai improvvisamente abbiamo così tanti invalidi di guerra di Srebrenica?».
Egli ritiene che sarà molto difficile determinare il numero esatto di morti e dei dispersi di Srebrenica. «È molto difficile – sostiene nel suo libro – perché i fatti di Srebrenica sono stati per troppo tempo oggetto di mistificazioni, e il burattinaio capo di esse è stato Amor Masović, che con la fortuna fatta sopra il palcoscenico di Srebrenica potrebbe vivere allegramente per i prossimi cinquecento anni! Tuttavia, ci sono stati alcuni membri dell’entourage di Izetbegović che, a partire dall’estate del 1992, hanno lavorato per realizzare il progetto di rendere i musulmani bosniaci le permanenti ed esclusive vittime della guerra».
Il massacro di Srebrenica servì come pretesto a Bill Clinton per scatenare, dal 30 Agosto al 20 Settembre del 1995, la famigerata Operazione Deliberate Force, una campagna di bombardamento intensivo, con l’uso di micidiali bombe all’uranio impoverito, con la quale le forze della NATO distrussero il comando dell’esercito serbo-bosniaco, devastandone irrimediabilmente i sistemi di controllo del territorio. Operazione che spinse le forze croate e musulmano-bosniache ad avanzare in buona parte delle aree controllate dai Serbi, offensiva che si arrestò soltanto alle porte della capitale serbo-bosnica Banja Luka e che costrinse i Serbi ad un cessate il fuoco e all’accettazione degli accordi di Dayton, che determinarono una spartizione della Bosnia fra le due parti (la croato-musulmana e la serba). Spartizione che penalizzò fortemente la Republika Srpska, che venne privata di buona parte dei territori faticosamente conquistati in tre anni di duri combattimenti.
Alija Izetbegović, fautore del distacco della Bosnia-Erzegovina dalla federazione jugoslava nel 1992, dopo un referendum fortemente contestato e boicottato dai cittadini di etnia serba (oltre il 30% della popolazione) è rimasto in carica come Presidente dell’autoproclamato nuovo Stato fino al 14 Marzo 1996, divenendo in seguito membro della Presidenza collegiale dello Stato federale imposto dagli accordi di Dayton fino al 5 Ottobre del 2000, quando venne sostituito da Sulejman Tihić. È morto nel suo letto a Sarajevo il 19 Ottobre 2003 e non ha mai pagato per i suoi crimini. Ha anzi ricevuto prestigiosi premi e riconoscimenti internazionali, fra cui le massime onorificenze della Croazia (nel 1995) e della Turchia (nel 1997). E ha saputo bene far dimenticare agli occhi della ‘comunità internazionale’ la sua natura di musulmano fanatico e fondamentalista ed i suoi numerosi arresti e le sue lunghe detenzioni, all’epoca di Tito, (in particolare dal 1946 al 1949 e dal 1983 al 1988) per attività sovversive e ostili allo Stato.
Nella sua celebre Dichiarazione Islamica, pubblicata nel 1970, dichiarava: «non ci sarà mai pace né coesistenza tra la fede islamica e le istituzioni politiche e sociali non islamiche» e che «il movimentoislamico può e deve impadronirsi del potere politico perché è moralmente e numericamente così forte che può non solo distruggere il potere non islamico esistente, ma anche crearne uno nuovo islamico». E ha mantenuto fede a queste sue promesse, precipitando la tradizionalmente laica Bosnia-Erzegovina, luogo dove storicamente hanno sempre convissuto in pace diverse culture e diverse religioni, in una satrapia fondamentalista, con l’appoggio ed i finanziamenti dell’Arabia Saudita e di altri stati del Golfo e con l’importazione di migliaia di mujahiddin provenienti da varie zone del Medio Oriente, che seminarono in Bosnia il terrore e si resero responsabili di immani massacri.
Slobodan Milošević, accusato di ‘crimini contro l’umanità’ (accuse principalmente fondate su una sua presunta regia del massacro di Srebrenica), nonostante abbia sempre proclamato la sua innocenza, venne arrestato e condotto in carcere all’Aja. Essendo un valente avvocato, scelse di difendersi da solo di fronte alle accuse del Tribunale Penale Internazionale, ma morì in circostanze mai chiarite nella sua cella l’11 Marzo 2006. Sono insistenti le voci secondo cui sarebbe stato avvelenato perché ritenuto ormai prossimo a vincere il processo e a scagionarsi da ogni accusa, e perché molti leader europei temevano il terremoto che avrebbero scatenato le sue dichiarazioni.
Radovan Karadžić, l’ex Presidente della Repubblica Serba di Bosnia, e il Generale Ratko Mladić, comandante in capo dell’esercito bosniaco, sono stati anch’essi arrestati e si trovano in cella all’Aja. Sul loro capo pendono le stesse accuse di ‘crimini contro l’umanità’, fondate essenzialmente sul massacro di Srebrenica.
Adesso che su Srebrenica è finalmente venuta fuori la verità, dovrebbe essere facile per loro arrivare ad un’assoluzione, a meno che qualcuno non abbia deciso che debbano fare la fine di Milošević.
Ma chi restituirà a loro e al defunto Presidente Jugoslavo la dignità e l’onorabilità? Tutte le grandi potenze occidentali, dagli Stati Uniti all’Unione Europea, dovrebbero ammettere di aver sbagliato, ma dubito sinceramente che lo faranno.

BRICS: PARTE FORMALMENTE LA SFIDA AL DOMINIO DEL DOLLARO

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Nasce con il nuovo Vertice dei 5, la Banca dei Brics, il nuovo soggetto geopolitico che si impone al soggetto globalizzato

Pochi mesi dopo essere stato eletto presidente del Brasile, Luís Inácio Lula da Silva rivolse al suo ministro degli Esteri, Celso Amorim, la seguente domanda:” …Se l’economia è globalizzata perché per comprare dall’India dobbiamo fare prima la conversione della nostra moneta (Real) in dollari statunitense, per poi cambiare l’equivalente in moneta indiana (Rupia)? Non sarebbe più vantaggioso effettuare direttamente il cambio tra Real e Rupia?”
La risposta venne sei anni dopo, nel 2009, dopo aver maturato nel 2008, la dolorosa esperienza della crisi del sistema finanziario mondiale, impostato sulla centralità del dollaro e le arroganti imposizione neoliberiste del Fondo Monetario Internazionale e il Banco Mondiale (1).

Infatti, il 16 giugno del 2009 si riunivano a Ekaterinburg (Russia) i presidenti di Brasile, Russia, Cina e India, rispettivamente, Luiz Inácio Lula da Silva, Dimitry Medvedev, Hu Jintao e Manmohan Singh. L’anno seguente (15/16/aprile del 2010) Jacob Zuma, rappresentando il Sud Africa partecipava nella riunione di Brasilia, in cui nascevano i BRICS (Brasile – Russia – India – Cina – Sudafrica) con l’obbiettivo di “…sviluppare gli strumenti per la creazione di un nuovo ordine mondiale che superasse il centralismo della dollarizzazione, promovendo la democrazia e l’eguaglianza nelle relazioni internazionali…”.

Finalmente, il 15 luglio del 2014, il mondo si rendeva conto del significato geopolitico dei BRICS quando i cinque paesi realizzavano il sesto Summit nella città brasiliana di Fortaleza discutendo: a) la promozione della crescita sostentabile, b) le perspettive per l’integrazione, c) lo sviluppo del commercio e del flusso di investimenti Sud-Sud. Argomenti che furono messi in risalto dal presidente della delegazione cinese, Ma Zehua, che, in quell’occasione pronunciò un importante monito:” …Non dobbiamo permettere che barriere e ostacoli di vario tipo intralcino i nostri programmi privandoci della nostra visione per il futuro…”.

Per questo, nella riunione di Fortaleza fu deciso che i BRICS si impegnavano a creare due istituti finanziari: La Nuova Banca per lo Sviluppo (2) con un capitale di 50 miliardi di dollari e un Fondo di Emergenza (3) con un capitale di 100 miliardi di dollari da usare per superare i possibili effetti negativi provocati dalle crisi finanziarie. In proposito la presidente del Brasile, Dilma Roussef, sottolineava:” …La nuova Banca è una alternativa per quanto riguarda le necessità di finanziamento in favore dei paesi in via di sviluppo che compenserà l’insufficienza del credito delle principali istituzioni finanziarie internazionali. In questo modo stiamo avanzando in direzione di una nuova architettura mondiale…”.

Il motivo principale che spinse i BRICS a decidere, nel 2014, per la rapida creazione di questa Nuova Banca per lo Sviluppo fu la necessità di avere a disposizione una struttura protettiva, contrapposta alle politiche economiche e finanziarie dei paesi europei e degli Stati Uniti e quindi capace di promuovere operazioni finanziarie in favore dei paesi emergenti e in via di sviluppo. Per questo Vladimir Putin, presidente della Russia faceva notare che:” …Questa istituzione finanziaria sarà un mezzo estremamente poderoso per prevenire possibili difficoltà economiche. Nello stesso tempo contribuirà a definire i fondamenti per attivare i grandi cambiamenti economici a livello mondiale…”.

Per capire meglio la logica dei BRICS e, quindi la dinamica della Nuova Banca per lo Sviluppo è necessario ricordare che, nel 2013, il volume degli investimenti mondiali ha toccato i 1,5 trilioni di dollari (nel 2010 si arrivò a 2 trilioni), di cui 617 miliardi di dollari destinati a progetti in favore dei paesi in via di sviluppo. Di questi il 50% furono finanziati da Cina, India, Brasile e Russia. In secondo luogo, i BRICS, oggi, rappresentano 40% della popolazione mondiale e circa il 25% del PIL mondiale, le sue economie sono caratterizzate da una grande capacità produttiva nei settori primario, estrattivo e energetico, oltre ad essere grandi esportatori di prodotti manifatturati e di servizi.

Un contesto che ha permesso definire i BRICS “il nuovo soggetto politico del secolo XXI” non solo per il suo potenziale e la crescita economica, ma, soprattutto, per l’adozione di una agenda politica che nell’ambito internazionale si contrappone nettamente a quella del blocco storico del G6 (Stati Uniti, Canada, Inghilterra, Francia, Germania e Giappone).

L’inaugurazione del NBS

Il primo luglio il Parlamento cinese ha approvato la creazione del Nuovo Banco per lo Sviluppo, che sarà inaugurata oggi a Mosca. Molto probabilmente nella prima settimana di agosto dovrebbe entrare in funzionamento anche il Fondo di Riserva dei BRICS, reso operativo con un capitale di 100 miliardi di dollari.

Commentando i risultati ottenuti, l’Itamaraty brasiliano (Ministero degli Esteri) diramava una nota in cui si specificava che:” …La Nuova Banca per lo Sviluppo sarà lo strumento adatto a promuovere la stabilità finanziaria internazionale, dal momento che il suo obbiettivo sarà quello di fornire risorse finanziarie a quei paesi membri dei BRICS che soffrono pressioni nella rispettiva bilancia dei pagamenti. Sarà quindi un meccanismo che rinforzerà la fiducia degli agenti economici e finanziari mondiali e ridurrà il rischio di contagio in occasione di eventuali momenti di crisi che potranno toccare i settori economici dei BRICS…”

INFORMAZIONE LIBERA.- L’Antidiplomatico –

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Di un possibile nuovo mondo non più “dollarizzato” discuterà il Vice-prsidente della Commissione Affari esteri della Duma russa, Andrey Klimov con rappresentanti governativi di Cina, Sud Africa e Brasile in un convegno dopodomani 10 luglio alla Camera dei Deputati.

IL REFERENDUM GRECO HA SMASCHERATO I FALSI NEMICI DELL’AUSTERITA’ (di Giuseppe PALMA)

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Domenica 5 luglio 2015. I cittadini greci, chiamati a pronunciarsi se accettare o meno le condizioni capestro imposte dalle Istituzioni creditrici (UE, BCE e FMI), hanno deciso!

Questi i risultati del referendum popolare:

Votanti:          65% (quorum richiesto 40%)

OXI (NO)       61,31%

NAI (SI)         38,69%

IL POPOLO GRECO HA DETTO NO ALL’EUROPA DELL’AUSTERITA’!

Durante la settimana che ha preceduto la consultazione referendaria il Vero Potere ha messo in campo una macchina propagandistica che non si era mai vista prima: ricatti, minacce, cessazione di qualsiasi aiuto finanziario (con conseguente e obbligata chiusura delle banche e controllo sui capitali); addirittura una multinazionale telefonica è arrivata a regalare minuti gratis a coloro che avessero inviato messaggini con su scritto “NAI” (SI). Le hanno pensate proprio tutte per calpestare l’autodeterminazione di un popolo!

Ma alla fine ha vinto democrazia e, ancor prima, la dignità!

Gli eredi di Leonida hanno sconfitto il nuovo Serse! Un popolo di appena undici milioni di abitanti ha scosso il potentissimo impero euro-finanziario retto da tecnocrati e “politici” (si fa per dire!) a libro paga del capitale internazionale!

Benché non condivida nulla della politica di Tsipras (è un radical chic figlio della peggiore sinistra europea), devo riconoscergli un grande coraggio politico ed un immenso senso di rispetto verso il suo popolo!

In tutto questo, di fronte allo scatto di dignità del popolo greco, il Governo italiano (quindi il Partito Democratico) ha volutamente perso una grande opportunità politica!

Ma partiamo dall’inizio. Ricordate il Matteo Renzi di un anno fa? Voleva andare in Europa a battere i pugni sul tavolo! E’ tornato col guinzaglio al collo e la lingua di fuori, fedele servitore della tecnocrazia di Bruxelles! L’ex sindaco di Firenze aveva promesso che durante il semestre di presidenza italiana (del Consiglio dell’UE) avrebbe trasformato l’Europa proponendo addirittura una concreta revisione dei Trattati dell’Unione. Il semestre europeo targato Italia è finito e nulla è cambiato!

Alla seconda occasione presentatasi – cioè quella del referendum greco – mi aspettavo che il nostro Presidente del Consiglio, che twitta sempre #Italiacambiaverso, prendesse una netta posizione in favore della consultazione popolare e soprattutto in favore del NO alla cappio-proposta dei creditori, anche alla luce del fatto che sia lui che il suo partito si lavano continuamente la bocca di voler porre fine all’austerità!

Macché, neanche questo! Non solo si è schierato – sin da subito – contro la decisione del premier greco di indire il referendum, ma quattro giorni prima del voto si è recato in Germania accucciandosi al cospetto del bastone della sua padrona, confermando – sotto gli occhi vigili del Quarto Reich – che lui non condivide la scelta referendaria di Tsipras e che l’Italia (allo scopo di salvare l’Euro, aggiungo io) ha creato un sistema-lavoro più flessibile di quello tedesco, compiacendo l’illustre dominatrice del Vecchio Continente!

Ricordate quando scrivevo che l’Euro può reggersi (e quindi può continuare ad esistere) solo se si svaluta il lavoro? Non lo ricordate? Male! Rileggete questo mio articolo: http://scenarieconomici.it/il-crimine-della-svalutazione-del-lavoro-allo-scopo-di-salvare-leuro-di-giuseppe-palma/

E dire che alle elezioni europee del 2014 gli italiani avevano ampiamente creduto in Renzi quando diceva di voler cambiare l’Europa! Oggi, dopo 14 mesi di disastri, abbiamo compreso che anche lui – come i suoi predecessori Monti e Letta – è schierato dalla parte del capitale internazionale, quindi contro le Costituzioni nazionali portatrici di valori costati milioni di morti quali la democrazia e i diritti fondamentali.

Medesimo atteggiamento nei confronti del referendum greco, ma più duro e sferzante, lo ha assunto “un tale” Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo che alle elezioni del 2014 si era presentato quale leader del PSE candidato alla presidenza della Commissione europea! Tanto per intenderci è quello che si offese quando Berlusconi, nel lontano 2003, gli diede del Kapò! Poverino, se la prese così tanto…

Durante la campagna elettorale di un anno fa il signor Schulz prometteva la fine dell’austerità a vantaggio di politiche economiche espansive, perché per lui – a parole – l’Europa deve essere quella del lavoro, della democrazia e della solidarietà! Bene, il referendum greco ha smascherato anche lui: non solo ha dichiarato la sua netta contrarietà alla decisione di Tsipras di indire un referendum popolare sulla proposta lacrime e sangue dei creditori, ma ha anche parteggiato per il SI, “minacciando” che una vittoria del NO avrebbe determinato la chiusura di ogni negoziato con la Grecia.

Ma come sono democratici questi del PSE! Ma come sono vicini ai lavoratori e ai loro diritti!

Bravo Tsipras! Non condivido nulla del Tuo pensiero politico, ma col referendum di domenica (per il quale ho pubblicamente parteggiato in favore del NO) hai messo a nudo sia Renzi che Schulz, i due rampolli euro-social-democratici del neo-liberismo finanziario!

Tutti bravi a parlare questi falsi uomini di centro-sinistra, ma quando si fa sul serio li trovi tutti in trincea a difesa del capitale internazionale a scapito della democrazia, del lavoro e dei diritti dell’uomo!

Nutro la speranza che il NO del popolo greco segni l’inizio della deflagrazione di questa UE e di questo Euro, ma sono ben cosciente che l’apparato eurocratico è talmente forte che farà di tutto per esautorare – ancora una volta – le scelte frutto della sovranità popolare! “Se Tsipras non trova subito un accordo con le Istituzioni creditrici, in Grecia non ci sono più euro per pagare stipendi e pensioni” gridano allarmati giornalai e professoroni! Pazienza, sarei tentato a rispondere! Vorrà dire che la Grecia si troverà “costretta” a tornare alla sovranità monetaria e ad emettere tutta la moneta che vuole (attribuendole valore intrinseco) senza dover sottostare ai diktat dei suoi strozzo-creditori (che sono anche i nostri) che subordinano la sopravvivenza di un popolo alla rigida sostenibilità finanziaria dei conti pubblici… il tutto per tutelare il capitale internazionale dal quale trovano l’unica sorgente del loro benessere!

In Grecia nacque la democrazia!

E proprio la Grecia, col referendum di domenica, ha insegnato al mondo intero che la sovranità popolare non può cedere – neppure di fronte alla mancanza di moneta – al ricatto del denaro e degli strozzini!

Giuseppe PALMA

Aggiungo che il contrasto aspro verso il referendum greco ha smascherato anche i novelli, ma falsi, rinnovatori della politica del centro-destra italiano: una requiem per il futuro politico di Corrado Passera e di Flavio Tosi.

Il nostro maestro e professore Luciano Barra Caracciolo ha puntualizzato subito così lo stato d’animo di quanti, come noi, hanno sperato e credono nell’Europa degli europei e hanno voluto vedere un significato di democrazia ritrovata nella vicenda greca e mi ha detto: “La voce dei greci? Siamo realistici e rifugiamo dalla emotività retorica del giorno”. Certo che lo siamo; lo impone la farsa del definire scelta sovrana il referendum fra il pagamento immediato di un debito insostenibile e il pagamento dilazionato, ma pur sempre insostenibile di quel debito; ma lo chiede anche l’aver visto la questione finanziaria seppellire immediatamente l’ingenua speranza di una U.E. democratica. C’è, comunque, un altra vicenda che fa da corollario alla questione e sono le dimissioni del ministro delle Finanze Varoufakis, richieste e ottenute dall’eurogruppo. Leggiamo da Dario Tamburrano:

“Altro che l’incompatibilità di carattere con il resto dell’Eurogruppo. In Grecia, il ministro delle Finanze Varoufakis sarebbe stato silurato perché era intenzionato a introdurre una valuta parallela all’euro. L’ipotesi viene dal Wall Street Journal: si trova in un articolo riservato ai soli abbonati. Bisogna ricostruirne il contenuto mediante altre testate on line.

Varoufakis ha parlato dell’introduzione di una valuta parallela all’euro durante un’intervista esclusiva rilasciata domenica sera al quotidiano Telegraph: era già chiara la valanga di No al referendum relativo all’adesione della Grecia ad un nuovo programma di austerity:

“If necessary, we will issue parallel liquidity and California-style IOU’s, in an electronic form. We should have done it a week ago”

“Se necessario, emetteremo liquidità parallela [agli euro che la BCE lascia affluire solo con contagocce] e titoli di credito come quelli della California in formato elettronico. Avremmo dovuto farlo una settimana fa”. Nel luglio 2009 la California, che aveva le casse prosciugate in seguito alla crisi finanziaria esplosa l’anno prima, per pagare gli appaltatori cominciò ad emettere cambiali: gli IOU, appunto. L’acronimo sta per “I owe you”: qualcosa come “Io ti devo”, “Io ti pagherò”.

Domenica sera Varoufakis parlava al Telegraph come un ministro dotato di poteri e libertà di manovra. Lunedì, di buon mattino, ha annunciato le dimissioni sul suo blog dicendo che voleva favorire il negoziato fra la Grecia e i creditori, il cui odio nei suoi confronti era per lui motivo di orgoglio.

L’articolo riservato agli abbonati del Wall Street Journal sostiene che solo la grande popolarità di Varoufakis aveva trattenuto Tsipras dal pretendere già prima le sue dimissioni: ma con le dichiarazioni sulla valuta parallela il primo ministro si é veramente seccato e ha reagito. Così almeno riferisce Business Insider.

Questa prospettiva sottintende una frattura all’interno di Syriza fra falchi come Varoufakis e colombe come Tsipras, desiderose di rimanere nell’euro quasi ad ogni costo. Se Varoufakis nelle prossime settimane avrà in Grecia un nuovo incarico di rilievo, sarà la prova che il punto di vista del Wall Street Journal era sbagliato. O che la Grecia non ne può davvero più dell’eurozona, dei suoi ricatti e delle sue ripetute bugie.”

Il Parlamento Europeo chiamato a votare sul TTIP. Il sì o il no varranno come per il referendum greco.

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Il TTIP, il trattato di liberi scambio in corso di negoziazione segreta fra USA ed UE, é all’ordine del giorno dell’assemblea plenaria del Parlamento Europeo domani, martedì 7 luglio,  dopo che le due maggiori forze politiche –  Popolari (centrodestra) e Socialdemocratici (centrosinistra) – hanno raggiunto un compromesso sulla clausola ISDS. Viene ribattezzata attraverso un giro di parole ma resta intatta nella sostanza. La clausola ISDS (Investors State Dispute Settlement) é quella che consente alle multinazionali di far causa agli Stati quando si sentono lese nei loro interessi, ricorrendo ad un arbitrato privato anziché ai tribunali ordinari. Ma una parte dei Socialdemocratici (un terzo, si dice) é contrario ad includere la clausola ISDS nel TTIP, in qualsiasi modo essa venga chiamata o riverniciata; uno di loro, Sergio Cofferati, ha addirittura aggiunto il suo nome all’appello contro l’ISDS lanciato in vista del voto di Strasburgo da Tiziana Beghin (M5S) ed Eleonora Forenza (GUE, sinistra). Il sì o il no dell’assemblea plenaria al TTIP si giocano sul filo del rasoio.

Ripercorriamo la storia di questo trattato, prendendo spunto dalla nostra conferenza di un anno fa: Il Parlamento Europeo non ha alcun ruolo nei negoziati del TTIP, che vengono condotti a porte chiuse dalla Commissione Europea. Però una volta che il trattato sarà stato stilato il Parlamento Europeo dovrà votare sì o no, prendere o lasciare. In quest’ottica sono dunque importanti le “raccomandazioni” alla Commissione Europea a proposito della trattativa sul TTIP che figurano all’ordine del giorno di martedì 7 luglio.

Il mese scorso il voto sulle “raccomandazioni” é stato rinviato a causa del disaccordo fra Popolari e Socialdemocratici e all’interno dei Socialdemocratici stessi sulla riverniciatura cui – già allora – i Socialdemocratici avevano sottoposto la clausola ISDS per renderla più accettabile ai propri iscritti. In seguito a quei disaccordi, i Socialdemocratici hanno messo nuovamente mano alla vernice: la scelta della nuance ha ottenuto l’approvazione dei Popolari ma – di nuovo – non di tutti i socialdemocratici. In base al nuovo compromesso sull’ISDS, il Parlamento Europeo chiede alla Commissione Europea di

replace the ISDS system with a new system for resolving disputes between investors and states which is subject to democratic principles and scrutiny where potential cases are treated in a transparent manner by publicly appointed, independent professional judges in public hearings and which includes an appellate mechanism, where consistency of judicial decisions is ensures, the jurisdiction of courts of the EU and of the Member States is respected and where private interests cannot undermine public policy objectives

Ovvero, il Parlamento Europeo chiede di sostituire la clausola ISDS con un “nuovo sistema” soggetto ai principi democratici con giudici professionisti scelti in modo trasparente, udienze pubbliche, possibilità di appello, rispetto delle giurisdizioni nazionali, salvaguardia delle scelte politiche. La solidità delle due ultime affermazioni può essere smontata parola per parola: il “nuovo sistema” é solo una clausola ISDS con un diverso nome.

Pur di salvare questo compromesso così faticosamente raggiunto, il presidente dei Socialdemocratici, Gianni Pittella, non ha esitato a dichiarare che il suo gruppo metterà in discussione l’approvazione del CETA, il trattato di libero scambio già negoziato fra UE e Canada ed ora in corso di traduzione, che contiene la clausola ISDS senza vernice. Per credere a Pittella, é necessario un autentico atto di fede: le trattative del CETA sono formalmente chiuse, al Parlamento Europeo verrà solo chiesto di prendere o lasciare il testo così come è già stato scritto.

Resta il fatto che un terzo degli europarlamentari socialdemocratici non vuole l’ISDS neanche riverniciata con un altro nome: noi del M5S daremo battaglia fino in fondo, i numeri dicono che l’approvazione delle raccomandazioni alla Commissione Europea sul TTIP si gioca sul filo del rasoio.

Tre scenari possibili. Prima possibilità: le “raccomandazioni” contenenti l’attuale riverniciatura dell’ISDS vengono approvate con una maggioranza molto esigua. Seconda possibilità: i Socialdemocratici mettono nuovamente mano alla vernice e cercano di riformulare il testo sull’ISDS per placare i potenti maldipancia interni. Ma in questo caso il maldipancia potrebbe venire ai Popolari. Terza possibilità: la parte delle “raccomandazioni” contenente l’ISDS non viene approvata e conseguentemente Popolari e Socialdemocratici diramano ai loro europarlamentari l’ordine di scuderia di non approvare le “raccomandazioni” nel loro insieme. Non significherebbe che il Parlamento Europeo boccia il TTIP; significherebbe – per ora – che non é in grado di formulare raccomandazioni alla Commissione Europea sulle modalità con cui negoziare il trattato. Ma sarebbe un bel segnale di speranza in vista del voto finale – quello “prendere o lasciare” – che l’Europarlamento dovrà dare a negoziato concluso.

FINALMENTE! LA LEZIONE GRECA PORTA ALL’EUROSOLIDARISMO: L’ERF!

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1. Mentre il referendum – che comunque “vadi” (Fantozzi), si risolverà in una ripresa delle trattative dentro l’euro, nelle intenzioni dichiarate del governo greco-, induce curiosamente in molti a pensare che la sovranità consista nel fatto che il popolo voti sull’alternativa tra diverse soluzioni…di privazione della sovranità, la macchina dell’€uro-ordoliberismo va avanti.

Almeno in Italia
La versione compatta dei media e delle televisioni del Bel Paese è saldamente attestata sul fatto che, quale che sia l’esito del referendum, ci vorrà “più €uropa” (ce lo dice pure Prodi in un editoriale odierno), al fine di poter, naturalmente, mantenere l’euro e vivere felici grazie alle riforme che, già ora – e lo si dice con totale sicurezza- stanno conducendo alla crescita.

2. Meravigliosamente indicativo l’editoriale di oggi di Roberto Napoletano sul Sole 24 ore “L’Europa che serve a loro e a noi”.
Apprendiamo da tale editoriale che lo shock del 2011 era “esterno”; dobbiamo presumere “esterno” all’Italia, e quindi, tale versione dei fatti, necessariamente implica che…Monti agì con successo allo scopo di migliorare i conti pubblici e di far tornare la crescita e, per l’appunto, s’è proprio visto (d’altra parte basta raccontarlo tutti i giorni e tutti lo daranno per acquisito).
Tale tesi implica, altrettanto, che un fatto molto “nazionale”, e strutturale, come i saldi settoriali della contabilità nazionale, cioè i conti correnti esteri e la posizione netta sull’estero italiana, legati all’inevitabile (mal)funzionamento della moneta unica (almeno secondo economisti come De Grauwe, Stiglitz, Krugman, Friedman e via dicendo), non avessero nulla a che fare con la crisi del 2011.
E dunque, Napoletano, – dando per acquisito per l’ennesima volta che la cura del 2011 ci abbia ricondotto alla salute dei conti pubblici ed alla crescita-, propone una serie di soluzioni che permettano di superare la crisi greca che, a sua volta, è inevitabilmente dovuta alla loro incapacità di crescere perchè non vogliono fare le riforme e non vogliono ammodernare la causa di tutti i mali universali, cioè la “macchina pubblica”.

Per riprendersi, però, l’€uropa, dovrebbe correggere gli “errori evidenti” (quali? Se in fondo non ha fatto che predicare riforme e privatizzazioni con la riduzione del perimetro dello Stato, ancora oggi invocata in Italia? Cosa avrebbe fatto di sbagliato l’€uropa nella trattativa coi greci desiderosi di inefficienza e restii alla “crescita”?). Inoltre, la stessa UEM, dovrebbe evitare anche “l’eccesso di zelo rigorista”.

3. Insomma ci vuole lo “spirito solidaristico”.
Come non averci pensato prima! Ovviamente i greci sono quelli che non vogliono cooperare e non sanno sfruttare l’opportunità di fare le riforme…
Tant’è che poi, l’€uropa solidaristica, – quella che, in fondo in fondo, i tedeschi, nella loro lungimiranza, sarebbero sicuramente inclini a sostituire all’eccesso di zelo rigoristico a cui sono costretti da atteggiamenti immaturi come quelli dei greci- in cosa consisterebbe essenzialmente?
Per Napoletano, seguendo il suggerimento, solidale e altruistico dei “think tank più illuminati in Germania”, “si vari un fondo unico che raccolga gli eccessi nazionali di debito pubblico (rispetto al tetto del 60% del pil, uno degli errori iniziali) e si misurino le virtù dei singoli Paesi, liberati da fardelli insostenibili…”.

4. Non è però un caso che i “think tank” tedeschi vogliano il Fondo in questione, cioè il ben noto ERF.
Questo funziona così, come abbiamo visto: il “Fondo” assume il debito eccedente il limite del 60% su PIL di ciascun Paese interessato dell’eurozona, e diviene a sua volta creditore per tale ammontare dello Stato stesso. Questa parte di debito, quindi, viene sottratta alla legge nazionale, cioè non sarebbe soggetta, in caso di ritorno alla valuta nazionale alla possibilità di conversione nella nuova valuta secondo la lex monetae (e di questi tempi la sopravvivenza dell’euro non è esattamente una grande sicurezza).
In ogni modo, il Fondo emetterebbe poi titoli, (indifferenziatamente imputati al debito assunto pro-quota di ciascun Paese), che si gioverebbero di tassi di interesse passivi auspicabilmente meno elevati di quelli che, rispettivamente, ciascuno Stato coinvolto potrebbe ottenere, singolarmente, sui mercati.
Ma in presenza del QE, e dei maggiori prezzi di collocamento del debito pubblico dell’eurozona, fino a poco tempo fa ottenuti grazie agli acquisti della BCE, questa ipotesi non pare particolarmente rilevante e vantaggiosa.

5. Rilevantissimo, invece, è l’effetto socio-economico del funzionamento del Fondo: l’assunzione del debito “eccedentario” infatti è congiunta, – e qui sta la ragione del favore da parte dei tedeschi- alla regola, già insita nel fiscal compact, per cui il debito conferito verrebbe ridotto nella misura di 1/20° all’anno, fino alla sua estinzione in 20 anni.

Per l’Italia questo significa una diretta e immancabile riduzione del debito corrispondente a oltre 3 punti di PIL all’anno.
Anche calcolando l’effetto di riduzione dei tassi sul debito pubblico, in quanto sostituito in tale parte (eccedente il 60%) dai titoli emessi dal Fondo, infatti, l’onere effettivo dell’intera operazione per il singolo Stato, dovrebbe incorporare sia i tassi di interesse complessivamente dovuti sul proprio debito, sia il carico della riduzione in conto capitale nella misura di oltre il 3% annuo (per l’Italia 3,6 punti). Con varie pesanti conseguenze sui conti pubblici e sull’economia reale:
a) l’onere degli interessi passivi rischia di “ricrescere” sulla parte di debito rimasta, entro il 60%, in carico al singolo Stato, parte che rimarrebbe esposta a tutte le condizioni di aggravamento dello spread che oggi possono influire sul suo debito sovrano, e che non dipendono dall’ammontare assoluto del debito stesso, ma dalla posizione netta sull’estero.
b) inoltre, questo rischio permanente risulta comunque concomitante col modesto effetto calmieratore degli interessi sui titoli emessi dal Fondo, (almeno per i primi anni), in relazione all’attuale programma di acquisti del QE;
c) ma quel che conta di più è che il meccanismo dell’ERF obbliga, nel suo insieme (debito sovrano diretto e debito verso il Fondo), a raggiungere un saldo primario aggiuntivo, rispetto a quello attuale, di circa 5 punti di PIL (ai livelli attuali di crescita effettiva e di vincolo da fiscal compact): e ciò anche scontando, ripetiamo, il modesto vantaggio del calo degli interessi sul debito eccedentario per i titoli emessi dal Fondo.

6. Insomma, non appena il Fondo iniziasse ad operare, la manovra finanziaria dello Stato sarebbe vincolata a raggiungere un saldo primario pari almeno all’attuale (2,4 punti di PIL, un record mondiale se rapportato ai livelli mantenuti per decenni) più gli oltre 3 punti di PIL necessari per “l’ammortamento” di un ventesimo del debito preso in carico dal Fondo, più, per la verità, l’ulteriore eventuale (ma non improbabile) saldo aggiuntivo necessario per rispettare il pareggio strutturale di bilancio secondo i target annuali imposti dalla Commissione UE (in misure che dovrebbero portare, oltretutto, al pareggio di bilancio entro un paio di anni).
Dunque, almeno nella fase iniziale, il saldo primario italiano dovrebbe passare dall’attuale misura – abbiamo visto intorno ai 2,4-2,5 punti di PIL, che già costituisce una misura tra le più alte del mondo – a circa 7,6 (!) punti di PIL, almeno se si tiene fermo l’obiettivo del pareggio di bilancio (e non il semplice limite del 3%, che sarebbe ormai persino contrario al nuovo art.81 della Costituzione).
Il calcolo non è difficile da fare: 5 punti di PIL di onere degli interessi “(forse) attenuato” + 3,6 punti di ammortamento da corrispondere al Fondo + 1,4 punti di PIL per l’obiettivo intermedio di pareggio di bilancio, meno il saldo primario attuale di 2,4. Totale, all’incirca, 7,6 punti di PIL di avanzo primario con un deficit consentito (obiettivo intermedio) di 1,6 punti di PIL!

7. Va precisato che questi sono i calcoli realistici, cioè assumendo, peraltro ottimisticamente, che la crescita italiana rimanga quella attuale, cioè allo 0 virgola (nella migliore delle ipotesi): altri calcoli, muovono dalla supposizione che si abbia una crescita nominale del 3% annuo (o oltre!), che è stata finora smentita dai fatti, in presenza di politiche di austerità che l’Italia è l’unica a seguire scrupolosamente.
E ciò è tanto vero che anche per quest’anno, di supposta e strombazzata “ripresa”, neanche le più ottimistiche previsioni si azzardano ad attribuirci una crescita di tale entità. Da notare che, (senza alcuna sorpresa, data la tradizione di errore annuale ormai instauratasi dal FMI al’OCSE, passando per la Commissione), i dati dell’Istat non corroborano neppure la crescita allo 0,5, per il “favorevole” 2015, quale ultimamente ipotizzata dal FMI.
L’Istat, infatti, nei suoi ultimi calcoli, accredita una crescita trimestrale di 0,2 nel primo trimestre, rispetto al quarto trimestre 2014, ma una crescita annuale di appena 0,1 sul primo trimestre 2014, cioè su base annuale tendenziale riferita a periodi omogenei.

8. E’ chiaro che un saldo primario di tale entità risulta un obiettivo impossibile da raggiungere e sicuramente insostenibile: ed infatti, per rispettare gli obiettivi intermedi di pareggio strutturale (quand’anche, s’è visto, “forse”, gli interessi risultassero ridotti in una non rilevante misura) e per ridurre il debito in carico al Fondo per 3,6 punti di PIL annui (1/20 del 72% di PIL corrispondente al debito assunto dal Fondo), occorrerebbe varare una manovra di taglio della spesa pubblica e di nuove tasse di circa 80 miliardi o anche più (si tratta cioè, come detto, di incrementare di circa 5 punti l’attuale saldo primario).
Questo con certezza, almeno per i primi anni di funzionamento del meccanismo del Fondo auspicato da Napoletano.

9. Quand’anche, poi, alla istituzione del Fondo, si accompagnasse una (allo stato) molto improbabile tolleranza verso la misura del deficit pubblico, comunque, il saldo primario dovrebbe essere più “modestamente” intorno ai 5,5-6 punti di PIL – detraendo la correzione del saldo primario imputabile al raggiungimento dell’obiettivo intermedio di deficit e largheggiando su quest’ultimo. Dunque, la relativa manovra annuale “tipo”, sarebbe pur sempre dell’ordine di circa 55 miliardi: tale misura corrisponderebbe, infatti, al mantenimento di un deficit intorno al 3 o magari al 4% (entrambe misure che la flessibilità europea, al momento, non ci concede).

Siccome è evidente che in queste condizioni di austerità aggiuntiva, nonostante la “bella” teoria della austerità espansiva, nessuna crescita sarebbe realizzabile, anzi il Paese tornerebbe immediatamente in recessione (aggravando il rapporto debito/PIL), la verità è che il Fondo auspicato da Napoletano, e non a caso caldeggiato dai think-tank tedeschi, implicherebbe che scattassero le garanzie previste dall’attuale ipotesi di ERF.

E cioè i beni patrimoniali dello Stato italiano, – l’oro, le stesse riserve valutarie, le partecipazioni azionarie detenute a qualsiasi titolo , il patrimonio immobiliare (a prescindere probabilmente dal suo regime di indisponibilità, visto che i vincoli europei, a quanto pare, prevalgono sulle leggi costituzionali, se si tratta di rispettare il pareggio di bilancio o i limiti all’ammontare del debito). Tutti questi beni pubblici sarebbero assegnati a estinzione della quota annuale di debito da ridurre, quindi in ammortamento, al Fondo nella misura annua di 3,6 punti di PIL.

10. Nella situazione attuale, tali beni sarebbero poi presumibilmente “rivenduti” dal Fondo stesso a operatori privati agenti sui mercati internazionali, ed il Fondo tratterrebbe il ricavato a estinzione del debito.
Ma non dimentichiamo che poichè questi assets non sarebbero tutti (a parte oro e riserve valutarie) di facile e pronta liquidazione, – valendo quindi più come garanzia che come mezzo di pagamento- la disciplina del Fondo, per come attualmente studiata dal gruppo di lavoro incaricato dalla Commissione UE, implicherebbe anche la ulteriore garanzia di estinzione pro-quota annuale del debito “eccedentario” (il limite del 60%) costituita dall’attribuzione al Fondo stesso, pro-solvendo, di una quota pari al 8% delle entrate dello Stato: una sorta di “pignoramento dello stipendio”, cioè l’appropriazione diretta da parte del Fondo del flusso dei soldi corrisposti dai contribuenti allo Stato.

11. Insomma, alla fine la soluzione neo-solidaristica €uropea, – entusiasticamente abbracciata da Napoletano in base ai “suggerimenti” dei migliori think tank tedeschi-, quindi il nuovo orizzonte cooperativo e non eccessivamente orientato al rigore, teso a superare la “crisi greca (!), si risolverebbe in un’accelerazione delle svendite forzate degli assets patrimoniali dello Stato, incluse le residue industrie pubbliche, il cui controllo finirebbe molto probabilmente in mano a investitori stranieri, nonchè nella privazione dell’oro, delle riserve valutarie e della stessa destinazione nell’interesse nazionale dei soldi dei contribuenti.
Questo intanto che, trepidanti, attendiamo l’esito del referendum greco.
Come se, dentro l’euro, ci fosse una “liberazione” che ci attenda salvifica non appena i greci inefficienti, spendaccioni e inaffidabili abbiano abbassato le loro intollerabili pretese…