Archivio mensile:novembre 2016

829.-“Erdogan ha paura ed è capace di tutto”

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Fonti vicine ai servizi segreti israeliani affermano che colloqui segreti avrebbero avuto luogo tra Siria, Israele e Giordania per “garantire i confini meridionali della Siria“. Citando fonti russe e statunitensi, un rapporto cita l’accordo tra tre parti “sul ritorno alla situazione prima del marzo 2011 sulle frontiere tre Siria, Giordania e Israele, soprattutto sul Golan”. Infatti nel marzo 2011 scoppiò la crisi siriana. Il rapporto continua: “Inoltre i rappresentanti, siriani, giordani, israeliani, russi, statunitensi e degli Emirati Arabi Uniti hanno partecipato ai colloqui, L’accordo tripartito prevede, se concluso, il ritorno delle forze multinazionali delle Nazioni Unite sul Golan occupato, responsabili della prevenzione di un qualsiasi confronto nella zona. L’accordo prevede anche, come in passato, la gestione della sicurezza da parte della Siria delle Alture del Golan occupate. La forza multinazionale che dovrà ritornare nel Golan sarà formata da 1000 soldati e 70 osservatori. Ci sarebbe anche una zona smilitarizzata al confine, prevista nel 1974 con l’accordo di cessazione delle ostilità tra Israele e Siria“. “La zona demilitarizzata si estende per 80 chilometri dal Jabal al-Shayq al confine tra Giordania, Siria e Israele, secondo il rapporto che osserva che l’accordo sarebbe conseguenza della vittoria di Trump, avendo insistito per tutta la campagna elettorale a porre fine alla crisi in Siria, convincendo Assad, che aveva detto in un’intervista del 16 novembre di essere pronto ad allearsi con Trump per finirla con lo Stato islamico“.
Quali sono i segnali di questi colloqui? Se hanno avuto luogo, dimostrano una cosa: Israele ha ceduto obiettivi ed interessi che cercava di raggiungere nella Siria meridionale tramite i terroristi di al-Nusra e SIIL. Nessuno può dimenticare infatti la logistica fornita da Israele ai terroristi e l’aiuto a centinaia di loro evacuati e curati negli ospedali israeliani. Che Israele accetti di discutere con la Siria, pochi mesi dopo la riunione assai pubblicizzata di Netanyahu e del suo gabinetto sul Golan occupato, è un’amara confessione del regime israeliano, che vede i suoi cinque anni di tentavi abbandonati miseramente. I terroristi taqfiri di cui Israele ora sembra volersi sbarazzare (se si crede ai rapporti che Israele avrebbe bombardato le posizione del SIIL nel Golan), non hanno potuto regalargli l’ambito Golan. La vera paura d’Israele è vedere Hezbollah, alleato di Damasco, definitivamente alle porte di Israele, sulle strategiche alture del Golan. I colloqui segreti, se veri, indicano che Israele ha abbandonato il Golan e scelto il ritorno allo status quo ante…

Putin celebra l’anniversario dell’incidente che vide l’aereo russo abbattuto dai turchi e la battaglia di Al-Bab con l’esercito del regime che attacca i turchi. Con un comunicato ufficiale, l’esercito turco ha ammesso che le sue forze di stanza nel nord della Siria sono state bombardate dall’aviazione siriana, che avrebbe ucciso tre soldati turchi ferendone altri dieci. Il comunicato dello Stato maggior turco smentisce la Reuters che, sulla basi di fonti ospedaliere, aveva detto che i soldati turchi erano stati uccisi in un attacco dello Stato Islamico/Daesh.

L’agenzia iraniana Pars Today fa notare che «E’ la prima volta che la Siria reagisce alla presenza delle forze turche nel suo territorio, iniziata il 24 Agosto 2016». E Kurdish Question evidenzia che «La Turchia sta contravvenendo al diritto internazionale, utilizzando di recente la forza aerea all’interno dei confini della Siria per bombardare obiettivi Kurdi nel nord del paese. Il 21 ottobre il regime siriano ha accusato la Turchia di puntare a un’escalation della guerra nel Paese e ha detto che avrebbe abbattuto gli aerei che sorvolano la Siria».

Gli attacchi aerei turchi sulla regione kurda semi-indipendente del Rojava erano cessati da diverse settimane, ma sono ripresi il 20 novembre con attacchi contro i combattenti delle Syrian democratic forces (Sdf) – la coalizione formata da siriani progressisti e dalle Ypg/Ypj kurde – e obiettivi civili nella campagna a nord di Manbij, nei pressi di al-Bab. Il 21 novembre un attacco aereo turco ha ucciso 6 civili, tra cui 2 bambini. A causa di questi attacchi, le Sdf hanno minacciato di ritirare i loro 40.000 uomini e donne impegnati nell’offensiva contro la capitale dello Stato Islamico/Daesh, se la coalizione internazionale a guida statunitense non interverrà sulla Turchia perché cessi gli attacchi contro i territori liberati dai kurdi. Ala fine son intervenuti i siriani (e i russi). I soldati turchi prima entrati nel territorio siriano nell’agosto 2016 appoggiati dai miliziani della Free syrian army (Fsa), per realizzare quella che hanno chiamato l’Euphrates Shield operation, cioè un’invasione della Siria per impedire che i Kurdi del Rojava unificassero i loro Cantoni e occupassero tutta la fascia di confine con la Turchia, sloggiando i miliziani neri del Daesh. E pensare che le Fsa, fin dall’inizio del conflitto siriano, erano state presentate da americani ed europei come il braccio armato dell’opposizione moderata e laica contri il regime di Bashir al Assad… Ora si ha la certezza che in realtà sono il più fedele alleato del regime islamista turco, che combatte contro Fsa e Kurdi alleati della Coalizione a guida Usa.

Tornando alla battaglia tra siriani e turchi ad al-Bab, Sinan Cudi, un giornalista kurdo che attualmente lavora nel Rojava, nel nord della Siria, scrive su Kurdish Question: «Anche se non siamo in grado di prevedere l’esito della competizione, dei disaccordi e conflitti tra le grandi potenze e di come finiranno le caotiche strutture militari/economiche/politiche, sappiamo quale è la zona geografica dove questo sarà deciso: al-Bab. Dopo il lancio dell’operazione “Ira dell’Eufrate” il 5 novembre 2016, è dato per certo che l’ultima roccaforte del Deash (Stato islamico) in Siria cadrà. La certezza sta nel fatto che tutte le operazioni delle Ypg/Sdf finora sono finite in un successo. Questa garanzia porta la gente a pensare alla situazione post-Raqqa. Ora, la maggior parte delle discussioni si concentrano su ciò che accadrà in Siria dopo il Daesh, come si posizionerà ogni parte, come sarà modellata la nuova amministrazione e quale sarà in tutto questo il ruolo dei kurdi. Naturalmente, tutto questo cambierà se il piano architettato da Erdogan avrà successo».

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L’obiettivo di Erdogan sono i Kurdi e non l’ISIS, con cui non interferiscono: cerchio rosso ISIS, cerchio giallo soldati turchi.

Il bombardamento siriano dell’esercito turco in Siria ci riporta a Erdogan e alla fine del suo alleato Obama e dell’oleodotto trans siriano. Per lo storico e giornalista Fehim Tastekin, la politica del presidente turco è una fuga in avanti. “Dal fallito colpo di Stato del 15 luglio, il presidente turco ha paura di tutto, anche del suo partito e dei familiari. E’ quindi capace di tutto. Improvvisamente, la sua politica interna ed estera è solo una corsa a capofitto“. A Losanna su invito delle comunità turche e curde locali, lo storico e giornalista Fehim Tastekin ha dipinto un quadro molto cupo della politica del capo dello Stato turco.

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Dal 24 agosto, la Turchia si è impegnata direttamente nel conflitto siriano con il lancio dell’operazione “Scudo dell’Eufrate” nel nord-est.

Cosa vuole Erdogan dalla Siria?
Direi che l’invio di truppe turche in Siria è il risultato del fallimento politico di Erdogan su due piani: primo, ha voluto abbattere Assad, ma è ancora lì. E soprattutto i curdi della Siria (come in Iraq, d’altronde), sostenuti dagli statunitensi, hanno acquisito tale importanza politica da avere paura che gli contagino il Paese. Quindi, la priorità non è la caduta di Assad e la lotta al gruppo Stato islamico (Daash in arabo), ma la questione curda, l’ossessione dello Stato turco, indipendentemente dal colore del governo.
Che rapporto ha Erdogan con gli statunitensi?
Non hanno gli stessi interessi. Gli statunitensi hanno detto ai turchi “se volete ripulire lo SIIL dalla Siria, i curdi siriani e le forze democratiche se ne occuperanno”. Per motivi d’immagine Erdogan ha dovuto lasciar fare ai curdi. Ma ora è bloccato perché gli statunitensi non gli lasciano fare ciò che vuole contro i curdi, di cui Washington ha bisogno, in Siria e Iraq. E con Donald Trump alla Casa Bianca è ancora troppo presto per trarre conclusioni.
E il riavvicinamento tra Erdogan e Putin?
E’ puramente circostanziale. Sono convinto che, più o meno a lungo termine, i russi si vendicheranno della Turchia. C’è stato un primo segnale ieri con tre soldati turchi uccisi dalla Syrian Arab Air Force (russi?). Era l’anniversario dell’incidente che vide l’aereo russo abbattuto dai turchi. I turchi non capiscono Putin, e questi, che non si fida di Erdogan, usa la crisi per indebolire il legame tra Turchia e NATO, e tra Turchia e Unione europea. Si ricordi che storicamente Russia e Turchia (già dall’impero ottomano) sono sempre stati avversari.
Come analizza le tensioni tra Turchia e Unione europea?
Erdogan gioca in modo pericoloso con l’Europa, perché la metà del commercio estero della Turchia è con l’UE. Vediamo anche in questi giorni il suo primo ministro cercare di ridurre le tensioni con Bruxelles. Sulla minaccia di aprire i confini per far fluire i rifugiati in Europa, non sono sicuro che gli stessi rifugiati se ne vogliano andare…
Sul fronte interno, come giudica la situazione?
Ho detto che dal fallito colpo di Stato Erdogan ha paura e da la caccia a tutti gli avversari, non solo gulenisti. Non si comporta razionalmente e quindi è capace di tutto. Detto ciò, penso che prima o poi le forze gli si ribelleranno contro. Alla fine del tunnel, c’è sempre luce.

Bernard Bridel, Aurora

828.-La riforma costituzionale: un atto di delinquenza politica. Ecco perchè.

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Del contenuto di questa infelice riforma costituzionale si è detto abbondantemente e non stiamo qui a ripeterci sull’aborto di Senato, sul combinato disposto con la legge elettorale maggioritaria, sul prevaricazione governativa sul potere legislativo, sul carattere puramente propagandistico delle misure in materia di iniziativa popolare o sui tagli ai costi della politica eccetera. Di questo si è detto sin troppo, mentre troppo poco si è detto su un’altra ben più grave cosa: il modo con cui questa riforma si è formata.

Ricordiamo che:

a- essa non faceva parte del programma della coalizione Pd-Sel nelle elezioni politiche scorse

b- essa non è stata deliberata neppure nel congresso del partito nel tardo 2013

c- è stata irritualmente proposta dal Presidente della Repubblica che, poco attento al giuramento di fedeltà alla Costituzione vigente, se ne è fatto principale promotore del mutamento ed arbitro non imparzialissimo della contesa che si apriva.

Già questi punti gettano una luce non favorevolissima sull’accaduto, ma il peggio è altro: ad operare questa riforma è stato chiamato un Parlamento eletto con una legge gravemente distorsiva della volontà popolare e dichiarata per questo incostituzionale. Formalmente, per il principio della conservazione degli atti, il Parlamento restava in carica nella pienezza dei suoi poteri. Ma sotto il profilo della legittimazione politica, è palese che questo fosse un Parlamento non legittimato ad assumere decisioni in materie delicate come la legge elettorale o la riforma della Costituzione e, se si può capire per quel che riguarda la legge elettorale (ammesso che non fosse preferibile votare con la legge elettorale residuata dall’intervento della Corte e lasciar decidere al Parlamento successivo il da farsi) è assolutamente inammissibile, sul piano della correttezza politica, che un Parlamento del genere metta mano alla Carta Costituzionale.

E la riforma è partita subito male, escludendo pregiudizialmente diverse forze politiche (M5s, Lega, Sel, Fratelli d’Italia) che rappresentavano oltre il 40% dell’elettorato. Si ricorderà, infatti, che, dopo un infelice ed inconsueto “comitato di Saggi”, (erede di un analogo comitato della precedente legislatura), la “riforma” è partita con il “patto del Nazareno che associava Pd e Fi, con il codazzo delle liste di centro. Tuttavia, nel percorso, Fi si sottraeva, pagando il prezzo di ripetute scissioni. Ad un certo punto il Pd si è trovato praticamente solo (salvo il solito corteo caudatario dei partitini di servizio).

Dunque, la riforma è stata approvata con i voti del Pd e di qualche manciata di transfughi di Fi, organizzati in forze politiche prive di riscontro elettorale. Insomma, una costituzione di partito in cui manca totalmente (dicesi totalmente) l’elemento pattizio che è proprio delle costituzioni democratiche e repubblicane. Una Costituzione imposta con una aperta prevaricazione. In termini non formali (e ci sarebbe da ridire sul come Grasso e Boldrini hanno diretto il dibattito in aula e regolato il voto) può definirsi a pieno titolo come un atto di delinquenza politica.

Il Pd ha condotto a freddo una aggressione contro tutte le altre forze politiche del paese che gentilmente oggi appella marmaglia, a conferma della sua ormai confessata estraneità allo spirito della democrazia pluralistica.

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Questo atto delinquenziale, peraltro, costituisce un precedente gravissimo per il quale, chiunque si trovi nelle condizioni attuali del Pd (e l’Italicum andava esattamente nella direzione di perpetuare questa condizione di prepotere) potrà fare della Costituzione quel che gli pare, magari dicendo che “è da sessanta anni che si aspetta questa riforma”. La riforma costituzionale di partito di fatto azzera la nozione di “patria costituzionale”, terreno di condivisione, per trasformare la Costituzione in campo di battaglia.

Decisamente il Pd appartiene ad una cultura politica diversa da quella dei costituenti e di qualsivoglia pensiero democratico, per inserirsi in un solco in cui troviamo piuttosto Pelloux, Salandra, Federzoni, Acerbo eccetera.

Un partito antisistema al vertice delle istituzioni? Forse Gramsci parlerebbe di “sovversivismo delle classi dirigenti” ma torneremo sul tema.

Aldo Giannuli                   aldo_giannulli

827.-I media iniziano a parlare della fine dell’euro. Secondo ofcs.report le conseguenze nefaste ci sarebbero col SI al referendum

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I media tutti, senza praticamente alcuna eccezione se si esclude per ovvie ragioni la arci-obamiana La Stampa di Torino, iniziano a trattare l’argomento dell’euroexit da parte dell’Italia in termini diciamo neutri, in realtà per il Belpaese sarebbe una manna almeno per chi ha le produzioni e vive ancora in Italia (certamente non per coloro che, come gli Elkann, hanno delocalizzato all’estero).

Pensate che anche il fattoquotidiano.it, la testata più sopraffinamente sinistroide tanto da usare con regolarità la censura sul proprio sito onde evitare commenti sconvenienti alla linea editoriale, ha iniziato ad adeguarsi tempi. E con essa anche le altre testate più borghesi, appunto con la fulgida eccezione franco-torinese.

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Evidentemente alla vigilia della macelleria sociale (postreferendaria, ndr) conseguente all’applicazione dell’austerità come impongono le regole EU volute dai tedeschi anche i media di sinistra e/o interessati non riescono più a sostenere la bugia dell’euro vantaggioso per tutti. E finalmente dico io.
Oggi vi propongo uno articolo interessante pubblicato da ofcs.report (agenzia di stampa normalmente molto ben informata) dove, non senza cinismo, l’autore dipinge con dovizia di dettagli quanto si nasconde dietro al risultato del referendum, conseguenze incluse.

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Le conclusioni in ogni caso non sono piacevoli per gli italiani ma tant’è, meglio finirla rapidamente con questa farsa dell’euro a vantaggio franco-tedesco, ormai siamo davvero ai limiti della sostenibilità sociale per i periferici e fin anche per la Francia. O meglio, come implica l’autore il prossimo biennio sarà difficilissimo per il Belpaese stretto nella morsa della scelta impossibile tra un Italeave traumatico ma con futura risurrezione e morire di stenti in 5-7 anni.
Infatti con il SI al referendum il governo si troverebbe obbligato ad imporre riforme lacrime e sangue ossia l’applicazione automatica dell’austerità in forma integrale come da leggi europee volute dalla Germania a proprio vantaggio (ed a danno dei periferici). Viceversa un NO lascerebbe le mani libere all’Italia in tema di negazione dell’austerità, inclusa la possibilità ed anzi l’auspicio (se gli USA ci supporteranno, come penso) di una fine rapida dell’esperimento della moneta unica che tanti danni ha arrecato ai periferici.

Pochi riflettono sul fatto che referendum italiano e presidenziali austriache sono di fatto una scelta tra Ue a trazione franco-tedesca e fine dell’esperimento della Ue austera incentrata nella moneta unica. L’Italia in particolare non vedrà nessun crollo economico derivante da un eventuale – praticamente certo – no referendario: i conti economici del Paese non cambieranno di una virgola come conseguenza del voto, il problema è che sono già terrificanti. Nel caso, il comunque certo crollo delle borse deriverà da altri fattori, siano esse le aspettative degli investitori di un futuro eurobreak o l’interesse dei mercati a giustificare una dovuta correzione dei corsi borsistici che molti ritengono troppo ingiustificatamente elevati.

Dal 2014 Renzi, con la scusa del referendum, ha semplicemente preso tempo in Ue evitando di implementare misure degne della Troika, promettendo come contropartita correttivi all’assetto costituzionale in grado di permettergli di apportare future profonde modifiche senza eccessiva discussione parlamentare . In più ha ceduto a Frau Merkel in tema di inserimento in costituzione della preminenza delle leggi comunitarie rispetto a quelle nazionali. Insomma, se passasse il si, l’Italia sarebbe legata mani e piedi all’Ue che – ormai è chiaro a tutti – fa sistematicamente gli interessi dell’asse franco-tedesco e non quelli dei periferici. E questo senza contare che un si costringerebbe comunque il Governo a dare seguito alle sue promesse europee di lacrime e sangue per gli italiani.
Gli aspetti critici da affrontare post referendum sono due: l’aumento dei tassi dei btp delle scorse settimane (circa 1% in più nei tassi debitori italiani, 50 bps di spread e 50 bps per l’effetto Trump) ed il deficit monstre dell’Inps, entrambi esogeni al voto.

Il primo aspetto si tradurrà in una perdita in conto capitale molto pesante a fine anno 2016 per le banche ovvero, visto che il sistema bancario italiano detiene circa 350-400 miliardi di debito statale (soprattutto btp con scadenze attorno ai 5-10 anni) possiamo stimare che globalmente ci saranno per il settore bancario italiano minusvalenze record – sebbene non consolidate fin quando non si vendono i titoli, in ogni caso il capitale delle banche scenderà – per almeno 20 miliardi di euro in forza della discesa dei titoli in portafoglio. Leggasi, maggiore pressione sui conti bancari, maggiori sconquassi in borsa, richieste di aumenti di capitale e quindi maggiore rischio insolvenza oltre che minori prestiti erogabili. Come contromisura non facciamo fatica a pensare a misure draconiane, ad esempio tasse sul contante prelevato visto che prelevare dal sistema bancario cash erode il capitale già esiguo ed in assottigliamento degli istituti (ci dicono che abolire il contante serve per combattere evasione e terrorismo, tutte balle, le misure di limitazione del contante servono per evitare il fallimento delle banche oltre a sedimentare le ricchezze nelle mani dei grandi potentati economici in presenza di forti turbolenze socio-economiche, attese per altro in tutto l’occidente).

Il secondo aspetto è il un vera bomba ad orologeria: l’Inps perde nel 2015 circa 16 mld di euro e vede il capitale assottigliarsi a poco più di 5 mld. Leggasi, in assenza di crescita economica il prossimo anno si andrà ad intaccare le riserve per pagare le pensioni, un vero schema Ponzi in quanto non ci sono né entrate né riserve a sufficienza per pagare gli attuali trattamenti pensionistici (la crescita è ciò che manca all’Italia, ma è impossibile averla restando nel giogo dell’euro austero che prevede sempre e solo tasse per pagare in euro un debito in gran parte contratto in vecchie lire, ndr).
Ossia, bisogna attendersi o maggiori tasse, o limitazioni al contante, o default dell’Inps con decurtazioni delle pensioni, o confisca dei beni dei privati cittadini o un mix (per vostra informazione la prima soluzione sarà confiscare le pensioni private facendole confluire nell’Inps, basta attendere 6 mesi per la conferma).

Quello di cui possiamo essere certi è che comunque vada l‘Italia, per gioia tedesca, vedrà un imponente aumento della tassazione soprattutto indiretta, parlo – oltre alla nazionalizzazione delle pensioni private sulla scorta degli esempi ungherese ed argentino – del raddoppio degli estimi catastali con annesso aumento del gettito Imu, dimezzamento della franchigia di 1 milione di euro per le successioni, aumento dell’imposta di bollo sul patrimonio finanziario. Peccato che in tale contesto un crollo del settore immobiliare italiano appare inevitabile portandosi dietro tutto l’indotto ad esso collegato e quindi affondando a termine l’economia nazionale.
Questo sarà errore che verrà fatto dal governo e che rappresenterà l’epitaffio del “Renzi politico” (che per salvare il salvabile post referendum vorrà trasformare l’esecutivo in tecnico cercando di diluire le sue colpe verso l’opinione pubblica).

Il problema è che tutto quanto sopra destabilizzerà l’Italia alla radice e ciò non è nell’interesse di un finalmente pragmatico governo Usa targato Trump interessato a limitare l’ingerenza franco tedesca in Europa.
Ossia – e fa il paio – il prossimo anno l’interesse italico ad uscire dalla moneta unica semplicemente per sopravvivere economicamente (tornando alla lira e dunque svalutando i propri debiti, ndr) e l’interesse Usa sia a limitare lo strapotere tedesco in Europa che di preservare il miglior allato non anglosassone in Ue convergeranno, a pari passo delle politiche economiche trumpiane anch’esse basate su una svalutazione del debito per via inflattiva. Ossia, un lasciapassare per l‘uscita italiana dall’Ue.

826.- OBAMA, PULIZIE DI FINE STAGIONE. UCCIDE I CAPI DI AL NUSRA, MOLLA KIEV…

Da Maurizio Blondet traggo questa storia documentata della paternità USA del terrorismo e, a un tempo, il reale significato dell’elezione di Donald Trump. In grassetto il testo, in carattere corsivo e in lingua inglese i documenti.

ISIL commander killed in Syria militants’ infighting

Le esecuzioni sono già in corso.  “Chi assassina gli ufficiali di Al Qaeda dopo il 9 novembre?” domanda il benissimo informato Meyssan.   “Per il momento non è chiaro se siano regolamenti di contri tra bande rivali o l’amministrazione Obama stia cancellando le tracce dei suoi delitti”.

Non occorre  disporre di profonde fonti d’intelligence  per sapere che la risposta esatta è la seconda. L’ha scritto il Wahington Post il 10 novembre: “Alti funzionari del Dipartimento di Stato”  hanno informato il giornale che Obama non poteva più permettersi di “trattare col diavolo” per esercitare una pressione militare sul presidente Bachar al-Assad”.  Obama avrebbe ordinato di localizzare ed uccidere tutti i dirigenti di Al Qaeda attivi in Siria, anche con droni.

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This 2015 file photo posted on the Twitter page of Jabhat al-Nusra, an al-Qaeda affiliate in Syria, shows al-Nusra fighters in Idlib province where the United States has begun to strike the group’s leadership. (AP)
National Security
OBAMA DIRECTS PENTAGON TO TARGET AL-QAEDA AFFILIATE IN SYRIA, ONE OF THE MOST FORMIDABLE FORCES FIGHTING ASSAD.       
By Adam Entous, November 10
President Obama has ordered the Pentagon to find and kill the leaders of an al-Qaeda-linked group in Syria that the administration had largely ignored until now and that has been at the vanguard of the fight against the Syrian government, U.S. officials said.
The decision to deploy more drones and intelligence assets against the militant group formerly known as Jabhat al-Nusra reflects Obama’s concern that it is turning parts of Syria into a new base of operations for al-Qaeda on Europe’s southern doorstep, the officials said.
The move underlines the extent to which Obama has come to prioritize the counter­terrorism mission in Syria over efforts to pressure President Bashar al-Assad to step aside, as al-Nusra is among the most effective forces­­ battling the Syrian government.
[Amid a world of problems, Trump’s policy prescriptions remain opaque]
That shift is likely to accelerate once President-elect Donald Trump takes office. Trump has said he will be even more aggressive in going after militants than Obama, a stance that could lead to the expansion of the campaign against al-Nusra, possibly in direct cooperation with Moscow. The group now calls itself Jabhat Fatah al-Sham — or Front for the Conquest of Syria — and says it has broken with al-Qaeda, an assertion discounted by U.S. officials.
The United States has conducted sporadic strikes in the past against veteran al-Qaeda members who migrated to northwestern Syria from Afghanistan and Pakistan to join al-Nusra and whom U.S. officials suspected of plotting against the United States and its allies.
Obama’s new order gives the U.S. military’s Joint Special ­Operations Command, or JSOC, wider authority and additional intelligence-collection re­sources to go after al-Nusra’s broader leadership, not just al-Qaeda veterans or those directly involved in external plotting.
The White House and State Department led the charge within the Obama administration for prioritizing action against the group. Pentagon leaders were reluctant at first to pull resources away from the fight against the Islamic State.
But aides say Obama grew frustrated that more wasn’t being done by the Pentagon and the intelligence community to kill al-Nusra leaders given the warnings he had received from top counter­terrorism officials about the gathering threat they posed.
In the president’s Daily Brief, the most highly classified intelligence report produced by U.S. spy agencies, Obama was repeatedly told over the summer that the group was allowing al-Qaeda leaders in Pakistan and Afghanistan to create in northwest Syria the largest haven for the network since it was scattered after the Sept. 11, 2001, attacks. Officials also warned Obama that al-Nusra could try to fill the void as its rival, the Islamic State, lost ground.
Lisa Monaco, Obama’s White House homeland security and counter­terrorism adviser, said Obama’s decision “prioritized our fight against al-Qaeda in Syria, including through targeting their leaders and operatives, some of whom are legacy al-Qaeda members.”
“We have made clear to all parties in Syria that we will not allow al-Qaeda to grow its capacity to attack the U.S., our allies, and our interests,” she said in a statement. “We will continue to take action to deny these terrorists any safe haven in Syria.”

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In this 2013 photo, which has been authenticated based on its contents and other AP reporting, rebels from al-Qaida affiliated Jabhat al-Nusra sit on a truck full of ammunition at Taftanaz air base, that was captured by the rebels, in Idlib province, northern Syria. (Edlib News Network/AP)
To support the expanded push against al-Nusra, the White House pressed the Pentagon to deploy additional armed drones and intelligence-collection assets in the airspace over northwestern Syria, an area that had been sparsely covered by the United States until now because of its proximity to advanced Russian air-defense systems and aircraft. A bitterly divided Obama administration had tried over the summer to cut a deal with Moscow on a joint U.S.-Russian air campaign against al-Nusra, in exchange for a Russian commitment to ground Syrian government warplanes and to allow more humanitarian supplies into besieged areas. But the negotiations broke down in acrimony, with Moscow accusing the United States of failing to separate al-Nusra from more moderate rebel groups and Washington accusing the Russians of war crimes in Aleppo.
Armed drones controlled by JSOC stepped up operations in September, according to military officials. Drone strikes by the U.S. military under the program began in October and have so far killed at least four high-value targets, including al-Nusra’s senior external planner. The Pentagon has disclosed two of the strikes so far. One of the most significant strikes — targeting a gathering of al-Nusra leaders on Nov. 2 — has yet to be disclosed, officials said, speaking on the condition of anonymity to discuss operations.
So far, Russian air-defense systems and aircraft haven’t interfered with stepped-up U.S. operations against al-Nusra. Officials attributed Moscow’s acquiescence to the limited number of U.S. aircraft involved in the missions and to Russia’s interest in letting Washington combat one of the Assad regime’s most potent enemies within the insurgency. U.S. officials said they provided notifications to the Russians before the al-Nusra strikes to avoid misunderstandings.
Officials said the expanded al-Nusra campaign was similar to those that Obama has directed against al-Qaeda affiliates in Yemen, Somalia and Pakistan.
While al-Qaeda’s central leadership in Pakistan has been decimated, the United States now faces more threats involving more extremists from more places than at any time since 9/11, Nicholas J. Rasmussen, director of the National Counterterrorism Center, told a Senate committee in September.
The push into the province of Idlib and other parts of northwestern Syria coincides with ­Pentagon-backed offensives in and around Islamic State strongholds in eastern Syria and in Iraq, which have attracted the majority of U.S. military resources and public attention. White House officials had considered launching a more systematic campaign to destroy al-Nusra from top to bottom, much like the Pentagon’s approach to the Islamic State. But that option was rejected as too resource-intensive. Many of al-Nusra’s fighters are Syrians who joined the group because of its ample supply of weapons and cash, and its commitment to defeating Assad, not to plot against the West.
Officials said the strikes on leadership targets were meant to send a message to more-moderate rebel units, including those backed by the CIA, to distance themselves from the al-Qaeda affiliate. At critical moments during the five-year-old civil war, moderate rebel units have fought alongside al-Nusra in ground operations against Assad’s forces. In fact, U.S. officials credit those rebel campaigns in the spring of 2015 with putting so much pressure on the Syrian government that Russia and Iran decided to double down militarily in support of Assad.
U.S. officials who opposed the decision to go after al-Nusra’s wider leadership warned that the United States would effectively be doing the Assad government’s bidding by weakening a group on the front line of the counter-
Assad fight. The strikes, these officials warned, could backfire on the United States by bolstering the group’s standing, helping it attract more recruits and resources.
Officials who supported the shift said the Obama administration could no longer tolerate what one of them described as “a deal with the devil,” whereby the United States largely held its fire against al-Nusra because the group was popular with Syrians in rebel-controlled areas and furthered the U.S. goal of putting military pressure on Assad. Russia had accused the United States of sheltering al-Nusra, a charge repeated Thursday in Moscow by Russian Foreign Minister Sergei Lavrov.
“The president doesn’t want this group to be what inherits the country if Assad ever does fall,” a senior U.S. official said. “This cannot be the viable Syrian opposition. It’s al-Qaeda.”
Officials said the administration’s hope is that more-moderate rebel factions will be able to gain ground as both the Islamic State and al-Nusra come under increased military pressure.
A growing number of White House and State Department officials, however, have privately voiced doubts about the wisdom of applying U.S. military power, even covertly, to pressure Assad to step aside, particularly since Russia’s military intervention in Syria last year.
U.S. intelligence officials say they aren’t sure what Trump’s approach to U.S.-backed rebel units will be once he gets briefed on the extent of the covert CIA program. Trump has voiced strong skepticism about arming Syrian rebels in the past, suggesting that U.S. intelligence agencies don’t have enough knowledge about rebel intentions to pick reliable allies.
Defense Secretary Ashton B. Carter and other Pentagon leaders initially resisted the idea of devoting more Pentagon surveillance aircraft and armed drones against al-Nusra. In White House Situation Room meetings, Carter and other top Pentagon officials argued that the military’s resources were needed to combat the Islamic State and that it would be difficult to operate in the airspace given Russia’s military presence, officials said.
While Obama, White House national security adviser Susan E. Rice, Secretary of State John F. Kerry and special presidential envoy Brett McGurk agreed with Carter on the need to keep the focus on the Islamic State, they favored shifting resources to try to prevent al-Nusra from becoming a bigger threat down the road.
A senior defense official said additional drone assets were assigned to the JSOC mission. Carter also made clear that the Pentagon’s goal would be to hit al-Nusra leadership targets, not take strikes to try to separate the moderate rebels from al-Nusra, officials said.
“If we wake up in five years from now, and Islamic State is dead but al-Qaeda in Syria has the equivalent of [the tribal areas of Pakistan] in northwest Syria, then we’ve got a problem,” a second senior U.S. official said.

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Syria’s Jabhat al-Nusra splits from al-Qaeda and changes its name Is al-Qaeda’s affiliate in Syria no longer a ‘sideshow’?

E anche i WP non aveva bisogno di chissà quali fonti anonime: bastava che andasse  sul sito del Dipartimento Usa  del Tesoro per vedere che il detto Ministero  comunicava: “Abbiamo smesso di pagare i qaedisti”. Beninteso, il linguaggio non è così esplicito, ma lo è abbastanza: “L’ufficio per il Controllo degli Attivi Esteri” (il Tesoro  ha appunto un  ufficio con questo nome) ha  agito oggi per  interrompere  le operazioni militari,   di reclutamento e finanziamento  del Fronte Al Nusra. Specificamente il il detto ufficio ha indicato quattro leader di Al Nusra  – Abdallah Muhammad Bin-Sulayman al-Muhaysini, Jamal Husayn Zayniyah, Abdul Jashari, and Ashraf Ahmad Fari al-Allak –   in coordinamento col Dipartimeno di Stato, come individui responsabili di fornire  al Al Nusra  sostanziale sostegno finanziario e logistico, dal reclutamento di combattenti alla raccolta di fondi”. Si può  leggere qui:

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Treasury Designates Key Al-Nusrah Front Leaders
11/10/2016
Action Targets al-Nusrah Front’s Financial Facilitation Networks
WASHINGTON – The U.S. Department of the Treasury’s Office of Foreign Assets Control (OFAC) took action today to disrupt al-Nusrah Front’s military, recruitment, and financing operations. Specifically, OFAC designated four key al-Nusrah Front leaders – Abdallah Muhammad Bin-Sulayman al-Muhaysini, Jamal Husayn Zayniyah, Abdul Jashari, and Ashraf Ahmad Fari al-Allak – pursuant to Executive Order (E.O.) 13224, which targets terrorists and those providing support to terrorists or acts of terrorism. As a result of today’s action, all property and interests in property of these designated individuals subject to U.S. jurisdiction are blocked, and U.S. persons are generally prohibited from engaging in transactions with them.
These designations were taken in coordination with the U.S. Department of State, which today named Jabhat Fath al Sham as an alias of al-Nusrah Front – al-Qa’ida’s affiliate in Syria.
“From recruiting fighters to raising funds, these sanctioned individuals are responsible for providing key financial and logistical support to al-Nusrah Front,” said John E. Smith, Acting OFAC Director. “Treasury will continue to target al-Nusrah Front’s financial networks and choke off their access to the international financial system.”
Abdallah Muhammad Bin-Sulayman al-Muhaysini
Abdallah Muhammad Bin-Sulayman al-Muhaysini was designated for acting for or on behalf of, and providing support and services to or in support of, al-Nusrah Front.
As of late 2015, al-Muhaysini was an accepted member of al-Nusrah Front’s inner leadership circle. As of July 2015, Abdallah al-Muhaysini served as al-Nusrah Front’s religious advisor and represented al-Nusrah Front in an Idlib Province, Syria, military operations room. He has been involved in recruiting fighters to join al-Nusrah Front and helping to form a new al-Nusrah Front “state” in northern Syria. In April 2016, Muhaysini launched a campaign to recruit 3,000 child and teenage soldiers across northern Syria for al-Nusrah Front.
Al-Muhaysini has played a crucial role in providing financial aid to al-Nusrah Front. Between 2013 and 2015, al-Muhaysini raised millions of dollars to support al-Nusrah Front governance efforts in Idlib Province, Syria. As of early October 2015, al-Muhaysini had set up institutions providing financial aid to terrorist groups, including a highly successful campaign that he claimed had secured $5 million in donations to arm fighters.
Jamal Husayn Zayniyah
Jamal Husayn Zayniyah was designated for acting for or on behalf of al-Nusrah Front.
As of late 2015, Zayniyah was al-Nusrah Front’s emir of al-Qalamun, Syria and Lebanon. As al-Nusrah Front’s emir of al-Qalamun, Zayniyah was responsible for planning operations in al-Qalamun and Lebanon. Zayniyah was also responsible for al-Nusrah Front’s abduction of a group of Christian nuns in Ma’alula, Damascus Province, Syria. As of mid-2015, Zayniyah had established himself as an intermediary for the negotiations over hostages, including 16 Lebanese soldiers, held by al-Nusrah Front.
Abdul Jashari
Abdul Jashari was designated for acting for or on behalf of al-Nusrah Front.
Jashari is a Syria-based al-Nusrah Front military advisor who has also helped to raise funds for the families of al-Nusrah Front fighters. During the summer of 2015, Jashari led al-Nusrah Front military operations in northern Syria. Previously, during the summer of 2014, al-Nusrah Front emir and SDGT Abu Muhammad al-Jawlani appointed Jashari as leader of al-Nusrah Front’s military operations.
Ashraf Ahmad Fari al-Allak
Ashraf Ahmad Fari al-Allak was designated for acting for or on behalf of al-Nusrah Front.
As of April 2016, al-Allak was an al-Nusrah Front military commander in Dara Province, Syria. He has provided support to al-Nusrah Front military operations in southern Syria by mobilizing al-Nusrah Front fighters and weapons. He has also served as the al-Nusrah Front emir of Saraya, Syria and Dara City, Syria.

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Quei quattro fanno quasi pena, poveracci. Più che capi militari, erano probabilmente i capi-contabili e  ragionieri del Jihad, e il Tesoro li conosce benissimo, visto che li riempiva di  quattrini.  Sempre il Washington Post ci ha spiegato, il 12 giugno 2015, che la CIA, col suo direttore John Brennan,  aveva speso un miliardo di dollari l’anno in armi, addestramento e quattrini  per questi ribelli “moderati”, “una delle più grandi operazioni coperte della CIA”.

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Rebel fighters from the “First Battalion” under the Free Syrian Army take part in military training on June 10, 2015, in rebel-held country near the northern Syrian city of Aleppo. (Baraa al-Halabi/AFP/Getty Images)

Secret CIA effort in Syria faces large funding cut

By Greg Miller and Karen DeYoung
Key lawmakers have moved to slash funding of a secret CIA operation to train and arm rebels in Syria, a move that U.S. officials said reflects rising skepticism of the effectiveness of the agency program and the Obama administration’s strategy in the Middle East.
The House Intelligence Committee recently voted unanimously to cut as much as 20 percent of the classified funds flowing into a CIA program that U.S. officials said has become one the agency’s largest covert operations, with a budget approaching $1 billion a year.
“There is a great deal of concern on a very bipartisan basis with our strategy in Syria,” said Rep. Adam B. Schiff (Calif.), the ranking Democrat on the intelligence panel. He declined to comment on specific provisions of the committee’s bill but cited growing pessimism that the United States will be in a position “to help shape the aftermath” of Syria’s civil war.
The cuts to the CIA program are included in a preliminary intelligence spending bill that is expected to be voted on in the House next week. The measure has provoked concern among CIA and White House officials, who warned that pulling money out of the CIA effort could weaken U.S.-backed insurgents just as they have begun to emerge as effective fighters. The White House declined to comment.
Recent CIA assessments have warned that the war is approaching a critical stage in which Syrian President Bashar al-Assad is losing territory and strength, and might soon be forced to relinquish all but a narrow corridor of the country to rebel groups — some of them dominated by Islamist militants.
[Assad hold on seen as increasingly imperiled}
“Regime losses across the front lines are edging the conflict closer to [Assad’s] doorstep,” a U.S. intelligence official said, speaking on the condition of anonymity. The Syrian president “is not necessarily on the verge of defeat,” the official said, noting that Russia and Iran continue to support him and could help him stave off collapse. But because of regime losses in Idlib and elsewhere, the official said, “many people are starting to openly talk about an endgame for Assad and Syria.”
The projections have prompted a flurry of discussions at the White House, CIA, Pentagon and State Department regarding post-Assad scenarios, officials said, and whether U.S.-backed moderate forces will be in a position to prevent the country from being overrun by extremist groups, including the Islamic State, which has beheaded Western hostages and declared a caliphate encompassing large parts of Syria and Iraq.
This week, President Obama expanded the U.S. military’s role against the Islamic State, unveiling plans to deploy U.S. advisers to new bases in Iraq, while announcing no change to the limited American-led bombing campaign that began in Iraq and Syria last year. A separate Defense Department program authorized to train moderate fighters to combat the Islamic State has not yet begun.
But the sudden contraction of Assad’s sphere of control has focused renewed attention on Syria and the CIA program set up in 2013 to bolster moderate forces that still represent the United States’ most direct involvement on the ground in Syria’s civil war.
The cost of that CIA program has not previously been disclosed, and the figure provides the clearest indication to date of the extent to which the agency’s attention and resources have shifted to Syria.
At $1 billion, Syria-related operations account for about $1 of every $15 in the CIA’s overall budget, judging by spending levels revealed in documents The Washington Post obtained from former U.S. intelligence contractor Edward Snowden.
U.S. officials said the CIA has trained and equipped nearly 10,000 fighters sent into Syria over the past several years — meaning that the agency is spending roughly $100,000 per year for every anti-Assad rebel who has gone through the program.
The CIA declined to comment on the program or its budget. But U.S. officials defended the scale of the expenditures, saying the money goes toward much more than salaries and weapons and is part of a broader, multibillion-dollar effort involving Saudi Arabia, Qatar and Turkey to bolster a coalition of militias known as the Southern Front of the Free Syrian Army.
Much of the CIA’s money goes toward running secret training camps in Jordan, gathering intelligence to help guide the operations of agency-backed militias and managing a sprawling logistics network used to move fighters, ammunition and weapons into the country.
The move by the House intelligence panel to cut the program’s funds is not mentioned in the unclassified version of the spending bill. But statements released by lawmakers alluded to some of their underlying concerns, including a line calling for an “effort to enhance the metrics involved in a critically important [intelligence community] program.”
That language, officials said, was a veiled reference to members’ mounting frustration with the program and a perceived inability by the agency to show that its forces have gained territory, won battles or achieved other measurable results.
“Assad is increasingly in danger, and people may be taking bets on how long he can last, but it’s largely not as a result of action by so-called moderates on the ground,” said a senior Republican aide in Congress, who spoke on the condition of anonymity, citing the sensitivity of the subject.
In the past two years, the goal of the CIA’s mission in Syria has shifted from ousting Assad to countering the rise of extremist groups including al-Qaeda affiliated Jabhat al-Nusra and the Islamic State, which is also known as ISIS and ISIL.
“Unfortunately, I think that ISIS, al-Nusra and some of the other radical Islamic factions are the best positioned to capi­tal­ize on the chaos that might accompany a rapid decline of the regime,” Schiff said.
Even defenders of the CIA program acknowledge that moderate factions in Syria have often performed poorly and are likely to be overwhelmed in any direct showdown with the Islamic State.
Still, officials said U.S.-backed fighters have made significant gains in recent weeks — including the seizure of a government army base — and represent the only meaningful prospect for the United States and its allies to maintain a foothold in the country if Assad falls.
“This is especially true in southern Syria, where [the U.S.-backed coalition] is emerging as a significant force capable of capturing key regime bases,” the U.S. intelligence official said. “Slowly but surely, U.S. government support to the moderate opposition forces has paid off.”
Opposition leaders in southern Syria, where the CIA-trained fighters are concentrated, said the groups have recently become better organized and more effective in their use of heavier weapons, including U.S.-made TOW antitank missiles.
“They have coherent command and control and have unified Sunni groups,” said Oubai Shahbandar, a former top adviser to the opposition leadership who maintains regular contact with rebels on the ground. Moderate militias have kept control of border crossings into Jordan and the Israeli-occupied Golan Heights and are fighting on the outskirts of Damascus.
The training program, Shahbandar said, “is a precedent in terms of what works.” Rather than cut funds, he said, the United States “should really double down on its southern program.”
Rebel units in the area have set up functioning civilian governments that could be models for the kind of political transition the United States says it seeks as a replacement for Assad, said Lina Khatib of the Carnegie Middle East Center.
Despite those gains south of Damascus, experts and officials said that the most significant pressure on Assad’s regime is in northern Syria, where the Islamic State is on the offensive. At the same time, a separate coalition of rebel groups known as the Army of Conquest has taken advantage of infusions of new weapons and cash from Saudi Arabia, Turkey and Qatar.
The intelligence spending bill would set budgets for the fiscal year beginning in October. The chairman of the House intelligence panel, Rep. Devin Nunes (R-Calif.), declined a request for an interview.
The Senate Intelligence Committee is expected to begin work this month on its own budget for U.S. spy agencies. U.S. officials said the White House has signaled that it will seek to persuade the Senate panel to protect the CIA program from the cuts sought by the House.

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Muhaysini e il giornalista premiato

Il primo dei nominati,  Al-Muhaysini,  un imam saudita,  in carriera per diventare il futuro Bin Laden, era sicuramente un buon amico. Tanto che   il giovanotto accanto a lui nella foto (Al-Muhaysini), è   il “giornalista “ e propagandista di Al Qaeda in Siria Hadi Abdullah, era stato premiato da Reporters Sans Frontières   con il Press Freedom Price.

E che Reporters san Frontières  sia pesantemente infiltrato dalla Cia, e riceva contributi annuali dal National Endowment for Democracy , che è un braccio del Congresso Usa, l’ha rivelato dal 2008 non un blog complottista, ma il franecse Le Figaro. Adesso, a secco. Anzi,  fatti secchi.    Ciò perché, spiega il “grande giornale”  Washington Post,   “il presidente  Obama non vuole che questo gruppo  [Al Nusra]   erediti la Siria: non è un’opposizione sostenibile, perché è l’organizzazione di Al Qaeda”. E lui, il Nobel per la Pace,   si allarma  che si formi “ una nuova base operativa di Al Qaeda alla porta dell’Europa  Meridionale”.  Lo fa  per il nostro bene, insomma.  Commuove vedere che Obama abbia preso coscienza che Al Nusra e Al Qaeda  sono la stessa cosa: ancora ad ottobre assicurava che era l’opposizione moderata, da far partecipare alla transizione democratica del dopo-Assad; e i cui gruppi democratici erano così mescolati ai militanti veramente terroristi che – nonostante le insistenze di Mosca  – Washington non riusciva a separare e distinguere.  Giungendo  a minacciare la guerra a Mosca  perché Putin, invece di bombardare l’ISIS, bombardava “i nostri terroristi”.  Quelli che già il  ministro degli esteri francese Laurent Fabius   28 gennaio 2013 aveva riconosciuto: sul terreno, in Siria , stanno facendo un buon lavoro” (bon boulot) . Quella Al Nusra a cui aveva  l’Occidente non ha esitato di fornire, ancora due mesi fa,  armamento a tonnellate includi mezzi corazzati.

Adesso basta: Obama chiude il teatrino e  fa le pulizie di fine mandato. Un cambiamento  che il giornale libanese Al-Akhbar trova “spettacolare”, tanto da non vedervi “un ripiegamento da parte di Obama,  ma come un’alternativa per conservare Al Qaeda come mezzo di pressione attivo per condurre il presidente Assad ad una dimissione volontaria.. Privati dei loro capi,  gli elementi di Al Nusra dovranno forzatamente fondersi con gli altri gruppi terroristi non catalogati Al Qaeda…In altre parole, invece di rispondere all’esigenza russa di separar  i terroristi di Al Nusra dai pretesi oppositori armati moderati, Obama cerca di fondere i primo coi secondi”.      Interpretazione di cui lasciamo la responsabilità al giornale libanese.

Fatto sta  che adesso Obama non lascia testimoni di quell’amicizia. Sembra proprio (ma possiamo sbagliare) che  la sconfitta della Clinton  lo abbia costretto ad abbandonare quel progetto, consistente nel fare della Siria un territorio di transito di un oleodotto che portasse il greggio e gas dal Katar all’Europa, allo scopo di  staccare gli europei dalla dipendenza da Mosca come fornitore energetico.  Un progetto caldeggiato da Hillary quando era segretaria di Stato, convintissima dalle ricche donazioni dei sauditi e dell’emiro del Katar.

Secondo la Reuters, questi ed altri donatori hanno contribuito alla campagna presidenziale Hillary 9 milioni  di dollari.  “La sconfitta di Hillary significa la perdita del loro investimento per grandi donatori come George Soros, l’industria della difesa e l’Arabia Saudita, sunteggia il Deutsche Wirtschaft Nachrichten. Hanno investito sul cavallo sbagliato. E così il progetto è sconfitto. Oltre 400 mila morti (non sono state scoperte tutte le fosse comuni disseminate dai jihadisti in Irak e Siria), 3 o quattro milioni di profughi e sfollati, le infrastrutture sistematicamente distrutte dall’aviazione americana, un  paese civile in ogni caso smembrato;  destabilizzazione sangunosa e ferite che non si rimarginano (milizie curde stanno combattento con  truppe turche)  infinite menzogne dei media sul mostro Assad che “gasa il suo stesso popolo”,  sui russi che “bombardano i bambini ad Aleppo”…ed ora  finisce   come se niente fosse? Perché Trump ha detto venerdì che per lui bisogna combattere l’ISIS, non Assad.

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استراتيجية اوباما قبل المغادرة: ضرب قادة «النصرة» والحفاظ على مقاتليها

Rapida  anche la sparizione dell’appoggio americano al regime golpista di Kiev. Michael McFaul, l’ex ambasciatore  Usa in Russia fino al 2014, dichiarato persona  non grato perché stava  organizzando una “primavera colorata” (è la sua specialità), ha twittato  il 9 novembre: “Il più gran perdente stanotte: l’Ucraina. La vostra sola speranza (dice rivolto ai golpisti che l’America ha messo a potere) è fare seriamente le riforme e  tenervi amici gli europei”.   Insomma ce li accolla.  Frattanto, Saakashvili, il   georgiano messo a fare il governatore di Odessa per i suoi meriti anti-russi, ha attaccato il presidente Poroshenko e tutto il governo golpista; si agita, secondo  gli analisti, per farsi notare da Donald Trump  sperando di essere scelto a sostituire Porochenko, in una imminente normalizzazione.   Anche qui : un paese distrutto economicamente, centinaia dimorti ammazzati fra  Kiev ed Odessa,  5 miliardi spesi dalla Nuland per staccare l’Ucraina dalla Russia – e adesso si chiude, come si chiude un ombrello se smette di piovere.  E Trump non è nemmeno ancora insediato. La velocità e la disinvoltura con cui l’amministrazione uscente liquida e chiude  queste tragedie che ha provocato e sostenuto per 5 anni, con miliardi di dollari, ha  qualcosa di ancor più mostruoso dell’averle scatenate.  Accusa l’artificialità, la pretestuosità criminale della guerra in Siria come del golpe in Ucraina; un costo in pura perdita che, cessata la volontà politica, si  disinveste in poche ore, allegramente, come una finzione ormai insostenibile. Si dà ordine  di uccidere i capi  d i Al Nusra,  si abbandonano i golpisti di Kiev al loro collasso economico – sostenuti fino  a ieri con esborsi miliardari del Fondo Monetario –  e gli si dice: tenetevi amici gli europei, fatevi mantenere da loro.  Se vi riesce.

825.-UN PUNTO DI VISTA ITALIANO: L’EURO E IL DECLINO DELL’ECONOMIA ITALIANA

VOCI DALL’ESTERO

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Nel primo dei due capitoli scritti per L’euro est-il mort?, libro pubblicato in Francia che raccoglie i contributi di più autori coordinati dall’economista Jacques Sapir, Alberto Bagnai – ben noto ai nostri lettori per il blog Goofynomics e presidente dell’associazione a/simmetrie – analizza la crisi dell’eurozona con l’aiuto dell’esperienza italiana, particolarmente utile da due punti di vista: perché l’Italia stessa è un’unione monetaria che non è un’area valutaria ottimale e ne ha già sperimentato le conseguenze; e perché le élite italiane hanno dichiarato molto esplicitamente quali erano, dal loro punto di vista, gli obiettivi dell’unione europea: utilizzare il vincolo esterno legato alla moneta unica per orientare il processo democratico e in questo modo la distribuzione del reddito. Senza il “sogno europeo”, il “ce lo chiede l’Europa” e le crisi generate dalla moneta unica non sarebbe stato possibile realizzare il programma di “riforme strutturali” che hanno indebolito e impoverito i lavoratori e in generale le fasce di popolazione più deboli. Il vero successo dell’euro, amaramente, è stato questo.

di Alberto Bagnai, ottobre 2016

bagnai_ad_uno_mattina_03-04-2013_-_youtubeL’euro e il declino dell’economia italiana

Adam Smith ce l’aveva ben detto, nel terzo capitolo del primo libro de «La ricchezza delle nazioni»: la divisione del lavoro è limitata dalla dimensione del mercato. Non ci si può aspettare che un produttore privo di sbocchi sul mercato sia spinto ad adottare innovazioni e quindi aumentare la produttività. A che cosa gli servirebbe produrre di più, o produrre a un costo più basso, se non ha qualcuno a cui vendere? La produttività non è una questione puramente esogena o tecnica. Nell’economia classica (Smith), come in quella keynesiana, e, ci permettiamo di aggiungere, nell’economia tout court, la produttività dipende anche dalla domanda.
Che cosa c’entra questo con l’Italia?

L’evento che più salta all’occhio nell’economia italiana degli ultimi trent’anni è senza dubbio l’improvviso arresto del tasso di crescita della produttività del lavoro, che si manifesta poco dopo la metà degli anni 90. Dal 1971 al 1996 la produttività del lavoro era aumentata a un tasso medio annuale del 2.7%, non lontano dal 3.0% della Francia e dal 2.9% della Germania. Tra il 1997 e il 2010 il tasso di crescita in Italia crolla allo 0.3%, mentre rimane all’1.4% in Francia e all’1.3% in Germania. È nel 1997 che comincia il declino dell’economia italiana, questo è un fatto così evidente che anche i sostenitori dell’euro sono costretti ad ammetterlo. In effetti il 1997 è un anno cruciale nel percorso verso la moneta unica. I paesi candidati infatti si erano impegnati ad adottare, nei due anni precedenti all’entrata in vigore dell’euro, una parità fissa rispetto all’ECU. Questo punto determinante sfugge ai più: per quello che riguarda il rapporto tra i paesi europei, l’euro in effetti ha inizio nel 1997, perché è a partire da questa data che i tassi di cambio tra i futuri paesi membri sono resi fissi (con margini di oscillazione molto ridotti).

La rigidità del tasso di cambio comporta una riduzione pressoché immediata del tasso di crescita delle esportazioni. La chiusura degli sbocchi sui mercati esteri, dove i prodotti italiani diventavano progressivamente sempre meno competitivi, produsse gli effetti che erano già chiari a Smith nel XVIII secolo, e sarebbero stati studiati più approfonditamente da Kaldor nel XIX: un circolo vizioso di caduta della produttività, che provoca una caduta della competitività, che causa una caduta delle esportazioni, che comporta un ulteriore calo della produttività. La crescita media dell’economia italiana tra il 1980 e il 1997 era stata del 2.3%. Dal 1997 alla crisi del 2009 scende all’1.3%. Se si tiene conto anche degli anni della crisi, dal 1997 al 2015 la crescita media è stata dello 0.4%. Il PIL nel 2015 era uguale a quello del 2000. L’Italia è tornata indietro di 15 anni e questa catastrofe senza precedenti nella sua storia e senza uguali oggi nell’eurozona dipende in larga misura dal fatto che la crisi ha colpito un’economia sofferente e in declino. Un declino che coincide con ciò che ne è stato la causa: l’adozione de facto dell’euro.[i]

L’Italia e l’europeismo

Forse è per questo che, quando si affronta l’argomento dell’euro in Italia, è ormai difficile trovare qualcuno disposto a sostenere che la moneta unica ci protegge dalle crisi. I fatti dimostrano che argomenti economici di questo tipo erano falsi. Chi difende il progetto ora cerca piuttosto di mettere in rilievo la sua dimensione politica, che sarebbe soprattutto quella di favorire il superamento degli Stati-nazione. Questi ultimi, ci dicono, sarebbero la causa dei conflitti. Di conseguenza, per assicurare la pace ai popoli europei, bisogna spazzare via il «nazionalismo», creando un immenso Stato federale, di cui l’euro sarebbe un simbolo. In più, questo aiuterebbe gli Stati «piccoli», come l’Italia, a difendersi meglio dai «grandi» paesi emergenti. Diversi politologi (in particolare Majone e Zielonka) sottolineano che questo implica un modo di ragionare un po’ assurdo: per combattere il nazionalismo si ricorre a un nazionalismo di ordine superiore[ii].

I grandi Stati federali, così come li conosciamo, derivano soprattutto dall’antico impero britannico (Stati Uniti, Canada, Australia, India). In realtà sono Stati-nazione, dove la lingua e le istituzioni inglesi sono dominanti (con l’eccezione dell’India, dove le differenti culture locali sono state difficili da sradicare e dove quindi la struttura federale non ha consentito di evitare numerosi conflitti). In Europa, gli Stati-nazione si affermano con i Trattati di Westfalia (1648), che misero termine alle guerre di religione. Le loro costituzioni sono uno strumento di protezione dei diritti fondamentali, a cui sarebbe pericoloso rinunciare senza sapere esattamente da che cosa sarebbero sostituite. È stata la Nato, e non l’Europa, che ci ha assicurato fino a oggi un lungo periodo di pace (o meglio, di guerra fredda), e tra le cause dell’ultima guerra mondiale c’è stato l’errore che Keynes aveva denunciato in anticipo: schiacciare la Germania sotto il suo debito di guerra.[iii] Prostrare un paese sotto il peso di un debito insostenibile: è esattamente lo stesso errore che si sta ripetendo oggi con la Grecia, e questo per salvaguardare l’euro «che porta la pace».

C’è forse del metodo, in questa follia europeista. In fondo, tutte le unioni monetarie sono, per definizione, strumenti di integrazione finanziaria, concepiti per facilitare il libero movimento dei capitali. Ora, la liberalizzazione dei movimenti dei capitali comporta una compressione dei redditi da lavoro[iv]. L’accanimento con cui le élite europee difendono la moneta unica, nonostante i suoi limiti evidenti, potrebbe quindi spiegarsi con la volontà di proteggere i profitti a spese dei salari.

Certo, si tratta di un obiettivo politicamente legittimo. Tuttavia, due cose dovrebbero metterci in guardia. Da una parte, il fatto che ormai la Banca centrale europea (BCE) si preoccupa per le conseguenze negative dei bassi salari sulla deflazione, e quindi sulla ripresa dell’economia europea.[v] Forse il bel gioco è durato troppo? Dall’altra, dovrebbe allarmarci il modo sottilmente sleale attraverso il quale il progetto europeo è stato presentato come qualcosa di cui non si poteva neppure discutere, viste le sue nobili intenzioni (garantire la pace) e le cui conseguenze economiche sarebbero andate a vantaggio delle classi sociali più deboli (perché l’euro le avrebbe «protette», e la «grande Europa politica» li avrebbe aiutati a combattere il «grande capitale internazionale»).
Nell’analisi dell’attuale vicolo cieco in cui si trova l’Europa, l’esperienza italiana può aiutarci. Nel percorso storico e politico italiano, due elementi sono a mio parere utili a questo scopo. Il primo è che l’Italia, proprio come la zona euro della quale fa parte, è essa stessa un’unione monetaria, che non è un’area valutaria ottimale, a causa delle profonde differenze strutturali tra Nord e Sud del paese. Gli italiani vivono quotidianamente i problemi che sorgono quando regioni troppo diverse si riuniscono sotto una stessa moneta, e hanno dovuto imparare ad affrontare questi problemi. Il secondo è che le élite italiane hanno dichiarato molto esplicitamente quali erano, dal loro punto di vista, gli obiettivi dell’unione europea. Si trattava, infatti, di utilizzare il vincolo esterno legato alla moneta unica per orientare il processo democratico e in questo modo la distribuzione del reddito. Se, come fa osservare Featherstone, dalla creazione – nel 1979 – del sistema monetario europeo il vincolo esterno in Europa è stato applicato un po’ dappertutto per influenzare le politiche nazionali, la sua filosofia politica non è mai stata espressa così chiaramente come dagli esponenti politici italiani (al punto che perfino nella letteratura scientifica internazionale si usa l’espressione italiana «vincolo esterno»).[vi]

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L’Italia come unione monetaria

Nel 2006, uno studio della Banca d’Italia faceva osservare che 145 anni dopo l’unificazione monetaria dell’Italia (realizzata contemporaneamente all’unificazione politica), i livelli dei prezzi e i tassi d’inflazione nelle differenti regioni e province non convergevano ancora del tutto.[vii] Un fenomeno molto intrigante. Infatti, stando alla teoria economica ortodossa, a determinare il livello dei prezzi è la quantità di moneta circolante. Sarebbe dunque logico attendersi che a una moneta unica corrisponda un livello di prezzi, o almeno un’inflazione, unici. Questo studio mostra che in Italia non va affatto così. Uno studio successivo mostrò che la medesima cosa succedeva su scala europea, dove si assiste a una divisione dei paesi in tre «club d’inflazione»: i paesi del Nord (che convergono verso un’ inflazione bassa), l’Italia (con un’inflazione media), e i paesi del Sud (con un’inflazione relativamente elevata).[viii] L’esperienza delle regioni italiane suggerisce tuttavia che questo stato di fatto è destinato a persistere molto a lungo, il che significa che bisognerà attendere molto tempo perché tutti i paesi europei convergano verso il medesimo tasso di inflazione.
Da questi fatti statistici derivano due conseguenze significative.
In primo luogo, il fatto che una moneta unica conduca comunque a livelli di inflazione diversi rimette in discussione l’ingenua convinzione che sia la moneta che «causa» i livelli dei prezzi. Non si tratta di un’osservazione puramente teorica, al contrario: si tratta di una constatazione politica. L’inizio della terza globalizzazione (la globalizzazione «finanziaria») è stato caratterizzato da due importanti riforme istituzionali: la liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitali e l’affermazione del principio dell’indipendenza dai governi della Banca centrale.[ix] Quest’ultimo si traduce nella proibizione rivolta alla Banca centrale di finanziare programmi di spesa pubblica attraverso l’emissione di moneta (incluso l’acquisto di titoli di debito pubblico al momento dell’emissione).

Questo divieto, giustificato all’epoca con la necessità di contenere l’inflazione legata all’impennata del prezzo del petrolio, ha avuto come conseguenza quella di obbligare gli Stati sovrani a rivolgersi ai mercati finanziari (e dunque in misura sempre crescente agli investitori internazionali) per soddisfare i loro bisogni di finanziamento. Si partiva dal principio che questo avrebbe sottoposto i governi, potenzialmente corrotti o miopi, alla disciplina dei mercati, visto che questi si sarebbero rifiutati di finanziare governi inefficienti.
Alla base di questo approccio, c’era l’idea che, poiché è la moneta che provoca l’inflazione, lasciando la gestione della massa monetaria nelle mani dei governi, questi ne avrebbero sicuramente approfittato a fini elettorali, provocando di conseguenza un aumento dell’inflazione.
Tuttavia, il fatto che da una parte una moneta unica possa coesistere con tassi di inflazione diversi e divergenti e dall’altra che la creazione massiccia di moneta da parte della BCE non sia riuscita a rianimare l’inflazione in Europa ci permette di vedere chiaramente che il legame tra massa monetaria e inflazione non è automatico. Questo spiega perché a una moneta unica non corrisponde un’inflazione unica. L’esperienza europea (e prima di questa l’esperienza italiana) ormai ci conferma che la dinamica dei prezzi è legata ad altri elementi strutturali di un sistema economico, in particolare al mercato del lavoro: è il tasso di disoccupazione, e non quello di creazione di moneta, che regola il tasso d’inflazione.[x] Questo d’altra parte spiega perché è nel sud d’Italia, dove la disoccupazione è maggiore, che l’inflazione è più bassa. Se però la moneta non causa l’inflazione, non è più giustificabile la decisione di sottrarne la gestione ai governi per garantire la stabilità dei prezzi. Se cade questa motivazione, bisogna dunque che ci domandiamo quale sia la giustificazione per proibire il finanziamento monetario del debito pubblico. In effetti, l’idea di sottomettere gli Stati alla disciplina dei mercati o, in altri termini, di privatizzare il più possibile il circuito del risparmio e dell’investimento, sembra un po’ superata, in un periodo in cui si assiste alla crisi mondiale di questi stessi mercati.

Il fatto che una moneta unica non garantisca la convergenza dei tassi d’inflazione ha un’altra conseguenza importante. Se infatti non si produce una convergenza, la moneta unica non può garantire che il rapporto tra i prezzi dei beni prodotti all’interno di un paese e quelli prodotti all’estero, quello che si definisce il tasso di cambio «reale», sia stabile. Nei paesi dove l’inflazione è più bassa, questo rapporto avrà la tendenza a diminuire. Si assisterà così a quella che si definisce una svalutazione del tasso di cambio reale, che corrisponde a un miglioramento della competitività, e comporta un surplus commerciale, al quale dovrà necessariamente corrispondere un deficit da qualche altra parte (nei paesi dove l’inflazione è più alta). Se il paese più forte avesse la sua propria valuta, questa tendenza sarebbe compensata da una rivalutazione del suo tasso di cambio: la moneta del paese forte diventerebbe anch’essa più forte, perché tutti la richiederebbero per acquistare i beni che produce.
Ma se la moneta è unica, il paese più forte non può rivalutare, il che vale a dire che non può riallineare la sua moneta alla sua produttività. Il peso dell’aggiustamento sarà allora sostenuto dai paesi che, per svariate ragioni (storiche, tecnologiche, sociali, culturali) in quel momento sono meno produttivi.

Negli anni 80 c’era la tendenza a interpretare questi fenomeni in un’ottica moralistica. Il deficit commerciale, si diceva, spronerà i deboli a correggersi. Un eccesso persistente di importazioni crea necessariamente un debito estero (perché bisogna pagare i beni che si acquistano all’estero) e una perdita di posti di lavoro (perché le importazioni non creano lavoro nelle regioni di destinazione, ma in quelle di provenienza). I paesi deboli si troveranno dunque di fronte a un dilemma: o diventare più produttivi (in modo da poter avere prezzi meno elevati) o perdere posti di lavoro, e sceglieranno per forza di cose la strada giusta, cioè fare le riforme necessarie a diventare più produttivi.
L’idea secondo cui, una volta buttati nella piscina della moneta unica, i paesi più deboli avrebbero volenti o nolenti imparato a nuotare era di per sé piuttosto autoritaria e sorda allo spirito di «solidarietà» e «unione sempre più stretta» declamato dal progetto europeo. In più, era smentita dall’esperienza italiana, e anche dalla più recente esperienza tedesca, che dimostrava che le regioni più deboli non riescono a recuperare facilmente il loro ritardo, quando sono schiacciate dal peso di una moneta troppo forte.[xi]
Infine, questa idea era un po’ ingenua, nel senso che è ingenuo illudersi che, in mancanza di una rivalutazione della valuta del paese forte, la riduzione dei prezzi nel paese debole possa sistemare le cose. Certo, in linea di principio per far scendere i prezzi basta essere più produttivi: se lo stesso lavoratore produce il doppio dei beni, i beni possono essere venduti a metà prezzo. Ma un aumento della produttività non si ottiene dall’oggi al domani. Questo meccanismo non è compatibile con l’urgenza generata dalle crisi finanziarie.
Quando scoppia la crisi, è piuttosto la disoccupazione (o la chiusura delle aziende) che assicura la moderazione dei prezzi. Se però la disoccupazione persiste, i lavoratori si trasferiscono. Per gli economisti «ortodossi» è un bene: il tasso di disoccupazione scende, perché, dopo che i disoccupati se ne sono andati, non ci sono più disoccupati. Pangloss non saprebbe dirlo meglio!

Gli economisti keynesiani hanno invece il buon senso di rendersi conto che questi disoccupati sono anche clienti delle aziende locali: la loro uscita di scena provoca quindi una crisi di domanda, che fa sprofondare le regioni deboli nella trappola del sottosviluppo. Se calano gli acquirenti locali, bisogna andare a caccia di mercati all’estero, e per farlo è necessario tagliare ancora maggiormente il costo del lavoro, ovvero i redditi dei lavoratori, spingendo ulteriormente a calare la domanda interna, in una spirale senza fine.
Del resto, è proprio questo che spiega la mancata convergenza dei prezzi tra le regioni italiane. La svalutazione «interna» (vale a dire la contrazione dei salari) è un meccanismo molto più lento e inerziale della svalutazione «esterna» (abbassamento del tasso di cambio della valuta nazionale). Una volta che il processo di aggiustamento è avviato, è difficile interromperlo al momento giusto, soprattutto se per favorirlo si sono messe in atto riforme strutturali (come il «jobs act» italiano o la «loi travail» francese). Il rischio è quindi di ritrovarsi intrappolati in una spirale deflazionistica. È quello a cui abbiamo assistito per decenni in Italia ed è quello da cui ci mette in guardia oggi la BCE a livello europeo.
Ci sono studi che dimostrano che la rigidità del tasso di cambio si accompagna a una crescita più debole.[xii] Non c’è da stupirsene: quando il meccanismo di aggiustamento si basa sulla diminuzione dei salari, è necessario che aumenti la disoccupazione (perché in caso contrario i lavoratori non accetterebbero la riduzione dei loro redditi). Ma è il lavoro che crea il valore. Un sistema economico che si riequilibra attraverso la disoccupazione è dunque destinato a creare meno valore.

L’esperienza italiana ci mostra che in questo gioco nessuno è vincitore. Se le regioni del Nord per un certo periodo hanno potuto sfruttare quelle del Sud come fonte di manodopera a basso costo, e allo stesso tempo come mercato per i prodotti delle loro industrie, a lungo termine la divergenza tra le due parti del paese risulta un rischio per la crescita, che compromette la stabilità finanziaria e finisce col creare tensioni secessioniste (rappresentate in Italia dalla Lega Nord). Lo stesso scenario si presenta oggi su scala europea.

Unione monetaria e «vincolo esterno» tra economia e politica

Quanto detto finora non è una novità. Nel 1996, Rudiger Dornbusch (MIT) già sosteneva che «la critica più seria che si può rivolgere a un’unione monetaria è che abbandonando gli aggiustamenti ottenuti attraverso il tasso di cambio è destinata a trasferire al mercato del lavoro il compito di regolare la competitività e i prezzi relativi… Le perdite di prodotti e di lavoro finiranno col prevalere…».[xiii] Due anni più tardi, Paul Krugman segnalava che «il pericolo più evidente e più immediato è che l’Europa diventi giapponese: che scivoli inesorabilmente nella deflazione, e che nel momento in cui i banchieri centrali decidono di mollare la presa, sia troppo tardi».[xiv] Ben prima, nel 1971, Nicholas Kaldor (Cambridge) aveva stabilito un punto: «Sarebbe un errore pericoloso credere che l’unione economica e monetaria possa venire prima dell’unione politica, perché se la creazione dell’unione monetaria e il controllo della Comunità sulle finanze nazionali provocano tensioni che portano al crollo del sistema, l’unione monetaria avrà impedito lo sviluppo di una unione politica, invece di favorirlo».[xv]

Oggi sta accadendo proprio quello che gli economisti più autorevoli avevano previsto: siamo in deflazione, perché gli aggiustamenti agli shock esterni (come la crisi dei «subprimes») si sono trasferiti sul mercato del lavoro (e quindi sui salari, attraverso l’aumento della disoccupazione), cosa che ha messo sotto pressione le economie nazionali e ha allontanato le prospettive fondate di una unione politica.

Da questo punto di vista, si può dunque affermare che l’euro è uno dei più grandi successi della scienza economica: tutto quello che questa aveva previsto si è realizzato, ed esattamente nel modo in cui la scienza economica l’aveva previsto.[xvi] Si sarebbe tentati di concludere che l’unione monetaria è stata al contrario una grande sconfitta della politica: dopo avere ignorato gli avvertimenti degli economisti, i politici non hanno raggiunto nessuno degli obiettivi che ostentavano (prosperità, stabilità, pace) e ci si può chiedere se mai li raggiungeranno. Tuttavia il dibattito politico italiano ci offre una visione più sfumata, che cercherò di descrivere partendo dalle dichiarazioni di tre dei nostri uomini politici che hanno ricoperto ruoli di responsabilità in Europa.

Nel 2001, Romano Prodi (all’epoca presidente della Commissione Europea) affermò: «Sono sicuro che l’euro ci obbligherà a introdurre nuovi strumenti di politica economica. È politicamente impossibile proporli adesso, ma un giorno ci sarà una crisi e si creeranno questi nuovi strumenti ».[xvii]

Quali erano questi strumenti che si ritenevano necessari, ma non erano proponibili politicamente? Ovviamente, tutto ciò che poteva portare a una maggior flessibilità verso il basso dei salari. A questo riguardo si può citare Tommaso Padoa-Schioppa (allora membro del comitato esecutivo della BCE, e in seguito ministro nel governo Prodi): «Nell’ Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali deve oggi spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma dev’essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità».[xviii]

Chiaramente, l’idea di essere riavvicinati bruscamente alla durezza del vivere non poteva sorridere agli elettori. Questa durezza, in particolare la disoccupazione, è stata usata per assicurare la flessibilità dei salari verso il basso: il meccanismo di aggiustamento ritenuto essenziale alla sopravvivenza della moneta unica, e che oggi è in fase di accartocciarsi su se stesso in una crisi deflazionistica (come Krugman aveva previsto). Ma se anche questo meccanismo potesse funzionare, tuttavia, resterebbe un piccolo problema: i salari, in una economia capitalistica, costituiscono il reddito della maggioranza dei cittadini. Questo rende di per sé poco politicamente sostenibile un sistema economico che a ogni crisi esige di ridurli. A questo proposito, nel 1998, Mario Monti (allora Commissario europeo per il mercato interno) aveva dichiarato: «Tutto sommato, alle istituzioni europee interessava che i Paesi facessero politiche di risanamento. E hanno accettato l’onere dell’impopolarità essendo più lontane, più al riparo, dal processo elettorale».[xix]
L’esperienza italiana ci offre quindi una nuova griglia analitica, coerente con le dichiarazioni dei politici italiani: a quanto pare, le élite dei paesi dell’UE periferici, come l’Italia, volevano smantellare e privatizzare lo stato sociale (Padoa Schioppa), sotto la pressione di una situazione di emergenza causata da crisi economiche (Prodi), utilizzando l’UE come capro espiatorio (Monti). Si tratta di una dinamica politica che è stata teorizzata e analizzata da molti autori, tra cui Featherstone.

L’adesione all’euro, e in precedenza al Sistema monetario europeo, ha creato un “vincolo esterno” il cui scopo era quello di garantire la sostenibilità politica del progetto, a molti livelli: in primo luogo, perché le crisi che il processo di integrazione monetaria rende inevitabili, aprono finestre di opportunità per l’avanzamento del progetto di unione politica. È la teoria di Jean Monnet, secondo il quale «l’Europa sarà costruita attraverso le crisi e sarà la somma delle soluzioni apportate a queste crisi».[xx] Inoltre, le crisi finanziarie permettono di proporre ai cittadini, come misure di emergenza, tagli di bilancio i cui effetti sulla distribuzione del reddito saranno permanenti.[xxi]

Ancora, perché ciò consente di attribuire a un ente “terzo”, “indipendente” e soprattutto sottratto al controllo diretto degli elettori, vale a dire “l’Europa”, la responsabilità delle politiche regressive che gli stessi elettori avrebbero respinto se fossero state proposte dai governi nazionali. È qui che le parole di Monti sono coerenti con l’analisi di Featherstone del “vincolo esterno”: dato che la moneta unica non è compatibile con il modello europeo di tutela del lavoro, quest’ultimo deve cedere il passo alla prima.
Per garantire il successo di questo progetto politico, che era, in sostanza, un progetto di redistribuzione del reddito, bisognava presentarlo come il risultato inevitabile di fenomeni incontrollabili (come ad esempio la globalizzazione) ed errori del passato (la prodigalità dei governi). La realtà era un po’ diversa: lo smantellamento dello stato sociale e del sistema di protezioni del lavoro non mirava al consolidamento dei bilanci pubblici, che non ne avevano bisogno,[xxii] quanto piuttosto a promuovere l’aggiustamento verso il basso dei salari, meccanismo essenziale in un regime di moneta unica.

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Da questo punto di vista, l’euro è stato senza alcun dubbio un grande successo. Ormai in Italia più o meno tutti ammettono che lo spauracchio del debito pubblico non giustificava le riforme realizzate negli ultimi cinque anni (dalla riforma delle pensioni, a quella della scuola, a quella del codice del lavoro, come suggerito da Padoa Schioppa). L’insorgere della crisi bancaria ha mostrato a tutti che il problema era altrove, vale a dire nel circuito finanziario privato, e non in quello pubblico.[xxiii] Impoverire un intero paese con politiche di imposte più alte e tagli alle prestazioni sociali ha peggiorato la situazione, ma cancellare i risultati di questi errori non sarà facile.

NOTE:

[i][i] Bagnai, A. 2016. Italy’s decline and the balance-of-payments constraint: a multicountry analysis. International Review of Applied Economics, 20, 1-26.

[ii] Giandomenico Majone (2014) Rethinking the union of Europe post-crisis – Has integration gone too far?, Cambridge: Cambridge University Press; Jan Zielonka (2014) Is the EU doomed?, Cambridge: Polity Press.

[iii] John Maynard Keynes (1931) Essays in persuasion, London: MacMillan.

[iv] Su questo ultimo punto, Davide Furceri et Prakash Loungani (2015) « Capital Account Liberalization and Inequality »,

IMF Working Papers 15/243, International Monetary Fund.

[v] Banca Centrale Europea (2016) « Economic Bulletin », n. 3 (marzo).

[vi] Kevin Featherstone K. (2001) “The political dynamics of the vincolo esterno: the emergence of EMU and the challenge to the European social model”, Queen’s Papers on Europeanisation, 6, Belfast: Queens University.

[vii] Fabio Busetti, Silvia Fabiani, Andrew Harvey (2006) “Convergences of prices and rates of inflation,” Temi di discussione (Economic working papers) 575, Bank of Italy, Economic Research and International Relations Area.

[viii] Fabio Busetti, Lorenzo Forni, Andrew Harvey, Fabrizio Venditti (2007) “Inflation Convergence and Divergence within the European Monetary Union,” International Journal of Central Banking, vol. 3(2), pp. 95-121, giugno.

[ix] Carmen M. Reinhart, Belen Sbrancia (2011) “The liquidation of government debt”, BIS Working Papers, n. 363, novembre

[x] Questo approccio è ormai condiviso dalla Banca Centrale Europea (op. cit.).

[xi] L’esperienza tedesca è descritta da Vladimiro Giacché (2013) Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa. Reggio Emilia: Imprimatur Editore.

[xii] Eduardo Levy-Yeyati, Federico Sturzenegger (2003) “To Float or to Fix: Evidence on the Impact of Exchange Rate Regimes on Growth,” American Economic Review, vol. 93(4), pp. 1173-1193; Martin T. Bohl, PhilipMichaelis, Pierre L. Siklos (2016) “Austerity and recovery: Exchange rate regime choice, economic growth, and financial crises”, Economic Modelling, vol. 53, pp. 195-207

[xiii] Rudiger Dornbusch (1996) “Euro fantasies”, Foreign Affairs, vol. 75, n. 5 (la traduzione è nostra).

[xiv] Paul Krugman (1998) “The euro: beware of what you wish for”, Fortune, dicembre (la traduzione è nostra).

[xv] Nicholas Kaldor (1971) “The Dynamic Effects of The Common Market”, The New Statesman, 12 marzo.

[xvi] Restano da spiegare le complesse ragioni che hanno portato la maggior parte degli economisti a difendere, al momento della sua crisi, il medesimo progetto del quale avevano preannunciato il faIlimento.

[xvii] Romano Prodi (2001) “Prodi pledges to make role more visible after attacks on leadership”, intervista sul Financial Times, 5 dicembre 2001, p. 1 (edizione di Londra).

[xviii] Tommaso Padoa Schioppa (2003) “Berlino e Parigi: ritorno alla realtà”, Il Corriere della Sera, 26 agosto 2003.

[xix] Federico Rampini (1998), Intervista sull’Italia in Europa, Roma, Bari: Laterza.

[xx] Jean Monnet (1976) Mémoires, Paris: Fayard.

[xxi] Ishac Diwan (2001) “Debt as Sweat: Labor, financial crises, and the globalization of capital”, mimeo, World Bank.

[xxii] Commission Européenne (2012), “Fiscal sustainability report”, settembre.

[xxiii] Richard Baldwin, Francesco Giavazzi (2015) The Eurozone crisis: a consensus view of the causes and a few possible solutions, Londre: CEPR Press-

 

824.-LA PERSONA NELL’UNIONE EUROPEA, f.sorrentino 

PRESENTAZIONE:

Pochi giorni ci separano dal Referendum. Per ammissione contenuta nella relazione illustrativa di presentazione al Senato, la riforma di Renzi ci legherebbe per sempre all’Unione europea franco tedesca.  Il vero scopo della riforma costituzionale è scritto nella RELAZIONE ILLUSTRATIVA AL DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE, atto 1429, presentato dal Governo al Senato l’8 aprile 2014. Non si razionalizza la Costituzione, togliendo voce ai cittadini, non tutelando i nostri diritti contro le leggi europee; facendo venir meno l’equilibrio fra i poteri dello Stato, sostituendo la trama dei principi costituzionali con la legge dei mercati e dei mercanti: il profitto al solo scopo di profitto. Altro che risparmio, altro che maggiore velocità ed efficienza! 

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Ebbene, l’Unione europea non ha scelto lo Stato sociale, ma la competitività sui mercati mondiali e più ci avvolge nella sua trama e più vediamo che lo Stato sociale, le conquiste dei lavoratori, prima e, poi, quelle dei cittadini si sgretolano. Invece, la Costituzione della Repubblica è intessuta su una trama di principi: Libertà, Eguaglianza, Dignità, Solidarietà. Due sono le anime della Costituzione scaturite dalla Resistenza: Il Lavoro, come ascensore sociale e obiettivo delle politiche dei governi e la Dignità della persona umana, condizioni entrambe di Libertà, perché non c’è Libertà senza Dignità e non c’è Dignità senza Lavoro. Per un’idea approfondita di dove ci condurrebbe questa Unione europea, riporterò una relazione del professor Federico Sorrentino su “LA PERSONA NELL’UNIONE EUROPEA”, tenuta alla scuola di Cultura Costituzionale del Bò, diretta dalla nostra, carissima, professoressa Lorenza Carlassare. Nella sua relazione, il professore Federico Sorrentino conclude che “La persona, con la sua dignità e forte del principio di eguaglianza, dispone quindi di strumenti di tutela dei suoi diritti, che, anche quando siano dotati di contenuto economico, finiscono, per le connessioni fra gli ordinamenti, per assumere il carattere di diritti fondamentali suscettibili di una duplice, se non triplice tutela: quella interna, quella comunitaria e quella CEDU, tra le quali solo la collaborazione giudiziaria può realizzare gli equilibri più efficaci tra diritti individuali e interessi collettivi”. Oggi, ci troviamo, tuttavia, a decidere del voto alla riforma avendo presente lo scavalcamento operato dall’economia sul diritto. Oggi stiamo vivendo un ribaltamento di valori epocale che rischia di travolgerci: L’economia detta le regole e non più il diritto. I governi di ieri cercavano di adottare politiche e leggi che indirizzassero l’economia; oggi è l’economia che impone le leggi ai governi

Infatti, il principio fondante dell’Unione europea, com’è oggi, non è la piena occupazione, è la competitività sui mercati. Perciò, essere nell’Unione significa che c’è bisogno di proteggere questi nostri principi dalle leggi dell’Unione europea, perché essa è l’espressione di quel ribaltamento che ha posto il diritto al servizio dell’economia, il lavoro alle dipendenze dei mercati. La riforma che ci apprestiamo a votare non protegge questi principi perché è rivolta a sgretolare i nostri diritti e non devo ricordarvi che questo delitto è già stato posto in atto. Lo dicono il Jobs Act, il Bail In, i tagli alla Sanità, tutti incostituzionali. I servitori dei mercanti, delle grandi banche mondiali, che hanno occupato gli scranni, hanno imparato a declamare i principi della Parte Prima della Costituzione, demolendo, una per una, le condizioni economiche della loro attuabilità.

Questa prevalenza dell’economia, fa sì che le norme comunitarie o quelle costituzionali attuative, pur confermando i diritti previsti dagli altri articoli della Costituzione, li rendono, poi, inattivabili, qualora per dare attuazione ad essi lo Stato debba chiudere in deficit il proprio bilancio, allontanandoci, perciò, dalla democrazia. Questo può riguardare, ad esempio, la tutela della salute quale fondamentale diritto dell’individuo, e le garanzie di cure gratuite agli indigenti, previste dall’art. 32 della Costituzione. Oppure il diritto alla gratuità dell’istruzione per gli otto anni della scuola dell’obbligo, o il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, garantito ai capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi (art. 34). O ancora quanto previsto dall’art. 38: “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”. In tutti questi casi i tagli necessari al bilancio dello Stato per raggiungere il pareggio possono pregiudicare, ancora di più di quanto già accada oggi, l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti.

Infine, l’introduzione in Costituzione del pareggio di bilancio impedisce allo Stato di effettuare gli investimenti necessari a migliorare le condizioni generali di produzione (si pensi alle infrastrutture fisiche, a quelle immateriali che consistono nella promozione della ricerca e della conoscenza, e a quelle giuridiche, ossia a un sistema giudiziario ben funzionante), la produttività e la crescita economica. Questo è molto grave, perché introduce un ulteriore vincolo in un periodo delicatissimo della vita economica di questo Paese.

 

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La Scuola di cultura costituzionale è un’iniziativa promossa dall’Università degli Studi di Padova, d’intesa con l’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, e realizzata in collaborazione con il Comune di Padova, l’Ufficio Scolastico Regionale per il Veneto e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Padova e con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo.
Direttore e Responsabile scientifico della Scuola è Lorenza Carlassare, Professore emerito di Diritto costituzionale nell’Università di Padova.
La Scuola intende promuovere la conoscenza della Costituzione italiana e la formazione di una consapevole cultura costituzionale.

1. – Quando si pensa all’Unione europea, che dopo il trattato di Lisbona ha assorbito la Comunità europea – a sua volta erede della Comunità economica europea – si immagina un’entità molto lontana, composta da un gruppo di tecnocrati che siedono a Bruxelles, che si occupano di economia, di moneta, di scambi internazionali e che poco riguarda la persona umana, l’individuo con i suoi problemi e le sue difficoltà, i diritti umani, soprattutto quelli sociali, la cui garanzia e tutela è ancora prevalentemente nelle mani degli Stati.

Eppure, a leggere la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata solennemente a Nizza nel 2000 (poi ribadita e perfezionata a Strasburgo sette anni dopo), alla quale il trattato di Lisbona ha infine conferito lo stesso valore (forza giuridica) dei trattati, si scorge una particolare attenzione alla persona umana, che viene esplicitamente messa al centro del diritto dell’Unione.

Come recita il preambolo della Carta, “l’Unione pone la persona al centro della sua azione, istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia”. Ma tutta la Carta è intrisa di tali valori, che vengono specificati lungo i suoi primi 50 articoli.

Qui basterà ricordare, per offrire la dimensione del fenomeno, l’art. 1, che dichiara inviolabile la dignità umana, l’art. 2, per il quale ogni persona ha diritto alla vita, l’art. 3, che le riconosce il diritto alla propria integrità, fisica e psichica; seguono poi le dichiarazioni sulle diverse libertà, sull’eguaglianza, sulla solidarietà, sulla cittadinanza, sulla giustizia, ecc.

Va peraltro segnalato che l’ambito di applicazione di questi diritti è dall’art. 51 riferito agli organi dell’Unione ed agli Stati allorché applicano il diritto dell’Unione e che la Carta in nessun modo intende conferire all’Unione stessa nuove competenze. In altre parole si sottolinea che la Carta è rivolta a regolare l’applicazione del diritto europeo, sovrapponendo ad esso un sistema molto preciso di diritti fondamentali, così come avviene nelle esperienze costituzionali degli Stati.

2. – A sua volta il trattato dell’Unione, nei suoi articoli iniziali, ribadisce che la tutela dei diritti fondamentali non è semplicemente un problema costituzionale degli Stati membri, ma appartiene all’Unione stessa, a tal punto che il loro rispetto è concepito come condizione d’ingresso di nuovi Stati e reciprocamente il loro mancato rispetto può aprire la via a sanzioni nei confronti degli stessi Stati membri, che possono giungere sino alla sospensione del loro diritto di voto in seno al Consiglio dei ministri.

L’art. 2, invero, stabilisce che l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze, ed aggiunge che questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità fra donne e uomini. A sua volta l’art. 6, per un verso, richiama i diritti, le libertà e i principi della Carta di Nizza, di cui prima ho detto, per un altro verso, prevede l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, infine ribadisce che i diritti fondamentali, garantiti dalla stessa Convenzione e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali.

L’insieme di questi richiami ai diritti fondamentali, alla dignità umana, all’eguaglianza e, in genere, al valore della persona tendono a disegnare un modello di organizzazione sociale che sembra voler collocare l’Unione europea in un’area corrispondente a quella in cui operano le autorità statali e a porre la persona al centro dell’universo giuridico.

3. – Quest’ultima riflessione pone l’interrogativo, al quale vorrei dare una risposta in termini storici e diacronici, del perché e di come organizzazioni internazionali, quali erano le tre originarie Comunità europee, volte essenzialmente ad assicurare la cooperazione economica tra gli Stati, garantendo le quattro libertà fondamentali, di circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali, insieme con le politiche della concorrenza e dell’agricoltura, si siano trasformate in qualcosa di diverso, in una sorta di realtà quasi federale, che si preoccupa di assicurare, oltre a quelle libertà, anche i diritti fondamentali classici, di prima e di seconda generazione (insomma sia i diritti di libertà sia quelli politici e sociali).

Per chiarire tale trasformazione occorre muovere dall’impostazione iniziale dei trattati istitutivi delle tre Comunità – soprattutto della Comunità economica europea – caratterizzata da quello che fu chiamato l’approccio funzionalista dei Padri fondatori: nell’impossibilità di realizzare in tempi allora non maturi una vera e propria unione politica tra i Paesi e tra i popoli europei si preferì puntare su una collaborazione economica che creasse le condizioni sociali e culturali per legami sempre più stretti tra i diversi Stati e tra i rispettivi popoli.

In questo spirito i trattati, redatti negli anni ’50 del secolo passato, manifestano una sorta di eccedenza dei fini (di pace, giustizia e cooperazione tra i popoli) rispetto ai mezzi (instaurazione di mercato comune), che finirà per stimolare ed orientare il successivo processo d’integrazione.

Le sue tappe, alle quali ha dato un contributo determinante la giurisprudenza della Corte di giustizia, possono così schematizzarsi.

  1. Il punto di partenza è la soggettivizzazione, prima (nel trattato CECA), delle imprese carbosiderurgiche e, poi (nel trattato CEE), delle imprese e degli individui, che diventano, quindi, destinatari diretti di norme delle nascenti organizzazioni internazionali. Ne discende – è bene sottolinearlo subito – che l’individuo risulta così sottoposto, non solo ad un ordine normativo, ma anche e più ampiamente a un sistema di pubblici poteri per lui nuovo che si aggiunge a quello proprio dello Stato a cui appartiene.
  2. Si afferma subito, sotto l’impulso della giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, l’idea della diretta applicabilità delle norme comunitarie da parte dei giudici nazionali. Quest’attributo deriva non soltanto dalla potenzialità dei regolamenti comunitari d’incidere su situazioni soggettive dei privati, ma anche da quelle norme dei trattati (e poi delle direttive) che, pur essendo indirizzate agli Stati, creano in capo ad essi doveri precisi e incondizionati dai quali il giudice comunitario ricava – con interpretazione a volte audace – correlativi diritti in capo ai singoli, che i giudici nazionali devono salvaguardare. La conversione, dunque, dei doveri degli Stati in diritti degli individui testimonia evidentemente un approccio molto concreto della Corte di giustizia, che la porta a sottolineare come destinatario ultimo, anche di norme interstatuali, sia sempre l’individuo.

Si afferma in sede comunitaria, a partire dagli anni ’60, ma poi in sede statale nel decennio successivo, il principio del primato del diritto comunitario su quello interno, fondato sull’idea che nei confronti delle Istituzioni comunitarie gli Stati abbiano rinunciato ad una porzione della loro sovranità, in relazione all’ambito d’intervento di quelle: si comincia così ad intravedere (soprattutto dall’angolo visuale comunitario) che i rapporti tra gli ordinamenti – comunitario e nazionali – tendono ad orientarsi verso uno schema, più che di separazione, di continuità.

In conseguenza di ciò, all’inizio degli anni ’70 (ma con anticipazioni nella giurisprudenza di alcuni tribunali tedeschi nel decennio precedente) comincia ad affiorare, timidamente per vero, la teoria dei cosiddetti controlimiti (alle limitazioni di sovranità). Essa nasce dall’esigenza, avvertita soprattutto in ordinamenti a costituzione rigida e con controllo accentrato di costituzionalità, di preservare il nucleo essenziale della Costituzione nazionale (i suoi principi supremi inderogabili) e soprattutto i diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino, pur nel rispetto dei trattati comunitari, ov’essi fossero messi in pericolo dalle Istituzioni comunitarie. La sentenza n. 183/1973 della Corte costituzionale e la di poco successiva sentenza del 1974 del II Senat del Bundesverfassungsgericht (c.d. Solange I) esprimono, con diverse sfumature, questa esigenza.

A soddisfare, sia pure in una certa misura, detta esigenza interviene, negli stessi anni (a partire dalla sent. Stauder del 1969), una giurisprudenza assai significativa della Corte di giustizia, secondo la quale i diritti fondamentali, quali risultanti dalle esperienze costituzionali degli Stati membri e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, valgono come principi generali del diritto comunitario e vincolano quindi le sue Istituzioni, costituendo altresì parametro di validità dei loro atti. In tal modo il giudice comunitario, per un verso, tende ad attenuare i potenziali conflitti che la teoria dei controlimiti era in grado d’innescare e, per altro verso, tramite un’elaborazione che si prolunga per decenni sino ai nostri giorni, mira ad integrare l’impianto giuridico europeo con valori costituzionali comuni e ad assumere, in buona sostanza, il ruolo di una corte suprema federale.

L’evoluzione del concetto di diretta applicabilità delle norme comunitarie vede nel 1978, con la sentenza Simmenthal della Corte di giustizia, una tappa molto importante. Con questa decisione dall’idoneità delle norme comunitarie direttamente applicabili ad essere fonte di diritti per i singoli, che possono essere fatti valere davanti ai giudici nazionali, la Corte trae l’ulteriore conseguenza che detti giudici, in caso di contrasto con norme interne, non importa se anteriori o posteriori, devono fare quanto è in loro potere per disapplicare le norme interne a vantaggio di quelle comunitarie, non essendo tollerabile, secondo la Corte di giustizia, che per l’applicazione delle norme comunitarie debba attendersi la rimozione di quelle interne contrastanti ad opera del giudice costituzionale oppure del legislatore.

Con questa pronuncia il giudice europeo non si limita dunque a stabilire (come aveva fatto nel passato) che la norma comunitaria deve essere applicata, ma anche come il giudice nazionale debba risolvere l’antinomia con le norme interne, escludendo che nel processo di concretizzazione delle norme direttamente applicabili, il giudice costituzionale nazionale possa avere alcun ruolo. A questa pronuncia finirà per adeguarsi la nostra Corte costituzionale, la quale, a partire dalla sentenza n. 170/1984 (detta anche Granital), escluderà ogni propria competenza nei giudizi incidentali di legittimità costituzionale a valutare la conformità delle leggi interne alle norme comunitarie direttamente applicabili.

L’ulteriore allargamento (ad es. alle direttive che abbiano certe caratteristiche) dell’applicabilità diretta ad opera della giurisprudenza della Corte di giustizia, finirà per creare un dialogo molto stretto tra questa e i giudici nazionali, consentendo loro, ogni qual volta la prima abbia ritenuto una norma direttamente applicabile, di assicurare direttamente le situazioni soggettive garantite dal diritto comunitario, direttamente disapplicando in nome di questo le eventuali contrastanti norme legislative interne. L’espansione che successivamente riceverà il diritto comunitario, sia attraverso l’uso dei cosiddetti poteri impliciti, sia ad opera di una giurisprudenza sempre molto dinamica della Corte di giustizia, sia infine con le modifiche dei trattati che trasformeranno con il trattato di Lisbona la Comunità europea in Unione europea, renderanno sempre più problematica la configurazione, pur ribadita nei trattati, dell’Unione come un’entità con competenze ben delimitate (“di attribuzione”).

L’istituto delle questioni pregiudiziali (art. 177 del Trattato istitutivo della CEE, poi divenuto 234 TCE, ed ora 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), in base al quale il giudice nazionale, chiamato ad applicare il diritto comunitario, si rivolge alla Corte di giustizia per chiederne l’interpretazione, riveste un’importanza strategica nei rapporti tra gli ordinamenti ed in particolare rappresenta il principale strumento di dialogo tra giudici nazionali e giudice europeo nel processo di concretizzazione del diritto. Grazie ad esso la Corte ha potuto affermare il primato del diritto comunitario e l’obbligo dei giudici di applicarlo nell’interpretazione da lei dettata, ha potuto guidare l’espansione silenziosa del diritto europeo e soprattutto, una volta assunti i diritti fondamentali come patrimonio proprio dell’Unione, ne ha imposto il rispetto agli stessi ordinamenti nazionali.

L’acquisizione da parte della Corte di giustizia di un ruolo sostanzialmente costituzionale ne ha reso però difficile il dialogo con le Corti costituzionali nazionali, le quali, spesso arroccate nella difesa delle loro costituzioni e dei principi supremi inderogabili, hanno notevolmente stentato a proporre esse stesse questioni pregiudiziali al giudice europeo, preferendo demandare questo compito ai giudici comuni (solo recentemente la nostra Corte, con l’ordinanza n. 103/2008, ha esperito per la prima volta il rinvio pregiudiziale, limitandone però l’applicazione ai giudizi in via principale). L’utilizzazione della dottrina dei controlimiti, a difesa soprattutto dei diritti fondamentali assicurati dalle costituzioni nazionali, vede inoltre una ricca giurisprudenza delle corti nazionali, la cui più significativa manifestazione sarà il Maastrichturteil del Tribunale costituzionale federale di Karlsruhe del 1992, nel quale furono posti importanti ‘paletti’ all’espansione delle competenze comunitarie, ribadendosi che le relative Istituzioni hanno le sole competenze che, attraverso i trattati, hanno loro attribuito gli Stati (che sono, come parte della dottrina tedesca sottolinea, i veri Herren der Vertrầge).

Nel dialogo tra gli ordinamenti relativo alla definizione ed alla garanzia dei diritti fondamentali degli individui s’inserisce prepotentemente negli ultimi anni la Corte europea dei diritti dell’uomo. Questa, com’è noto, può essere chiamata dai soggetti sottoposti all’autorità degli Stati firmatari a sanzionarne la violazione dei diritti umani perpetrata nei loro confronti, ma la sua giurisprudenza viene utilizzata sia dalla Corte Ue allo scopo di ricavarne quei principi costituzionali non scritti che innervano la sua dottrina dei diritti fondamentali, sia dalle Corti nazionali, come dimostra il recente atteggiamento della nostra Corte costituzionale (sentt. nn. 348 e 349/2007), per ricavarne principi e vincoli a carico del legislatore interno. Si realizza, così, un processo circolare, nel quale principi e valori volti alla definizione e alla garanzia dei diritti dell’uomo non rimangono circoscritti negli ordinamenti che li proclamano, ma, attraverso vari strumenti processuali (le questioni pregiudiziali, il ricorso alla Corte dei diritti dell’uomo, ecc.), transitano in altri ordinamenti, tendendo a formare una sorta di diritto costituzionale comune dei popoli europei.

Con l’entrata in vigore a fine 2009 del Trattato di Lisbona, come già anticipato, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea acquisisce un suo valore formale che, da un lato, codifica quelli che dovrebbero essere i diritti propri dell’Ue, suscettibili di condizionare la validità degli atti delle Istituzioni e degli Stati nell’applicazione del diritto europeo, e, dall’altro, viene confermato il potere della Corte di giustizia di ricavare nuovi diritti dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri e dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo, nella prospettiva, tra l’altro, dell’adesione della stessa Unione alla CEDU. Non mi par dubbio, allora, che quel processo circolare sia destinato a perpetuarsi e ad arricchirsi dei nuovi diritti sanciti nella Carta.

4. In concreto le premesse sin qui poste determinano quella che da molti è stata denominata la tutela multilivello dei diritti fondamentali (in sede nazionale, in sede comunitaria e CEDU) con esiti non sempre governabili, giacché le proclamazioni dei diritti effettuate in un ordinamento non necessariamente producono gli stessi risultati quando vengono esportate in altri sistemi. Gli esempi potrebbero essere numerosi e lo stesso principio di eguaglianza, cui tutti gli ordinamenti fanno riferimento, si atteggia diversamente in ognuno di essi. Ciò dipende in gran parte dal fatto che tali diritti e principi formano oggetto in sede nazionale ed in sede europea di diversi tipi di bilanciamenti con altri diritti, individuali e collettivi, ad opera delle rispettive Corti, sì che il loro esito non è mai scontato a priori.

Quel che importa sottolineare è dunque che, nel dialogo, non sempre formalizzato, ma sostanzialmente effettivo, tra le diverse Corti tende a crearsi una sorta di rete costituzionale che, attraverso molteplici strumenti di tutela, offre all’individuo la garanzia dei propri diritti.

In questo quadro emerge con chiarezza che la centralità della persona, anche al di là della sua proclamazione ad opera della Carta, comincia a diventare effettiva, perché è la persona il destinatario ultimo delle norme comunitarie ed essa è il motore e lo stimolo, beninteso con i relativi bilanciamenti, per lo sviluppo dei diritti umani.

5. Conclusivamente: l’approccio funzionale dell’impostazione del processo d’integrazione comunitaria si è convertito, a partire dal Trattato di Maastricht (1992) sino a quello di Lisbona, nella trasformazione delle Comunità europee in Unione, la quale non è – ancora – una realtà federale, non possedendo la sovranità caratteristica degli Stati, ma tende dinamicamente ad essa. Per far ciò l’Unione instaura un sistema di diritti fondamentali di prima e parzialmente anche di seconda generazione, ideali e valori attorno ai quali costruire l’ordinamento comune e legittimare il primato del suo diritto. Questi diritti fondamentali, oggi codificati nella Carta, ma già da anni risultanti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, si affiancano a quelli nazionali: sempre di più la linea di competenza che divide gli ordinamenti si fa incerta quando interessi comunitari si sovrappongono ad istituti nazionali.

La persona, con la sua dignità e forte del principio di eguaglianza, dispone quindi di strumenti di tutela dei suoi diritti, che, anche quando siano dotati di contenuto economico, finiscono, per le connessioni fra gli ordinamenti, per assumere il carattere di diritti fondamentali suscettibili di una duplice, se non triplice tutela: quella interna, quella comunitaria e quella CEDU, tra le quali solo la collaborazione giudiziaria può realizzare gli equilibri più efficaci tra diritti individuali e interessi collettivi.

Federico Sorrentino,

già titolare dell’insegnamento di Diritto Costituzionale nel corso di laurea magistrale in Giurisprudenza dell’Università La Sapienza di Roma.

823.- CAOS LIBIA/ Trump “regala” all’Italia (se vuole) un nuovo ruolo

Dopo il tentativo fallito di Sarkozy di impossessarsi delle risorse della Libia e l’incapacità di Obama di gestire il dopo Gheddafi, cosa cambierà con Donald Trump?

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La vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane e la sconfitta di Sarkozy alle primarie del centro-destra in Francia possono essere viste, tra le altre cose, come dei possibili segnali di cambiamento nella politica estera ed in particolare, in quella mediterranea. In questo contesto, la Libia rappresenta il paese che più ci interessa da vicino e che più può essere considerato la cartina al tornasole degli errori della precedente amministrazione americana e della politica estera francese di Sarkozy.

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La partita francese in Libia ha inizio molti anni fa, nel 1881, consueto che dalla stampa italiana di allora venne chiamato “lo schiaffo di Tunisi”. Il governo della Terza Repubblica Francese, con un azione di forza,stabilì il protettorato sulla Tunisia, obiettivo dei propositi coloniali del Regno d’Italia, costringendoci a ripiegare su quello che allora sembrava soltanto “uno scatolone di sabbia”. Salvo, poi, rivelarsi una miniera d’oro nero. nel 1949, dopo la conclusione dell’epoca coloniale italiana, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, col beneplacito della Francia e della Gran Bretagna, che avevano guadagnato il compito di amministrare le tre regioni libiche, decise per l’unità del paese in unostato indipendente e sovrano. Potremmo dire, con sarcasmo, che le potenze internazionali unirono ciò che, molti anni dopo, avrebbero nuovamente diviso.

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Malta 2016: brucia l’aereo di Eunavford con a bordo gli agenti segreti francesi.

La missione della NATO in Libia a supporto dei ribelli anti-regime, non è certo una novità, è stata voluta dal governo francese guidato da Sarkozy che, pochi giorni dopo lo scoppio delle rivolte, chiese una riunione urgente al Consiglio di Sicurezza per prendere adeguate misure nei confronti della repressione delle insurrezioni contro Muhammad Gheddafi. Una solerzia riconducibile a motivazioni dettate da meri interessi nazionali piuttosto che da reale volontà di porre fine all’azione messa in atto dal mais. Le elezioni imminenti e la popolarità in drastico calodel presidente, la necessità di allargare la fetta petrolifera d’oltralpe e la volontà di porre fine al “fastidioso”trattato di amicizia cooperazione italo-libico del 2008, sono alcune delle mire di grandeur che hanno spinto la Francia ad agire nello scacchiere libico. Tali obiettivi, qualora l’accaduto dovesse essere confermato, evidentemente valevano molto di più dei 5 miliardi di di dollari che il rais avrebbe “spedito” a Parigi per finanziare la campagna elettorale del futuro capo dell’Eliseo. Gli Stati Uniti, fedeli alla politica del disimpegno mediterraneo del leading from behind, hanno assecondato l’intervento, forse più per pigrizia che per reale convincimento, salvo, poi, a più di 5 anni di distanza, fare un tardivo mea culpa. Il Presidente americano Barack Obama, in una nota intervista rilasciata al The Atlantic lo scorso marzo, ha definito l’intervento in Libia il più grosso errore della propria politica estera, voluto dagli “opportunisti europei”.

Difficile cercare una maggiore coerenza nell’atteggiamento italiano, ma è certo che abbiamo pagato per condurre una guerra contro i nostri interessi.

Se l’intervento della “coalizione dei coscritti” del 2011 non ha brillato per coerenza, non si può certo dire che negli anni a seguire le politiche occidentali abbiano intrapreso una strada più lineare. Ancora un “redivivo Obama” mette, nella già citata intervista, di aver troppo confidato negli europei per il follow-up, un termine diplomatico per dire che quei paesi che avevano caldeggiato l’intervento militare, hanno poi colpevolmente lasciato virare la Libia verso il fallimento. Nella polarizzazione del Paese fra Tripoli e Tobruck, che neppure il tardivo sforzo dell’ONU per un governo unitario, è riuscito a mitigare, la Francia ha poi, contravvenuto a tutti gli impegni internazionali. appoggiando il generale Haftar, di fatto principale oppositore della soluzione unitaria. Gli Stati Uniti, invece, hanno preferito restare coerenti con la linea unitaria di Serraj, supportati dall’Italia, che si è impegnata anche con l’invio di un continente medico, oggi, a Misurata per “soccorrere” le milizie fedeli al governo di accordo nazionale, che combattono contro lo stato islamico a sirte.

In questo contesto, se da un lato con l’elezione di Donald Trump e la sua possibile convergenza con l’asse Putin-Al Sisi-Haftar, l’Italia rischia di rimanere fuori dai giochi, dall’altro questa potrebbe essere l’occasione per mettere in risalto il nostro ruolo.

Infatti, per quanto ora la bilancia sembri pendere dalla parte del generale di Tobruck, la stabilità in Libia richiede anche il coinvolgimento degli attori di Tripoli, misurazioni in primis. Da questo punto di vista, il nostro ruolo e la nostra esperienza nell’area tripolina potrebbero renderci interlocutori forti, molto più dei francesi. Starà a noi riuscire a far vlere la nostra posizione o “regalare” questa opportunità ad altre potenze come, ad esempio, la Gran Bretagna, che sembra aver già messo gli occhi sulla capitale libica.

Michela Mercuri

822.- L’€UROPA E LA LIBERTA’ DI VOTO MINACCIATA IN ITALIA: E’ INVECE GIUNTO IL TEMPO DI “RICOSTRUIRE” (da Orizzonte 48)

Da Orizzonte 48 un interessante articolo sull’Europa.

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1. Il tema muove, come risulta scientificamente corretto, da una prospettiva storica che consenta una “interpretazione autentica” del fenomeno della costruzione europea da parte di chi è stato protagonista dell’Assemblea Costituente.
Come sappiamo, il Quarto Partito (qui, p.2) aveva da subito sabotato l’attuazione della Costituzione per vanificarla con una “costituzione economica” alternativa a quella che stava prendendo vita in Costituente, concordata tra confindustria e banca d’Italia, come ci riferisce Carli, parlando esplicitamente di “difesa dello Stato minimo borghese” (qui pp.6-8), così confermando il noto discorso di De Gasperi.
L’interpretazione autentica possiamo attribuirla, in primo luogo e a buon diritto, a Lelio Basso, che indica con chiarezza i legami tra irrompente federalismo europeo e difesa dello Stato minimo borghese, respinto dalla Costituzione e, come tale, con essa geneticamente incompatibile.
Le sue parole sono di una chiarezza assoluta, che non dovrebbe lasciare dubbi a tutti coloro che, in Italia, si collocano nella tradizione della “sinistra”:
“l’internazionalismo del proletariato si fonda sull’unità e sulla solidarietà di popoli in cui tutti i cittadini, attraverso l’abolizione dello sfruttamento di una società classista, conquistano LA PROPRIA COSCIENZA NAZIONALE… il nostro internazionalismo non ha nulla di comune CON QUESTO COSMOPOLITISMO DI CUI SI SENTE TANTO PARLARE E CON IL QUALE SI GIUSTIFICANO E SI INVOCANO QUESTE UNIONI EUROPEE E QUESTE CONTINUE RINUNZIE ALLA SOVRANITÀ NAZIONALE.
L’internazionalismo proletario NON RINNEGA IL SENTIMENTO NAZIONALE, NON RINNEGA LA STORIA, ma vuol creare le condizioni che permettano alle nazioni diverse di vivere pacificamente insieme.
Il cosmopolitismo di oggi che le borghesie nostrane e dell’Europa affettano è tutt’altra cosa: è rinnegamento dei valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione straniera… Noi sappiamo che in questa lotta il proletariato combatte insieme per due finalità e che in questa lotta esso ACQUISTA CONTEMPORANEAMENTE LA COSCIENZA DI CLASSE E LA COSCIENZA NAZIONALE, ponendo le basi per un vero internazionalismo, per una federazione di popoli liberi che non potrà essere che socialista! (Vivissimi applausi e congratulazioni)” [L. BASSO, discorso del 13 luglio 1949, in Il dibattito sul Consiglio d’Europa alla Camera dei deputati, ora in Mondo operaio, 10 settembre 1949, 3-4-].”
2. Neppure, in epoca più tarda, Lelio Basso rivide questa opinione, semmai esprimendola in termini più “idealistici”: cioè tali da essere compresi anche da coloro che, nel frattempo, si volevano collocare all’interno del processo di costruzione europea e della incessante propaganda neo-liberista, accuratamente camuffata, che ne è lo strumento inscindibile. Si tratta, cioè, di quel “conformismo europeista”, e censorio di ogni dissenso, che Luigi Spaventa aveva evidenziato nel dibattito alla Camera sull’adesione allo SME).
Le parole di Basso rimangono comunque una presa di distanza (v.p.7) dal “cosmopolitismo delle borghesie nostrane e dell’Europa” che rinnegano i valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione straniera:
“…penso che la battaglia per la democrazia nei singoli paesi debba essere prioritaria rispetto ai fini federalisti…ci sono cose che vanno, secondo me, profondamente meditate. A me, se così posso dire, la sovranità nazionale non interessa; però c’è una cosa che mi interessa: è la sovranità democratica…”
3. A queste parole, vorremmo oggi aggiungere, come significativo complemento, illustrativo della omogeneità del pensiero democratico della Costituente, quelle di un altro suo importante protagonista: Giuseppe Di Vittorio, il più importante e autorevole sindacalista italiano del secondo dopoguerra, anch’egli eletto (eletto…) nell’Assemblea Costituente.
Di Vittorio compie una ricognizione dell’interesse nazionale, rispetto al liberoscambismo internazionalista propugnato da subito dal federalismo europeo, che fa leva su un elementare, quanto dimenticato, effetto distruttivo del comune sforzo di tutti i ceti produttivi. Questa perorazione, fatta nel 1952, in occasione dell’adesione italiana alla CECA, è tanto attuale da rivelarsi, oggi, ancor più profetica:
“Non è leale, ha continuato l’oratore, sostenere che solo i comunisti sono contrari al Piano Schuman. In Germania esso è sostenuto solo dai grandi capitalisti direttamente interessati ed è contrastato anche dai socialdemocratici, i quali giustamente lo considerano un ostacolo alla riunificazione del Paese. In Francia gli stessi industriali del complesso del Creusot sono contrari al pool perché minacciati direttamente. In Belgio il pool è avversato da esponenti di tutti i partiti. In Italia si sono dichiarati contro il pool la stragrande maggioranza dei lavoratori e perfino la Confindustria. Il senatore Jannaccone, e cioè un autorevole economista liberale, ha detto che il Piano è sorto da un’idea americana ed è caratterizzato dalle sottigliezze giuridiche francesi e dalla nebulosità tedesca. Il certo è dunque che non ha nulla di italiano! Né vale, ha continuato Di Vittorio, accusarci di “collusione” con gli industriali, giacché è noto che la classe operaia lotta contro gli industriali per la divisione del reddito delle industrie e non per la distruzione delle industrie.
In Italia il Piano Schuman è sostenuto soltanto dal ceto polico dirigente.” (Di Vittorio chiede di sospendere la ratifica del “Piano Schuman”, L’Unità, 17 giugno 1952).
4. La “distruzione delle industrie“, come sappiamo in base ad imponenti e incontestabili dati economici, è l’effetto della stabilità monetaria e dei prezzi in un’area liberoscambista che si appropria subdolamente della sovranità, con una gradualità funzionale a disattivare le resistenze dei popoli danneggiati, secondo le concordi affermazioni di Monnet e Amato (qui. p.2). Qui, mi pare appropriato aggiungere, alle molte citazioni già fatte, un’ulteriore supporto, (sempre segnalato da Arturo), fornitoci da Federico Caffè e che bene illustra il legame tra depauperamento industriale e riassetto sociale, in forma di “Stato minimo”, che l’€uropa ha sempre voluto in danno dell’interesse democratico nazionale:
“Per immotivata che sia, a mio giudizio, l’insorgenza critica nei confronti della tutela pubblica del benessere sociale, ritengo che l ’effetto di gettare via un bimbo vitale insieme con l’acqua sporca del bagno in cui era immerso si sia già verificato.
…Non erano in gioco (per lo meno allo stato dell’attuale strumentalizzazione) problemi di «clientelismo» o di ingenti disavanzi previdenziali, allorché Luigi Einaudi considerava la «pensione di vecchiaia» come «un povero surrogato di quel più alto tipo di società nella quale essa è inutile perché il vecchio possiede nella casa propria, nel podere ereditato e costrutto pezzo a pezzo, nel patrimonio formato con il risparmio volontario, nell’affetto di una famiglia saldamente costituita il presidio sicuro contro l’impotenza della vecchiaia».“
5. Come stia andando a finire, proprio sul piano dell’alta disoccupazione strutturale e della distruzione della copertura pensionistica (e sanitaria), a seguito dell’austerità fiscale funzionale al mantenimento della moneta unica, lo sappiamo bene.
Quanto valesse l’idea di Einaudi che l’intervento dello Stato, nell’attività economica, come nella connessa erogazione del welfare, fosse un elemento di ostacolo alla crescita ed alla prosperità nazionale (!), e che, pertanto, occorresse disattivarlo mediante il federalismo interstatale europeista, come concepito dal suo amico Hayek, ce lo fa capire l’economista De Cecco (qui, p.5), parlando delle “privatizzazioni”. Ci è stato detto, per decenni, che, grazie ad esse, permettendoci di avere i “conti in ordine” secondo i parametri €uropei, avremmo raggiunto l’agognata competitività e la crescita (che stiamo tutt’ora aspettando):
“Per­ché le pri­va­tiz­za­zioni degli anni Novanta sono state un fallimento?
Sono state le più grandi dopo quelle inglesi e hanno cam­biato la fac­cia dell’industria ita­liana senza fare un graf­fio al defi­cit pub­blico. Se si voleva distrug­gere l’industria ita­liana ci sono riu­sciti. Ma non credo che Prodi volesse distrug­gere quello che aveva con­tri­buito a creare. Que­sto risul­tato non è stato voluto, ma è sicuro che sia stato asso­lu­ta­mente dele­te­rio.
Gli studi della Banca d’Italia dimo­strano che al tempo l’industria di Stato faceva ricerca per tutto il sistema eco­no­mico ita­liano. Dopo le pri­va­tiz­za­zioni, chi ha preso il posto dell’Iri, ad esem­pio, non l’ha voluta fare.
Siamo rima­sti senza un altro pila­stro impor­tante della poli­tica indu­striale, men­tre si con­ti­nuano a fare solenni discorsi sull’istruzione, sulla ricerca o la cul­tura. In que­sti anni è stato distrutto tutto. Su que­sto non ci piove.
Le prime pri­va­tiz­za­zioni sono state fatte per impo­si­zione della City di Lon­dra. Siamo stati ricat­tati. Credo che era molto dif­fi­cile per le auto­rità poli­ti­che riu­scire a sot­trarsi, dati i pre­cari assetti poli­tici che anche allora ci affligevano“.
5.1. E venendo perciò all’attualità, cioè alla riforma costituzionale oggettivamente e esplicitamente voluta dall’€uropa e sorretta dalle oscure minacce dei mercati e dei grandi gruppi finanziari sovranazionali, è giunto invece, ormai, il tempo di ricostruire seguendo l’interesse democratico nazionale.
Senza ulteriori manomissioni della Costituzione.
La Venice Commission, invece, le predica e riesce a imporcele, e le fa figurare come un adeguamento alle esigenze prioritarie dei mercati, di fronte ai quali nessun diritto, di nessun rango costituzionale, deve poter resistere.
Un adeguamento poi ri-denominato, per renderlo (forse) più accettabile, “lo vuole l’€uropa”.
Ma non si tratta di un adeguamento della Costituzione “formale” alla realtà costituzionale “materiale”.
5.2. Si tratta piuttosto di un’ulteriore forzatura della legalità inviolabile della nostra democrazia sostanziale, come ci mostra con lucidità inesorabile, Paolo Maddalena, Presidente emerito della Corte costituzionale.
“Si tratta di scegliere, non tra una formulazione o un’altra delle norme costituzionali, ma tra due diverse idee di democrazia, tra due sistemi economici e politici diversi e più propriamente tra il sistema “keynesiano” (presupposto dalla vigente Costituzione), che ci ha assicurato trenta anni di benessere nel secondo dopoguerra, e il sistema “neoliberista”, che dagli inizi degli anni ottanta si sta subdolamente infiltrando nella nostra legislazione democratica, fino al punto di chiedere oggi una sostanziale modifica della Costituzione.
Sistema keynesiano e sistema neoliberista.
Si tenga presente che il neoliberismo agisce sottilmente con attendismo e senza proclamazioni di principi. Esso tenta, in buona sostanza a sostituire, al principio costituzionale della difesa della dignità della “persona umana”, il principio del “massimo profitto” degli speculatori finanziari, ritenendo, erroneamente, che “l’accentramento” della ricchezza e quindi l’annientamento della circolazione monetaria sia un bene da perseguire. In sostanza esso vuole l’arricchimento di pochi e l’immiserimento di tutti gli altri.

L’adeguamento della Costituzione alla volontà della finanza.
Qui non si tratta di adeguare la Costituzione formale (la nostra Costituzione repubblicana) ad una Costituzione “materiale” che si sarebbe già affermata. Qui si tratta di piegare la Costituzione vigente alla volontà prepotente della finanza che agisce nell’oscurità e ottiene l’asservimento proditorio della politica e vuole imporre dal di fuori una nuova Costituzione.
La Costituzione materiale infatti presuppone che la generalità dei cittadini abbia espresso con i suoi comportamenti una nuova “opinio iuris ac necessitatis”, un nuovo modo di regolamentare le cose e i rapporti tra i cittadini. Ma quale cittadino ha mai condiviso questo sistema che ha portato a una disoccupazione insopportabile, alla regalia delle grandi reti di distribuzione, alla privatizzazione delle banche pubbliche e delle industrie pubbliche, alla chiusura delle industrie private e dei numerosi capannoni disseminati in tutta Italia, alla svendita delle isole, delle montagne, dei migliori tratti di costa, dei monumenti artistici e storici di valore inestimabile, alla svendita dell’intero territorio, demani compresi, e quindi alla recessione, e a una miseria senza nessuna possibilità di ripresa?
Si badi bene che questo nuovo sistema economico e sociale, nel quale è già caduta irrimediabilmente la Grecia (della quale nessuno più parla) è stato subdolamente attuato con leggi del nostro Stato approvate da politici asserviti alla finanza, facendo credere che si trattasse di norme di settore, ma che invece erano attuazione di un ben preciso e studiato sistema che ci ha portati tutti alla rovina”.

821.-MIGRAZIONI E FUTURO DELL’EUROPA

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L’accoglienza e la solidarietà, se gestite con raziocinio, possono condurre a risultati di segno positivo. “Science for Peace affronta il problema dell’immigrazione clandestina e dei profughi, proponendo le seguenti linee di azione ai decisori politici a livello europeo, nazionale e locale, secondo le rispettive competenze:

1 affrontare le cause alla base dei flussi migratori

2 creare canali sicuri di accesso all’europa

3 accogliere i migranti e gestire le procedure di asilo

4 integrare i migranti nelle nostre società”
Proprio per poter integrare i migranti nelle nostre società, ritengo si debba:

1) salvaguardare le identità dei paesi europei, risolvendo il problema della massa di clandestini presente in Europa e, segnatamente, in Italia. Nei limiti del possibile, a persone che hanno lasciato alle spalle la propria identità, si ha il dovere di offrire la nostra. Solo dopo, si potrà parlare di integrazione.

2) condivido la proposta di stipulare accordi bilaterali e multilaterali con i paesi di provenienza per investirvi in realtà imprenditoriali in compartecipazione; ma con il sostegno di un istituto finanziario nazionale.

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Appello finale Conferenza science for peace 2016

Le migrazioni costituiscono una delle sfide più grandi che l’europa si trova oggi a fron- teggiare. nel corso del 2015, oltre un milione di migranti hanno attraversato il Medi- terraneo. provenivano da paesi segnati da conflitti devastanti, come la Siria e l’iraq, o in cui lo stato viola i diritti fondamentali dei propri cittadini, come l’eritrea. non tutti i flussi migratori sono costituiti da rifugiati: molti dei migranti giunti in italia e provenienti dall’Africa sub-sahariana abbandonano contesti segnati da forte crescita demografica, sottosviluppo, povertà, mancanza di lavoro. Queste sono motivazioni strutturali che, con tutta probabilità, alimenteranno i flussi migratori verso l’europa nei prossimi decenni.

le stime mostrano una realtà drammatica: a novembre 2016 sono oltre 4.600 i migranti che hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, un numero addirittura superiore alle 3.770 vittime registrate nel 2015.

Dietro a questi dati si celano le vite di uomini, donne e bambini. Di fronte a loro Science for peace, in linea con la sua vocazione originale, intende ribadire con forza il ruolo della comunità scientifica nel superare le cause all’origine di conflitti, tensioni e disugua- glianze sociali, che spesso sono alla base dei flussi migratori. nello specifico, la comunità scientifica deve impegnarsi ad analizzare le ragioni all’origine di tali fenomeni e formulare, sulla base delle evidenze raccolte, linee di azione e proposte concrete. Tutto ciò con gli obiettivi di migliorare le condizioni di vita dei paesi di origine e supportare i paesi di destinazione nell’elaborazione di politiche e programmi efficaci di gestione e integrazione dei migranti.

l’appello

Science for peace rivolge un appello alle istituzioni europee e ai governi degli Stati membri della UE affinché, di concerto con l’intera comunità internazionale, affrontino le cause alla base dei flussi migratori forzati. in primo luogo, intensificando l’azione diplomatica per raggiungere una soluzione politica ai principali conflitti in corso. in secondo luogo, estendendo la portata dei programmi di cooperazione bilaterale e multilaterale, con l’obiettivo di favorire la stabilizzazione politica economica e sociale dei paesi di partenza dei migranti.

Parallelamente, è necessario operare in modo unitario per l’elaborazione di una politica europea negli ambiti dell’immigrazione e dell’asilo. Crediamo che la risposta alle sfide poste dai flussi migratori risieda nella solidarietà e nell’equa ripartizione della responsabilità fra gli Stati europei, come sancito dall’Articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

le linee d’azione
Science for peace intende proporre le seguenti linee di azione ai decisori politici a livello europeo, nazionale e locale, secondo le rispettive competenze:

1  affrontare le cause alla base dei flussi migratori

2  creare canali sicuri di accesso all’europa

3  accogliere i migranti e gestire le procedure di asilo

4  integrare i migranti nelle nostre società

 

affrontare le cause alla base dei flussi migratori

Nel lungo periodo, una soluzione duratura ai flussi forzati non può che passare per un’azione incisiva sulle cause di ordine politico, economico e ambientale, in gran parte dovute ai cambiamenti climatici in corso, che ne stanno alla base.l’impegno dell’intera comunità internazionale deve rivolgersi, in primo luogo, alla prevenzione dei conflitti fra Stati, e interni agli stessi. la messa in atto di una realistica agenda politica per ridurre le spese militari e porre in essere efficaci strumenti di controllo del commercio di armi costituisce un obiettivo centrale per contrastare una delle principali cause delle migrazioni forzate.

È infine prioritario rafforzare i programmi di cooperazione bilaterale e multilaterale a sostegno dei paesi da cui provengono i migranti, ponendo le basi per la stabilizzazione politica e lo sviluppo economico di questi paesi. Un’attenzione specifica va posta anche ai paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati. la comunità interna

zionale deve porre al centro dei suoi sforzi il supporto alle istituzioni nazionali e locali in ambiti cardine come la sanità, l’istruzione, il mercato del lavoro. inoltre, in linea con gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’ONU, è fondamentale adottare programmi per sradicare la povertà e garantire un accesso equo alle risorse primarie, quali l’acqua, il cibo e l’energia sostenibile. Come affermato dalla Dichiarazione di new York per i rifugiati e i migranti approvata dall’Assemblea generale delle nazioni Unite il 19 settembre 2016, migrare dovrebbe essere sempre una scelta e mai una necessità.

Le azioni intraprese devono mirare a consolidare la stabilità e la resilienza delle società in cui i migranti risiedono o in cui fanno ritorno, così da creare le condizioni per la messa in atto di soluzioni sostenibili e di lungo periodo alle sfide poste dai movimenti migratori forzati.

creazione di canali sicuri di accesso all’europa

Come drammaticamente mostrato dai tragici incidenti che si susseguono nel Mediterraneo, oggi chi necessita di protezione non ha modo di raggiungere in modo sicuro i paesi dell’Unione europea. Molte persone sono costrette a muoversi in modo non autorizzato, alimentando il business dei trafficanti ed esponendosi a rischi elevatissimi.

In questo contesto, come auspicato anche dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, è prioritario creare canali di accesso legale alla protezione nell’Unione europea. Questo obiettivo potrebbe essere perseguito:
• aumentando l’offerta di posti per il reinsediamento;

• erogando visti umanitari;
• esplorando ulteriori canali legali di accesso oltre a quelli umanitari (estensione delle opportunità di ricongiungimento familiare, erogazione di borse di studio per studenti, ulteriori possibilità di ingresso per motivi di lavoro).

accoglienza e gestione delle procedure di asilo

La gestione dell’accoglienza non può essere affidata solo a un numero limitato di Stati. oggi cinque paesi mem- bri (germania, italia, francia, Austria e Ungheria) gestiscono circa l’85% di tutte le domande di asilo presentate nella Ue. è prioritario mettere in atto un sistema di incentivi, anche economici, affinché tutti gli Stati membri contribuiscano all’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati sulla base delle rispettive capacità e secondo modalità condivise.

Significative divergenze ancora sussistono fra gli Stati Ue sugli standard di accoglienza e le procedure per il ri- conoscimento della protezione internazionale. finché queste differenze non saranno colmate, non sarà possibile sanare gli squilibri che caratterizzano il sistema europeo comune di asilo, precludendone la piena attuazione. Si raccomanda, quindi, di procedere in tempi rapidi all’attuazione delle necessarie riforme legislative, con l’obiettivo di uniformare i criteri e le procedure per il conferimento della protezione internazionale, così come gli standard di accoglienza dei richiedenti asilo nei paesi europei.

Per quanto riguarda l’accoglienza, i decisori politici nazionali hanno la specifica responsabilità di superare la logica emergenziale che ha caratterizzato, e caratterizza tuttora, le strategie adottate in numerosi Stati europei. occorre mettere in atto riforme strutturali per creare sistemi di asilo organici, in grado di rispondere in modo efficace alle fasi della prima e della seconda accoglienza.

È necessario prestare particolare attenzione alle esigenze dei minori non accompagnati e di altre categorie vulnerabili – disabili, donne, vittime di tratta, vittime di tortura – nel pieno rispetto delle tutele già garantite dalla legislazione europea e internazionale.

L’italia, in particolare, si trova oggi in procinto di attuare una riforma in profondità del sistema di accoglienza. per gestire efficacemente la crescita significativa delle persone ospitate negli ultimi anni, occorre predisporre un approccio sinergico fra autorità centrali, enti locali e associazioni del terzo settore. La strada da percorrere deve prevedere, come delineato dall’intesa raggiunta nell’ottobre 2016 dal Ministero dell’interno e dall’AnCi, l’accoglienza diffusa dei migranti in tutti gli 8.000 comuni italiani.

integrazione dei migranti nelle nostre società

Occorre favorire un processo di graduale integrazione dei migranti all’interno della società ospitante, a prescin- dere dal fatto che essi si siano spostati per motivi di lavoro, ricongiungimento familiare o per motivi umanitari. l’acquisizione della cittadinanza rappresenta uno stadio decisivo all’interno di questo processo. per quanto ri- guarda l’italia, la rapida conclusione del processo di riforma della legge sulla cittadinanza per i figli di genitori stranieri, attualmente al vaglio del Senato, costituirebbe un primo importante segnale della volontà di creare una società inclusiva per le nuove generazioni.

L’accesso al mercato del lavoro costituisce una condizione prioritaria per garantire il benessere complessivo dei migranti e, al tempo stesso, promuovere la coesione sociale. i beneficiari di protezione internazionale presenta- no oggi livelli di accesso al mercato del lavoro inferiori, non solo rispetto ai nativi ma anche agli altri cittadini non-Ue. necessitano, quindi, di misure specifiche, che tengano conto delle maggiori difficoltà di integrazione che devono fronteggiare.

Andrebbero adottate, anche con il supporto finanziario e istituzionale dell’Unione europea, una serie di misure per favorire l’integrazione socio-economica dei migranti. in particolare, riteniamo utile:
a. semplificare e promuovere i sistemi di riconoscimento dei titoli di studio acquisiti all’estero. estendere e uniformare i sistemi di validazione degli apprendimenti non-formali e informali dei migranti, attraverso l’introduzione di strumenti di valutazione flessibili e favorendo il coinvolgimento del settore privato;

b. estendere e potenziare l’offerta di corsi di lingua sin dai primi mesi di permanenza, anche in vista di un rapido inserimento nel sistema educativo. promuovere l’apprendimento delle lingue o dei lessici utili in determinati  segmenti del mercato del lavoro, a integrazione delle competenze già acquisite da ciascun individuo;

c. favorire l’accesso dei migranti a esperienze lavorative qualificanti, quali programmi di tirocinio o apprendistato, attraverso la creazione di partnership con il settore privato, le ong, le fondazioni bancarie e di impresa;

d.  valorizzare e incentivare l’apporto dei richiedenti asilo e dei beneficiari di protezione per il rilancio economico e sociale dei territori abbandonati/spopolati o in fase di decrescita economica, promuovendo la messa in atto di iniziative di integrazione in quei contesti.

Milano, 18 novembre 2016

presidente science for peace:

umberto veronesi

vice presidenti:

giancarlo aragona, kathleen kennedy townsend, alberto martinelli

comitato di programma:

guido barbujani, emma bonino, domenico de masi, giulia innocenzi, letizia mencarini, telmo pievani, chiara tonelli, francesco vignarca

820.- LE INSUPERABILI CRITICITÀ DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE RENZI

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Solo con un maggior e miglior riformismo batteremo il neocolonialismo dei padroni di Renzi. Sarà il nostro impegno dopo il referendum costituzionale. Questa pseudo riforma ci ha fatto perdere due anni. 
Leggiamo la relazione del Prof. Alessandro Pace a Cosmopolitica 20/2/2016 Roma (Testo integrale)

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Violazione degli artt. 1 e 48 della Costituzione
Il Governo Renzi, con il d.d.l. cost. AC n. 2613-B, già approvato nella prima delle due deliberazioni richieste per le leggi di revisione costituzionale, si propone di modificare le disposizioni costituzionali contenute nei titoli I, II, III, V, VI della Parte II della Costituzione e nelle disposizioni finali. Ebbene, poiché tali modifiche sono svariate – come si desume dalla stessa intitolazione della legge («Superamento del bicameralismo paritario e revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione») – una volta che tale legge fosse sottoposta a referendum, coercirebbe la libertà di voto degli elettori (art. 48 Cost.) e violerebbe, nel contempo, la proclamazione della sovranità popolare «nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1 comma 2 Cost.), in quanto, trattandosi di una legge dal contenuto disomogeneo, l’elettore potrebbe esprimere, sull’intero testo, solo un sì o solo un no ancorché le scelte da compiere sono almeno due: la modifica dell’attuale forma di governo (e cioè il rafforzamento del Governo a spese del Parlamento, con un Senato ridotto ad una larva) e la modifica della forma di Stato (essendo rafforzata la posizione dello Stato centrale nei confronti delle Regioni).

Il che evidenzia l’illegittimità costituzionale che caratterizza il d.d.l. cost. AC n. 2613-B, perché viola, come già detto, gli artt. 1 e 48 Cost. Un vizio che non contraddistingueva invece la c.d. riforma della Costituzione proposta dal Governo Letta (d.d.l. cost. n. 813 AS), naufragata strada facendo, il cui art. 4 comma 2 prevedeva appunto che «Ciascun progetto di legge è omogeneo e autonomo dal punto di vista del contenuto e coerente dal punto di vista sistematico».

Ciò sta a significare che la scelta del Governo in favore di una legge costituzionale dal contenuto disomogeneo, è stata consapevole. Il Governo ha infatti inteso sfruttare le diffuse critiche, anche tecniche, sul mal funzionamento della riforma costituzionale dell’ordinamento regionale introdotta dalla legge cost. n. 3 del 2001, per indurre gli elettori a votare Sì, con la conseguenza che il voto sarebbe contestualmente favorevole alle modifiche della forma di governo: obiettivo prioritario del Governo Renzi.

Violazione dell’art. 138 della Costituzione
Il 29 dicembre 2015, nella conferenza di fine anno, Matteo Renzi si è formalmente impegnato a dimettersi da Presidente del Consiglio dei ministri qualora prevalesse il No nel referendum confermativo. Nell’impegnarsi a dimettersi in caso di sconfitta, Renzi ha però inequivocabilmente ammesso che la paternità della riforma costituzionale è stata del Governo. Non invece del Parlamento, il che risponde alla semplice, ma ovvia, ragione istituzionale di non coinvolgere nell’indirizzo politico di maggioranza il procedimento di revisione costituzionale, che si pone ad un livello ben più alto della politica quotidiana: un livello al quale anche le opposizioni devono poter avere voce in capitolo.

Scriveva infatti Piero Calamandrei nel 1947: «Quando l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana»[1].

Un principio – quello dell’estraneità del governo alle revisioni costituzionali – che è funzionale ad un regime parlamentare come il nostro, che è stato rispettato per 47 anni, fino al tentativo di riforma costituzionale Berlusconi (2005), che prevedeva il così detto “premierato assoluto” bocciato dal referendum del 2006; seguito dal tentativo di riforma costituzionale del governo Letta (2013), che pretendeva, con un “crono-programma” alla mano, di derogare alle norme inderogabili dell’art. 138 Cost.; infine dalla riforma costituzionale Renzi. Né può dirsi che questa riforma fosse legittimata da quei due precedenti, perché l’una fu bocciata dal popolo, l’altra naufragò strada facendo.

Che la riforma Renzi, come le due precedenti, costituisca il contenuto di un atto di indirizzo politico di maggioranza in contrasto coi principi testé ricordati, è confermato dai cinque accadimenti che qui di seguito ricorderò. I quali pertanto non costituiscono delle discrepanze procedurali. Essi sono invece perfettamente funzionali all’indirizzo governativo incostituzionalmente impresso al procedimento di revisione costituzionale.

Primo. La presentazione di un disegno di legge costituzionale per la revisione della Costituzione, ancorché non presente nel programma elettorale del PD, era esplicitamente previsto nel programma del Governo Renzi. Esso pertanto costituiva anche formalmente un atto di indirizzo politico di maggioranza.

Secondo. Immediata conseguenza di quella premessa fu la rimozione d’autorità, nel luglio 2014, dalla Commissione Affari costituzionali del Senato in sede referente, di due parlamentari (i senatori Mauro e Mineo), i quali, insieme ad altri 14 senatori, avevano invocato il rispetto della libertà di coscienza per ciò che attiene alle modifiche della Costituzione.

Terzo. In sede di prima lettura del d.d.l. cost. n. 2613 la sen. Finocchiaro assunse le funzioni di relatore di maggioranza e il sen. Calderoli le funzioni di relatore di minoranza. In sede di terza lettura (d.d.l. cost. n. 2613-B), mentre le funzioni di relatore di maggioranza della sen. Finocchiaro le vennero confermate, le funzioni di relatore di minoranza non vennero assegnate, col pretesto della fine del c.d. patto del Nazzareno (B. Caravita), laddove la procedura di revisione costituzionale avrebbe dovuto essere insensibile alle vicende politiche (P. Calamandrei).

Quarto. Nella seduta del 1° ottobre 2015 venne messo in votazione l’emendamento (n. 1.203) a firma dei senatori Cociancich e Luciano Rossi[2], strutturato in modo tale da precludere tutta una serie di votazioni che avrebbero richiesto il voto segreto, con notevoli rischi per il Governo e per la maggioranza. Una specie di super-canguro nel procedimento di revisione costituzionale!

Quinto. Come dirò anche nel prosieguo, il “futuro” art. 57 Cost. presenta un’insanabile contraddittorietà interna, addirittura risibile in un testo solenne come la Costiuzione. Prevede infatti due commi tra loro antitetici. Per uscire da questa contraddizione, si suggerì da più parti, e anche autorevolmente (E.Cheli), di seguire il parere della Giunta del Regolamento della Camera dei deputati, Pres. Napolitano, del 5 maggio 1993, reso nel corso della modifica dell’art. 68 Cost., nel quale era stato correttamente osservato, «in considerazione dell’atipicità del procedimento di revisione costituzionale», che fosse ammissibile l’emendamento soppressivo di un comma già favorevolmente votato dai due rami del Parlamento (caso analogo all’attuale).

Ciò nondimeno la Presidente Finocchiaro, nella seduta del 2 ottobre 2015, senza andare troppo per il sottile, non considerò affatto tale precedente sulla base di un duplice, specioso argomento: 1) che la riaffermazione dell’eleggibilità diretta del Senato avrebbe altresì implicato la titolarità del rapporto fiduciario col Governo; 2) che l’ammissibilità dell’emendamento soppressivo dell’art. 2 comma 2 d.d.l. n. 1429-B sarebbe stato preclusivo dell’intera riforma.

Argomenti entrambi inesatti. Quanto al primo, la sola elettività diretta non implica la titolarità del rapporto fiduciario, Nel sistema parlamentare il rapporto fiduciario lega bensì il Governo a una Camera eletta dal popolo, ma in quanto essa sia titolare dell’indirizzo politico generale. Per contro, nel d.d.l. Renzi-Boschi, il Senato non è titolare dell’indirizzo politico generale. Conseguentemente l’estensione ad esso del rapporto fiduciario col Governo costituirebbe il frutto di una scelta discrezionale del legislatore costituzionale, e non la conseguenza di un principio costituzionale.

Quanto al secondo argomento, l’approvazione dell’emendamento soppressivo del comma 2 avrebbe implicato la sola conseguenza della riconferma dell’elettività diretta del Senato, non il naufragio dell’intera riforma.

Gli accadimenti storico-politici che hanno determinato la curvatura del procedimento di revisione costituzionale a fini di indirizzo politico di maggioranza
Gli accadimenti che hanno di fatto incostituzionalmente determinato l’utilizzo del procedimento di revisione costituzionale a fini di indirizzo politico di maggioranza sono due: da un lato la sent. n. 1 del 2014 con la quale la Corte costituzionale dichiarò l’incostituzionalità del Porcellum sulla base del quale la XVII legislatura era stata costituita; dall’altro l’inosservanza, da parte del Governo e della maggioranza parlamentare, dei limiti temporali che tale sentenza imponeva al legislatore.

Mi spiego meglio. La Corte, pur dichiarando l’incostituzionalità del Porcellum, consentì espressamente alle Camere di continuare ad operare e a legiferare, non però in forza della legge elettorale dichiarata incostituzionale, bensì grazie a un principio fondamentale del nostro ordinamento conosciuto come il «principio di continuità dello Stato». La Corte richiamò due esempi di applicazione di tale principio: la prorogatio dei poteri delle Camere, a seguito delle nuove elezioni, finché non vengano convocate le nuove (art. 61 Cost.); la possibilità delle Camere sciolte di essere appositamente convocate per la conversione in legge di decreti legge (art. 77 comma 2 Cost.). Ebbene, in entrambe tali ipotesi, il «principio fondamentale della continuità dello Stato» incontra limiti di tempo assai brevi, non più di tre mesi!

Pertanto, ammesso pure che le nuove elezioni non potessero essere indette nei primi mesi del 2014 perché lo scioglimento delle Camere avrebbe portato alle stelle lo spread nei confronti del Bund tedesco, è però evidente l’azzardo istituzionale, da parte del Premier Renzi e dell’allora Presidente Napolitano, di iniziare una revisione costituzionale di così ampia portata nonostante la dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum, e quindi con un Parlamento delegittimato quanto meno politicamente, se non anche giuridicamente, con parlamentari non eletti ma “nominati” grazie al Porcellum, insicuri di essere rieletti e perciò ricattabili ed esposti alla mercé del migliore offerente. Il che è dimostrato dal record, nella XVII legislatura, di passaggi da un gruppo parlamentare all’altro «con 325 migrazioni tra Camera e Senato in poco più di due anni e mezzo, per un totale di 246 parlamentari coinvolti»[3].

Di questa situazione di fatto, priva di chiarezza istituzionale e politica, l’attuale Presidente del Consiglio ha approfittato, abilmente e spregiudicatamente, con indubbio tempismo e col favore dell’allora Presidente della Repubblica, mettendo immediatamente in cantiere sia la riforma costituzionale sia il c.d. Italicum, la combinazione dei quali conduce alle distorsioni costituzionali ed istituzionali che ho precedentemente elencato.

Nel merito della riforma. L’Italicum come “perno” della riforma costituzionale
È a tutti noto che la ratio della dichiarazione d’incostituzionalità della legge n. 270 del 2005 era stata individuata dalla Corte costituzionale nella «eccessiva divaricazione tra la compressione dell’organo di rappresentanza politica (…) e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto». Avrebbe quindi dovuto essere intuitivo all’allora Presidente della Repubblica e al Presidente del Consiglio Renzi che un Parlamento nel quale perdurava la «eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa» (quello eletto per la XVII legislatura repubblicana) non poteva considerarsi legittimato a procedere a revisioni costituzionali, come ribadirò nel prosieguo di questo mio intervento.

Ma non solo le norme del Porcellum sono state sostanzialmente riprodotte nell’Italicum, in forza del quale una lista, in sede di ballottaggio, col 20 o 25 per cento dei voti, potrebbe, grazie al premio di maggioranza, conseguire la maggioranza dei seggi, in contrasto con la sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale.

C’è di più. Grazie all’Italicum il rapporto tra legge costituzionale e legge elettorale è stato invertito costituendone il “perno”. È infatti l’Italicum, approvato per primo, ad individuare il vero obiettivo del combinato “legge costituzionale – legge elettorale”, e cioè «verticalizzare il potere e gestirlo senza ostacoli e limiti da parte di nessuno, cittadini compresi» (L. Carlassare).

Le finalità accentratrici della riforma Renzi quanto alla forma di governo e alla forma di Stato
Le finalità accentratrici del disegno istituzionale sotteso alla riforma Renzi sono indiscutibili.

Nei rapporti tra Stato e Regioni di diritto comune (non però nei rapporti con le Regioni di diritto speciale, garantiti da specifiche leggi costituzionali) prevede una netta inversione di tendenza rispetto alla legge cost. n. 3 del 2001. Viene abolita la legislazione concorrente. Sono ricondotte alla competenza esclusiva dello Stato svariate materie in effetti troppo generosamente (o distrattamente) attribuite alla competenza regionale concorrente (ordinamento delle comunicazioni, grandi reti di trasporto, produzione e distribuzione nazionale dell’energia, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario ecc.). Viene tuttavia venga fatta salva la potestà dello Stato di delegarne alle Regioni l’esercizio. Viene altresì introdotta la clausola di supremazia statale (ribattezzata “clausola vampiro”: A. D’Atena) in forza della quale una legge dello Stato può intervenire in materia non riservata allo Stato, «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale» (futuro art. 117 comma 4). Come acutamente sottolineato, ci si allontana dal modello “solidale” che, con tutte le sue imperfezioni, caratterizzava la riforma del 2001 e ci si avvicina al modello “competitivo” (G. Azzariti). Il che implica una modifica della forma di Stato.

Quanto invece alla forma di governo, la titolarità del rapporto fiduciario col Governo è attribuita alla sola Camera dei deputati. La quale esercita, collettivamente col Senato[4], la funzione di revisione costituzionale e la funzione legislativa in un numero limitato di importanti materie ed esercita in esclusiva la funzione legislativa nelle restanti materie, con intervento eventuale del Senato, talvolta non paritario rafforzato, talaltra non paritario con esame obbligatorio (per le leggi di bilancio e rendiconto consuntivo)[5]. Elegge, praticamente da sola, nel Parlamento in seduta comune, sia il Presidente della Repubblica, sia un terzo dei componenti del CSM, rendendo quindi irrilevante il voto dei 100 senatori (mentre, altrettanto irrazionalmente, elegge solo tre giudici costituzionali).

Come è ammesso dagli stessi sostenitori della riforma, il combinato della riforma Renzi-Boschi e dell’Italicum determina il «rafforzamento della colloc6azione del Presidente del Consiglio nel circuito istituzionale» (B. Caravita). E ciò per due ragioni. In primo luogo, grazie all’indiscussa primazia che viene riconosciuta al Governo nel procedimento legislativo, essendogli tra l’altro concesso di richiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni, che «un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia definitiva della Camera entro settanta giorni dalla deliberazione».

In secondo luogo, grazie al cumulo, nella stessa persona, delle cariche di Presidente del Consiglio dei ministri e di Segretario nazionale del partito di maggioranza, il che consente al Premier di influire sulle organizzazioni periferiche di partito e quindi sui consigli regionali e, transitivamente, sulle decisioni del Senato. Si pensi all’elezione di due giudici costituzionali di competenza del Senato, con conseguente abrogazione implicita dell’art. 3 l. cost. n. 2 del 1967, che prevedeva che i giudici costituzionali venissero eletti a maggioranza di due terzi o, tutt’al più, di tre quinti dal Parlamento in seduta comune!

Le molte criticità del futuro Senato. Violazione del principio costituzionale dell’elettività diretta del Senato come forma di esercizio della sovranità popolare
I maggiori problemi li suscita però il Senato, quanto alla fonte di legittimazione e alla composizione, se non anche per le attribuzioni.

Il futuro Senato sarebbe costituito da 100 senatori, cinque nominati dal Presidente della Repubblica e 95 eletti dai consigli regionali e dai consigli provinciali di Trento e Bolzano, nella persona di 74 consiglieri regionali e di 21 sindaci di comuni capoluogo: 21 collegi elettorali composti da poche decine di eletta di persone (in genere da 30 a 50 componenti, con le eccezioni del Molise, 20, della Lombardia, 80, e della Sicilia, 70) per un totale complessivo di circa ottocento elettori.

Ciò premesso, l’enunciato costituzionale secondo il quale «Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali…»[6] è stato autorevolmente qualificato come una “bestemmia”, alla luce della teoria della rappresentanza politica. In uno Stato non federale, il rappresentante è infatti il Parlamento e il rappresentato è “tutto il popolo” e non le istituzioni territoriali (M. Dogliani).

Inoltre, essendo i senatori eletti dai consigli regionali e provinciali, ma non “direttamente” dal popolo è stata contestata la legittimità costituzionale del “futuro” art. 57 commi 2 e 5 Cost., il quale, come già ricordato in precedenza[7], da un lato che prevede che i senatori siano eletti dai consigli regionali (comma 2) e dall’altro dispone che l’elezione dovrà avvenire «in conformità alle scelte degli elettori» (comma 5). La si è contestata, in forza del principio della sovranità popolare (L. Carlassare, A. Pace) sulla base della stessa giurisprudenza costituzionale, richiamando, sul punto, due importanti pronunce: la notissima sent. n. 1146 del 1988, nella quale si statuì che i «principi supremi della Costituzione» – tra i quali la Corte ha ripetutamente incluso la proclamazione della sovranità popolare (art. 1 Cost.) – non possono essere contraddetti nemmeno da una legge costituzionale; e la non meno nota sent. n. 1 del 2014 (dichiarativa dell’incostituzionalità del Porcellum), nella quale la Corte, nell’interpretare l’art. 1 comma 2 Cost., ha affermato che «la volontà dei cittadini, espressa attraverso il voto (…), costituisce il principale strumento della volontà popolare» (cons. in dir. § 3) e che, attraverso «la rappresentatività dell’assemblea parlamentare…si esprime la sovranità popolare» (cons. in dir., § 4).

Da parte di parlamentari della maggioranza e di studiosi anche autorevoli (ad es. A. D’Atena) si è invece sostenuto che l’elezione indiretta da parte dei consigli regionali rinverrebbe dei precedenti in diritto comparato. Il che non è esatto né con riferimento al modello francese, né a quello tedesco, né infine a quello austriaco.

In primo luogo non si tratta però di un’elezione indiretta perché i Consigli regionali e i due Consigli provinciali eleggono i senatori jure proprio, e non come “grandi elettori”. Ciò invece accade in Francia, dove i 44.600.000 elettori francesi eleggono specificamente i 150 mila grandi elettori che a loro volta eleggeranno i 340 senatori. I cittadini italiani eleggono i consigli regionali, punto e basta. Non si tratta quindi di un’elezione di secondo grado come quella francese o come quella delle elezioni presidenziali statunitensi (L. Elia).

Né è esatto il paragone col sistema tedesco perché nel Bundesrat sono presenti, a proprio titolo, i Governi dei sedici Länder – preesistenti alla stessa Legge fondamentale tedesca (1949) e addirittura alla stessa Costituzione imperiale del 1871 – che, per il tramite di loro rappresentanti, hanno a disposizione, a seconda dell’importanza del Land, da un minimo di tre ad un massimo di sei voti per ogni deliberazione. Per cui, non si tratta quindi di elezione indiretta.

E nemmeno si potrebbe sostenere che il modello italiano si ispiri al Bundesrat austriaco, i cui membri non sono eletti dai cittadini ma dalle assemblee dei Länder (art. 35 Cost. austriaca). A parte le critiche mosse al sistema austriaco proprio per la carente legittimazione delle assemblee dei Länder (H. Schäffer, R. Bin, F. Palermo), è risolutiva la differenza intercorrente tra la proclamazione della sovranità popolare dell’art. 1 comma 2 della nostra Costituzione secondo quale «la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto (…) costituisce il principale strumento della volontà popolare», e la proclamazione dell’art. 1 della Cost. austriaca («L’Austria è una Repubblica democratica. Il suo diritto emana sal popolo»), che non impone, nemmeno implicitamente, l’elettività diretta degli organi legislativi.

Ho già accennato come la versione definitiva del “futuro” art. 57 Cost. (di cui all’art. 2 d.d.l. n. 2613-B) preveda due commi tra loro antitetici, uno che prevede che i senatori saranno eletti dai consigli regionali (comma 2), l’altro secondo il quale tale elezione dovrà avvenire «in conformità alle scelte degli elettori» (comma 5). Il che non sfugge però alla seguente alternativa: o l’elezione da parte del Consigli regionali, per quanto riguarda i 74 senatori, sarà meramente riproduttiva della volontà degli elettori e sarà quindi inutile; oppure se ne distaccherà, e in tal caso viola l’art. 1 Cost. per le ragioni anzidette.

Poiché però la «conformità alle scelte degli elettori» è imposta dal “futuro” art. 57 comma 5 Cost. soltanto per l’elezione dei senatori-consiglieri e non per l’elezione dei senatori-sindaci, ne segue che almeno l’elezione dei senatori-sindaci è priva del lambiccato correttivo previsto dal comma 5, per cui la violazione dell’art. 1 Cost. è comunque, sotto questo profilo, insanabile. Né si può ipotizzare che la legge bicamerale prevista dal comma 6 del “futuro” art. 57 – che dovrebbe «regolare le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato della Repubblica» – possa rendere identico ciò che tutt’al più sarebbe «conforme alle scelte degli elettori».

Il che implica che, una volta entrata in vigore la riforma costituzionale Renzi-Boschi, qualsiasi cittadino – nel corso di un giudizio nel quale si pretenda dalla controparte l’applicazione di una legge approvata sia dalla che dal Senato (c.d. legge bicamerale) – potrebbe eccepirne l’illegittimità costituzionale “derivata” dall’incostituzionalità del “nuovo” art. 57 commi 2 e 5 Cost., per contrasto col citato art. 1 comma 2 Cost.

Irrazionalità della composizione del Senato
Si è già osservato come l’eccessiva differenza numerica dei seggi che compongono la Camera e il Senato è tale da rendere irrilevante la presenza dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune quando si tratti di eleggere il Presidente della Repubblica e i componenti del CSM.

Ebbene, anziché ridurre i componenti di entrambe le Camere – come si era da più parti suggerito facendo scendere la Camera a 400/500 componenti e il Senato a 200 – si è invece diminuito esclusivamente il numero dei senatori.

I cui 100 componenti, continueranno, oltre tutto, a svolgere part-time la funzione di consigliere regionale o di sindaco, con l’ovvia conseguenza, che svolgeranno male sia la funzione di consigliere regionale (o di sindaco), sia quella di senatore, con spreco, e non risparmio, di pubblico denaro come invece sbandierato dal Presidente del Consiglio e dalla ministra delle riforme.

E ciò senza voler ulteriormente considerare che il compito di valutare «le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori».

Altrettanto discutibile è la nomina presidenziale dei cinque senatori. E ciò per due motivi: 1) i cinque senatori, essendo nominati dal Presidente della Repubblica per sette anni – come lo stesso Capo dello Stato -, potrebbero subirne l’influenza; 2) è paradossale che cinque illustre personalità “che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” vadano ad esercitare il loro alto magistero culturale in un organo che rappresenta esclusivamente le istituzioni territoriali (“futuro” art. 55 Cost.).

Conclusioni
In definitiva il d.d.l Renzi privilegia la governabilità sulla rappresentatività; elimina i contro-poteri esterni alla Camera senza compensarli con contropoteri interni; riduce il potere d’iniziativa legislativa del Parlamento a vantaggio di quella del Governo; prevede almeno sette tipi diversi di votazione delle leggi ordinarie con conseguenze pregiudizievoli per la funzionalità delle Camere; nega, come già detto, l’elettività diretta del Senato ancorché gli ribadisca contraddittoriamente la spettanza della funzione legislativa e di revisione costituzionale; sottodimensiona irrazionalmente la composizione del Senato rendendo irrilevante il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune; pregiudica il corretto adempimento delle funzioni senatoriali, divenute part-time delle funzioni dei consiglieri regionali e dei sindaci.

Mi fermo qui, ma potrei continuare ancora a lungo: dall’esclusione del Senato nella deliberazione dello stato di guerra (leggi: l’invio all’estero delle missioni militari) ai difficili raccordi del Senato delle autonomie con lo Stato, con le stesse Regioni (i governatori stanno là e non a Palazzo Madama!) e infine con l’Unione europea (A. Manzella).

[1] P. Calamandrei, Come nasce la nuova Costituzione, ne Il Ponte, 1947, 1ss.

[2] «Al comma 1, capoverso «articolo 55 della Costituzione», sostituire il quinto comma con il seguente: «5. Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all’esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato».

[3] V. il Fatto Quotidiano, 3.1.15, p. 4; Trasformismo in Parlamento in Repubblica.it, 4.1.16; S. Settis, Metamorfosi del deputato, ne L’Espresso, n. 1 del 7.1.16, p. 59; Il puzzle dei cambi di partito ne il Corriere della sera, 7.1.16, p. 12 s.

[4] Revisione della Costituzione e altre leggi costituzionali. Tutela delle minoranze linguistiche. Referendum popolari e altre forme di consultazione. Legge elettorale del Senato. Ordinamento, legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni e città metropolitane: forme associative dei comuni. Legge che stabilisce le norme generali per la partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche UE. Ineleggibilità ed incompatibilità dei senatori. Ratifica dei trattati sull’appartenenza dell’Italia all’UE. Ordinamento di Roma capitale. Attribuzione alle Regioni di forme particolari di autonomia. Legge che disciplina la partecipazione delle Regioni alle decisioni dirette alla formazione del diritto europeo e all’attuazione degli accordi internazionali e degli atti dell’UE. Legge che disciplina i casi e le forme in cui la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali di altri Stati. Principi generali per l’attribuzione del patrimonio a comuni, città metropolitane e Regioni. Potere sostitutivo del Governo e casi di esclusione dei titolari di organi di governo regionali e locali dalle funzioni in caso di grave dissesto finanziario dell’ente. Principi fondamentali per il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente, degli assessori e consiglieri regionali, nonché per promuovere l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza: durata degli organi elettivi regionali; emolumenti degli organi regionali nel limite dell’importo di quelli attribuiti ai sindaci dei Comuni capoluogo. Distacco dei comuni da una Regione ed aggregazione ad un’altra.

[5] I procedimenti legislativi previsti dal d.d.l. Renzi-Boschi sarebbero più d’uno, se si segue la ripartizione suggerita da Gaetano Azzariti, in base ai diversi iter di volta in volta seguito: procedimento bicamerale paritario (art. 70 comma 1), monocamerale con intervento eventuale del Senato (art. 70 comma 2), non paritario rafforzato (art. 70 comma 4), non paritario con esame obbligatorio per le leggi di bilancio e rendiconto consuntivo (artt. 70 comma 5 e 81 comma 4), disegni di legge a “data certa” (art. 72 comma 7), conversione dei decreti legge (art. 77 commi 2 e 3), leggi di revisione costituzionale (art. 138). A questi sette distinti procedimenti di formazione può aggiungersi quello “speciale” relativo all’approvazione delle leggi elettorali che prevede la possibilità di un controllo preventivo da parte della Corte costituzionale (art. 73 comma 2) e quello nel quale il Senato può, con deliberazione adottata a maggioranza assoluta, “richiedere” alla Camera di procedere all’esame di un disegno di legge (art. 71).

[6] «Il Senato della Repubblica «rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all’esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato» (futuro art. 55 comma 5).