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6201.- Il terrorista tagiko catturato in Italia, segno che l’Isis è vicino

Un altro terrorista arrestato in Italia, a Fiumicino. È il tagiko Ilkhomi Sayrakhmonzoda, jihadista dell’Isis-K, il gruppo terrorista in continua espansione dall’Afghanistan. L’Italia è un punto di snodo.

 Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Souad Sbai, 10_04_2024Carabinieri a Fiumicino (Imago Economica)

Euro in contanti e una taglia sulla testa per terrorismo islamico: questo è quanto emerso quando un individuo, con un passaporto ucraino e sotto il falso nome di Timor Settarov, proveniente dall’Olanda e diretto a Roma, è stato arrestato all’aeroporto di Fiumicino. Un viaggio che ha scatenato una caccia serrata ai suoi contatti italiani e ha dato il via a un’indagine delicata. «Siamo molto curiosi di capire cosa era venuto a fare a Roma», hanno dichiarato gli investigatori della Digos di Roma, mentre si concentrano sul caso di Ilkhomi Sayrakhmonzoda, un tagiko di 32 anni definito “membro attivo dell’Isis”. L’uomo è stato fermato nella mattinata di lunedì mentre si apprestava a salire su un treno diretto verso la Capitale, con le manette che sono scattate grazie a una “red notice” dell’Interpol, richiesta dal Tagikistan. Questo perché Sayrakhmonzoda si era arruolato nelle fila dello Stato Islamico nel 2014 e aveva combattuto in Siria, con un precedente arresto anche in Belgio.

L’individuo, descritto come un uomo tagiko con capelli corti, barba, indossante jeans, maglietta bianca e sneakers, è atterrato a Fiumicino da Eindhoven, nei Paesi Bassi, alle 11:45, sotto falsa identità. Gli agenti hanno rilevato le sue impronte digitali e hanno scoperto la sua vera identità, conducendo poi ulteriori indagini. Nonostante i suoi movimenti siano stati monitorati all’aeroporto, Sayrakhmonzoda si era diretto da solo verso il treno che dall’aeroporto di Fiumicino arriva alla stazione ferroviaria di Roma Termini, ma è stato fermato e arrestato dagli agenti dell’antiterrorismo. Durante la perquisizione sono stati sequestrati il suo cellulare e circa duemila euro in contanti.

La nazionalità del detenuto, in un momento di elevata tensione a causa dei conflitti in corso, ha richiamato l’attenzione sul gruppo terroristico che ha colpito alla Crocus Hall di Mosca il 22 marzo scorso, un attentato rivendicato dall’Isis. Ma al momento la Polizia non ha mai menzionato quanto avvenuto in Russia. Non è chiaro quale Paese abbia emesso il mandato di arresto nei suoi confronti, ma gli investigatori hanno confermato che l’uomo ha utilizzato diverse identità false, originarie da Uzbekistan, Kirghizistan e Ucraina. Si sa inoltre che Sayrakhmonzoda è nato nel 1992 e si è arruolato come combattente straniero per lo Stato Islamico in Siria nel 2014.

Il Tagikistan è una delle nazioni che fornisce un numero consistente di militanti dell’Isis Khorasan (Isis-K), formazione che conterebbe su cellule dormienti anche in Europa. La strategia di “internazionalizzazione” dell’agenda dell’Isis-K – il cui obiettivo è la creazione di un califfato islamico nell’Asia centrale e meridionale – è stata perseguita con rinnovato vigore dal 2021. Ciò è in parte dovuto a un ambiente più permissivo in seguito al ritiro degli Stati Uniti e il successivo crollo del governo afghano. Questo processo di internazionalizzazione dell’agenda dell’Isis-K prevede che il gruppo prenda di mira direttamente i paesi della regione o la loro presenza in Afghanistan. Ad oggi, ciò ha visto gli interessi di Pakistan, India, Uzbekistan, Tagikistan, Cina e Russia presi di mira da attacchi terroristici. Per tale motivo il Governo tagiko ha intensificato gli sforzi antiterrorismo dalla presa del potere dei talebani in Afghanistan nell’agosto 2021, con il quale condivide un confine di 843 miglia. 

Il governo del Tagikistan afferma che il nord dell’Afghanistan è una fonte primaria di attività terroristica e ospita migliaia di estremisti violenti. Le preoccupazioni principali del Tagikistan riguardano l’Isis-K e Jamaat Ansarullah, che opera dall’Afghanistan e cerca di rovesciare il governo tagiko per fondare uno stato islamico.

Le preoccupazioni sul reclutamento di cittadini tagiki nell’Isis-K esistono da tempo, con il trattamento draconiano da parte dei talebani nei confronti delle minoranze afghane, compresi i tagiki, che probabilmente crea un inconsapevole vantaggio di reclutamento per il gruppo terroristico. La crescita notevole dell’Isis-K è stata preceduta solo da pochi anni di rischio di totale annientamento per il gruppo. Allo stesso tempo, la storia del movimento dello Stato Islamico è ricca di esempi di rinascite apparentemente improbabili, con azioni audaci al di là dei confini nazionali. Queste azioni non solo mirano a riconquistare roccaforti locali, ma anche ad espandere l’influenza del gruppo e a stabilire il controllo nelle province vicine e addirittura a livello transnazionale. Le operazioni esterne rappresentano un elemento cruciale attraverso il quale lo Stato Islamico realizza i suoi obiettivi strategici, sia durante fasi di crescita che di regressione, nel corso della sua campagna di insurrezione. Tra il 2022 e il 2023, sono emersi rapporti provenienti da diversi paesi dell’Unione Europea che dettagliano il coinvolgimento dell’Isis-K nelle comunità locali in Austria, Germania e Paesi Bassi per coordinare le operazioni estere. Questo si è verificato contemporaneamente all’esplosione della produzione mediatica dell’Isis-K, passando da meno di una manciata di lingue regionali prima del 2020 a oltre una dozzina di lingue dal 2020 in poi. Un avvenimento degno di nota è stato il lancio, nel gennaio 2022, della sua rivista di punta in lingua inglese, Voice of Khorasan. Questa rivista elogia frequentemente i martiri dei combattenti stranieri nelle operazioni attuali e passate e ha ora pubblicato numerosi articoli di presunti sostenitori italiani e canadesi dell’Isis-K, oltre a diffondere regolarmente commenti che incitano alla violenza in risposta ad eventi attuali, come i roghi del Corano in Svezia, con qualche limitato successo riportato in Turchia.

Dunque, le operazioni esterne dell’Isis-K si sono ampliate dalla sua formazione ufficiale nel 2015 fino a comprendere uno spettro completo di azioni attuali, dalle spedizioni locali alle operazioni coordinate e ispirate dall’estero. Contestualmente, le sue attività mediatiche si sono viste rapidamente espandere per contribuire ad amplificare e sostenere tali operazioni. Anche se alcuni analisti e funzionari potrebbero interpretare l’attuale pausa nelle operazioni complessive dell’Isis-K come un segno di debolezza, la chiara traiettoria ascendente e di espansione del gruppo nel tempo non può essere ignorata. Diversi cittadini tagiki sono stati arrestati perché in procinto di compiere attentati contro obiettivi degli Stati Uniti e della NATO in Germania nell’aprile 2020. Altri membri tagiki dell’Isis-K sono stati fermati dalle autorità tedesche e olandesi nel luglio 2023 come parte di un’operazione per sventare una rete dell’Isis-K che pianificava un attentato ed era intenta nella raccolta fondi.

Episodi che ci fanno tornare in Italia, all’aeroporto di Fiumicino. Perché l’Italia è stata e continua ad essere base e snodo strategico per terroristi. Roma non era dunque una tappa intermedia, ma la destinazione del tagiko affiliato allo Stato islamico. Non aveva infatti un altro biglietto aereo per ripartire. Sayrakhmonzoda era ‘”sconosciuto” alle banche dati delle Forze dell’ordine italiane, non ha dunque precedenti sul territorio nazionale. Ha però numerosi alias con nazionalità e date di nascita diverse, in particolare dell’Uzbekistan, del Kirghizistan e dell’Ucraina. Gli investigatori contano ora attraverso l’analisi del telefonino di risalire ad eventuali contatti italiani dell’uomo.

Già, perché il suo arrivo a Roma apre ad interrogativi inquietanti: programmava un’azione? Doveva reclutare qualcuno? C’era una rete che lo attendeva? Quei 2000 euro a cosa servivano? Non è la prima volta che viene arrestato un terrorista islamico “di passaggio” in Italia.

Se andiamo con la mente alle cronache dello scorso febbraio ricordiamo Sagou Gouno Kassogue, un cittadino maliano di 32 anni, identificato come l’aggressore che ha ferito tre persone con un coltello alla Gare de Lyon di Parigi. È emerso che Kassogue è uno dei più di 180mila migranti che sono sbarcati in Italia nel 2016. Questo episodio si aggiunge a una serie di attacchi terroristici in Europa perpetrati da individui con legami precedenti con l’Italia. Abdesalem Lassoued, un tunisino di 45 anni, ha ucciso due turisti svedesi a Bruxelles lo scorso ottobre. Lassoued, dopo essere sbarcato in Sicilia, ha trascorso del tempo in Italia, tra Bologna e Genova. Lakhdar Benrabah, un algerino, ha aggredito tre poliziotti a Cannes nell’8 novembre 2021. Benrabah è arrivato in Sardegna, è stato poi trasferito a Napoli e ha ottenuto il permesso di soggiorno. Brahim Aoussaoui, anch’egli tunisino, ha ucciso tre persone nella basilica di Notre-Dame a Nizza il 29 ottobre 2020. Aoussaoui è arrivato a Lampedusa poco più di un mese prima, è stato poi trasferito a Bari, dove ha ricevuto un foglio di via con cui ha attraversato clandestinamente il confine.

Anis Amri, anche lui tunisino, ha perpetrato l’attentato di Berlino nel 2016, uccidendo 12 persone. Amri, prima di diventare un terrorista, è stato arrestato in Italia e poi si è spostato in Germania con un foglio di via. Nel 2016, l’algerino Khaled Babouri ha aggredito due poliziotte a Charleroi, in Belgio, e l’attentato è stato rivendicato dall’Isis. Babouri ha attraversato l’Italia prima dell’attacco. Mohamed Lahouaiej Bouhlel, anch’egli tunisino, ha lanciato un autocarro sul lungomare di Nizza nel 2016, uccidendo quasi 90 persone. Bouhlel si spostava spesso tra l’Italia e la Francia. Infine, Ahmed Hanachi, tunisino, ha accoltellato a morte due ragazze alla stazione Saint-Charles di Marsiglia il primo ottobre 2017, ed è stato sposato con un’italiana, vivendo ad Aprilia (Lt) presso i suoceri per un lungo periodo.

Questi casi evidenziano una serie di individui con legami con l’Italia coinvolti in attacchi terroristici in Europa. Lo scorso ottobre il Comitato di analisi strategica antiterrorismo aveva reso noto che negli ultimi otto anni 146 foreign fighters schedati e 711 soggetti pericolosi rimpatriati, di cui 53 solo nel 2023. Nel 2015 si contavano 87 foreign fighters che in qualche modo avevano avuto a che fare con l’Italia. Oggi conviene aggiornare i conti, per non pagarne presto di salati.

6177.- Strage degli Innocenti: presi 4 terroristi, altri in fuga, 11 gli arrestati, sono del Tagikistan: “Contatti” in Ucraina. Sale a 143 morti il bilancio

Questo video è stato diffuso domenica 24 marzo. Fa vedere soltanto le bestie, non le menti che si fanno chiamare Isis-k.

Il direttore dell’Fsb, l’intelligence russa, ha riferito al presidente Vladimir Putin che 11 persone sono state fermate, tra cui 4 terroristi che hanno partecipato all’attacco terroristico nella sala concerti alle porte di Mosca. “Avevano contatti in Ucraina” ha accusato l’Fsb. Ma la notizia di un coinvolgimento di cittadini del Tagikistan e di loro contatti in Ucraina non significa che siano coinvolti i governi di Dushanbe e di Kiev.

Attentato a Mosca, terroristi in fuga

Da Il Riformista

La ricerca dei responsabili dell’attentato a Mosca si stringe e cominciano ad arrivare gli arresti. Dopo la rivendicazione dell’IsKp, una branca dello StatoIslamico, le autorità russe hanno riferito di aver bloccato una macchina con a bordo i potenziali terroristi che hanno colpito il Crocus City Hall nella capitale della Federazione Russa ieri sera. L’auto viaggiava nel distretto di Karachi, nella regione di Bryansk. Alcuni degli uomini a bordo sono stati fermati, altri sono riusciti a fuggire.

Secondo le informazioni date in anticipo dal deputato russo Alexander Khinshtein, l’auto – una Renault – con a bordo i sospettati non si sarebbe fermata a un alt delle forze dell’ordine, tentando la fuga. A quel punto è partito un inseguimento con anche una sparatoria, che ha portato l’auto a ribaltarsi. Uno dei presunti terroristi è stato subito fermato dalla polizia, mentre gli altri sono fuggiti nell’area circostante in cui c’è un bosco. Un secondo sospettato è stato trovato poco dopo e arrestato.

Intanto nell’auto è stata trovata una pistola PM, un caricatore per un fucile d’assalto AKM e dei passaporti di cittadini del Tagikistan, come riporta l’agenzia Tass. Le ricerche degli altri presunti terroristi continuano.

Il post con cui l'Isis ha rivendicato l'attentato al Crocus City Hall di Mosca

Il post con cui l’Isis ha rivendicato l’attentato al Crocus City Hall di Mosca – Ansa

La fuga dei terroristi verso l’Ucraina non deve significare che la matrice dell’attentato sia di Kiev e si comprende l’insistenza di Washington sulla rivendicazione dell’Isis, che, veritiera o di comodo, da un lato, introduce nuovamente il pericolo di attentati in Europa, dall’altro, tende a evitare che il rullo compressore russo si metta in moto con tutta la sua potenza verso l’Ucraina, con quali conseguenze non si può nemmeno immaginare.

4 terroristi arrestati, sono Tagiki.

Da Il Secolo d’Italia, 23 Mar 2024 10:25 – di Robert Perdicchi

Sono stati arrestati quattro terroristi direttamente coinvolti nell’attacco terroristico a Mosca, che ha preso di mira la Crocus City Hall, a Krasnogorsk, nella periferia nord della capitale russa. Lo riferisce l’agenzia russa Ria, secondo cui il presidente russo Vladimir Putin è stato informato dal capo dell’Fsb che dopo la strage sono stati eseguiti 11 arresti e tra le persone fermate vi sarebbero “tutti i terroristi direttamente coinvolti nell’attacco”.

Poco prima il deputato Alexander Khinstein, aveva riferito che la Polizia aveva fermato due persone a bordo di un veicolo in fuga nella regione di Bryansk, a circa 340 chilometri a sudovest di Mosca. All’interno del mezzo – riporta l’agenzia russa Tass – sono stati trovati una pistola, un caricatore per fucili d’assalto e passaporti del Tagikistan.

Le autorità russe attribuiscono le morti alle ferite d’arma da fuoco e all’asfissiaa causa dell’incendio scoppiato durante l’attacco. Il bilancio delle vittime è ancora provvisorio. Nel frattempo le forze di sicurezza lavorano all’ “ispezione” del luogo dell’attentato, procedono con il “sequestro delle prove materiali” e con l’esame delle registrazioni delle telecamere a circuito chiuso.

Lo Stato Islamico ha rivendicato l’attacco venerdì sera, in un post su Telegram in cui il gruppo affermava che i suoi uomini armati erano riusciti a fuggire, in seguito. Un funzionario statunitense ha affermato che Washington dispone di servizi segreti che confermano le affermazioni dello Stato islamico. Le foto hanno mostrato il municipio di Crocus avvolto dalle fiamme mentre sono emersi video che mostravano almeno quattro uomini armati che aprivano il fuoco con armi automatiche mentre i russi in preda al panico fuggivano per salvarsi la vita. In una clip, tre uomini in tuta mimetica armati di fucili hanno sparato a bruciapelo contro corpi sparsi nell’atrio della sala da concerto.

A quanto pare gli aggressori hanno anche fatto esplodere degli esplosivi durante l’attacco. Venerdì sera nella sala da concerto sono avvenute almeno due esplosioni, hanno riferito le agenzie di stampa.

I volti dei 4 stragisti di Mosca. Uno di loro ha confessato: “L’ho fatto per i soldi” (video)

23 Mar 2024 13:35 – di Lucio Meo

Il video dell’interrogatorio di uno presunti attentatori di Mosca è stato diffuso dalla propagandista russa Margarita Symonian. L’uomo dice di essere arrivato in Russia dalla Turchia il 4 marzo e di aver compiuto l’attacco per denaro. Lo riferiscono Meduza e Ria Novosti. Estratti del video sono stati pubblicati anche dai canali Baza e Shot legati alle forze dell’ordine.

https://mediagol-meride-tv.akamaized.net/proxy/iframe.php/25603/gol

L’uomo si identifica con un nome che suona come Fariddun Shamsutdin, nato il 17 settembre 1998. Ha raccontato di essere stato ingaggiato via Telegram da un non meglio identificato “assistente del predicatore”. L’uomo, buttato a pancia sotto nel fango, e tenuto per i capelli da un agente delle forze russe, dice che gli era stato promesso mezzo milione di rubli e di aver fatto tutto per denaro. Gli sono state fornite armi e gli è stato indicato il luogo dell’attentato. Nella registrazione, afferma Meduza, l’uomo parla tagiko. (video)

Da L’Avvenire

Chi sono i killer, perché l’attacco, cosa succede ora: la strage in 7 punti

… Perché l’attentato?

Ecco alcuni passaggi degli interrogatori, non proprio formali, degli agenti russi: «Che cosa ci facevi al Crocus?» chiede un uomo delle unità speciali a uno dei presunti attentatori, tenendolo per i capelli fermo a terra, faccia in giù, mentre lo registra con uno smartphone. «Ho sparato» risponde. «A chi hai sparato?» lo sollecita l’agente. «Alle persone» dice l’interrogato. «Perché l’hai fatto?» lo incalza. «Per soldi» confessa lui a voce bassa. Nel video pubblicato da Baza e rilanciato dal canale Telegram della direttrice della televisione Russia Today, Margarita Simonyan, l’arrestato dichiara di avere 26 anni, di aver accettato di partecipare all’attacco dopo avere ascoltato un mese fa le lezioni di un predicatore, di essere stato reclutato da un aiutante che gli ha offerto 500mila rubli (circa 5.000 euro). Di cui 250.000 già pagati in anticipo. Da lui nessun riferimento a eventuali contatti ucraini per la fuga dopo l’assalto. 

Le immagini dell’uomo, sottomesso, spaventato a morte, non possono che turbare. Ma ancor di più il filmato di un altro degli arrestati che dapprima i canali Telegram russi fanno vedere con la testa e la faccia fasciate, ricoperto di sangue, tumefatto: lo stesso uomo che in un video pubblicato successivamente su X dal gruppo indipendente bielorusso Nexta e dal media russo Meduza viene mostrato mentre, tenuto fermo a terra in un luogo che sembra un bosco, viene torturato. Altre immagini shock fanno vedere un ragazzo, «di 19 anni, originario di Dushanbe in Tagikistan», secondo i canali Telegram russi, con una ferita molto evidente all’occhio sinistro, supino e a terra, apparentemente privo di sensi.

Chi ha rivendicato l’attacco?

Mentre Mosca insiste nel puntare il dito contro Kiev, l’Isis continua ad attribuirsi la responsabilità della strage al Crocus City Hall di Mosca, indicando che sono suoi i quattro terroristi che hanno sparato nella sala da concerto e pubblicandone anche le foto. Una rivendicazione che trova riscontro dagli Stati Uniti, che affermano di aver avvertito la Russia a inizio mese del rischio di attacchi da parte dell’Isis-K, il ramo afghano dello Stato islamico, mentre fonti di intelligence hanno riferito di aver ricevuto segnali di possibili attacchi «già da novembre». Conosciuto anche come Stato islamico del Khorasan (Iskp), il gruppo è attivo già dal 2014, formatosi da membri di gruppi militanti, compresi quelli del Pakistan e dell’Uzbekistan.

L’organizzazione è attiva in Asia centrale: il nome Khorasan si traduce in “la terra del sole” e si riferisce a una regione storica che comprende parti dell’Afghanistan, del Pakistan e anche dell’Iran, dove a gennaio il gruppo ha effettuato due attentati che hanno ucciso quasi 100 persone. Una dimostrazione di forza, brutalità e di inclinazione ad azioni spettacolari. L’Isis-K si pone come obiettivo la fondazione di un nuovo califfato che riunisca Afghanistan, Pakistan, Iran, ma non solo: nella loro visione rientrano infatti alcune ex repubbliche sovietiche, come il Turkmenistan, il Tagikistan e l’Uzbekistan.

Come è possibile che il Cremlino non fosse preparato?

Lo scorso 7 marzo l’ambasciata americana a Mosca aveva messo in guardia i propri cittadini per possibili attentati terroristici nelle 48 ore successive, specie ad eventi affollati come concerti musicali. L’allarme era stato lanciato dopo che, il giorno prima, i servizi di sicurezza interni (Fsb) avevano detto di aver sventato un attacco con armi da fuoco contro i fedeli di una sinagoga nella capitale. L’intelligence russa ha confermato di aver ricevuto le informazioni, ma «erano di natura generale e non contenevano dettagli specifici» scrive l’agenzia Tass.

Perché la ricomparsa dell’Isis non è una buona notizia? 

Qualche osservatore ha tirato un sospiro di sollievo alla notizia della rivendicazione dell’Isis. Meglio il ritorno dello Stato islamico – è questo il ragionamento – che un coinvolgimento dell’Ucraina (come si era adombrato a Mosca) che avrebbe significato una svolta sanguinosa e terribile nel già durissimo conflitto ucraino. Il ritorno dei macellai dello Stato islamico invece aggiunge un elemento di preoccupazione significativo: è l’apertura di un quarto fronte che si aggiunge a quello ucraino, a quello di Gaza e a quello del Mar Rosso nel gran caos globale. Questo senza considerare le varie tensioni sparse per il mondo, a cominciare da quella su Taiwan.

Che peso ha la strage sulla situazione internazionale?

«Tutti coloro che sono dietro a questo atto terroristico la pagheranno». L’avvertimento di Vladimir Putin nel suo discorso alla nazione dopo la strage al Crocus City Hall, unito ai vaghi accenni a una possibile responsabilità di Kiev, potrebbero far pensare ad un ulteriore inasprimento degli attacchi sull’Ucraina, o addirittura a raid contro la dirigenza del Paese, come ha suggerito ieri l’ex presidente Dmitry Medvedev. Ma la preoccupazione maggiore del capo del Cremlino è oggi quella di prevenire il panico ed evitare spaccature in un Paese multietnico e multiconfessionale, dove i musulmani rappresentano una cospicua minoranza e il jihadismo di stampo islamico ha già portato una seria minaccia alla tenuta dello Stato dopo lo scioglimento dell’Urss. Nonostante gli accenni ad un ruolo ucraino in quanto avvenuto, rimane pur sempre la rivendicazione dell’Isis. Di qui l’appello di Putin alla comunità internazionale per unirsi a Mosca nella lotta al terrorismo, che «non ha nazionalità. Contiamo sull’interazione con tutti i Paesi che condividono sinceramente il nostro dolore e sono pronti a condividere gli sforzi per combattere il nemico comune» ha aggiunto il presidente.

Scene di lutto e di disperazione davanti al Crocus Hall

Scene di lutto e di disperazione davanti al Crocus Hall – Ansa

L’appello appare stonato mentre la Russia e l’Occidente sono contrapposti nella guerra in Ucraina. Sono molto lontani i tempi della cooperazione Russia-Usa dei primi anni della presidenza di Putin, che aveva instaurato un rapporto di stima reciproca con l’omologo americano George W. Bush. Il capo del Cremlino fu il primo leader internazionale a telefonare all’inquilino della Casa Bianca dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 per offrirgli la piena collaborazione di Mosca nella lotta al terrorismo islamico, che aveva già preso di mira la Russia con attentati sanguinosi. Tanto che il mese successivo i russi cooperarono attivamente all’attacco americano contro i Talebani in Afghanistan. E proprio i presidenti di Paesi di questa regione, come Kazakhstan e Uzbekistan, hanno già telefonato a Putin per assicurare la loro collaborazione. In un Paese dalle tante etnie in cui i musulmani rappresentano, secondo alcune stime, un settimo della popolazione e sono concentrati nelle terre caucasiche di confine, il timore è che attentati come quello di venerdì possano essere diretti a provocare scontri interni di cui sarebbe difficile prevedere gli sviluppi.

Che ruolo ha l’Europa?

A non dover essere tranquilla, in questa fase, è la vecchia Europa, reduce da un vertice che ha prodotto molte idee e proposte ma pochi passi concreti. Invece la concretezza e la tempestività dovrebbero essere, adesso, le parole d’ordine dell’Ue. Il mondo sta cambiando molto velocemente e la costruzione di una vera e concreta politica estera e di una identità di difesa comuni devono essere la priorità strategica dei 27. Siamo già in ritardo e nessuno aspetterà i tempi lunghi dell’Unione europea. La difesa dei valori europei, della pace e della democrazia dipendono, ora, anche dalla capacità di decidere in tempi brevi e adeguati alla realtà dei nostri giorni.

5756.- Le vie cinesi al dominio del mondo. Dalla Cina all’Algeria, la rete di sorveglianza della Belt and Road Initiative (BRI)

La Tecnologia LiDAR: che cosa è? come funziona?

Poche persone sanno esattamente cosa sia la tecnologia LiDAR, come funziona e come mai sia sempre più importante come tecnologia per lo sviluppo dei nuovi veicoli a guida autonoma e per gli ADAS (Advanced Driver Assistance Systems).

L’acronimo LiDAR (Light Detection And Ranging) identifica la tecnologia che  misura la distanza da un oggetto illuminandolo con una luce laser e che al contempo è  in grado di restituire informazioni tridimensionali ad alta risoluzione sull’ambiente circostante. Un LiDAR utilizza tipicamente diversi componenti: laser, fotorilevatori e circuiti integrati di lettura (ROIC) con capacità di tempo di volo (TOF) per misurare la distanza illuminando un bersaglio e analizzando la luce riflessa. La tecnologia LIDAR ha applicazioni in geologia, sismologia, archeologia, telerilevamento e fisica dell’atmosfera e ambiti militari. Lo scanner LiDAR è integrato negli iPhone Pro e negli iPad Pro da 2020 in poi (lo scanner in questione è integrato in: iPhone 12 Pro e Pro Max,iPhone 13 Pro e Pro Max, iPhone 14 Pro e Pro Max ma anche negli iPad Pro 2020, 2021 e 2022 da 11″ e 12,9″) e offrendo funzioni evolute di rilevamento della profondità, permette di determinare la distanza di un oggetto o di una superficie utilizzando un impulso laser.. 
Di base il LIDAR è una tecnica simile a un radar basata sul principio dell‘eco. Lo stesso principio utilizzato dai radar, che utilizza come “segnale” la luce (pulsata) anziché un segnale radio.

LiDAR vs RADAR: What's the Difference? - FlyGuys

LiDAR o RADAR: Qual’è la differenza?

Il funzionamento della tecnologia LiDAR si basa su un principio “immediato”: sapendo che la velocità di propagazione della luce è fissa (C 300.000 km/s),si può calcolare facilmente il tempo impiegato da un raggio luminoso per andare da una sorgente verso un bersaglio (riflettente) e per tornare indietro verso il rilevatore di luce (posto accanto alla sorgente luminosa emittente, si veda immagine sottostante).
Questo principio di misura viene solitamente indicato come ‘Time of Flight’ (ToF) o tempo di volo. Il tempo di volo può essere ottenuto inviando mediante un laser un segnale impulsivo, ma anche misurando la fase e la frequenza del segnale luminoso riflesso rispetto a un segnale di riferimento.

 una volta cronometrato il tempo impiegato dal raggio di luce per effettuare il “tragitto” (raggiungere il bersaglio e tornare indietro), possiamo calcolare la distanza moltiplicando il ‘tempo di volo’ per la velocità della luce e dividendo per 2 (perché il raggio va e torna), come da formula indicata.
Ipotizzando che il tempo impiegato sia di 60 nanosecondi otteniamo una distanza di 9 m.
Applicando questo principio a livello tridimensionale, si può ottenere una ‘nuvola’ di punti che rappresentano la distanza degli oggetti dal sensore LiDAR . L‘immagine rappresentata dalla nuvola dei punti può essere poi elaborata digitalmente per identificare oggetti fissi o in movimento, o più semplicemente per ricostruire fedelmente le superfici dell‘ambiente circostante.

Nuvola di punti misurata tramite un sensore LiDAR che riproduce  l’ambiente circostante in 3D (Fonte Elettronica Plus).

Le metodologie di realizzazione dei sistemi LiDAR

I sistemi LiDAR sono costituiti da componenti piuttosto sofisticati e a seconda del loro tipo contengono: sorgenti laser e diodi laser, elementi ottici (lenti, specchi e diffusori), elementi per orientare il fascio emesso nello spazio, fotorivelatori e unità di elaborazione del segnale.
I sistemi LiDAR sono generalmente realizzati secondo due principali metodologie:

  • quella a scansione meccanica  (scanner). Un sensore LiDAR fa ruotare fisicamente il laser e il ricevitore a 360° per ottenere una visione molto ampia.
  • quella a immagine fissa (flash). La metodologia Flash LiDAR: non prevede alcuna parte o componente in movimento e assomiglia come concetto di più a una fotografia istantanea. Il campo visivo di sensore LiDAR Flash viene determinato sostanzialmente dalle caratteristiche dell’ottica che emette e riceve il fascio di luce (si veda la Figura che segue).

Raffigurazione grafica tecnologia LiDAR Flas

Quali sono i vantaggi della tecnica LIDAR?

L’utilizzo della tecnologia LiDAR comporta diversi vantaggi legati alla sua implementazione:

  • Garantisce una misurazione veloce e precisa.
  • Ampia risoluzione: la luce ha lunghezze d’onda minori rispetto alle onde radio e questo aumenta la risoluzione del rilevamento e permette quindi di classificare meglio gli oggetti. Un LiDAR riesce per esempio a capire la direzione nella quale un pedone sta guardando.
  • Semplicità e la facilità d’utilizzo, i sistemi LiDAR sono di facile utilizzo ed installazione caratteristiche che consento un notevole risparmio di tempo in fase di applicazione e prototipazione dei sistemi.

Diversi utilizzi e mercati: edilizia, mapping , automotive

La tecnologia LiDAR  data la sua semplicità di applicazione ed utilizzo ,  si può definire una tecnologia Trasversale, detto ciò ci sono tre principali settori/mercati che la stanno ampliamente utilizzando, vediamo quali:

1) Edilizia: il LiDAR è utilizzato nell’ambito delle costruzioni/edilizia poiché aiuta a riprodurre la realtà della costruzione in una maniera molto facile e altamente affidabile.

2) Mapping: negli ultimi anni questa tecnologia viene sempre di più impiegata in tutto ciò che riguarda la mappatura delle morfologie/ telerilevamento di precisione: essa aiuta a stabilire i dislivelli tra i terreni con un particolare occhio alla morfologia di un determinato territorio (anche potenzialmente grossolano). In questo modo, i lavoratori addetti a operare con la tecnica LIDAR possono creare numerosi Modelli Digitali del Terreno (anche tramite Droni), la cui precisione sarà altissima e il margine di errore piccolissimo

3) Automotive: più recentemente, i sensori LiDAR sono al centro dell’attenzione del settore automobilistico, come strumento ‘visivo’ per realizzare veicoli a guida autonoma. In questo contesto, i sistemi LiDAR sono utilizzati per individuare gli ostacoli, come altri veicoli o pedoni, o l’ambiente che circonda il veicolo.

Perché Pechino costruisce un osservatorio in Tagikistan. Perché?

Pubblicato da Scenari economici il 4 Luglio 2023. Di Giuseppina Perlasca

Una nuova “super” stazione di osservazione cinese per il monitoraggio del clima e dell’ambiente è stata inaugurata in Tagikistan, mentre la Cina mira ad avanzare in un’arena tecnologica in via di sviluppo e a migliorare le sue credenziali ecologiche in Asia centrale e meridionale

La stazione – situata a Shahritus, una città del Tagikistan sud-occidentale vicino al punto di incontro dei confini del Paese con l’Afghanistan e l’Uzbekistan – è stata menzionata per la prima volta dall’agenzia di stampa cinese Xinhua il 16 giugno, ma i media tagiki non ne hanno parlato.

Fa parte di una crescente costellazione di stazioni nei Paesi lungo la Belt and Road Initiative (BRI) di Pechino, gestite dall’Università di Lanzhou o in collaborazione con essa.

È l’ultima aggiunta a una rete crescente di sistemi LiDAR (una sorta di radar a luce laser) che si estende lungo un corridoio importante della BRI, soggetto a condizioni meteorologiche estreme e intrecciato con le più ampie ambizioni tecnologiche di Pechino.

Ma la posizione della stazione e la stretta collaborazione del governo tagiko con Pechino hanno anche sollevato dubbi sul fatto che possa essere utilizzata per scopi di sorveglianza e sicurezza.

Sebbene la sua portata non sia chiara, Bradley Jardine, direttore generale della Oxus Society for Central Asian Affairs, ha dichiarato a RFE/RL che stazioni come quella di Shahritus “si basano su palloni stratosferici meteorologici – forse di natura simile all’oggetto che ha recentemente attraversato gli Stati Uniti”.

All’inizio di quest’anno, un pallone aerostatico cinese ad alta quota, che secondo Pechino aveva scopi strettamente climatici, ha sorvolato l’Alaska, il Canada occidentale e gran parte degli Stati Uniti prima di essere abbattuto dall’aviazione statunitense. I funzionari statunitensi hanno detto che trasportava grandi quantità di attrezzature utilizzate per spiare aree sensibili. Anche l’esercito canadese ha dichiarato che è stato utilizzato per la sorveglianza.

“Potrebbero esserci capacità di sorveglianza al confine con il Tagikistan”, ha detto Jardine.

I sistemi LiDAR aiutano gli scienziati a mappare ed esaminare con precisione gli ambienti naturali e artificiali, caratteristiche che sono una componente chiave dei veicoli intelligenti, autonomi ed elettrici, un settore in cui la Cina è un leader globale emergente.

Progetti come la rete LiDAR sono stati concepiti principalmente per consentire alla Cina di perfezionare la propria tecnologia interna, affinare il proprio vantaggio nel settore dei veicoli autonomi ed elettrici e contribuire a migliorare i propri risultati ambientali all’estero. Il LiDAR è una tecnologia molto utilizzata nella guida autonoma, anche se tesla, ad esempio, non la usa.

Oltre il LiDAR

La rete LiDAR inizia nella città cinese nord-occidentale di Lanzhou e si estende attraverso la provincia dello Xinjiang fino al Pakistan, al Tagikistan, all’Iran, a Israele e all’Algeria, con oltre 20 stazioni.

Huang Jianping, professore dell’Università di Lanzhou che lavora al progetto, ha dichiarato a Xinhua che la stazione fornisce dati completi sulle polveri, gli inquinanti e le condizioni meteorologiche in aree chiave dell’Asia centrale e che può contribuire a mettere in guardia da condizioni meteorologiche estreme, oltre a fornire dati sui cambiamenti climatici.

La nuova struttura in Tagikistan si trova in una delle aree più calde del Paese e il team dell’Università di Lanzhou – che ha costruito la rete di stazioni dal 2016 – afferma che la posizione aiuterà le mappe 3D generate al laser delle regioni con impatto climatico.

Il presidente tagiko Emomali Rahmon assiste alla tavola rotonda durante il vertice Cina-Asia centrale a Xi’an, in Cina, il 19 maggio.
Ma se da un lato la Cina afferma che la nuova stazione in Tagikistan ha una chiara dimensione ambientale, dall’altro si inserisce in una lista crescente di progetti cinesi a doppio uso o segreti nel Paese dell’Asia centrale.

L’Università di Lanzhou ha chiari legami con l’industria della difesa cinese e, secondo un rapporto del 2019 dell’Australian Strategic Policy Institute (ASPI), è tra almeno altre 68 università cinesi che sono “ufficialmente descritte come parti del sistema di difesa o [che] sono supervisionate dall’agenzia dell’industria della difesa cinese, l’Amministrazione statale della scienza, della tecnologia e dell’industria per la difesa nazionale”.

La Cina ha anche finanziato, costruito e in alcuni casi aiutato a gestire avamposti e strutture di sorveglianza e sicurezza in Tagikistan, lungo il suo lungo e poroso confine con l’Afghanistan. Una di queste strutture è gestita vicino a Shaymak e fa parte di una più ampia iniziativa congiunta cinese-tagika per rinnovare e modernizzare le vecchie pattuglie di epoca sovietica vicino al corridoio Wakhan dell’Afghanistan, che confina con un piccolo tratto della provincia dello Xinjiang.

Dushanbe ha anche approvato la costruzione di un avamposto di polizia finanziato dalla Cina vicino al confine del Paese con l’Afghanistan nel 2021.

Pechino continua a temere che i militanti islamici in Afghanistan possano entrare in Cina o destabilizzare la regione, e si ritiene che gran parte della sua impronta di sicurezza in Tagikistan sia legata a questo problema.

Nel 2021, inoltre, la Cina ha aperto una stazione di osservazione sul lago Sarez, in Tagikistan, per la ricerca ambientale e la “riduzione e prevenzione dei disastri internazionali”, secondo l’Accademia cinese delle scienze.

Sebbene siano disponibili poche informazioni sul suo funzionamento, alcuni analisti hanno notato che la struttura potrebbe essere utilizzata anche per la sorveglianza e il monitoraggio al di là dei suoi obiettivi ambientali.

Non si sa come la nuova stazione di Shahritus si inserirà in questa tendenza, se mai lo farà.

Jardine aggiunge che l’attenzione della Cina per la sicurezza si è concentrata in gran parte sulle montagne del Pamir e sul corridoio di Wakhan, mentre la nuova stazione si trova in una parte diversa del Paese “dove gli imperativi di sicurezza per la Cina sono meno immediati”.

5529.- Perché non è vero amore quello fra Cina e Russia. L’analisi di Sisci

Durante i lavori per l’accordo di cooperazione tra Cina e Russia, i due leader hanno rilasciata una dichiarazione congiunta sul loro impegno per supportate le repubbliche dell’Asia centrale nella difesa della loro sovranità. Viene dichiarata la volontà di non accettare tentativi di forze esterne di destabilizzare la regione. É una messa fuori causa dell’Occidente e, in particolare, di Turchia, Stati Uniti, Unione Europea e Nato. A seguire, Xi Jinping ha invitato a maggio, a Pechino i capi dei governi di Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan per il primo summit Cina – Asia Centrale.  Tra febbraio e marzo, il Segretario di Stato degli USA Antony Blinken aveva compiuto la sua prima visita proprio in Kazakistan e Uzbekistan, nel cuore della sfera d’influenza russa, professando la speciale attenzione che gli Stati Uniti prestano alla sovranità e all’integrità territoriale dei paesi della regione.

Alla luce di questa dichiarazione congiunta, si tratta di un impegno che il coordinamento strategico rispetto all’Asia Centrale della Federazione russa e della Repubblica Popolare finirà per annullare, vincolando le politiche e l’autonomia di quei governi regionali. Notiamo che il summit Cina – Asia Centrale si terrà a Pechino e non a Mosca e possiamo intravedere una staffetta tra Russia e Cina in Asia – Centrale, forse, in previsione di una vittoria della NATO in Ucraina o, comunque, di un indebolimento della Federazione russa. Non stupirebbe che il successo delle politiche di Biden in Ucraina si traducesse in una vittoria di Pirro. A questo punto, prima Cina e Stati Uniti tracceranno i confini delle rispettive sfere d’influenza, meglio sarà per l’umanità intera.

Mario Donnini

L’analisi di Sisci

  • Da Start Magazine, 25 Marzo 2023
Cina Russia

di Marco Orioles

Perché non è vero amore quello fra Cina e Russia. L’analisi di Sisci

Che cosa succede davvero fra Cina e Russia? Conversazione con Francesco Sisci, corrispondente per anni per diverse testate italiane da Pechino e adesso senior researcher presso la China People’s University

Mai fidarsi delle apparenze. Contrariamente a quanto si è visto nei giorni scorsi a Mosca, ossia lo scenografico abbraccio tra Putin e Xi Jinping, la Cina sta prendendo gradualmente le distanze dalla Russia, un partner ossessionato da un conflitto da cui non riesce a uscire.

È così che Francesco Sisci, corrispondente per anni per diverse testate italiane da Pechino e adesso senior researcher presso la China People’s University vede, in questa conversazione con Start Magazine, l’odierna relazione bilateraletra Russia e Cina, con quest’ultima che di fatto si sta già muovendo in quello che è ormai il dopoguerra prossimo venturo.

Professor Sisci, sotto gli occhi c’è un lancio di agenzia fresco di stampa: Xi Jinping ha invitato i leader del Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan a maggio per il primo summit Cina – Asia Centrale. Cosa succede? Pechino gioca nel cortile di casa di Mosca?

La Cina non vuole rimanere scoperta in un eventuale crollo della Russia come fu presa di sorpresa dal crollo dell’Unione Sovietica, quindi in qualche modo si prepara a quella eventualità, in una specie di assicurazione. E questo è anche un avvertimento alla Russia con cui la Cina le dice “più passa il tempo in cui tu sei coinvolta nella guerra in Ucraina e più è facile che, se non perdi a Ovest, tu perda zone d’influenza ad Est”.

Al di là dunque di quanto abbiamo visto sotto i riflettori durante la visita di Xi a Mosca, tra firma di accordi e rinnovo del partenariato strategico, lei ci sta dicendo un’altra cosa, ossia che Pechino è molto preoccupata dalle azioni della Russia.

Siamo in un frangente molto delicato e questo è dimostrato dalla tempistica. Perché Xi Jinping è andato proprio adesso a Mosca e non sei mesi fa o nove mesi fa? Evidentemente con questo piano di pace proposto dalla Cina ma accettato anche dalla Russia la Cina cerca di sfilarsi da un abbraccio alla guerra russa, e la Russia cerca di trovare un modo di uscire dalla guerra senza una umiliazione. Cioè mi sembra che entrambi riconoscano che la sconfitta russa sia fattuale. Per di più la Cina vuole mostrare alla sua gente e al mondo che il rapporto con la Russia non è una amicizia senza limiti, prendendo le distanze. Come segnalato anche dal vertice di maggio con i Paesi dell’Asia Centrale di cui abbiamo parlato prima, di fatto è cominciato il dopoguerra.

Molti osservatori hanno evidenziato come ormai la Russia sia diventata di fatto una colonia cinese e questo è dimostrato dalla crescente dipendenza economica di Mosca da Pechino. Lei la vede allo stesso modo?

No, secondo me è una semplificazione. La Russia oggi è certamente più dipendente dalla Cina di quanto non lo fosse un anno fa. Però io non credo che nel lungo termine la Russia possa accettare di dipendere così vistosamente dalla Cina. Né credo che la Cina voglia assumersi questo fardello, il problema è bilaterale. Noi vediamo che la Cina sta prendendo le distanze dalla Russia e allo stesso tempo quest’ultima non sta facendo due passi verso la prima. Credo che la Russia si stia guardando intorno e stia cercando anche altri interlocutori oltre la Cina. Quello che si vede è una situazione di grande movimento, in cui la Russia sta accusando il colpo e cerca di uscire dall’angolo in cui si è infilata. Il problema è la grande debolezza della Russia.

Eppure gli interessi di Russia e Cina convergono almeno da un punto di vista: quello della ridefinizione dell’ordine mondiale. Non a caso i due Paesi nei documenti americani vengono denominati “potenze revisioniste”.

Secondo me anche in questo caso dobbiamo evitare forzature perché offuscano più che chiarire, Se vogliamo proprio usare questa definizione americana di potenze revisioniste, va bene: Russia e Cina lo sono, ma lo sono in un modo diverso. Prima della guerra la Russia aveva un problema di influenza imperiale, neozarista, mentre la Cina ha problemi diversi e lo possiamo vedere da due indicatori, il cibo e l’energia. Nella sua espansione neozarista, la Russia può far valere la sua autonomia in entrambi i campi. La Cina è in una situazione molto diversa perché importa centinaia di milioni di tonnellate di granaglie, cibo e soia e importa dall’esterno la maggioranza del suo petrolio e del suo gas, e soprattutto esporta il suo enorme surplus commerciale verso Stati Uniti, Europa, Inghilterra e Giappone. Dunque questo revisionismo si manifesta necessariamente in modi diversi e questo è dimostrato anche dal fatto che in oltre un anno queste due potenze non sono riuscite a definire un nuovo accordo che le unisca, anzi abbiamo visto che si è creata una distanza. Quindi io sottolineerei le differenze tra i due Paesi.

Però non si può fare a meno di notare una convergenza molto concreta che si manifesta nell’intesa tra Mosca e Pechino per usare lo yuan come valuta di scambio per le reciproche transazioni, soprattutto in campo energetico. Funziona?

Dobbiamo vedere se funzionerà. Il ricorso allo yuan risolve certamente alcuni problemi di entrambi i Paesi, ma non tutti. Lo yuan serve senz’altro come moneta di scambio bilaterale. Ma se lo yuan non viene adottato, come non sarà adottato, dai Paesi che fanno il surplus commerciale cinese, Pechino potrebbe avere delle difficoltà. È un passo sicuramente interessante ma non credo che possa definirsi risolutivo e che Russia e Cina pensino che lo yuan digitale possa sostituire il rublo o il dollaro come monete forti. Tra l’altro noi vediamo un movimento in direzione opposta da parte della Russia, che è il tentativo di agganciare il rublo all’oro.

5390.- L’Armenia chiede aiuto alla Russia, ma Putin non risponde e arrivano gli USA

Questo scontro vedrà contrapporsi lo SCO all’Occidente e Putin la farà da spettatore, guardando l’UE e gli Stati Uniti che si contrappongono a vicenda.

Sulla porta di casa di Putin, la portavoce della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, Nancy Pelosi promette il sostegno degli Stati Uniti all’Armenia contro gli attacchi illegali dell’Azerbaigian. La Pelosi è arrivata domenica in Armenia e ha condannato fermamente gli attacchi “illegali” al confine dell’Azerbaigian contro l’Armenia. La sua visita arriva pochi giorni dopo che gli scontri tra le due ex nazioni sovietiche sul confine conteso hanno provocato la morte di dozzine di persone di entrambe le parti. Promettendo il sostegno dell’America al paese alleato della Russia, Pelosi ha affermato che Washington sta ascoltando le esigenze di difesa dell’Armenia e intende sostituirsi a Mosca come garante, … probabilmente, senza dimenticare che la Turchia è il sostenitore dell’Azerbaigian.

Inoltre, l’UE ha appena concordato con l’Azerbaigian per quanto riguarda le alternative agli oleodotti dalla Russia e ora Pelosi sta sostenendo l’Armenia, questo sarà uno scontro che vedrà contrapporsi lo SCO all’Occidente e Putin la farà da spettatore, guardando l’UE e gli Stati Uniti che si contrappongono a vicenda.

L’Azerbaigian ha invaso il territorio sovrano dell’Armenia (che è riconosciuto dalla comunità internazionale e dall’ONU), quindi è una diretta violazione del diritto internazionale, si direbbe tal quale quella di Putin in Ucraina. Questa invasione non è realmente correlata all’Artsakh (Nagorno-Karabakh), infatti, questo stato dittatoriale sta valutando l’occupazione di Syunik, per poi costruire un corridoio economico per collegare Nakhijevan (originariamente un territorio armeno divenuto poi una regione autonoma dell’Azerbaigian) all’Azerbaigian. Anche altre parti dell’Armenia sono probabilmente minacciate, inclusa la capitale Yerevan.

La situazione vede tutti i grandi attori in campo ed è probabile che Putin faccia una selezione dei suoi impegni e venga a patti con Kiev. Sia con le esercitazioni sino-russe congiunte nell’Indo-Pacifico, sia con i colloqui con Xi a Samarcanda, Pechino e Mosca stanno dimostrando un legame che resiste alle pressioni dell’Occidente e non lascia spazi agli avversari in Eurasia. È questo il risultato numero uno ottenuto da Biden, più importante della distruzione economica dell’Europa.

L’Armenia chiede aiuto alla Russia, ma Putin non risponde e arrivano gli USA

Da AbruzzoLive, di Francesco Proia, 17 Settembre, 2022

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Dopo il recente attacco azero all’Armenia il presidente Alen Simonyan ha chiesto aiuto a Mosca, che però non ha potuto rispondere poiché troppo impelagata nella guerra in Ucraina.

Secondo un recente tweet di Greg Yudin, direttore di filosofia politica, scuola di scienze sociali ed economiche di Mosca, questo rifiuto del Cremlino non fa che palesare il crollo catastrofico della politica estera russa in una regione estremamente importante. Già dopo il conflitto del 2020 la Russia aveva completamente fallito la sua missione di pacificazione, nonostante avesse tutti i mezzi per farlo. Ovviamente questa è stata una scelta ben studiata da parte di Mosca, che non voleva in alcun modo inasprire i rapporti con la Turchia di Erdogan, da sempre a favore dell’Azerbaigian. All’epoca la Russia si era limitata a un accordo di protezione dell’Armenia, accordo di protezione a cui però oggi la Russia, con tutte le forze militari impegnate in Ucraina, fa chiaramente difficoltà a tener fede. E così l’Azerbaigian qualche giorno fa ha rialzato la testa e ha deciso di attaccare l’Armenia. Ma l’Armenia è una repubblica democratica, dove se le cose non vanno come devono andare i cittadini sono liberi di protestare contro il proprio governo. Ecco quindi che, rimasta inascoltata la richiesta di aiuto alla Russia, l’Armenia ha deciso di rivolgersi agli Stati Uniti, alla Francia e alla Gran Bretagna che nel 2020 erano stati messi da parte come paesi garanti in favore della Russia.

E proprio questo sarebbe il motivo che si nasconde dietro l’urgente viaggio di Nancy Pelosi a Yerevan, che in qualche modo certifica agli occhi del mondo che la Russia non è più il garante di sicurezza di quella regione. Ma questo certificherebbe anche che il CSTO, l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, l’alleanza militare fondata nel 1992 da nazioni appartenenti alle Repubbliche Socialiste Sovietiche che dovrebbe fare da contraltare alla NATO, è sempre meno potente. E infatti in questi giorni proprio tra gli stati del CSTO si sta aprendo un altro fronte, con le lotte intestine tra Kirghizistan e Tagikistan. Insomma secondo Greg Yudin l’idea iniziale di Putin, ovvero di creare spaccature interne alla NATO, sta facendo invece crollare il suo blocco, trascinato proprio dalla Russia, un impero in caduta secondo lo studioso russo, che creerà sempre più instabilità.

4468.- L’occhio del Copasir

28 ottobre 2021

La ripresa del terrorismo parte dall’Afghanistan. Una breve premessa

I servizi di intelligence danno per certa una ripresa degli attentati jihadisti, a partire dall’Afghanistan, entro sei mesi. Sia Washington sia Mosca sono interessate a prevenire e contrastare questa ripresa, ma anche l’Europa. Potrebbe esserne la conferma l’incontro tenutosi il 23 settembre fra il Capo di Stato Maggiore congiunto degli Stati Uniti d’America generale Mark Milley e quello della Russia, generale Valery Gerasimov, ufficialmente, per discutere di come espandere i contatti militari bilaterali e incrementare la fiducia reciproca. I temi trattati sono rimasti riservati, ma l’incontro ha fatto seguito a un’offerta di cooperazione nel contrasto al terrorismo in Afghanistan, ipotizzata da parte di Putin, che riguarderebbe l’utilizzo delle basi militari russe in Asia Centrale, che potrebbero essere la base aerea di Kant, ad Est della capitale del Kirghizistan, Bishkek, nonché la nota base 201° in Tagikistan, la base più grande base di Mosca al di fuori del proprio territorio, dove mantiene una forza di circa 7.000 russi. Una proposta importante se si considera  che Mosca ha ripetutamente messo in guardia i Paesi Centro-Asiatici dal consentire l’uso delle loro basi militari agli USA. Opposizione ribadita da Putin, nel corso del primo vertice transatlantico, tenutosi lo scorso 16 giugno a Ginevra.

L’offerta o il suggerimento di Putin si pone anche come l’affermazione del Cremlino che la Russia è e rimane la “porta d’ingresso” all’Asia Centrale. Dopo il ritiro delle truppe USA dall’Afghanistan, Washington ha necessità di una base appoggio nella regione per “sostenere il governo afghano” di fronte all’emersione di nuove cellule terroristiche nel Paese. In tale quadro, il passo di Putin è la duplice risposta al tour diplomatico in Asia Centrale dell’ambasciatore Zalmay Khalilzad, in maggio, con tappe a Tashkent, in Uzbekistan e a Dushanbe, in Tagikistan. Significa: senza il nostro assenso, di qui non si passa e, infatti, ieri 27 ottobre, la Russia ha esortato i Paesi dell’Asia Centrale, confinanti con l’Afghanistan, ad adottare misure per prevenire la presenza militare degli Stati Uniti e della NATO sul proprio territorio. Per gli Stati Uniti, la NATO e l’Unione europea la necessità di controllare i flussi migratori” provenienti dall’Afghanistan travalica le reciproche contrapposizioni perché, inevitabilmente, i terroristi tenteranno di oltrepassare le frontiere passando per rifugiati”. Lo ha detto anche Lavrov.

Una legge sul jihadismo. La sveglia del Copasir al Parlamento

Di Stefano Vespa | 27/10/2021 – 

Una legge sul jihadismo. La sveglia del Copasir al Parlamento

Secondo il Copasir, il terrorismo jihadista resta un pericolo incombente ed è sempre più urgente una normativa nazionale sulla deradicalizzazione insieme con una migliore cooperazione europea. Per questo ha approvato la “Relazione al Parlamento su una più efficace azione di contrasto al fenomeno della radicalizzazione jihadista”

Il terrorismo jihadista resta un pericolo incombente ed è sempre più urgente una normativa nazionale sulla deradicalizzazione insieme con una migliore cooperazione europea. Per questo il Copasir, Comitato per la sicurezza della Repubblica, ha approvato la “Relazione al Parlamento su una più efficace azione di contrasto al fenomeno della radicalizzazione jihadista” anche grazie alle audizioni effettuate dopo il ritiro della Nato dall’Afghanistan. In una nota il presidente del Copasir, Adolfo Urso (FdI), spiega che sono state individuate “alcune possibili misure e linee di intervento volte ad accentuare l’efficacia dell’azione preventiva, accanto a quelle di natura repressiva già previste” oltre a sollecitare l’esame delle proposte di legge in materia presentate in Parlamento. Urso, su mandato del Comitato, chiederà ai presidenti di Senato e Camera di sensibilizzare le conferenze dei capigruppo per valutare come discutere questo documento così come la “Relazione sulla disciplina per l’utilizzo di contratti secretati, anche con riferimento al noleggio dei diversi sistemi di intercettazione”, approvata il 21 ottobre.

COME AGIRE

Il documento (relatori Enrico Borghi, Pd, e Federica Dieni, M5S) è un approfondimento dopo le audizioni dei ministri dell’Interno e della Giustizia, del capo della Polizia e del comandante dei Carabinieri, dei direttori delle agenzie di intelligence Aise e Aisi. Non basta la repressione, serve “una pluralità di strumenti” e dunque, scrivono i relatori, “la prevenzione, la repressione e la cooperazione sono le aree in cui occorre agire con interventi efficaci, lungimiranti e integrati” allo scopo di “integrare i meccanismi micro (individuali) con quelli macro (sociali/culturali): solo in questo modo potranno essere messe in campo tecniche efficaci di prevenzione nella lotta al terrorismo”. Il rischio da evitare è che anche questa legislatura non produca una legge in merito: nonostante le emergenze sanitaria ed economica, le conferenze dei capigruppo potrebbero valutare una corsia preferenziale per i testi in discussione.

LA DIMENSIONE DEL FENOMENO

Anche l’omicidio del deputato inglese David Amess del 15 ottobre scorso ha avuto matrice terroristica e ogni rapporto evidenzia i rischi. Quello dell’Europol del 2020 riporta che l’anno scorso in territorio europeo ci sono stati 10 attacchi jihadisti con 12 morti e 47 feriti e dai 254 arresti emerge la giovane età media: l’87 per cento è composto da maschi di 31-32 anni. In Italia, che pure vive una situazione molto migliore di altri Stati per le scarse comunità islamiche e terze generazioni, tra il 1° agosto 2020 e il 31 luglio 2021 ci sono state 71 espulsioni per motivi di sicurezza. La relazione del Copasir, basandosi sull’ultimo rapporto del Viminale, cita 144 foreign fighters anche se è noto che la gran parte è morta e che solo una decina è sul nostro territorio costantemente monitorata.

IL RISCHIO CARCERI

La relazione spiega che su 60mila detenuti in Italia 20mila sono stranieri dei quali 13mila provengono da Paesi musulmani e 8mila si dichiarano islamici. Sono dati contenuti nel report “Comprendere la radicalizzazione jihadista. Il caso Italia” a cura della European Foundation for Democracy e di Nomos Centro studi parlamentari. Invece, secondo il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria al 15 ottobre scorso erano 313 i detenuti sottoposti a monitoraggio suddivisi in base alla pericolosità: 142 di livello alto, 89 medio e 82 di livello basso. Gli algerini con il 27,1 per cento e i marocchini con il 25,8 sono i più rappresentati.

L’URGENZA DI UNA LEGGE

Si parla di deradicalizzazione da qualche anno ma la proposta Dambruoso-Manciulli nella scorsa legislatura non fu approvata. Oggi lo stesso tema delle misure di prevenzione della radicalizzazione di matrice jihadista è in discussione nella commissione Affari costituzionali della Camera insieme con la proposta dell’istituzione di una commissione d’inchiesta sui fenomeni di estremismo violento o terroristico e di radicalizzazione jihadista. Alla Camera sono state presentate altre proposte attinenti in vario modo all’argomento mentre al Senato c’è un disegno di legge analogo a quello di Montecitorio sulla prevenzione, ma la discussione non è cominciata.

Nella relazione del Copasir si sottolinea che è “fondamentale comprendere il percorso attraverso cui le persone adottano credenze che giustificano la violenza e come traducano il pensiero in comportamenti violenti. Nel processo di radicalizzazione assumono rilievo diversi passaggi, come la mobilitazione potenziale – per cui soggetti con lo stesso insieme di credenze assumono ruoli diversi e compiono diversi tipi di azioni – e le reti di reclutamento”. Il rischio del lupo solitario fu ribadito nell’ultima relazione dei Servizi al Parlamento nella quale è scritto che la minaccia jihadista sull’Europa è caratterizzata da “tratti prevalentemente endogeni e destrutturati, tradottasi in attivazioni autonome ad opera di soggetti nella maggioranza dei casi privi di legami con gruppi terroristici, ma da questi influenzati o ispirati”. Web e carceri sono i principali “luoghi” di proselitismo.

LE NORME ATTUALI

Il decreto antiterrorismo del 2015 e la ratifica di convenzioni internazionali del 2016 sono punti fermi della legislazione italiana. A livello europeo, nello scorso maggio fu approvato il regolamento per il contrasto alla diffusione di contenuti terroristici online e la collaborazione con i gestori dei siti per rimuovere quei contenuti. L’Italia spicca inoltre per il Casa, il Comitato di analisi strategica antiterrorismo, dove c’è un costante scambio di informazioni tra forze di polizia, intelligence e amministrazione penitenziaria. Sul fronte del recupero degli ex terroristi, invece, la relazione ricorda che questo tipo di programmi governativi è stato attivato in Occidente da pochi anni, al contrario di alcuni Paesi islamici. Comunque i Cve, Counter Violent Extremism, sono attivi in Gran Bretagna, Danimarca, Olanda, Svezia, Norvegia, Germania e Canada con l’obiettivo di recuperare gli islamici deradicalizzati e reintegrarli nella società.

LE PROPOSTE DEL COPASIR

Il Comitato segnala “l’esigenza urgente e non più dilazionabile di un intervento legislativo” per dotare l’Italia “di una disciplina idonea a contrastare in modo più incisivo il crescente fenomeno della radicalizzazione di matrice jihadista, quale nuova frontiera della minaccia terroristica”. “La deradicalizzazione entra, a pieno titolo, tra le politiche di antiterrorismo, rappresenta un vero e proprio strumento securitario di controllo e di riduzione della minaccia eversiva e del reclutamento di cittadini europei da parte di organizzazioni terroristiche”. Il campo di battaglia “cruciale” è il web senza dimenticare scuole, carceri, luoghi di aggregazione.

Inoltre, il Copasir propone di inserire nel Codice penale un articolo per punire anche la semplice detenzione di materiale di propaganda che oggi non comporta nessuna sanzione mentre potrebbe essere preso a modello l’articolo 600 quater sulla detenzione di materiale pedopornografico. L’obiettivo dev’essere quello di “intervenire tempestivamente sui soggetti radicalizzati” anche se non hanno ancora commesso un reato.

Allo scopo di migliorare la collaborazione europea, oltre ai contributi che gli Stati membri dell’Ue inviano al Centro di intelligence e situazione dell’Europol (Eu Intcen), il Copasir ricorda che tra poco la Commissione europea produrrà “un Codice di cooperazione di polizia” che, oltre a migliorare appunto la cooperazione, “prevede la creazione di una rete di operatori, tra cui Europol, che investighino a livello finanziario al fine di colpire i flussi che finanziano il terrorismo”. In Italia, è necessario invece mettere a sistema singole iniziative di prevenzione giudiziaria considerate per ora “una delle strategie possibili” di prevenzione.

IL COMITATO VUOLE ASCOLTARE DRAGHI

Nella sua nota il presidente Urso sottolinea l’auspicio del Comitato di poter ascoltare il presidente del Consiglio sull’esito del G20 a presidenza italiana “che si avvia alla conclusione e che è stato caratterizzato, tra i diversi temi trattati, dall’esame di questioni di politica internazionale, sicurezza e difesa”. Infine, la prossima settimana sarà ascoltato il sottosegretario Franco Gabrielli anche nell’ambito dell’esame della Relazione semestrale sull’attività dei servizi di intelligence per il primo semestre del 2021.

4265.-L’influenza della Russia nel vicinato: tra minacce di erosione e adattamento alle nuove sfide

Fonte ISPI.

Qui, prendiamo in esame solo il rapporto fra la Russia e l’Asia Centrale (di Filippo Costa Buranelli), rimandando a altro momento i capitoli, dedicati al Caucaso meridionale, di Carlo Frappi e alla Bielorussia, di Carolina de Stefano. In sintesi, la visione di una Russia aggressiva e tesa a riconquistare i territori imperiali e sovietici – così diffusa in alcuni paesi europei (Polonia e repubbliche baltiche in primis) oltre che negli Stati Uniti – appare poco corrispondente alla realtà. La dirigenza russa ha preso atto ormai da tempo della nuova e più limitata dimensione territoriale e politica del paese e si sta abituando a essere soltanto Russia. Inoltre, la Russia sta accogliendo questa solitudine come un’opportunità per dedicarsi maggiormente alle sue necessità e ai suoi interessi, cosa che ha spesso trascurato in passato in nome di una missione ideologica, di preoccupazioni geopolitiche, d’impegni unilateralmente costruiti su legami di affinità etnica o religiosa”).

L’approfondimento si inserisce nel dibattito internazionale che si è sviluppato attorno alla presunta perdita d’influenza russa nel proprio immediato vicinato, dibattito riaccesosi di recente a seguito delle crisi politiche scoppiate nella seconda metà del 2020 in Bielorussia, Kirghizistan e Armenia. Vengono esaminate dunque le politiche di Mosca nel proprio vicinato muovendo dai suoi due obiettivi di lungo periodo: mantenere un ruolo egemonico nello spazio post-sovietico e promuovere la costituzione di un nuovo equilibrio multipolare dello scenario politico internazionale.

Dopo un’introduzione curata da Aldo Ferrari, l’approfondimento declina le politiche di vicinato di Mosca nella fase successiva alla crisi ucraina attraverso l’Asia centrale.

Il capitolo illustra le relazioni politiche, economiche e culturali tra Russia e le cinque repubbliche dell’Asia Centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan). In questa come nelle altre aree che esamineremo, l’analisi dimostra come sia inappropriato parlare di una Russia in declino, così come al tempo stesso sia fuorviante e riduttivo guardare a Mosca come l’unico egemone incontrastato nella regione.

La politica estera russa in crisi? Mosca e le crisi di Bielorussia, Kirghizistan e Armenia

Aldo Ferrari

Nei mesi scorsi molti, soprattutto in Occidente, hanno avuto l’impressione che dopo l’assertività dimostrata in Georgia nel 2008, in Ucraina nel 2014, in Siria nel 2015 e quindi in Libia la Russia sia entrata in una fase d’incertezza, se non di crisi, sulla scena internazionale. Le crisi politiche che hanno coinvolto nella seconda metà del 2020 Bielorussia, Kirghizistan e Armenia sono state viste come un segnale dell’indebolimento sostanziale di Mosca nello spazio post-sovietico e più in generale sullo scenario internazionale. Tanto più che negli ultimi decenni questi tre paesi sono stati – insieme al Kazakhstan – i più vicini a Mosca, essendo membri tanto dell’alleanza militare a guida russa (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, CSTO) quanto dell’Unione economica eurasiatica, che costituisce il principale tentativo russo di reintegrazione delle repubbliche post-sovietiche.

Ma questa percezione di una crisi della politica estera russa è davvero corretta? Per rispondere è necessario partire dalla consapevolezza che in politica estera Mosca persegue da decenni due obiettivi principali. Il primo è costituito dalla volontà, affermata già negli anni Novanta dello scorso secolo, di mantenere un ruolo fondamentale nello spazio post-sovietico, il cosiddetto “estero vicino”, in particolare tentando di evitare l’ingresso della NATO al suo interno. Il secondo obiettivo è stato dapprima indicato da Evgenij Maksimovič Primakov e poi almeno in parte realizzato da Vladimir Putin: si tratta della costituzione di un nuovo equilibrio multipolare dello scenario politico internazionale, che rifiuta quindi l’unipolarismo statunitense e più in generale la pretesa occidentale a un primato non solo politico, economico e militare, ma anche nella sfera dei valori[1].

Per quanto ambizioso, probabilmente il secondo di tali obbiettivi appare più raggiungibile del primo, ma questo soprattutto perché – assai più dell’assertività geopolitica della Russia putiniana – è stata la crescita impressionante della Cina ad imporre di fatto il multipolarismo nello scenario internazionale, che tende ormai a costituirsi come post-occidentale.

Nello spazio post-sovietico, invece, la Russia non è più riuscita a recuperare il terreno perduto negli anni Novanta dello scorso secolo. I paesi baltici sono usciti rapidamente e con sostanziale successo dall’orbita russa, entrando non solo in Europa ma anche nella NATO. La Georgia si è posta su questa stessa via, anche se con minori risultati e pagando anzi un prezzo elevato, in primo luogo in termini territoriali. Ucraina e Moldavia hanno seguito un percorso complesso e altalenante, tanto nella sfera della politica interna quanto in quella estera, in particolare per quel che riguarda il rapporto con la Russia, ma negli ultimi anni se ne sono sostanzialmente allontanate, per ora soprattutto la prima; Azerbaigian e Turkmenistan si sono consolidati su regimi fondati sulle ricchezze energetiche, senza avvicinarsi all’Occidente, ma senza neppure divenire dipendenti da Mosca. Anche i paesi che hanno invece seguito la Russia in tutte le sue iniziative politiche, economiche e di sicurezza – Kazakhstan, Bielorussia, Kirghizistan e Armenia – hanno in realtà condotto in molti ambiti delle politiche ampiamente autonome da Mosca nella cosiddetta ottica multivettoriale. E, come si è detto, tre di questi paesi stanno attraversando crisi che potrebbero determinare un cambiamento dei loro rapporti con Mosca.

La crisi più grave è quella che riguarda la Bielorussia, sinora un partner fondamentale nella sfera politica quanto in quella economica, anche se in realtà – come sanno bene gli specialisti – molto meno allineato con Mosca di quanto si creda comunemente. Se l’esito ultimo dell’evoluzione politica della Bielorussia fosse non tanto l’allontanamento dal potere di Lukashenko quanto l’affermazione a Minsk di una dirigenza orientata in senso filo-occidentale, il colpo per la Russia sarebbe indubbiamente molto serio. Dopo le repubbliche baltiche e l’Ucraina, con la Moldavia che dopo le recenti elezioni presidenziali sembra aver anch’essa ripreso la via dell’avvicinamento all’Europa dopo la parentesi rappresentata dalla presidenza Dodòn, una svolta di questo genere anche in Bielorussia completerebbe l’allontanamento dalla Russia di tutta la parte occidentale degli antichi territori dell’impero zarista e dell’URSS. Sarebbe senza dubbio uno scacco di portata notevole per Mosca, che d’altra parte non sembra strutturalmente capace di rapportarsi realmente con l’opposizione bielorussa né di approvare lo scenario di un cambiamento politico che parta dalle piazze. Sappiamo bene quanto questo “scenario armeno” sia avversato dal presidente Putin, la cui gestione della crisi politica a Minsk rischia di veder crescere tra la popolazione bielorussa, in particolare tra i giovani, un’ostilità nei confronti di Mosca sinora quasi inesistente. Il Cremlino scommette sul fatto che Lukashenko, indebolito, sarà costretto a riavvicinarsi a Mosca, oppure a passare la mano a una nuova leadership che non potrà prescindere dalla Russia, visti i fortissimi legami storici, culturali ed economici. Una scommessa che ha molte probabilità di rivelarsi vincente, ma che al tempo stesso non può prescindere dalla valutazione dei rischi che comporterebbe l’opposizione frontale a un’eventuale evoluzione differente e meno favorevole per la Russia. È molto probabile, in effetti, che il Cremlino voglia evitare che si ripeta lo scenario dell’Ucraina, divenuta ormai stabilmente ostile alla Russia[2].

Molto più lontana da noi e quindi assai meno seguita è la crisi politica che ai primi giorni dello scorso ottobre ha scosso il Kirghizistan in seguito alle manifestazioni di protesta indette dalle forze di opposizione che contestavano il risultato delle elezioni parlamentari. Le proteste hanno provocato le dimissioni del primo ministro e del presidente Sooronbay Jeenbekov: in questo vuoto politico è emersa la controversa figura di Sadyr Japarov (liberato dal carcere a seguito dei tumulti di piazza), abile nello sfruttare il corso degli eventi e arrivare al potere attraverso un’evidente forzatura delle leggi e del sistema degli equilibri tra i poteri dello stato. La destituzione del presidente in carica a seguito di manifestazioni di protesta popolare non rappresenta certo una novità nella storia del Kirghizistan indipendente. Già nel 2005 la cosiddetta “rivoluzione dei tulipani” estromise l’allora presidente Askar Akayev, mentre nel 2010 le proteste di piazza portarono alla destituzione del suo successore, Kurmanbek Bakiev. In effetti l’assenza di un regime autoritario incarnato per decenni da un presidente inamovibile rende il Kirgizistan un caso unico nell’Asia Centrale post-sovietica. In questo paese esiste un sistema multipartitico, sia pure su base clanico-clientelare, e la società civile appare più vivace di quanto sia in altri paesi centroasiatici. Tali tendenze, che solo in maniera molto generica possono essere definite democratiche, determinano peraltro una persistente instabilità politica che non va certo a vantaggio del paese, al cui interno la situazione economica è molto negativa, mentre l’emigrazione verso la Russia continua a essere di fondamentale importanza.

Sebbene il nuovo corso abbia espresso la ferma volontà di preservare il legame privilegiato con la Russia, Putin non ha nascosto il suo malcontento di fronte all’accaduto, che sembrava aggiungere un ulteriore fattore d’instabilità nello spazio post-sovietico dopo la crisi politica della Bielorussia e lo scoppio del conflitto tra Armenia e Azerbaigian per l’Alto Karabakh. In ogni caso, come già nel corso delle precedenti crisi interne kirghize, la Russia non è intervenuta direttamente, limitandosi ad invocare il ritorno all’unità politica del paese. Una scelta dettata evidentemente da ragioni di opportunità, sia per non invischiarsi in scontri locali di carattere clanico-clientelare sia per la convinzione che, nonostante il crescente ruolo della Cina, qualsiasi dirigenza kirghiza non possa prescindere dalla Russia. Sono molti, infatti, gli elementi strutturali (precarietà dello stato, instabilità economica, emigrati) che portano Bishkek a situarsi necessariamente nell’orbita di Mosca. La politica prudente di Mosca nei confronti della crisi kirghiza si è rivelata lungimirante. In effetti Japarov ha mantenuto la tradizionale collaborazione con la Russia, che è stata secondo le aspettative il primo paese in cui si è recato dopo essere stato eletto presidente[3]. Certo, in Kirghizistan come nel resto dell’Asia Centrale Mosca deve confrontarsi con la crescente proiezione politica e soprattutto economica cinese, ma appare inopportuno parlare di un sostanziale declino delle sue posizioni in questa regione. Benché non più egemonica, la presenza della Russia è ancora fondamentale per i suoi numerosi legami culturali, economici e di sicurezza con le repubbliche dell’area.

Lo stesso può dirsi per il Caucaso meridionale, dove la Russia si è dovuta confrontare con la sfida particolarmente difficile del conflitto nell’Alto Karabakh, che nelle sue prime fasi sembrava confermare le difficoltà di Mosca nel mantenere le posizioni acquisite nello spazio post-sovietico. Questo conflitto, scatenato il 27 settembre 2020 dall’Azerbaigian con il sostegno politico e militare della Turchia, ha visto per più di un mese Mosca mantenere una posizione prudente. E questo nonostante il fatto che, a differenza dell’Azerbaigian, l’Armenia faccia parte della CSTO, vale a dire dell’alleanza militare a guida russa. In realtà, però, questa alleanza vincola Mosca solo nei confronti dell’Armenia, non dell’Alto Karabakh, che secondo il diritto internazionale si trova infatti sul territorio dell’Azerbaigian. Tuttavia, l’incapacità della Russia d’interrompere le ostilità produceva in molti osservatori un’impressione d’incertezza, se non d’impotenza, che rischiava di compromettere l’immagine di forza e dinamismo costruita nei due decenni del potere di Putin.

Il ruolo decisivo giocato da Mosca nella improvvisa conclusione del conflitto tra l’Armenia e l’Azerbaigian il 10 novembre ha notevolmente modificato la percezione della capacità politica del Cremlino nella regione. La maggior parte delle analisi post factum sottolinea infatti l’efficacia della politica di Mosca, capace di non farsi coinvolgere nel conflitto tra un paese “teoricamente” alleato come l’Armenia e uno, l’Azerbaigian, con il quale i rapporti di collaborazione politica ed economica sono ottimi. La Russia, infatti, è riuscita non solo a porre fine alla guerra, ma anche ad imporre la sua presenza militare in forma di una missione di peace-keeping tra armeni e azeri. In questo modo Mosca è adesso presente militarmente in tutte e tre le repubbliche del Caucaso meridionale: Georgia (nelle repubbliche separatiste di Abkhazia e Ossezia meridionale), Armenia (soprattutto nella base di Giumri al confine con la Turchia e in quella di Meghri al confine con l’Iran) e Azerbaigian (nell’Alto Karabakh) rafforzando quindi notevolmente il suo ruolo nell’intera regione.

Inoltre, l’azione russa sembra aver messo l’Armenia in una condizione di totale dipendenza da Mosca, rendendo illusorie le speranze in un maggiore avvicinamento all’Occidente coltivate dalla leadership armena dopo la “rivoluzione di velluto” del 2018. Naturalmente ci sono anche aspetti problematici nell’esito della guerra nell’Alto Karabakh, in particolare per quel che riguarda l’accresciuto ruolo di Ankara nel Caucaso meridionale, ma nel complesso la Russia ne è uscita sicuramente rafforzata.

Nei confronti delle tre crisi regionali la risposta di Mosca ha avuto pertanto esiti diversificati: se in Bielorussia la posizione russa appare in reale difficoltà e in Kirghizistan si mantiene sostanzialmente stabile, nel Caucaso meridionale ha potuto in effetti consolidarsi.

Occorre però sottrarsi all’ottica ristretta delle situazioni contingenti e cercare invece di leggerle all’interno della dinamica complessiva della politica estera di Mosca, soprattutto negli ultimi anni. La visione di una Russia aggressiva e tesa a riconquistare i territori imperiali e sovietici – così diffusa in alcuni paesi europei (Polonia e repubbliche baltiche in primis) oltre che negli Stati Uniti – appare poco corrispondente alla realtà. La dirigenza russa ha preso atto ormai da tempo della nuova e più limitata dimensione territoriale e politica del paese, abbandonando – con comprensibile fatica, certo – ogni velleità imperale[4]. Come ha osservato in un recente articolo Dmitri Trenin, direttore dell’Istituto Carnegie di Mosca, “Russia, I would argue, has turned post-post-imperial: one step farther removed from the historical pattern. It is getting used to being just Russia. Moreover, Russia is embracing its loneliness as a chance to start looking after its own interests and needs, something it neglected in the past in the name of an ideological mission, geopolitical concerns, or one-sided commitments built on kinship or religious links. This is a new model of behavior”[5] (La Russia è diventata post-imperiale allontanandosi passo dopo passo dal suo modello storico. E si sta abituando a essere soltanto Russia. Inoltre, la Russia sta accogliendo questa solitudine come un’opportunità per dedicarsi maggiormente alle sue necessità e ai suoi interessi, cosa che ha spesso trascurato in passato in nome di una missione ideologica, di preoccupazioni geopolitiche, d’impegni unilateralmente costruiti su legami di affinità etnica o religiosa”).

Mosca in effetti non ha sviluppato in questi anni nessuna costruzione ideologica volta a sostenere una politica espansiva nei confronti delle altre repubbliche post-sovietiche. Non può esserlo il nazionalismo, evidentemente percepito in maniera negativa al suo esterno e molto problematico anche in un paese ampiamente multietnico come la Russia; ma neppure l’eurasismo, così spesso evocato in Occidente come spauracchio ideologico neo-imperiale, in realtà limitato nel discorso ufficiale russo a un uso parziale e quasi difensivo, soprattutto per quel che riguarda il progetto della cosiddetta Grande Eurasia, che in sostanza implica il riconoscimento del primato cinese in questa immensa area[6].

La Russia si concentra ormai essenzialmente sul perseguimento d’interessi nazionali proporzionati alle sue risorse, che sappiamo essere limitate a causa della stagnazione permanente, e direi sistemica, dell’economia. Negli ultimi anni una strategia quanto mai pragmatica ha permesso a Mosca di adeguarsi alle diverse sfide riuscendo a recitare un ruolo di rilevo nella scena politica internazionale e mantenendo sostanzialmente le proprie posizioni nello spazio post-sovietico. La politica estera russa si pone in effetti obiettivi sempre concreti, che a volte vengono raggiunti a volte no, a seconda – ovviamente – dei rapporti di forza reali esistenti sul campo: la Russia ha preso atto che il contrasto con l’Occidente è sostanziale, destinato a durare, e si muove di conseguenza; ha accettato la penetrazione della Cina in Asia Centrale nel quadro di una collaborazione più vasta e inevitabile, anche se diseguale; nel Caucaso meridionale, come già in Siria e Libia, ha trovato un accordo con la Turchia nonostante i contrastanti interessi.

In conclusione, l’idea che attualmente ci si trovi di fronte a un momento di sostanziale debolezza della politica estera della Russia appare poco fondata. Anche se il suo peso all’interno dello scenario internazionale è destinato a ridursi ulteriormente – soprattutto in conseguenza del costante rafforzamento della Cina, divenuta ormai l’unica antagonista degli Stati Uniti su scala globale – la Russia sembra in grado di mantenere sostanzialmente le sue posizioni nello spazio post-sovietico, nonché di agire con efficacia in contesti differenti quali la Siria e la Libia. 

L’espansione cinese deve fare i conti con il crescente sentimento anti-cinese nell’Asia centrale

Russia e Asia Centrale: primazia, perdita d’influenza, o egemonia negoziata?

Filippo Costa Buranelli

Le relazioni tra la Russia e le cinque repubbliche centrasiatiche del Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan, Turkmenistan, e Uzbekistan, vengono qui analizzate utilizzando tre prismi analitici interrelati tra loro: quello riguardante l’aspetto politico e di sicurezza; quello pertinente ai vettori economici; e quello relativo alle relazioni culturali e umanitarie. L’analisi è inoltre contestualizzata e inserita in un processo globale di re-allineamento delle grandi potenze, di mutamento di equilibri, di cambiamenti tanto materiali quanto immateriali nella politica internazionale, e di ascesa e affermazione di nuovi attori regionali. Pertanto, verrà esaminato anche l’importante ruolo di attori extra-regionali, come gli Stati Uniti e la Cina, nella caratterizzazione delle relazioni intra-regionali.

Le relazioni russo-centrasiatiche nella sfera politica e sicurezza

La cooperazione alla sicurezza e la necessità di mantenere ordine e stabilità nel panorama politico eurasiatico sono il pilastro principale su cui posano le relazioni internazionali tra Russia e Asia Centrale. E anche dopo l’annessione della Crimea del 2104, da un punto di vista politico, militare, e di sicurezza i rapporti tra Russia e Asia Centrale sono stati caratterizzati da una generale continuità. Da un lato Mosca continua a considerare i territori delle repubbliche centrasiatiche come una zona di privilegio e di esclusività, mentre le repubbliche centrasiatiche continuano a identificare Mosca come il legittimo garante di sicurezza, stabilità e prevedibilità politica. La principale organizzazione che cristallizza la predominanza militare della Russia nello spazio eurasiatico è la CSTO che comprende, oltre alla Russia, il Kazakistan, il Kirghizistan, il Tagikistan, la Bielorussia e l’Armenia. È proprio grazie alla CSTO che la Russia gestisce e cementa la sua posizione di potenza nella regione, attraverso il coordinamento di esercitazioni militari, di convergenza normativa in campo militare, e attraverso una capillare provvigione e fornitura di armi e materiale bellico ai proprio alleati[47].

Negli ultimi tre anni la novità più importante è, forse, il progressivo re-allineamento dell’Uzbekistan con le linee guida di Mosca in ambito politico-militare. L’attuale presidente uzbeko, Shavkhat Mirziyoyev, sembra essere più in sintonia e più accomodante per quel che riguarda la richiesta di Mosca di collaborazione in campo politico-militare, a differenza del suo predecessore Islam Karimov il quale, seppur senza mai ostracizzare e allontanare la Russia platealmente, aveva sposato una politica più indipendentista e autonoma nel campo della politica estera e di difesa, improntata su una retorica che enfatizzava il ruolo dell’Uzbekistan come baluardo dell’indipendenza postcoloniale centrasiatica. Questo progressivo riavvicinamento è visibile a livello retorico tanto quanto a livello istituzionale, anche se è importante sottolineare come l’Uzbekistan non abbia, di fatto, modificato la sua politica estera in termini di alleanze e cooperazione multilaterale nella sfera militare, continuando quindi la sua non-partecipazione alle attività della CSTO, che il paese abbandonò proprio nel 2012. Questo, tuttavia, non esclude la cooperazione militare a livello bilaterale: nel 2019, per esempio, l’Uzbekistan ha ripreso l’acquisizione di armi da Mosca per un totale di 48 milioni di dollari[48]

Per quel che riguarda invece gli altri stati centrasiatici, ‘stabilità’ sembrerebbe essere la tendenza che accompagna i rapporti tra Mosca e Nur-Sultan, Biškek, Dušanbe, e Ashgabat. Le relazioni russo-kazake, per esempio, non hanno subito mutamenti di nota anche dopo le dimissioni rassegnate da Nursultan Nazarbayev dopo quasi vent’anni al potere e l’avvento alla presidenza di Kassym-Jomart Tokayev. Lo stesso si può dire per quel che riguarda il Kirghizistan, anche se in questo caso i cambi al vertice sono stati due: Almazbek Atambayev lasciò il posto a Sooronbai Jeenbekov nel 2017, il quale è poi stato deposto in seguito alle proteste e alle violenze dell’ottobre 2020, dopo le quali Sadyr Japaorv è stato eletto presidente nel gennaio del 2021. In tutti e tre i casi il Kirghizistan ha sempre mantenuto un approccio alla politica estera fortemente orientato alla collaborazione con Mosca, consapevole anche di numerosi elementi strutturali (come la precarietà statale, l’instabilità economica, e il significativo flusso di migranti economici in territorio russo) che portano Bishkek a situarsi necessariamente nell’orbita russa[49].

Per quel che riguarda le relazioni con Turkmenistan e Tajikistan, anche qui il trend principale sembra essere quello della continuità. Il Turkmenistan, paese che nel 1995 è riconosciuto come neutrale dall’Assemblea delle Nazioni Unite, continua a esercitare un ruolo molto marginale all’interno delle relazioni politico-militari tra Russia e Asia Centrale. Ashgabat è membro associato della Comunità degli Stati indipendenti, non fa parte della CSTO, ed è solamente osservatore all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS), l’altra piattaforma multilaterale di carattere politico-economico che la Russia co-gestisce con la Cina e altri paesi eurasiatici. Nel 2017 Putin e il presidente turkmeno Berdimukhammedov hanno siglato un accordo di partenariato strategico focalizzato a migliorare le relazioni russo-turkmene nel campo economico, di sicurezza e umanitario. A ciò è seguito un accordo di cooperazione interparlamentare, sempre nel 2017, che però oltre a formalizzare il dialogo tra i due organi legislativi dei rispettivi paesi, poco ha contribuito a rafforzare la generale collaborazione tra Russia e Turkmenistan. Per quel che riguarda le relazioni russo-tagike, invece, la cooperazione politico-militare con la Russia è supportata dalla marcata continuità del regime di Emomali Rahmon, presidente in carica dal 1994. Consapevole della fragilità del paese, della potenziale instabilità che può arrecare il vicino Afghanistan, dell’espansione cinese e della crescente disoccupazione interna, Rahmon ha mantenuto ottimi rapporti con Mosca proprio per ricevere supporto e aiuto rispetto alle suddette questioni.

Il fatto che le repubbliche centrasiatiche nutrano buoni rapporti con Mosca non deve però far pensare che vi sia concordia su ogni questione politico-strategica e che le relazioni siano prive di frizioni e sempre condotte all’insegna dell’eguaglianza e del mutuo rispetto. È infatti opportuno sottolineare come in seguito all’annessione della Crimea e all’apertura delle ostilità nel Donbass e nell’Ucraina orientale, gli stati centrasiatici siano diventati molto più suscettibili a questioni legate all’integrità territoriale e alle prerogative di sovranità[50]. La Russia gode dunque di quella che si può definire un’egemonia negoziata[51], vale a dire una primazia a livello politico militare ma che non può sfociare in aperto controllo dei vicini proprio a causa della fiducia che è venuta meno nei suoi confronti.

Per quello che riguarda le principali piattaforme multilaterali di sicurezza e difesa, l’aspetto forse più importante è l’impegno, rinnovato sia dalla Russia sia dai paesi centrasiatici membri, di potenziare e migliorare la struttura della CSTO anche attraverso maggiori finanziamenti. Anche e soprattutto alla luce della crescente presenza cinese nell’area, Mosca ha di recente fornito al Tagikistan materiale militare moderno; ci sono inoltre state consultazioni sulla possibile apertura di una seconda base militare in Kirghizistan[52]; e in più Mosca ha iniziato a condividere materiale ed esperienza delle sue Forze di operazioni speciali con gli altri stati membri[53]. La CSTO, oltre a coordinare esercitazioni e scambio d’informazioni militari, continua pur tuttavia a rimanere fedele ai principii di sovranità e non-interferenza, anche e soprattutto alla luce di quanto detto poco sopra sulla sensitività di queste norme nel periodo post-Crimea. Tanto nel conflitto del Nagorno-Karabakh (si veda il capitolo di Carlo Frappi) quanto durante le violentissime proteste in Kyrgyzstan dell’ottobre 2020 che hanno portato alla caduta di Jeenbekov e all’ascesa di Sadyr Japarov alla presidenza, la CSTO si è definita incompetente all’intervento offrendo come giustificazione la natura interna e sovrana di questi conflitti.

Le relazioni economiche

Per quanto riguarda l’aspetto economico delle relazioni russo-centrasiatiche, è opportuno fare un distinguo preliminare. Vale a dire, le economie delle nazioni centrasiatiche sono diverse tra loro, tanto in termini di risorse e produzione, quanto in termini di volumi. Il Kazakistan, per esempio, ha un Pil che è più grande della somma dei Pil degli altri quattro stati centrasiatici. Tuttavia, si potrebbe dire che le relazioni economiche russo-centrasiatiche siano marcate nel complesso da uno squilibrio e una diseguaglianza a vantaggio di Mosca, che funziona un po’ da centro gravitazionale della neonata Unione economica eurasiatica (EEU), entrata in vigore nel 2015 e comprendente Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Armenia, e Bielorussia (quindi, di fatto, gli stessi membri della CSTO eccezion fatta per il Tagikistan). Il fatto che Mosca eserciti una forza gravitazionale da un punto di vista economico è visibile nella recente decisione del governo uzbeko di entrare, seppur almeno inizialmente come osservatore, all’interno dell’EEU. Le negoziazioni, durate poco più di un anno, hanno di fatto certificato come l’Uzbekistan abbia radicalmente cambiato il suo approccio all’economia e al commercio internazionale, che durante il regime di Islam Karimov erano all’insegna dell’autarchia e della chiusura.

Sempre a proposito dell’EEU e di come tale organizzazione sia considerata dalla Russia come un’effettiva piattaforma per legare a essa le economie centrasiatiche va detto che il commercio e gli scambi economici all’interno del blocco sono inferiori rispetto al commercio e gli scambi con economie estere. Nel 2018, per esempio, il turnover estero degli stati membri dell’EEU superava il turnover interno di ben tredici volte, in quello che è un trend che si è andato consolidando negli ultimi due anni[54]. Se a questo si aggiunge il fatto che paesi esterni all’EEU hanno un indice di complementarità commerciale più alto dei paesi membri stessi (Italia 54%; India 42%; Grecia 41%) allora l’idea che l’EEU sia un blocco commerciale a carattere marcatamente politico e strategico assume contorni più veritieri. Anche uno sguardo ai volumi totali del commercio intra-EEU dimostra come la Russia giochi un ruolo pregnante negli equilibri dell’EEU. Una volta che sanzioni internazionali sono state imposte su Mosca a seguito dell’annessione della Crimea (2015), il commercio totale intra-blocco non ha mai più raggiunto i livelli iniziali (2011)[55]. Da ultimo, va considerato che nel 2018 gli scambi con la Russia ammontavano al 96,9% degli scambi totali dell’organizzazione, a ulteriore dimostrazione del carattere unidirezionale e marcatamente politico dell’EEU.

Volumi commerciali intra-EEU (in miliardi di dollari USA)

Fonte: Fondo Monetario Internazionale

Come detto poco sopra, è anche importante ricordare come le economie all’interno dell’area eurasiatica (e quindi non necessariamente facenti parte dell’EEU) siano diverse tra loro. Paesi come il Kirghizistan (membro dell’EEU) e il Tagikistan (non-membro dell’EEU) hanno economie basate primariamente su rimesse e non su produzione industriale e/o servizi, il che contribuisce ancor di più a rendere questi stati dipendenti da Mosca. Famose sono le parole dell’allora presidente kirghiso Almazbek Atambayev quando, poco prima di formalizzare l’ingresso del Kirghizistan nell’EEU, affermò che il paese, semplicemente, ‘non aveva scelta’, e che il rifiutare l’invito a entrare nell’EEU avrebbe significato ‘supplicare in ginocchio’ per aiuti economici in futuro[56]

Lo stesso Tagikistan si trova in una posizione di dipendenza dalle rimesse che provengono dalla Russia (nel 2018, le rimesse costituivano il 29% del Pil del paese, e dati della Banca centrale russa dimostrano come nell’ultimo anno tali rimesse siano diminuite del 37%, e dunque con un tremendo impatto sul Pil tagiko),[57] e negoziazioni (quando non proprio pressioni, sotto forma d’introduzione di barriere invisibili al commercio e alla circolazione di merci e persone per paesi non-EEU) continuano tra Mosca e Dušanbe per convincere il presidente tagiko Emomali Rahmon a entrare nell’organizzazione. Al di fuori di queste negoziazioni, un importante accordo tra Russia e Tagikistan sulla regolamentazione dei migranti economici è stato siglato e ratificato appena due anni fa[58], in quello che sembra essere stato l’ultimo tentativo di coordinare e incanalare il flusso migratorio dal Tagikistan alla Russia prima di costringere Dušanbe ad accedere all’EEU, e quindi a sottostare alle regole e provvisioni in campo migratorio dell’organizzazione stessa.

È forse nella sfera economica, però, che la presenza russa in Asia Centrale è maggiormente fronteggiata da una crescente attività cinese, specie nei settori infrastrutturali, energetici e commerciali. La Cina è, al momento, il secondo mercato per le esportazioni kazake (dopo l’Italia) con la Russia che figura al quarto posto (dopo l’Olanda), ed è il secondo esportatore verso il Kazakistan dopo la Russia. La presenza di Beijing è visibile anche nella pletora di progetti infrastrutturali e finanziari nella regione, che al momento sembrano avere un passo e una presenza difficili da emulare per la Russia, soprattutto alla luce delle sanzioni economiche e del recente impatto del Covid-19 sulla regione.

Anche nel campo energetico si può notare una crescente presenza cinese in Asia Centrale, presenza che al momento non ha portato a eccessivo allarmismo in Russia ma che al tempo stesso presenta Mosca con uno scenario di crescente multilateralismo e bilanciamento. La Cina è a oggi il primo importatore di gas dal Turkmenistan (il 90% delle esportazioni di gas turkmene va in direzione di Pechino), una posizione che si è venuta a concretizzare proprio in seguito a disaccordi politico-economici tra Ashgabat e la russa Gazprom. Per quanto riguarda il petrolio, la presenza del gasdotto Asia Centrale-Cina (transitante attraverso Turkmenistan, Uzbekistan, e Kazakistan) è di grande importanza per Pechino, e una nuova linea (Linea D) è attualmente in corso di costruzione, dal 2014 e non senza difficoltà, attraverso il Kirghizistan e il Tagikistan.

Sebbene non sia possibile approfondire qui in modo esaustivo le posizioni commerciali di UE e Stati Uniti, è opportuno notare come Washington abbia di recente siglato un vantaggioso accordo economico con il Kazakistan e l’Uzbekistan (le due maggiori economie della regione) chiamato ‘Partnership per gli investimenti in Asia Centrale’ con l’obiettivo d’investire almeno 1 miliardo di dollari nella regione attraverso progetti diretti a sviluppare il settore privato e infrastrutturale delle economie locali[59]. Alla luce di questi dati e fattori, è evidente dunque come il quadro economico delle relazioni russo-centrasiatiche non sia configurabile come un’assoluta primazia e dominanza. Se all’interno dell’EEU le relazioni economico-internazionali sono a carattere marcatamente russo, il quadro più ampio dell’economia e del mercato energetico dell’Eurasia presenta uno scenario più multipolare e diversificato, con la Russia che rimane un attore di primo piano ma al tempo stesso Cina, UE e Stati Uniti che giocano un ruolo importantissimo nella diversificazione dei vettori economici ed energetici delle repubbliche centrasiatiche. Quest’ultime, inoltre, hanno sviluppato nel corso degli ultimi due decenni una strategia che alcuni analisti hanno chiamato ‘regionalismo bilanciato’[60], e mira proprio alla creazione di numerose piattaforme regionali (tanto formali quanto informali) da un lato per attrarre più capitali, dall’altro per evitare la preponderanza di una singola grande potenza nella regione.

Rapporti culturali e umanitari

Il sostrato umanitario e culturale che lega i paesi dell’Asia Centrale con la Russia è improntato principalmente alla valorizzazione dell’esperienza storico-politica dell’Unione Sovietica, e dei secoli di coesistenza tra le popolazioni russe e centrasiatiche, che hanno portato a una condivisione di numerosi riferimenti culturali e linguistici. Tuttavia, se da un punto di vista istituzionale, storico, diplomatico, e finanche celebrativo le repubbliche centrasiatiche e Mosca parlano ancora di fratellanza, solidarietà, vicinanza, e memorie condivise (come per esempio le celebrazioni per la vittoria della Seconda guerra mondiale), è anche vero che i processi di sviluppo nazionale e statale in Asia Centrale stanno portando a un lento ma concreto affermarsi di sentimenti nazionalisti. Questi sono visibili tanto in riforme d’importanza simbolica e anche politica, come la transizione dell’alfabeto kazako e uzbeko dal cirillico al latino, quanto nell’elezione di leader nazional-populisti alla presidenza, come ha dimostrato il caso di Sadyr Japarov in Kirghizistan all’inizio di quest’anno[61]. Altri esempi includono la proposta di legge in Uzbekistan che vieta ai dipendenti statali l’uso della lingua russa (cui Mosca ha reagito con preoccupazione se non proprio con sdegno, citando ‘lo spirito della storia’ come motivazione per bloccare questa proposta) e il fatto che in Turkmenistan vi sia un’unica scuola russa.[62]

La tensione tra un’unione basata sulla storia, ma la cui eco è ancora avvertibile, e il desiderio delle repubbliche centrasiatiche di essere viste come attori indipendenti, eguali e sovrani è sfociata in più di un’occasione in veri e propri casi diplomatici. Ampia risonanza, per esempio, ha avuto il gelo che intercorse per qualche settimana tra Putin e Nazarbayev nel 2015, e quindi proprio nel periodo più intenso dell’annessione russa della Crimea, che seguì alle dichiarazioni del presidente russo sulla ‘artificialità’ dello stato kazako, che deve la sua esistenza e la sua attuale statualità all’impero russo prima e all’Unione Sovietica poi. Semmai qualcuno avesse pensato che questa fosse una boutade o una battuta mal riuscita, si è poi dovuto ricredere. Nel dicembre 2020, Vyacheslav Nikonov, il presidente della commissione Educazione e Cultura della Duma russa, ha di nuovo reiterato la ‘non-esistenza’ del Kazakistan, paese che a suo dire altro non è che ‘un grande regalo della Russia e dell’Unione Sovietica ai kazaki’[63]. È dunque lecito pensare che queste narrative, soprattutto se unite ai noti e periodici exploit di Vladimir Zhirinovski in favore di una ‘ricolonizzazione’ dell’Asia Centrale, abbiano il preciso scopo di ricordare alle repubbliche centrasiatiche la posizione egemonica di Mosca nella regione.

Tuttavia, al netto dei sopracitati episodi, tra Russia e Asia Centrale in un’ottica complessiva si può parlare di relazioni generalmente positive nella sfera socio-culturale, specie se comparate a quelle con altre potenze come Stati Uniti o Cina[64]. La Russia, secondo recenti sondaggi in Asia Centrale, era e rimane un alleato in cui riporre fiducia, un fondamentale partner economico, un paese da visitare, un modello politico da seguire, e un buon vicino. L’esempio più recente di questo trend è il successo della ‘diplomazia vaccinale’ di Mosca in Asia Centrale, grazie alla quale Kazakistan, Turkmenistan e Uzbekistan hanno ordinato dosi ingenti di Sputnik-V (con Kirghizistan e Tagikistan che stanno valutando l’approvazione del vaccino in queste settimane).

Anche a livello sociale e culturale, dunque, così come in campo economico e politico-militare, è forse inappropriato parlare di una Russia in declino, così come è fuorviante parlare di Mosca come l’unico egemone incontrastato nella regione. Alla luce di quanto scritto, il prisma più accurato per analizzare la posizione russa in Asia Centrale è quella che ho chiamato ‘egemonia negoziata’, specie dopo l’annessione della Crimea. Se da un lato Mosca è, ancora oggi, la potenza indispensabile nell’area, non è certo l’unica. E i paesi dell’Asia Centrale sono ben consapevoli della presenza di altri attori, del margine di manovra a loro disposizione, e di come un nuovo multilateralismo possa, pur lentamente e progressivamente, trovare forma non solo a livello mondiale, ma anche a livello regionale.

4264.- La Shanghai Cooperation Organization (SCO). Sapete chi è?

Quando parliamo di Afghanistan, di Talebani, di Asia Centrale, non sappiamo di cosa parliamo. Uno sguardo alla frontiera dell’Afghanistan con il Tagikistan.

fonti: Catherine Putz, The Diplomat, Treccani.

La Cina sta subendo gli effetti della ritirata degli Stati Uniti da Kabul e potrebbe facilmente subentrargli, ma la lezione avuta da russi e da americani e, prima ancora, dagli inglesi è stata ben metabolizzata a Pechino e non vedremo l’Esercito Popolare di Liberazione impantanarsi tra i monti dell’Afghanistan. Tutt’al più verranno rinforzati i presidi alla frontiera dello Xinjiang. Più o meno, anche la Russia, spiazzata dalla rapidità dell’avanzata talebana, farà sentire la sua presenza come ha già fatto a giugno, con le esercitazioni militari in Uzbekistan e Tagikistan.

44 senatori degli Stati Uniti hanno chiesto che sia fatta chiarezza su questa improvvida cessione di fatto di armamenti americani ai talebani, ricordando che ISIS e Al Qaeda sono presenti con loro cellule in Afghanistan e che potranno essere a loro volta ceduti ai terroristi.

Anche se i militanti talebani hanno dichiarato di non avere alcun obiettivo ai confini a Nord, la situazione in Afghanistan è quella che, in Asia Centrale, suscita maggiore preoccupazione.

I leader delle cinque repubbliche dell’Asia Centrale, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan, si sono già incontrati, il 5 e il 6 agosto, per un terzo round di colloqui, che si sono svolti nella città turkmena di Avaza, sul Mar Caspio. Al primo posto dell’agenda i 5 Paesi avevano posto la grave situazione in Afghanistan, degenerata a seguito del ritiro maldestro delle truppe statunitensi, che si sta concludendo e che terminerà – dicono gli inglesi – il 24 agosto e non più il 31. La situazione, ora, vede i militanti talebani padroni dei grandi centri abitati afghani, compresi quelli al confine con Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. Non solo, ma sono stati, di fatto, riarmati dall’esercito afghano collassato, entrando in possesso di aeroplani, elicotteri, circa 5.000 veicoli blindati da ricognizione, 7.000 mitragliatori, 600.000 armi leggere e equipaggiamenti di ogni sorta.

La via più probabile, per Pechino, alla luce dei delitti già compiuti dai talebani, sarà un ricorso all’ONU. L’Esercito Popolare di Liberazione ci sarà, ma non marcerà sotto la sua bandiera. E se non sarà l’ONU, allora, sarà chiamata in causa la Shanghai Cooperation Organization (SCO). Chi è?

Origini, sviluppo e finalità della Sco.

“L’Organizzazione di Shanghai per la cooperazione (Sco) è un meccanismo di cooperazione attivo da dieci anni in Asia centrale, la cui rilevanza, specie dal punto di vista geopolitico, è in continua crescita. Nata come meccanismo per favorire la risoluzione di dispute territoriali tra i sei paesi aderenti – Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan – l’organizzazione è andata progressivamente istituzionalizzandosi, intensificando la cooperazione tra i suoi membri tanto su questioni di sicurezza quanto in ambiti come quello economico, energetico e culturale. Il piano militare e di sicurezza è senz’altro quello più rilevante, all’insegna della comune volontà degli aderenti di contrastare tre fenomeni che sono identificati come le principali minacce alla sicurezza regionale: il terrorismo, l’estremismo e il separatismo.

Il riferimento esplicito e l’enfasi posta su questi tre elementi (sanciti dal primo atto ufficiale dell’organizzazione, la ‘Shanghai Convention on Combating Terrorism, Separatism and Extremism’) rende peculiare nel suo genere la Sco e sottolinea come la prima preoccupazione dei membri – soprattutto dei due più importanti, Cina e Russia – sia quella di conservare lo status quo territoriale in una regione dove sono particolarmente accesi irredentismi, contrasti etnici e spinte secessioniste e dove non mancano ingerenze esterne.

Il Kazakhstan, il Kirghizistan, il Tagikistan, il Turkmenistan e l’Uzbekistan sono tutte ex repubbliche dell’Unione sovietica.  Tra questi, Kirghizistan e Kazakhstan – i più vicini a Mosca, sono membri tanto dell’alleanza militare a guida russa (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, CSTO) quanto dell’Unione economica eurasiatica, che costituisce il principale tentativo russo di reintegrazione delle repubbliche post-sovietiche. Tutti e 5 i paesi hanno problemi simili: accesso a servizi di base insufficiente, scarsa diversificazione economica, mercato del lavoro debole, bassa partecipazione della popolazione ai processi decisionali e istituzioni pubbliche che non rendono conto del proprio operato. Sotto il profilo dello sviluppo economico, dell’organizzazione politica, dell’ambiente e della situazione in materia di sicurezza, l’Asia centrale rimane comunque una regione molto eterogenea” (Treccani). 

L’Armata Rossa c’è con la 201ma divisione fucilieri motorizzati.

Anche se, l’inviato speciale della Russia per l’Afghanistan, Zamir Kabulov, ha dichiarato, il 3 agosto, che il movimento talebano non ha mai tentato di violare o attraversare illegalmente il confine che li divide dai Paesi vicini, Russia, Uzbekistan e Tagikistan hanno tenuto esercitazioni militari congiunte a 20 chilometri dal confine con l’Afghanistan. Il fulcro di queste esercitazioni è stata la 201ma base russa situata in Tagikistan: la struttura militare terrestre più grande al di fuori del confine russo, che ha fornito il grosso del contingente russo. È situata nei pressi di Dushanbe, capitale tagika, e di Bokhtar dai tempi dell’Unione Sovietica. La 201ma conta circa 6.000 fucilieri motorizzati e comprende reparti corazzati, unità di artiglieria e di ricognizione, forze di difesa aerea, strutture di protezione chimica e biologica, nonché reparti di segnalazione. Oltre a ciò, nella 201° base sono presenti carri armati T-72, veicoli corazzati BTR-82A, sistemi di lancio multiplo Grad, sistemi di artiglieria Gvozdika e Akatsiya. Nel 2001, la Divisione era stata dispiegata al confine con l’Afghanistan, dopo che i talebani avevano tentato di attraversare il confine afghano-tagiko. Lo scorso luglio, la 201ma Divisione ha ricevuto dalla Russia i nuovi veicoli da combattimento per la fanteria Bmp-2m, trasportati da aerei Il-76, per

mezzi corazzati Bmp-2m
Il Bmp-2m consente ai fucilieri di combattere da bordo, fornendo  supporto a mezzi corazzati e unità di fanteria in prima linea. È armato con il consueto cannone da 30 mm, 4 missili controcarro Kornet, visori notturni, armatura passiva e dispone di impianto di condizionamento dell’aria, propulsore e sospensioni di nuova produzione.

essere impiegati nelle esercitazioni congiunte con la Russia e l’Uzbekistan.

Un accordo, gratuito, che estende, fino al 2042, il periodo di stazionamento della base militare russa in Tagikistan, è stato firmato nell’ottobre 2012. L’accordo sottoscritto nel 1985 in cambio di Protezione Militare aveva originariamente una durata di 29 anni e, ora, contiene anche una promessa del Cremlino di sostenere ancora una volta il presidente Emomali Rahmon, il cui regime è stato messo alla prova per la forza nelle controversie con gli scontenti outback e negli scontri frequenti con i militanti guidati da un colonnello delle guardie di frontiera.

Vladimir Putin e il presidente del Tagikistan Emomali Rahmon


“Nel contratto non sono menzionati problemi finanziari, ovvero nessuno prenderà denaro da nessuno”. Mosca, che ha sostenuto Rakhmon durante la sanguinosa guerra civile in Tagikistan negli anni ’90, è sempre pronta ad aiutare l’alleato. La leadership del Tagikistan è ben consapevole che essere soli nel mezzo di un centro strategico così importante non è l’opzione migliore”. Il Tagikistan condivide un confine di 1.344 chilometri con l’Afghanistan. L’esercito tagico è composto principalmente da rappresentanti dei segmenti più poveri della popolazione. Piccole indennità per gli ufficiali costrinsero molti di loro a partire per la Russia – per servire nel suo esercito o diventare un lavoratore ospite. Almeno un milione di cittadini tagiki lavorano solo in Russia. I media locali hanno riferito che durante l’operazione in Badakhshan, i soldati tagiki si sono rivolti alla popolazione locale per avere da mangiare.

Le esercitazioni militari congiunte si sono concluse il 10 agosto e sono state pianificate a seguito dell’avanzata dei talebani in Afghanistan, i quali hanno più volte forzato i militari del governo di Kabul a fuggire nei vicini Paesi dell’Asia Centrale, quali Tagikistan e Uzbekistan, per sfuggire ai fondamentalisti islamici. Il mese di giugno è risultato essere il più letale fra quelli registrati dall’Afghanistan negli ultimi due decenni. Le autorità di Kabul avevano riferito che le forze di sicurezza e difesa nazionali afgane (ANDSF) avevano eliminato oltre 6.000 combattenti talebani in circa un mese, riconoscendo, però, che anche il gruppo terrorista aveva inflitto gravi perdite alle forze governative. I dati raccolti dal quotidiano afghano Tolo News hanno mostrato che 638 militari e civili sono stati uccisi negli attacchi dei talebani durante quel periodo e che altri 1.060 rimasero feriti. Inoltre, ben 120 distretti furono “evacuati” a seguito delle offensive dei militanti islamisti.

Ci sono tutti i presupposti perché l’Organizzazione di Shanghai per la cooperazione (Sco) venga chiamata a dare il suo contributo alla sicurezza della regione, come anche nei campi economico ed energetico. Sotto questo punto di vista, rappresenterà l’asso nella manica sia di Pechino che di Mosca.