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5688.- La visita segreta del direttore della Cia in Grecia mette in allerta la Turchia

.. e dopo l’avanzata di Ankara in Kossovo mette più tranquilla l’Italia?

L’obiettivo del viaggio di William Burns non è noto: secondo le indiscrezioni provenienti da Atene, il funzionario avrebbe incontrato alti ufficiali dei servizi d’intelligence e sicurezza greci, per poi ispezionare alcune strutture nel porto di Alessandropoli.

Da Atene © Agenzia Nova, 8 Giugno 2023 – Riproduzione riservata

La recente visita in Grecia del direttore della Cia, William Burns, avvolta dal segreto e riportata dalla stampa ellenica, ha messo in guardia la Turchia sul rafforzamento della cooperazione tra il Paese balcanico e gli Stati Uniti. Dopo l’invasione della Russia in Ucraina, Washington avrebbe cercato di stringere le relazioni con Atene per sfruttare la sua posizione geografica strategica per la logistica e i rifornimenti di gas naturale e militari. Secondo quanto reso noto dai media ellenici, il capo delle spie Usa avrebbe visitato la Grecia tra il 30 maggio e il primo giugno, recandosi prima ad Atene e poi ad Alessandropoli. Quella di Burns nel Paese balcanico è stata la prima visita di un direttore della Cia negli ultimi undici anni, a dimostrazione del fatto di come la Grecia abbia assunto un ruolo sempre più strategico dopo l’inizio della guerra, portando le relazioni con gli Stati Uniti a un livello superiore.

L’obiettivo del viaggio di Burns non è noto: secondo le indiscrezioni provenienti da Atene, il funzionario statunitense avrebbe incontrato alti ufficiali dei servizi d’intelligence e sicurezza greci, per poi ispezionare alcune strutture nel porto di Alessandropoli. Già in occasione dell’ultimo Dialogo strategico tra Grecia e Usa, Washington aveva sottolineato l’importanza geostrategica del porto ellenico, divenuto un hub logistico vitale per la posizione difensiva dell’Alleanza atlantica sul fianco orientale del continente e per la sicurezza energetica regionale, nell’ambito delle forniture di gas naturale. Inoltre, non è un segreto che gli Stati Uniti hanno investito milioni di dollari per espandere la propria presenza militare in Grecia. Un numero crescente di forze statunitensi è infatti temporaneamente dispiegato nel Paese balcanico, per esercitazioni e operazioni di transito, a sostegno delle forze armate greche e dell’Alleanza atlantica. Lo scorso febbraio, durante una visita in Grecia, il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, aveva elogiato il ruolo di Atene nei Balcani occidentali, sia come “hub energetico” che “come promotore” dell’integrazione europea dei Paesi della regione.

Da quanto emerge dalla stampa della Turchia, il misterioso viaggio del direttore della Cia non avrebbe fatto altro che accrescere il disagio di Ankara per la presenza di forze statunitensi a pochi chilometri dalla frontiera, nonché la sua preoccupazione di poter perdere progressivamente la leadership nel contesto balcanico. Il quotidiano “Hurriyet” scrive che se da una parte i contorni del viaggio di Burns non sono chiari, dall’altra la visita di pochi giorni fa ad Alessandropoli dell’ambasciatore statunitense in Grecia, George Tsunis, “uomo d’affari scelto da Biden in persona”, conferma le ambizioni statunitensi. Tsunis, insieme agli ambasciatori di Ucraina, Bulgaria e Moldova, si è recato nella base Usa per incontrare i soldati statunitensi attualmente impegnati nelle missioni Nato per il trasferimento di equipaggiamento militare. I media filogovernativi turchi sottolineano che Alessandropoli è recentemente diventato uno dei più importanti porti logistici degli Usa in Europa e che per questo la città greca, dopo le recenti visite, è tornata alla ribalta come centro “energetico, commerciale e logistico”.

5654.-Armi in Ucraina, cosa ne pensano gli europei (l’Italia sorprende)

La speranza degli europei consapevoli è la fine del mandato di Biden. Usa e Nato non tengono in conto gli avvertimenti di Putin perché giocano col culo degli europei e in Europa. Così, hanno deciso di addestrare i piloti ucraini per gli F-16. Cosa ne pensano i cittadini? Il sondaggio

di Redazione Nicola Porro, 25 Maggio 2023

armi ucraina italiani

Continua a far dibattere l’invio a Kiev di aiuti militari sempre più ingenti, arrivati fino al via libera degli Stati Uniti per le forniture di caccia F-16 all’Ucraina. Nonostante tutto, ha precisato Biden, i jet non verranno forniti immediatamente, anche se Washington ha già dato il proprio lasciapassare per l’inizio dell’addestramento delle truppe ucraine. Tra i Paesi in questione, anche l’Italia ha dato la propria disponibilità per addestrare i piloti della resistenza.

Armi in Ucraina, cosa dicono gli europei?

Eppure, nonostante la ferma posizione a sostegno di Zelensky dell’Alleanza atlantica, decisamente più polarizzate sono le opinioni della popolazione europea. Come riportato dall’ultimo sondaggio di Termometro Politico, infatti, il 27 per cento dei cittadini Ue vorrebbe interrompere immediatamente gli aiuti militari all’Ucraina. E ancora, la percentuale si innalza al 31 per cento se si parla dell’Italia. Un valore, quindi, che è sopra alla media rispetto agli Stati del Vecchio Continente.

Il BelPaese, per di più, è tra quelli che offre il giudizio più negativo nei confronti di Volodymyr Zelensky. Più pessimisti degli italiani, vi sono solo i tedeschi e gli austriaci. Come si denota dal sondaggio, che rileva il grado di fiducia al leader di Kiev in una scala da 1 a 10, Roma si posiziona al di sotto della metà (4,5), davanti ad Austria (4,0) e Germania (addirittura 3,3). A capo della classifica, come si può immaginare, c’è la Polonia, che si attesta ad un valore che sfiora l’8.

I più contrari all’invio delle armi in Ucraina. Greci e polacchi agli antipodi

Sono i greci, invece, i più contrari all’invio di armi all’Ucraina: ben il 58 per cento della popolazione è contraria a nuove forniture, un dato seguito da quelli di Germania e Italia, rispettivamente al 39 e 31 per cento. “Il sì alle armi tout court – riporta Termometro Politico – arriva al 57 per cento in Polonia, ma scende al 31 per cento in Spagna e Francia, al 29 per cento in Germania ed al 22 per cento in Italia, fino a un minimo del 18 per cento in Grecia”.

Altro dato interessante del sondaggio riguarda i partiti europei da cui provengono le maggiori ostilità nei confronti dell’Ucraina, e sono coloro che votano per le formazioni più radicali. Sia di destra, che di sinistra. Risulta contrario, infatti, la metà di chi vota per i partiti che fanno parte del gruppo Identità e Democrazia (il gruppo di Lega e Rassemblement National) al Parlamento di Strasburgo. E ancora, “a pensarla allo stesso modo anche il 48% dei sostenitori delle formazioni di sinistra estrema, ma solo il 23 per cento di quelle che fanno parte del gruppo Conservatori e Riformisti, cui sono collegati Fratelli d’Italia e il partito al potere in Polonia”, ribadisce Termometro Politico. La percentuale poi scende costantemente dai liberali fino al Partito Popolare Europeo, da un massimo del 21 ad un minimo del 17 per cento.

Sono i polacchi ad avere maggiore stima del presidente ucraino

in una scala da 0 a 10 prende 7,9. A distanza i belgi, con 6, e poi spagnoli e francesi con 5,8 e 5,6.

Hanno un’opinione peggiore i greci, 5,1, gli italiani, con 4,5 gli austriaci, con 4. Sono però i tedeschi a dare il voto più basso, solo 3,3.

Sinistra e destra radicale maggiormente contrari all’invio di armi

In tutti i Paesi tranne la Grecia la maggioranza è per continuare la consegna di armamenti all’Ucraina. 31% a livello europeo vorrebbe che allo stesso tempo si facessero negoziati per giungere alla fine del conflitto anche a costo di cedere territori ucraini, 24%. Il sì alle armi con negoziati a 360 gradi è più gradito dagli spagnoli, 35%, dai belgi e dagli italiani, tra cui arriva al 29%.

La percentuale dei contrari all’invio di armi va dal 48% dei sostenitori delle formazioni di sinistra radicale, ma solo il 23% di quelle che fanno parte del gruppo Conservatori e Riformisti, cui sono collegati Fratelli d’Italia e il partito al potere in Polonia. Scende al 21% tra i liberali, al 20% tra chi vota i partiti del PPE, al 18% tra i socialdemocratici e al 17% tra i Verdi.

La grande maggioranza, però, ha paura di un’escalation e che il conflitto possa diventare guerra mondiale. Ad essere spaventati dalla prospettiva sono il 76%, percentuale che sale all’88% in Spagna, all’80% in Germania e al 77% in Italia, ma scende al 63% in Polonia.

5561.- L’occasione d’oro dei porti italiani.

Report Cdp

Pure senza contare la sempre più vicina apertura delle rotte artiche, l’auspicato rafforzamento dei traffici nel bacino mediterraneo deve fare i conti con gli investimenti nelle infrastrutture, sopratutto, con la concorrenza della Cina e con le sue crescenti influenze. Dal 2016, la Cina, attraverso la statale COSCO Shipping, controlla il Pireo, il più grande porto greco. Il Pireo è fondamentale per la Belt and Road Initiative (BRI), che garantisce alla Cina una posizione di dominio nelle infrastrutture di trasporto europee, costruita attraverso gli investimenti nelle reti ferroviarie. Le società cinesi hanno fornito un ingente supporto tecnico e finanziario allo sviluppo delle ferrovie della Serbia, dell’Ungheria e della Turchia. L’argomento chiama alla riflessione sulla rilevanza delle politiche di penetrazione cinesi nei mercati euro mediterranei, che richiedono attenzione non solo dal punto di vista commerciale. C’è molto da riflettere sul rinnovo dell’accordo Italia-Cina. Per esempio, in Germania, alla fine del 2022, con una inversione inattesa di tendenza, è stato classificato “critico” l’ingresso della società statale cinese Cosco in un terminal container del porto di Amburgo, che, perciò, riceverà una protezione speciale. Ecco che la geopolitica ha fatto capolino nell’accordo fra Hamburger Hafen und Logistik e Cosco e, più in generale, nei rapporti commerciali e politici con Stati autoritari. Ragionamenti simili possono farsi per il porto di Salonicco, centrale per le dinamiche eurobalcaniche, il cui controllo è ora nell’orbita dell’uomo più ricco della Grecia, l’oligarca ellino-russo Ivan Savvidis, che rappresenta gli interessi della Federazione Russa. C’è una forte partecipazione cinese (33%) nel consorzio guidato da Ivan Savvidis. Salonicco potrebbe diventare una spina nel fianco dell’alleanza greco-americana in un’area sensibile, dal momento che vi transitano i gasdotti Tap e Tanap. Con una Salonicco russo- cinese anche gli auspici del ministro Urso sul futuro del porto di Trieste potrebbero venir meno.

Veduta aerea del porto di Salonicco

I porti italiani hanno subito in particolare la competizione del Pireo, degli scali spagnoli (Valencia e Algeciras) e di quelli nord-africani di Port Said e Tanger Med, che hanno sensibilmente migliorato il loro posizionamento all’interno del network del commercio internazionale.

Tuttavia, il riassetto degli equilibri commerciali e industriali apre a nuovi scenari rispetto ai quali la portualità italiana si trova ben posizionata.

La regionalizzazione degli scambi e delle filiere produttive, infatti, non potrà che riflettersi in un rafforzamento del traffico marittimo intra-mediterraneo. Ciò accentuerà la rilevanza del posizionamento strategico dell’Italia, candidata naturale al ruolo di hub logistico per i flussi commerciali tra Nord Africa ed Europa continentale.

L’ECCELLENZA ITALIANA NELLO SHORT SEA SHIPPING

In questa prospettiva assume grande rilievo la leadership che i porti italiani hanno saputo sviluppare nell’ambito del traffico marittimo a corto raggio (c.d. short sea shipping), una modalità di trasporto pienamente in linea con le esigenze del commercio regionale.

Si tratta di un settore nel quale l’Italia può far valere una posizione di eccellenza, essendo il primo Paese in Europa per volume di merci movimentate, con una quota di mercato pari al 14% del totale, davanti a Paesi Bassi 13,5%, Spagna 10% e Francia 7%.

IL RO-RO

Un segmento particolarmente rilevante nell’ambito dello short sea shipping è quello del Ro-Ro, nel quale l’Italia vanta un primato assoluto: 7 dei primi 10 porti Ro-Ro europei del Mediterraneo, sono ubicati in Italia.

Il Ro-Ro costituisce una leva importante per cogliere le opportunità legate alla rimodulazione dei flussi commerciali: la sua natura intrinsecamente intermodale, che permette di combinare trasporto marittimo e stradale/ferroviario, gli conferisce infatti un elevato grado di flessibilità rispetto all’evoluzione della domanda.

5490.- L’Occidente sta effettuando una escalation della guerra in Ucraina?

Leggo con interesse e ripropongo a mia volta questa lucida analisi perché lo scollamento fra la leadership occidentale e i suoi cittadini ci rendi deboli e sta producendo una guerra senza eroi, negli Stati Uniti come in Europa e nella stessa Ucraina. Nel centro di Washington si è svolta una manifestazione di massa contro la fornitura di armi a Kiev. Il Pentagono USA ha già speso $27 miliardi in questa guerra per procura; cresce l’insoddisfazione degli americani per la spesa multimiliardaria per l’Ucraina e cresce la richiesta di una soluzione pacifica, oltre che e non è poco, l’abolizione della NATO. E i soldati in congedo della NATO, in Ucraina, ci sono. Abbiamo assistito all’arruolamento forzoso degli ucraini, alle proteste dei russi, alla imponente marcia dei tedeschi di ieri 25 febbraio, alla Porta di Branderburgo, a Berlino. In decine di migliaia, 50.000 si dice e intere famiglie, Dimostravano contro l’escalation del conflitto in Ucraina, contro la consegna a Zelensky dei carri da battaglia Leopard II e per i negoziati di Pace. I cartelli recavano: “Stiamo ancora sparando contro ucraini e russi”, “Questa non è la nostra guerra”, “Armi tedesche stanno uccidendo di nuovo ucraini e russi”. In Italia, come in Francia, il governo è allineato alla politica di Washington. Lo era Draghi e lo è Meloni. Giusto o non che sia, i media non bastano più a manovrare l’opinione pubblica. Ieri i lavoratori portuali del porto di Genova si sono nuovamente rifiutati di inviare armi in Ucraina. Manifestazioni di massa contro l’UE e la NATO si sono svolte anche in Grecian e a Roma, Milano, Napoli, Torino, Firenze e in molte altre città italiane. La gente non vuole marciare alla frontiera, non vuole combattere l’invasore; ma quello che i media occidentali non ricordano è che nei giorni precedenti al 24 febbraio, il fuoco di artiglieria nel Donbass era sempre più intenso. L’esercito ucraino aveva 110.000 soldati al confine. Stava per invadere… Riuscirà la diplomazia a recuperare i valori delle democrazie occidentali?

Di Sabino Paciolla|Febbraio 25th, 2023

Ad un anno dall’inizio della guerra è giunto il momento che l’Occidente si ponga con realismo alcune domande per porre fine ad un assurdo e insensato bagno di sangue. Ci aiuta a capire queste domande un lucido articolo di Arta Moeini, pubblicato su Unherd. Eccolo nella mia traduzione. 

Biden a Kiev abbraccia Zelensky 20 02 2023

 

È passato appena un giorno dalla richiesta di carri armati tedeschi Leopard-2 da parte dell’Ucraina, quando il governo di Kiev ha chiesto ai Paesi della NATO di dimostrare ancora una volta la loro solidarietà fornendole i caccia F-16 di produzione statunitense. Sebbene gli esperti militari dubitino che questi veicoli modificheranno in modo significativo la situazione sul campo di battaglia, Kiev li pubblicizza come importanti simboli della determinazione politica dell’Occidente.

“La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, scriveva Clausewitz nel 1832. A un anno dalla guerra russo-ucraina, qual è la politica dell’Ucraina? O dell’America
, della Germania e degli altri alleati della Nato? I ripetuti appelli dell’Ucraina per un maggiore sostegno e la risposta accomodante dell’Occidente sono un caso di sfruttamento della “pubblicità strategica”, di diplomazia performativa, di solidarietà dell’alleanza o di qualcosa di completamente diverso? Dopotutto, per quanto gli ucraini stiano combattendo contro le forze russe e subendo ingenti perdite per proteggere l’integrità territoriale dello Stato ucraino, oggi la Nato è apertamente impegnata in una guerra per procura che rischia di trasformarsi in un conflitto catastrofico tra Occidente e Russia.

Sebbene il realismo in politica estera possa aiutare a delineare, persino a prevedere, i contorni generali della guerra e a spiegare la politica di Mosca e Kiev, questa posizione realista mainstream, rappresentata da personaggi come John Mearsheimer, fornisce un resoconto incompleto del comportamento della maggior parte degli alleati occidentali, in particolare degli Stati Uniti. Per comprendere il processo decisionale occidentale e le peculiari dinamiche interalleate della Nato, abbiamo bisogno di un realismo più radicale che prenda in seria considerazione le dimensioni non fisiche, psicologiche e “ontologiche” della sicurezza – comprendendo il bisogno di uno Stato o di un’organizzazione di superare l’incertezza stabilendo narrazioni e identità ordinate sul proprio senso di “sé”.

Tuttavia, i conti realisti “strutturali” – incentrati sull’anarchia sistemica, la sicurezza fisica, l’equilibrio di potere e le dimensioni politiche della strategia – possono aiutare a spiegare alcuni aspetti del processo decisionale strategico dell’Ucraina. In un recente studio per l’Institute for Peace & Diplomacy, di cui sono coautore, abbiamo analizzato le ragioni strutturali che guidano il calcolo strategico dell’Ucraina. Abbiamo suggerito che, in qualità di “equilibratore regionale”, l’Ucraina ha corso un rischio enorme sfidando le linee guida russe sul rifiuto esplicito da parte di Kiev delle offerte della Nato e sull’interruzione di qualsiasi integrazione militare con l’Occidente. Si è trattato di una mossa massimalista che presupponeva il sostegno militare dell’Occidente e rischiava di provocare attivamente Mosca a proprio svantaggio strategico.

Scegliendo la strategia più rischiosa, a somma zero, volta a ostacolare la sfera di influenza storica e geopolitica di una potenza regionale e civile vicina, l’Ucraina è stata forse imprudente, ma non per questo irrazionale. Come abbiamo scritto:

“Praticamente tutte le alleanze di sicurezza americane oggi sono accordi asimmetrici tra gli Stati Uniti e gli equilibratori regionali – una classe di Stati regionali più piccoli e periferici che cercano di bilanciarsi con le medie potenze dominanti nelle rispettive regioni. In quanto grande potenza, l’America possiede una capacità intrinseca di invadere altri complessi di sicurezza regionale (RSC). In questo contesto, è ragionevole che gli equilibratori regionali cerchino di attirare e sfruttare il potere americano al servizio dei loro particolari interessi di sicurezza regionale”.

Fissare un obiettivo così elevato, tuttavia, significava di fatto che Kiev non avrebbe mai potuto avere successo senza un intervento attivo della NATO che spostasse l’equilibrio di potere a suo favore. In virtù della sua decisione, l’Ucraina, insieme ai suoi partner più stretti in Polonia e nei Paesi baltici, è diventata il classico “alleato di Troia” – Paesi più piccoli il cui desiderio di avere un peso regionale contro la media potenza esistente (la Russia) si basa sulla capacità di persuadere una grande potenza esterna e la sua rete militare globale (in questo caso, gli Stati Uniti e, per estensione, la Nato) a intervenire militarmente a loro favore. Come abbiamo osservato nel nostro studio, “questo avviene con grandi rischi per l’equilibratore regionale e con grandi costi per la grande potenza esterna”. Infatti, in ultima analisi, l’accordo dipende dalla “minaccia dell’uso della forza e dell’intervento militare” da parte della grande potenza esterna, senza la quale l’equilibratore regionale fallirebbe.

L’ambizione strategica dell’Ucraina è quella di superare la Russia una volta per tutte e di staccarsi dal controllo storico di Mosca. Mettendo da parte le pretestuose e facili giustificazioni russe per l’invasione, che cercano di sbeffeggiare l’intervento militare della NATO in Jugoslavia, è lo schiacciamento di questa più grande ambizione ucraina a motivare il Cremlino. Questo spiega l’annessione della Crimea da parte di Mosca nel 2014, le sue aspirazioni agli accordi di Minsk e il ricorso finale all’azione militare.

Una volta iniziata l’invasione russa, l’obiettivo di Kiev di contrastare Mosca e mantenere intatti i propri territori è diventato impossibile senza un intervento militare occidentale. Il futuro dell’Ucraina come Stato sovrano dipenderebbe ora dalla sua capacità di organizzare con successo un’escalation. Dal punto di vista dell’Ucraina, quindi, il desiderio di ricevere forniture di armamenti sempre più sofisticati dalle nazioni occidentali più potenti non è motivato principalmente dal loro immediato impatto pratico e tattico – dopo tutto, la consegna e l’addestramento per questi sistemi saranno ancora lontani mesi. No, le richieste ucraine derivano in gran parte da ciò che l’introduzione di queste armi rappresenterebbe dal punto di vista politico e dalle conseguenze geostrategiche a lungo termine per la prossima fase della guerra.

È infatti nell’interesse di Kiev indirizzare la NATO verso un maggiore coinvolgimento nella guerra. L’Ucraina ha fatto ricorso a una combinazione di tattiche – tra cui la guerra d’informazione e lo sfruttamento del senso di colpa storico dell’Occidente – per istigare una cascata informativa e reputazionale tra i membri della NATO che assicurerebbe l’adesione alle richieste ucraine. Date le sue evidenti debolezze a lungo termine in termini di manodopera di qualità, artiglieria e munizioni, il governo Zelenskyy ha combattuto astutamente una guerra ibrida fin dall’inizio, sapendo che l’Ucraina non può sconfiggere la Russia senza che la Nato combatta al suo fianco. La domanda che ci si pone ora è se l’Occidente debba lasciarsi intrappolare in questa guerra, mettendo a rischio il destino del mondo intero.

Secondo la concezione materialista della sicurezza offerta dalla maggior parte dei realisti, per l’America e l’Europa occidentale non ci sono grandi vantaggi, e certamente non c’è un vero interesse nazionale o strategico, nel farsi trascinare in quella che è essenzialmente una guerra regionale in Europa orientale che coinvolge due diversi Stati nazionalisti. Da un punto di vista ontologico, tuttavia, un establishment di politica estera anglo-americano che si “identifica” fortemente con l’unipolarismo statunitense ha investito molto nel mantenimento dello status quo, impedendo la formazione di una nuova architettura di sicurezza collettiva in Europa, che sarebbe incentrata su Russia e Germania piuttosto che sugli Stati Uniti. Come ha osservato l’analista geopolitico George Friedman nel 2015: “Per gli Stati Uniti, la paura primordiale è… [l’accoppiamento di] tecnologia e capitale tedeschi, [con] risorse naturali russe [e] manodopera russa”.

Forse seguendo una logica simile, l’establishment statunitense ha lavorato per distruggere qualsiasi possibilità di formazione di un asse Berlino-Mosca allineandosi al blocco Intermarium di Paesi dal Baltico al Mar Nero, opponendosi ripetutamente (e minacciando apertamente) i gasdotti Nord Stream e respingendo deliberatamente l’insistenza russa su un’Ucraina neutrale. In relazione all’Ucraina, l’obiettivo iniziale di un’alleanza ideologica occidentale orientata verso “valori condivisi”, come la Nato è diventata con la dissoluzione dell’URSS, era quello di trasformare il Paese in un albatros occidentale per la Russia, di impantanare Mosca in un pantano esteso per indebolire il suo potere e la sua influenza regionale e persino di incoraggiare un cambio di regime al Cremlino.

Se si accetta la logica di questa strategia, allora sembra plausibile un limitato sostegno militare dell’Occidente agli obiettivi di guerra ucraini, finalizzato alla creazione di un conflitto conflittuale e congelato. Tuttavia, anche in questo scenario, l’espansione della portata e del grado di tale sostegno fino a includere sistemi d’arma avanzati, come gli F-16 o i missili a lungo raggio, non è solo imprudente, ma sempre più suicida in qualsiasi calcolo costi-benefici. Un sostegno così esplicitamente ostile potrebbe far degenerare la guerra per procura in una guerra diretta e convenzionale – uno scenario da terza guerra mondiale, che il Presidente Biden insiste di voler evitare. Inoltre, nell’improbabile caso che tale assistenza militare espansiva riesca a cacciare le forze russe dal Donbas, per non parlare della Crimea (dove la Russia possiede una grande base navale), aumenterebbe drammaticamente la probabilità di un evento nucleare, dato che Mosca considera la protezione della sua roccaforte strategica nel Mar Nero come un imperativo esistenziale.

Perché allora l’Occidente continua ad assecondare l’Ucraina e a cedere alle pressioni reputazionali e al braccio di ferro dei nuovi membri della Nato nel corridoio Intermarium? Le cause sono molteplici e vanno dagli interessi privati e istituzionali dell’establishment internazionalista liberale alla diffusione di una visione del mondo manichea all’interno dell’alleanza. L’aspetto più importante, tuttavia, è il fenomeno della compulsione di gruppo verso l’escalation, aggravata dall’insicurezza ontologica, che si verifica quando eventi storici mondiali improvvisi e tragici come l’invasione russa sconvolgono il senso unitario di ordine e continuità nel mondo.

Esacerbata dall’allargamento e dalla trasformazione della NATO in un colosso istituzionale di circa 30 nazioni con percezioni diverse della minaccia e della sicurezza, questa coazione ha plasmato e rafforzato una “identità” unificata tra le nazioni occidentali – una narrazione di noi contro di loro. In una condizione di insicurezza ontologica, le correnti socio-psicologiche ed emotive permettono di creare cascate di reputazione, di imporre il conformismo in nome dell’unità dell’Occidente e di rafforzare la “polarizzazione di gruppo” intorno alla scelta più rischiosa, che garantisce l’adozione di politiche più estreme ed escalatorie. E, cosa fondamentale, gli alleati troiani usano comprensibilmente queste dinamiche per promuovere i loro reali interessi nazionali e di sicurezza all’interno dell’alleanza, dando loro un ruolo molto più importante nel processo decisionale di quanto il loro potere relativo potrebbe far pensare.

Un’analisi più attenta del discorso interalleanza all’interno della Nato rivela anche una psicologia attivista che si cela sotto il segnale politico e ideologico. Dato che l’ideologia – in particolare l’umanitarismo e il democratismo liberali – gioca un ruolo chiave nel mantenimento dell’alleanza, il suo processo decisionale è predisposto alla fallacia dell’action bias: l’idea che fare qualcosa sia sempre meglio che non fare nulla. Questa sorta di mentalità reciproca, che si rafforza a vicenda, tra i membri dell’alleanza che professano un’”etica della cura” attivista, interpreta di riflesso la responsabilità come azione, mentre rimprovera l’esitazione e la moderazione come disumane. La dinamica ricorda l’osservazione di Nietzsche ne La nascita della tragedia, secondo cui “l’azione richiede di essere avvolti da un velo di illusione”; in questo caso, il “velo di illusione” è fornito dal processo ontologico di formazione dell’identità e dalle narrazioni condivise di “responsabilità collettiva” e “unità occidentale”.

Nel contesto del processo decisionale interalleanza, un’etica di questo tipo non può fare a meno di assecondare le richieste che le vengono rivolte, tanto più che i pari più rumorosi possono mascherare questa costrizione con il presunto imperativo morale di promuovere l’unità occidentale, difendere i “nostri valori” e combattere il male reazionario. La ricerca di sicurezza ontologica di una grande potenza globale ed egemonica come gli Stati Uniti mette in primo piano la necessità di un’ideologia che le offra un senso di coerenza, che faccia apparire le sue azioni come significative e giustificate. Lo stesso fenomeno vale per la Nato, che – pur non essendo uno Stato ma un’istituzione – è oggi praticamente un alter-ego degli Stati Uniti.

Ora, questo potrebbe sembrare indicare una tensione intrinseca tra il desiderio di un racconto di ancoraggio su “chi siamo” e la più tradizionale sicurezza materiale che si basa sull’autoconservazione fisica. Ma se questo è vero in alcuni casi, soprattutto in relazione a grandi potenze ideologiche come gli Stati Uniti, la cui auto-narrazione idealistica dell’eccezionalismo americano spesso si scontra con i suoi interessi reali, la ricerca di sicurezza ontologica e fisica è più congruente negli Stati più piccoli e di medio livello, per i quali sia gli interessi che le identità sono più radicati, localizzati e reali.

Nell’Anglosfera, forse a causa dell’eredità dell’imperialismo e della realtà storica dell’unipolarismo, esiste attualmente uno scollamento tra gli autentici interessi nazionali, definiti in modo ristretto e concreto, e il comportamento del suo establishment di politica estera liberale e internazionalista, che privilegia la ricerca di una sicurezza ontologica con ramificazioni globali. Questo fatto deve essere rettificato. Fortunatamente, ci sono i primi segni che il Presidente Biden e almeno alcuni dei suoi consiglieri, tra cui il presidente dello Stato Maggiore degli Stati Uniti, Gen. Mark Milley, hanno percepito questa terribile realtà e le sue ricadute potenzialmente pericolose, e stanno iniziando a parlare della necessità di negoziati e di una soluzione diplomatica in Ucraina.

All’inizio del secondo anno di guerra, molti a Washington si sono finalmente resi conto che l’esito probabile di questa tragedia è lo stallo: “Continueremo a cercare di convincere [la leadership ucraina] che non possiamo fare tutto e niente per sempre”, ha dichiarato questa settimana un alto funzionario dell’amministrazione Biden. Per quanto si parli di agenzia ucraina, questa dipende interamente dall’impegno della NATO a continuare a sostenere lo sforzo bellico di Kiev a tempo indeterminato. Un desiderio così massimalista di “vittoria completa” non solo è altamente distruttivo e fa pensare a un’altra guerra infinita, ma è anche imprudente; il suo stesso successo potrebbe scatenare un olocausto nucleare.

Mosca ha già pagato a caro prezzo le sue trasgressioni in Ucraina. Prolungare la guerra a questo punto, in una ricerca ideologica di vittoria totale, è discutibile sia dal punto di vista strategico che morale. Per molti internazionalisti liberali in Occidente, la richiesta di una “pace giusta” che sia sufficientemente punitiva per la Russia suggerisce poco più di un desiderio poco velato di imporre a Mosca una pace cartaginese. L’Occidente ha effettivamente ferito la Russia; ora deve decidere se lasciare che questa ferita si incancrenisca e faccia esplodere il mondo intero. Infatti, a meno che a Mosca non venga fornita una ragionevole via d’uscita che riconosca lo status della Russia come potenza regionale con i propri imperativi esistenziali di sicurezza strategica e ontologica, questo è il precipizio verso cui ci stiamo dirigendo.

Arta Moeini

4775.- La Turchia in Mediterraneo e nella NATO.

La frontiera mediorientale della NATO è la Turchia e, quanto a numeri, vanta il secondo esercito dell’Alleanza. La politica turca segue un suo percorso. Lo abbiamo visto con i curdi, alleati tanto fedeli quanto traditi, quando i cacciabombardieri di Ankara seguivano a distanza di dieci minuti gli Hercules americani che sganciavano rifornimenti e contro l’ISIS, in Siria, quando, in nome di una fascia di sicurezza da frapporre ai guerriglieri, diventati terroristi, esercito e aviazione turchi hanno fatto strage di quel popolo meraviglioso. Qui, giova ricordare che la Turchia è un paese NATO e che, durante le operazioni contro i curdi (che non hanno mai avuto un’aviazione) il suo spazio aereo, a ridosso del confine siriano, era protetto dalle batterie di missili antiaerei italiani del Reggimento Custoza.
Al tempo, lo stato maggiore dell’Esercito turco, per non coinvolgere i suoi reparti regolari assegnati alla NATO, ha armato e diretto le operazioni di un esercito parallelo di mercenari in quel teatro, dove operano americani, russi e iraniani, insieme a varie fazioni locali, governative, ribelli, curde, terroristiche. Alcune migliaia di quei mercenari sono, poi, state trasferite e impiegate in Libia. Questo attivismo politico-guerresco mostra la figura intraprendente di Erdogan e una Turchia che opera da grande potenza. La vera potenza della Turchia sta nella sua funzione di baluardo contro la Russia e nella signoria esercitata sugli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli in forza della Convenzione di Montreux (1936). Poco ha importato l’uscita della Turchia dal programma F-35 dopo l’acquisto del sistema contraereo russo S-400. Quel rapporto con Mosca era compatibile con lo sviluppo della Nuova Via della Seta in Asia Centrale (Kazakistan) e ci lascia una visione della Turchia, una volta alleato, un’altra avamposto e un’altra ancora concorrente, in particolare nella competizione per le fonti energetiche in Mediterraneo.
Qui, sono chiamati in causa l’Egitto, Israele, la Grecia, il Regno Unito e, naturalmente, l’Italia, ma vorrei dire l’ENI. Per esempio, Atene ha accusato Ankara di aver violato il diritto internazionale conducendo attività di esplorazione del gas nelle sue acque territoriali. In particolare, i giacimenti di gas scoperti, anche dall’ENI, offrono diverse opportunità economiche e politiche per lo sviluppo regionale e la cooperazione tra paesi. Quelli all’interno della Zee egiziana superano il fabbisogno di tutti i paesi all’intorno e consentiranno l’esportazione.
Ecco che l’Italia se vorrà fare da ponte energetico tra le due sponde del Mediterraneo dovrà fare i conti con la Turchia ed avere una politica estera adeguata, particolarmente riguardo alla definizione delle ZEE. Sommando l’importanza della Turchia dal punto di vista energetico e economico con quello militare, viene all’attenzione l’accordo stipulato in novembre dalla Türk Deniz Kuvvetleri (Marina militare turca) e, più in generale, dalla Difesa turca con la Spagna, che sulla Turchia ha una sua posizione autonoma dall’Unione europea. Una banca e 600 imprese spagnole di rilievo operano in Turchia. Non solo la Türk Deniz Kuvvetleri ha costruito interamente presso il cantiere Sedef di Istanbul, con la collaborazione della Spagna, la nave d’assalto anfibio della Marina turca Anadolu, derivata dal Juan Carlos I. È una portaerei leggera tuttofare, di 27.000 tonn., con una manciata di aeroplani, un’altra di elicotteri e 4 mezzi da sbarco, che potrà essere dotata di droni. Quanto basta per giocare d’azzardo, ma, con il supporto della Spagna, il presidente turco ha in programma la costruzione di una vera portaerei, più grande del Cavour, e, sempre la Spagna, fornirà il reparto volo, cedendo i suoi AV-8. Perché più grande del Cavour ? E perché le politiche della Spagna e dell’Italia marciano su binari diversi?
Abbiamo toccato diversi temi della competizione in atto in Mediterraneo e, se la tentazione potrebbe essere di tenere la Turchia fuori dell’Unione europea e di estrometterla dalla NATO, questa non è sicuramente la via da seguire. Pubblichiamo, perciò, un’analisi della politica di Recep Tayyip Erdogan, di Giuseppe Cucchi che è stata pubblicata da Analisi Difesa il 15 luglio 2020.
L’analisi è tuttora valida, dal che possiamo trarne alcune considerazioni: la prima è che Washington ha sufficienti strumenti per sopportare e contenere le iniziative del presidente turco in Medio Oriente, nel Caucaso, in Siria e in Libia, la seconda che, al momento, l’Unione europea ha la possibilità economica di sostenere un modus vivendi con il governo turco e la terza, che ci riguarda, che la politica estera italiana non soddisfa la centralità geopolitica della penisola perché non è stata in grado di tutelare i nostri interessi in Libia, a Cipro e, più in generale, in Mediterraneo. Se aggiungiamo il contenzioso sulle ZEE, suscitato da Ankara nei confronti della Grecia e dell’Egitto, tutto ciò pone una seria ipoteca sia sull’ambizione di costituire una zona di libero scambio fra i Paesi della costa Nord e della costa Sud del Mediterraneo sia sul confine Sud allargato perseguito da Bruxelles. Se, infine, ci poniamo il problema dello sviluppo dell’Africa Bianca e del Sahel, alla luce della complementarità fra Africa e Europa, ecco, allora, che il piccolo dittatore Erdogan appare molto più grande di quanto non possa sembrare. Anche se il bilancio della difesa turco ha toccato il 2,5%, a dicembre, l’inflazione ha superato il 36%. Potremmo dire che, economicamente, la Turchia non sia all’altezza delle sfide del suo presidente, ma questo ci ricorda un altra storia, tutta italiana.

Cacciare la Turchia dalla NATO? 

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Cacciare la Turchia dalla NATO è indubbiamente una tentazione che si fa di giorno in giorno più incalzante, alimentata dal modo in cui il Paese anatolico, e soprattutto il suo “uomo forte” procedono sulla scena della politica internazionale, del tutto indifferenti al danno o al fastidio che alcuni dei loro atti possono provocare a quelli che – almeno in teoria – sono ancora formalmente loro alleati a tutti gli effetti.

Sono ormai parecchi anni che le cose procedono in questo modo e che l’Alleanza è sottoposta da Ankara a continue provocazioni e ricatti. Per non parlare poi di quelli che, pur senza interessare direttamente il Patto Atlantico, feriscono tuttavia o il suo pilastro europeo o quello di oltre Oceano.

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Così gli Stati Uniti si sono visti negare in più occasioni l’uso di basi che pure in alcuni momenti sarebbero risultate preziose. Un rifiuto, tra l’altro, che in alcuni casi si è anche chiaramente configurato come un sostegno indiretto fornito da Erdogan a regimi o movimenti islamici estremisti.

Così l’Unione Europea è stata e rimane costantemente sottoposta al ricatto dei profughi-migranti che ha avuto il torto di accettare la prima volta invece di sigillare ermeticamente le proprie frontiere e mandare al diavolo chi proponeva il baratto. Ed in materia di ricatti si sa che chi cede una volta…..

Così l’intero Occidente ha dovuto accettare prima che Ankara si crogiolasse con l’ISIS in una apparente neutralità che in molte occasioni sconfinava in aperta complicità, poi che essa attaccasse, oltretutto servendosi per buona parte di milizie irregolari legate all’estremismo islamico, quei curdi che erano stati i nostri migliori alleati nel crogiolo medio orientale.

Turchi Afrin

Così una serie di decisioni unilaterali di Ankara ha portato il disordine nelle acque mediterranee, cambiato le carte sul tavolo in Libia, ridato fiato ad una “Fratellanza Musulmana” che si sperava ridotta agli estremi e, ultimamente, restituito alla condizione di moschea la chiesa di Santa Sofia ad Istanbul, nonostante ciò potesse suonare come uno schiaffo deliberatamente inflitto all’intero ecumene cattolico ed ortodosso.

Quanto all’Alleanza Atlantica poi, essa è stata direttamente ferita dalla decisione di Erdogan di acquistare armamenti controaerei e reattori nucleari in Russia, una decisione su cui il Presidente turco non ha più acconsentito a ritornare nonostante gli sia costata il blocco della prevista fornitura statunitense di aerei F-35.

Ce ne è abbastanza per iniziare a considerare la Turchia non più come un fedele alleato, come essa era vista ai tempi di quel controllo militare sul paese di fronte a cui le nostre democrazie storcevano il naso incapaci di rendersi conto della sua funzione di estrema garanzia, bensì come un pericolo immanente, un costante elemento di destabilizzazione per tutta quella area mediterranea che per la NATO è di estremo interesse?

Certamente sì, e sarebbe a questo punto anche il caso di chiederci che cosa ci stia a fare un membro di questo genere in seno ad una Alleanza che dovrebbe essere il faro della sicurezza, della stabilità e della democrazia in tutta l’area Nord Atlantica.

Oltretutto lo status di membro della Turchia potrebbe permetterle , in un domani che si spera resti ipotetico, di paralizzare qualsiasi eventuale azione dell’Alleanza che risulti  non di suo gradimento .
Non sembra comunque che l’urgenza del problema di che cosa fare di questo alleato a dir poco scomodo sia sentita come tale dai vertici della NATO che sino ad oggi, probabilmente procedendo su una linea condivisa con il “Grande Fratello” americano, si sono rifiutati di iniziare qualsiasi discussione anche informale al riguardo.

ESL a Afrin EPA

A chi poneva dall’esterno la domanda sono state cosi opposte costantemente le medesime due obiezioni. La prima, di carattere formale, consiste nel fatto che il Trattato del Nord Atlantico, pur prevedendo esplicitamente il caso e la procedura per il ritiro volontario di un membro dall’Alleanza, non si esprime invece sull’eventualità che esso venga invitato, o costretto, ad andarsene dalla volontà congiunta di tutti gli altri associati.

Quello che non viene mai indicato è però come un altro articolo sancisca come basterebbe la richiesta di un solo partner per aprire la via ad una eventuale revisione che consenta di rimediare alla mancanza.
La seconda obiezione, di carattere storico/pratico questa volta, è centrata poi sul modo in cui, anche nei momenti più delicati della sua e della loro storia, la NATO non abbia mai considerato provvedimenti tanto drastici nei riguardi dei propri membri.

Al massimo essa si è limitata ad applicare nei loro confronti quella specie di “periodo di quarantena” non dichiarato che nella pratica, anche se non formalmente, li escludeva dalle maggiori decisioni.
Si trattò di un provvedimento che venne a suo tempo utilizzato verso la “Grecia dei Colonnelli”, verso il “Portogallo della rivoluzione dei garofani ” ed anche nei riguardi dell’Italia, per lo meno nel 1976 allorché sembrava che il PCI di Berlinguer potesse diventare maggioritario nel nostro paese.

Anche qui vi è comunque qualcosa che non viene detto esplicitamente. La quarantena dei reprobi di turno fu resa infatti possibile da una silente approvazione del provvedimento da parte degli interessati che trovarono più conveniente tacere e continuare a rimanere membri piuttosto che finire col rischiare di mettere in discussione la loro appartenenza alla Alleanza, con tutto ciò che da tale condizione derivava.

Haka e Erdogan

Non sembra che in questo momento tale sia il caso nè della Turchia ne’ del Presidente Erdogan che ne è l’espressione pubblica di vertice.  Basta far mente locale alla feroce arroganza con cui egli ha definito “intromissione negli affari interni turchi ” le civili proteste di buona parte del mondo nei riguardi della trasformazione in moschea di Santa Sofia per rendersi infatti conto di come Ankara reagirebbe nel vedersi silenziosamente esclusa dai giochi maggiori della Alleanza.

Cosa fare allora? E per quanto continuare a sopportare un rosario di eventi e di forzature collegate l’una all’altra che ricorda molto tanto nel modo, quanto negli effetti, quanto infine nell’impatto sulla opinione pubblica occidentale quello che fu il comportamento delle grandi dittature europee negli anni Trenta del secolo scorso?

Certo, perdere la Turchia significherebbe lasciare quasi sguarnito il fianco sud-est della nostra Alleanza e ciò potrebbe rivelarsi poco prudente, almeno sino a quando rimarranno aperti con la Russia i vari contenziosi in atto.

Vi è però da considerare come, se non agiamo noi tempestivamente, domani potrebbe essere proprio la Turchia a decidere di andarsene.
Leopard turco in Siria al-Bab TWITTER

Basterebbe che il suo Presidente valutasse l’uscita dalla Alleanza come una mossa capace di rendergli parte di quel sostegno popolare che la caduta dell’economia sta facendogli perdere. E magari ad una mossa del genere potrebbe anche essere associata una politica di maggiore e più muscolosa presenza in tutta quella “dorsale verde” Islamica che attraversa il sud est dei Balcani.

Se ciò dovesse avvenire il vantaggio della iniziativa sarebbe tutto dalla sua  parte e noi saremmo ridotti ad una difensiva che, oltretutto, il numero troppo alto dei membri ed i troppi interessi parziali da salvaguardare della Alleanza renderebbero particolarmente difficoltosa .

Vogliamo che ciò accada? Pensiamoci bene ed evitiamo soprattutto di rifugiarci come al solito in una non decisione. Come diceva Andreotti, che in politica internazionale aveva le idee molto chiare, vi sono infatti momenti storici in cui ciò che viene gabellato come una non decisione consiste in realtà in una decisione ben precisa!

4479.- Politica estera e difesa europea, un tema fondamentale nello scenario geopolitico di oggi

È prassi parlare di politica estera, difesa e sicurezza europee senza anteporvi il problema istituzionale della mancanza di sovranità e di una costituzione per l’Europa.

Al centro degli interessi italiani c’è il Mediterraneo, con le dispute sullo sfruttamento delle risorse energetiche e i diritti di pesca. Ricordiamo la vicenda della SAIPEM, costretta a lasciare le acque di Cipro, malgrado un atto sottoscritto e la presenza di una fregata della Marina Militare. Abbiamo visto il patto sottoscritto tra Ankara e Tripoli e, ancora, Ankara e Atene tenere una serie di attività “provocatorie” nel Mare Egeo e nel Mediterraneo orientale, rivendicando i rispettivi diritti di esplorazione energetica. La Francia inviò la fregata Lafayette a monitorare le attività della Turchia nella regione e le sue navi svolsero esercitazioni congiunte con quelle della Grecia. La Grecia ha acquistato dalla Francia 24 caccia Rafale, 3 fregate e 3 corvette. Con questa “partnership strategica”da 3 miliardi di euro con la Grecia, la Francia ha compensato, almeno in piccola parte, lo smacco subito dall’Australia. Grecia, Turchia e Francia sono membri della NATO e, allora, è legittimo porsi la domanda se la NATO è ancora, da sola e in assoluto, l’alleanza che garantisce la difesa e la sicurezza degli europei. Ad esempio, non è facile ipotizzare lo schieramento di reparti dell’esercito turco sul Reno, anche se le tensioni nel Mediterraneo Orientale si devono leggere in chiave energetica. L’argomento dei diritti di sfruttamento energetico è stato al centro di un summit in seno al Consiglio Europeo fra i 7 Paesi del Sud dell’Unione europea, ovvero Italia, Spagna, Francia, Grecia, Portogallo, Cipro e Malta. Il summit era stato preceduto da un vertice, che si era tenuto il 10 settembre 2020 a Porticcio, in Corsica, sotto l’egida del presidente francese, Emmanuel Macron. Al centro delle tensioni sono state le “azioni provocatorie turche nel Mediterraneo orientale”, da che, il presidente francese e il primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis hanno affrontato il tema della cooperazione in materia di Difesa.

L’esplorazione sottomarina ha aperto nuovi scenari in Mediterraneo. Stiamo assistendo a programmi navali importanti e al riarmo dei paesi rivieraschi: l’Egitto e l’Algeria, per esempio, si sono dotati di navi portaelicotteri e la Russia e la Turchia si stanno radicando in Libia. È nota la situazione di intolleranza dei libici e dei turchi nei confronti dell’ospedale dell’esercito italiano a Misurata, la cui base navale è stata concessa alla Turchia per 99 anni.

Nei confronti di Atene, le rivendicazioni di Ankara si fondano su aspetti geografici. Le coste della Turchia si sviluppano nel Mediterraneo orientale più di quelle di ogni altra nazione, ma l’estensione della piattaforma continentale greca, con le sue tante isole prossime alla frontiera turca, riduce la sua zona marittima a una stretta striscia di acque. Per esempio, l’isola greca di Castelrosso dista 570 km dalla Grecia continentale, ma si trova a 2 km dalla costa meridionale della Turchia. Erdogan non riconosce la Convenzione di Montego Bay, firmata nel 1982 davanti alle Nazioni Unite e sostiene che “La richiesta della Grecia di una zona di giurisdizione marittima di 40.000 chilometri quadrati a causa dei 10 chilometri quadrati di terra occupati dall’isola di Kastellorizo è assolutamente illogica”.

La contesa fra Grecia e Turchia non è di oggi e nemmeno di ieri. Ricordo, in una mia visita a una base aerea greca, una quarantina di anni fa, che il comandante lasciò la base alle ore 20, ma il comandante in seconda lo aveva già sostituito per la notte da 10 minuti.

Lo sfruttamento dei diritti di pesca

Non meno importante del disaccordo sui diritti di sfruttamento delle risorse di idrocarburi nella regione del Mediterraneo orientale è lo sfruttamento dei diritti di pesca in tutto il Mediterraneo, che necessita della cooperazione tra gli Stati costieri, anzitutto nella definizione delle rispettive Zone Economiche Esclusive, ZEE. Ricordiamo l’exploit di Haftar con il sequestro di due pescherecci italiani e il permanere dell’agguato di Macron sulla zona di pesca, secolare, del gambero rosso, con l’avvallo di Gentiloni; ma anche le pretese dell’Algeria sulle acque sarde e, recentemente, le dispute sorte sui diritti di pesca nella Manica, in seguito alla Brexit.

È appena di due giorni fa la convocazione dell’ambasciatrice francese Catherine Colonna da parte del ministro degli Esteri del Regno Unito Liz Truss. Oggetto della convocazione, le tensioni sorte con la Francia sui diritti di pesca, negato lo scorso mese. La Francia ha rispettivamente multato e costretto ad attraccare a Le Havre, nel Canale della Manica, due pescherecci inglesi, cui era stato negato il permesso di pesca in quelle acque.

Prima di questo, il 17 Settembre scorso, la Commissione europea ha adottato una proposta sulle possibilità di una pesca sostenibile per l’anno 2022 sia nel Mar Mediterraneo sia nel Mar Nero. La proposta promuove la gestione sostenibile degli stock ittici nel Mar Mediterraneo e nel Mar Nero, nel rispetto degli impegni politici già assunti.

Sulla creazione di una politica estera e di difesa comune europea. Video.

Nei video che seguono Roberto Castaldi trascura l’aspetto istituzionale e si concentra sulla situazione geopolitica, condividendo, di fatto, il disegno tedesco di europeizzare la Force de Frappe e il seggio francese all’ONU.

By:  Redazione e Roberto Castaldi |  EURACTIV Italia

Il dibattito sul tema della creazione di una politica estera e di difesa comune europea, di cui ha parlato anche il presidente del Consiglio Mario Draghi, resta fondamentale e di attualità. Lo scenario geopolitico continua a deteriorarsi, come dimostrano i sorvoli di aerei cinesi su Taiwan e russi sui paesi baltici.
Gli stati europei non sono in grado di garantire la sicurezza separatamente: serve una responsabilità piena dell’Ue in materia di politica estera e di difesa. Serve un’europeizzazione del seggio francese all’Onu.

Serve una politica estera comune per rendere l’Europa rilevante sul piano internazionale

I leader europei hanno discusso martedì 5 ottobre della difesa europea, dibattendo sulla necessità di potenziare la propria capacità di agire in maniera indipendente oppure se rafforzare la cooperazione con la Nato, ma senza giungere a un risultato. Gli europei sembrano accorgersi delle vicende internazionali solo quando c’è una grande crisi che occupa le prime pagine dei giornali. Così di fronte alla fuga dell’Afghanistan si è tanto parlato della necessità di una difesa europea e di una politica estera comune, ma poi non si è concretizzato nulla. È necessario unire l’Europa dal punto di vista della sicurezza e della difesa, altrimenti continuerà a non riuscire a proiettare stabilità nell’area di vicinato e a rimanere scarsamente rilevante sul piano internazionale.

3489.- Macron scioglie il gruppo ultranazionalista turco dei Lupi Grigi. Erdoğan: Ankara “risponderà con la forza”

Mentre aspettiamo di capire quale sarà la politica della NATO verso la Turchia dopo Trump, Emmanuel Macron fa fronte all’attacco dell’Islam, fomentato da Recep Tayyip Erdoğan. Lo scontro è frontale.

Ci mancavano pure i Lupi Grigi, i famigerati nazionalisti dell’ultra destra parafascista e xenofoba turca, che spesso si sono macchiati di crimini efferati e che sono tra i sostenitori del sultano Recep Tayyip Erdoğan.  Emmanuel Macron e Recep Tayyip Erdoğan sono coinvolti in uno scontro che, molto possiamo dire certamente voluto e cercato da entrambi e che trova radice, da un punto di vista, nella politica sempre più aggressiva, espansionista di Erdoğan, da un altro punto, nella debolezza politica della Turchia, come potenza regionale, impossibile a sostenere le aspirazioni del cosiddetto neo sultano. Non dimentichiamo che, con l’eccezione dei droni, le proiezioni di potenza turche in Siria, in Libia, nel Karabach, hanno visto l’impiego di un arsenale datato della NATO, risalente alla Guerra Fredda. Nemmeno dimentichiamo, che nella regione di cui il sultano varrebbe diventare arbitro e padrone si intrecciano gli interessi delle vere potenze.

Per l’Europa, i soli a fare fronte a Erdoğan sono i greci e Emmanuel Macron.

Alle spalle dell’attivismo turco c’è la cosiddetta Nuova Via della Seta, dalla Cina verso il Mediterraneo e l’Europa. In questi ultimi tre anni, la Cina ha investito tre miliardi di dollari in Turchia e, dopo la Russia, è il secondo più grande importatore di prodotti turchi. Il progetto della Nuova Via della Seta è stato solo rallentato dalla pandemia e costituisce una occasione unica per i paesi del Medio Oriente. La Grande Turchia deve, però, fare i conti con Israele e con l’Arabia Saudita. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, celebrando alla Casa Bianca la firma degli Accordi di “Abramo” da parte di Israele, Emirati arabi uniti e Bahrein per la normalizzazione delle loro relazioni, aveva, anzi, ha messo la prima pietra sul Nuovo Medio Oriente. Ora, mentre la normalizzazione dei rapporti degli arabi con Israele ha fermato l’annessione dei Territori palestinesi e permetterà agli Emirati Arabi Uniti di sostenere con maggior forza i palestinesi nella realizzazione di un loro Stato indipendente, l’intenzione di Erdoğan, malgrado le smentite, senz’altro strumentali, sarebbe di annettere o sottomettere territori, ridisegnare a pro suo i confini degli stati inventati nella regione medio orientale dagli accordi di Sykes-Picot  tra i governi del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda e della Repubblica francese. La sconfitta di Trump e della sua ferma leadership non dovrebbero fermare questo processo.

In tutto questo divenire, le continue iniziative aggressive di Recep Tayyip Erdoğan costituiscono un problema e, per la Turchia, un boomerang, a parere nostro. Erdoğan è abile a collocarsi dove gli interessi contrapposti lasciano spazi alla sua ambizione e alla sua necessità di alimentare il favore dei turchi per la sua politica. Proprio gi interessi contrapposti, hanno fatto sì che Francia e Turchia siano giunte ai minimi termini. Nel Nagorno-Karabakh, Erdoğan ha armato, sostenuto e condotto le operazioni degli azeri e, con vari progetti, mira a mantenere la sua influenza sull’Azerbaijgian. Qui, Erdoğan ha dovuto sottomettersi a Putin. In Medio Oriente, Ankara sta deliberatamente lavorando per una autonomia dall’Occidente e dalla Russia. Un’ambizione da tavolo del poker. Nel recente conflitto del Nagorno-Karabakh, la politica dell’Eliseo è stata a favore dell’Armenia e l’impegno militare di Ankara nel conflitto ha acuito le tensioni. In Libia, Erdoğan ha comprato da al-Sarraj una posizione privilegiata, promettendo di debellare l’esercito fedele a Khalifa Haftar, senza però riuscirci. Lo avessero lasciato libero di strafare, avrebbe trasferito in Libia l’esercito turco, ma non demorde. Di certo, a Erdoğan non manca il coraggio che difetta al governo italiano. Emblematico lo sfratto dato all’ospedale militare italiano di Misurata, ribadito, ogni mese, da una raccomandata al comandante della struttura. La Turchia, dopo 108 anni, è tornata in Libia e ha fatto di Misurata una sua base navale. A giugno, la Turchia, aveva accusato la Francia di aver appoggiato le forze del generale Khalifa Haftar e di aver violato quanto deciso dall’Alleanza Atlantica e dalle Nazioni Unite. Il Ministro della Difesa aveva parlato molto chiaramente di “un problema turco” da affrontare in seno alla Nato. Considerate anche la cacciata dell’ENI dalle acque di Cipro, i tentativi di accaparramento delle risorse energetiche, le frizioni della Turchia con la Grecia su queste risorse e sull’Asia Minore e le manovre congiunte fra le flotte francese e greca, in chiave anti turca, niente di più vero. Aspettiamo di vedere come Biden affronterà il problema turco denunciato da Macron e non da Merkel. Trump, sorpassando anche l’ONU, ha fatto pensare a un futuro in cui arabi e israeliani, musulmani, ebrei e cristiani possano vivere insieme, pregare insieme e sognare insieme, vicini, in armonia”. Il Corano non dice questo.

Mercoledì la Turchia ha avvertito che avrebbe “risposto con forza” allo scioglimento da parte della Francia dell’organizzazione ultranazionalista turca “I lupi grigi”, definendo la mossa una “provocazione”. “Sottolineiamo che è necessario tutelare la libertà di espressione e di riunione dei turchi in Francia (…) e che risponderemo nel modo più forte possibile a questa decisione”, ha dichiarato in un comunicato il ministero degli Affari esteri turco.

DRHugo Rouet. Il segno distintivo dei Lupi Grigi, noti col nome ufficiale di Ülkücüler, sono le corna, in alto, con cui, però, si rappresentano le orecchie del lupo.

Il decreto che scioglie i Lupi Grigi è una mossa di Macron contro Erdoğan

La decisione è stata assunta in seguito ad un atto vandalico che ha colpito un memoriale del genocidio armeno situato nei sobborghi della città di Lione. Il memoriale è stato imbrattato da una serie di graffiti tra i quali ci sono la firma dei Lupi Grigi e le iniziali del Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. La recrudescenza delle attività del gruppo fa seguito anche alle polemiche fra Francia e Turchia seguite all’appello di Macron a mettere fine al “separataismo islamico” e all’Islam radicale in Francia. Il presidente turco Erdoğan aveva invitato l’omologo francese a “farsi esaminare il cervelllo”, affermazioni definite “inaccettabili” tanto dall’Eliseo che dall’Unione Europea. Non dimentichiamo gli efferati delitti compiuti da terroristi islamici in Francia, contro cittadini indifesi e innocenti e contro le chiese. Questo attivismo violento dimostra, che l’Islam propugnato da Erdoğan persegue i suoi propositi imperialisti, con la consueta ipocrisia, anche avvalendosi di cellule eversive, dormienti o quasi.

Chi sono i lupi grigi fascisti che sostengono Erdoğan

Il gruppo viene definito idealista perché tra i suoi fondamenti ideologici ci sono l’ideale del panturchismo (o turanismo, e cioè l’unione di tutte le popolazioni di cultura turca) e la xenofobia nei confronti delle minoranze etnico-religiose in Turchia e nei paesi confinanti. Il gruppo accompagna al panturchismo, un generale atteggiamento militarista e parafascista. I lupi Grigi sono giunti in Germania, Francia, Austria, Svizzera e nei Paesi Bassi, a seguito di una messa al bando in patria, dedicandosi prevalentemente al contrabbando di eroina, alla gestione di moschee, alle rapine e all’organizzazione di eventi, apparentemente, culturali, di copertura. Soltanto dal 1997, una nuova leadership del movimento li ha portati su posizioni, apparentemente, più moderate. I lupi Grigi sono tra i sostenitori di Recep Tayyip Erdoğan. Infatti, il gruppo è affiliato al Partito del Movimento Nazionalista, già alleato del Partito della Giustizia e dello Sviluppo guidato da Recep Tayyip Erdoğan e questo spiega la durezza della reazione del ministro  per gli affari esteri Mevlüt Çavuşoğlu. 

A Lione e a Digione, Manifestazione dei nazionalisti turchi nel “segno” dei lupi grigi

Da Globalist, 4 novembre 2020 

Una mossa importante e inevitabile: la Francia ha messo ufficalmente al bando l’organizzazione nazionalista turca dei “Lupi grigi”, su decisione adottata in Consiglio dei Ministri dal presidente francese Emmanuel Macron: lo ha reso noto il ministro degli Interni, Gerald Darmanin.
“Come dettagliato nel decreto che ho presentato, l’organizzazione incita all’odio ed è implicata in atti violenti”, scrive Darmanin elencando le ragioni che hanno portato a “decretare lo scioglimento del gruppo”. In particolare, nel decreto viene sottolineato che il gruppo incitava alla discriminazione, all’odio e alla violenza contro persone di origine curda o armena, come è capitato di recente a Lione. Per chi manifesta, la pena prevista è fino a tre anni di reclusione, più una multa di 45mila euro.

Nelle zone di Lione e Digione, malgrado il lockdown in atto, i militanti del gruppo paramilitare ultranazionalista turco dei Lupi Grigi si sono riversati in strada a decine, urlando “Allah Akbar uccidiamo gli armeni”, scontrandosi con la polizia. Nelle vie delle cittadine di Vienne e del sobborgo lionese di Décines-Charpieu, nei quartieri abitati da armeni, centinaia di turchi e azeri, organizzati dai Lupi Grigi e armati di spranghe, martelli e coltelli, avevano dato luogo a una caccia all’uomo, dopo che un’ottantina di armeni, muniti di bandiere armene e striscioni avevano picchettato l’autostrada dalle 7,30 del mattino per richiamare l’attenzione del pubblico alla guerra del Nagorno Karabakh: “vogliamo impedire un secondo genocidio, vogliamo la pace”. Décines-Charpieu ospita un memoriale del genocidio armeno. I Lupi Grigi sono foraggiati da Erdoğan. Quella dei turchi era stata spacciata per una “contro-manifestazione”, ma si è palesata come un vero attacco all’armeno e ai negozi armeni da devastare, fallito solo per la massiccia presenza della polizia francese.

Décines-Charpieu, sobborgo lionese, dove il 29 ottobre 2020 si è scatenata la caccia dei turchi e degli azeri all’Armeno.

La comunità armena di Décines-Charpieu aveva denunciato l’azione dei Lupi Grigi e chiesto la messa al bando dell’organizzazione nazionalista turca. “Questi gruppi, foraggiati dal presidente turco, stanno indebolendo il nostro modello di società”, aveva dichiarato Sarah Tanzilli, presidente della Casa della cultura armena di Décines. “E’ la stessa logica in base alla quale si arriva all’odio delle caricature. Sono delle pressioni volte a limitare il nostro diritto di libertà d’espressione, in un Paese in cui questo diritto è fondamentale”. Per questo diritto di libertà d’espressione sono stati orridamente assassinati il prof Patry e le vittime di Nizza.

Gli attacchi di Parigi, Nizza e Vienna sembrano aver scosso l’Europa. Per la Germania di Merkel e della sua nutrita comunità turca, l’Europa e la Turchia hanno reciproco bisogno tra di loro. Francamente, faremmo a meno della Turchia, della Nuova Via della Seta e degli assatanati per non sentire più parlare di questa barbarie.

Misurata è turca per 99 anni! La Turchia ha ottenuto di fare del porto di Misurata una sua base navale e anche l’utilizzo della base aerea di al-Watya. Giuseppe Conte non è al livello di Recep Tayyip Erdoğan. Emblematico lo sfratto dato all’ospedale militare italiano di Misurata, ribadito, ogni mese, da una raccomandata al comandante della struttura.

3399.- Agenzia Nova: “Mediterraneo orientale, gli Usa accusano la Turchia: mina “deliberatamente” la ripresa del dialogo”

Importante presa di posizione della Casa Bianca, riportata da Agenzia Nova, che si aggiunge a quanto dichiarato dal ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas, anche a nome dell’Ue in questo semestre tedesco. È la fine dell’avventurismo di Erdogan, che, per restare in sella al suo partito, ha bisogno di alimentare e sfruttare le tensioni in Medio Oriente e nel Mediterraneo Orientale.

Mediterraneo orientale, gli Usa accusano la Turchia: mina "deliberatamente" la ripresa del dialogo

New York, 13 ott 15:38 – (Agenzia Nova) – Gli Stati Uniti condannano fortemente la decisione della Turchia di riprendere “unilateralmente” ad alimentare le tensioni nel Mediterraneo orientale, complicando “deliberatamente” la ripresa dei colloqui esplorativi con la Grecia. E’ quanto si legge in una nota del Dipartimento di Stato Usa. “Le coercizioni, le minacce, le intimidazioni e le attività militari non risolveranno le tensioni nel Mediterraneo orientale”, afferma il Dipartimento di Stato Usa dopo il ritorno della nave turca Oruc Reis a largo dell’isola greca di Castelrosso (Kastellorizo). “Richiamiamo la Turchia a cessare queste provocazioni calcolate e ad avviare immediatamente i negoziati esplorativi con la Grecia”, afferma nella nota la portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Morgan Ortagus, secondo cui “le azioni unilaterali non possono costruire la fiducia e non produrranno soluzioni durature”. 

La Grecia, secondo quanto affermato nelle scorse ore dal portavoce del governo Stelios Petsas, non si impegnerà nei colloqui esplorativi con la Turchia fintanto che la nave per le esplorazioni sismiche Oruc Reis rimane nelle sue acque territoriali. Secondo quanto riferito questa mattina dall’agenzia di stampa greca “Ana-Mpa”, la nave turca Oruc Reis partita ieri dal porto di Antalya è entrata nelle scorse ore in un’area che rientra nella piattaforma continentale della Grecia, trovandosi a circa 35 miglia nautiche a sud dell’isola di Castelrosso (Kastellorizo). Turchia e Grecia avevano concordato una ripresa dei colloqui esplorativi per risolvere le dispute bilaterali, dopo uno stallo di quattro anni, interpretando come un segnale di distensione il ritiro della Oruc Reis e di altre imbarcazioni dalle aree di confine nel Mediterraneo orientale. “La Turchia deve porre fine al gioco di alternanza tra distensione e provocazione” nel Mediterraneo orientale “se, come ha più volte affermato, il governo è interessato a colloqui” con la Grecia e Cipro, ha dichiarato in queste ore il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas in partenza per Atene e Nicosia, dove oggi si trova in visita. © Agenzia Nova – Riproduzione riservata

3334.-Turchia: Arroganza senza limiti In campo occidentale sembra che l’atteggiamento di Erdogan venga banalizzato attraverso un atteggiamento di ‘’business as usual’’

Buonasera Comandante.


(Mario Arpino) 07-09-2020 – La Turchia minaccia Atene e pare respingere qualsiasi compromesso sui suoi diritti sulle riserve energetiche nel Mediterraneo orientale; un convoglio di mezzi corazzati ha lasciato il confine siriano per essere trasferito via treno dal porto di Iskenderun a Edirne. 
Nato e UE sembrano non prendere molto sul serio la questione delle violazioni e minacce di Erdogan alla sovranità di Grecia e di Cipro; e tale assenza sta creando una crescente disaffezione dei cittadini greci verso la stessa come ci fa notare Marco Florian su Facebook, che, esperto delle questioni relative alle ZEE e dei rapporti tra Grecia e Turchia, sulla questione dice: “Se (ripeto se) la notizia è reale (cerco conferme), l’esercito turco sta spostando non 40 APC ma 2 intere brigate corazzate al confine greco“.
Ne parliamo con il generale Mario Arpino, già capo di stato maggiore dell’Aeronautica dal 1995 al 1999 e poi della Difesa, sino al 2000.
Generale, grazie per essersi reso disponibile a parlare con noi della situazione nel Mediterraneo. Forze corazzate e artiglieria semovente si stanno spostando nella porzione europea della Turchia, verso Edirne. Erdogan, a Istambul, nel contesto di un evento civile pronuncia frasi minacciose verso la Grecia. Dobbiamo preoccuparci?
Gli elementi di preoccupazione ci sono e aumentano ogni giorno, anche se in campo occidentale (ricordiamoci che stiamo assistendo ad una contesa tra “alleati”) sembra che il tutto venga banalizzato attraverso un atteggiamento di business as usual. Ma non è cosi. Il luogo, la situazione, altri eventi nell’area, la trasformazione geopolitica in atto sono elementi coinvolgenti, anche se al momento lo spostamento dei corazzati viene fatto passare come un’ordinaria esercitazione nazionale. 
La parallela esercitazione navale, lanciata in prossimità di Cipro con lo scopo dichiarato di “migliorare la collaborazione” con le forze turco-cipriote della Repubblica del Nord (illegale, riconosciuta solo dalla Turchia che l’aveva creata manu militari) ha assunto il nome malaugurante di “Tempesta Mediterranea”. Il discorso di Erdogan a Istambul è stato ricco di passaggi minacciosi quali “La Turchia e il popolo turco sono preparati a qualsiasi eventualità e conseguenza”. E, ancora., rivolgendosi alla Grecia, “…o capiscono con la diplomazia e la politica o glie lo faremo capire sul campo, e sarà molto doloroso per loro…”. Se mantenere la calma è cosa buona, non preoccuparsi sarebbe un errore
”.
Al contendere tra Grecia e Turchia stiamo assistendo da un centinaio d’anni. Con Erdogan, tuttavia, l’arroganza turca sembra non avere limiti. Guerra in vista nel Mediterraneo? Qual è il nocciolo del contenzioso?
In effetti, può anche darsi che la virulenza del discorso a Istambul fosse diretta a drogare le masse degli scontenti, ma è davvero qualcosa di antipatico: assistiamo a un’arroganza che sembra non avere limiti. Stancamente e con scarsa determinazione, in Europa qualche tentativo di mediazione c’è, ma è poco convincente. Nessuno vuole una guerra, nemmeno la Turchia, ma quando si gioca con le armi l’incidente non si può mai escludere. Soprattutto se chi minaccia lo fa sotto la pressione di una disaffezione interna che, assieme ad una situazione economico-finanziaria a dir poco disastrosa, può essere la causa immediata di questa nuova ondata di aggressività.
Da questa, e dalla conseguente necessità di reperire risorse in qualsiasi modo, si risale alle cause geopolitiche. Queste sono in parte antiche ed in parte nuove, come la scoperta piuttosto recente di giacimenti sottomarini che fanno gola a molti. La differenza è che mentre la Grecia (il cui territorio abitato include oltre 220 isole) aveva firmato le risoluzioni internazionali sulle zone economiche esclusive (EEZ, con estensione fino a 200 miglia dalla linea di costa e delle acque territoriali da 6 a 12 miglia), in particolare la convenzione di Montego Bay (10 dicembre 1982) e l’accordo di applicazione (29 luglio 1994), mentre la Turchia, trovandosi per via delle isole in svantaggio geografico, non ha mai voluto firmare nulla.
Si ritiene quindi libera di sottoscrivere con chiunque accordi diversi da Montego, come ha fatto con la Libia di al-Serraj e con la Repubblica turca di Cipro, appositamente creata. Quindi, siccome in punta di diritto di fronte alla Corte internazionale di Giustizia sarebbe perdente, se vuole acquisire risorse sottomarine che non le competono, ha solo due possibilità: un accordo con la Grecia o l’uso della forza. C’è anche una terza possibilità, che fatichiamo a descrivere perché definibile attraverso una parola odiosa, mediante la forzatura ad accettare scambi non congrui. Il “rubinetto” del flusso di migranti, per esempio, è un’arma tanto vile, quanto potente
”.
Non pare strana situazione, nella quale due membri della Nato minacciano di venire alle mani senza che l’Alleanza e l’Unione europea vadano al di là di burocratiche raccomandazioni, gli Stati Uniti siano in altro affaccendati e La Russia di Putin, seduta sulla sponda del fiume, taccia e resti in attesa?
Non è strano per niente, si sta verificando davvero, sotto i nostri occhi. Nelle relazioni internazionali è un caso unico: avviene tra membri di un’Alleanza che ha funzionato per svariati decenni e che, sebbene con il respiro corto, continua a funzionare. Si può comprendere succeda tra “nemici” come Stati Uniti e Corea del Nord, che continuano a ricattarsi a vicenda. Ecco, “ricatto”, forse è questa la parola odiosa che non volevo pronunciare. L’Unione Europea, in questo momento a guida tedesca, con tre milioni di turchi residenti in Germania non può permettersi di alzare troppo la voce. La Francia lo fa, e si è portata a rimorchio un’Italia riluttante, che nel 2018 si era lasciata cacciare dai turchi una nave attrezzata dell’Eni da un’area di prospezione concordata con il governo legittimo di Cipro. Ma la Francia, si sa, ambirebbe esercitare in Europa e nel Mediterraneo la parte degli Stati Uniti d’America, in tutt’altro affaccendati. La Russia di Putin non ha interesse a muoversi: va bene cosi, si avvantaggia senza compromettersi”. 
Ma allora, Erdogan potrà fare per sempre il tempo bello e quello cattivo?
Per ora, purtroppo, la risposta è un amarissimo si. Non si vede, al momento, un Cicerone europeo che lanci un potente quousque tandem, Catilinae, abutere patientia nostra? Fino a quando, o Erdogan, abuserai della nostra pazienza? Pazienti anche noi, attendiamo che gli Usa si liberino del problema elettorale. Può darsi che, dopo, qualcosa si muova. Un primo segnale ad Ankara, via Cipro, è già arrivato da Donald Trump.

Maria Clara Mussa

3298.- Erdogan non è un alleato su cui contare. Ci vorrà un’altra Lepanto?

Egitto e Grecia raggiungono un accordo nel Mediterraneo orientale che intende fare fronte alle tensioni con la Turchia. A quali principi del diritto del mare fa riferimento la politica intransigente di Erdogan? Lo chiarirà una sentenza.

2020-08-07

Le FREMM: il tipo di modello della fregata navale che verrà ceduta all’Egitto dall’Italia.

Questo giovedì, Egitto e Grecia hanno firmato un accordo per delimitare le frontiere marittime tra i due paesi del Mediterraneo. Il ministero degli Esteri egiziano ha annunciato, tramite il suo account ufficiale su Facebook, che Sameh Shoukry, ministro degli affari esteri, ha ricevuto giovedì il suo omologo greco, Nikos Dendias al Cairo.

Una dichiarazione del ministero afferma che Shoukry ha ricevuto la sua controparte greca al Cairo per discutere le modalità per rafforzare le relazioni bilaterali e il coordinamento su questioni di interesse comune, in preparazione alla firma di un accordo per designare i confini marittimi tra i due paesi.

È interessante notare che l’Egitto e la Grecia hanno deciso di riprendere i negoziati sull’accordo per delimitare i confini marittimi tra i due paesi durante una visita del ministro degli Esteri greco Nikos Dendias a metà giugno.

Questo passo diplomatico arriva anche in un momento in cui la Turchia ha ampliato la sua zona d’interesse nel Mediterraneo orientale, che non è stata approvata ed è stata condannata da Grecia, Egitto, Cipro e Francia. L’Italia non ha al momento un governo all’altezza della situazione e non viene considerata.

Ma Erdogan rifiuta il nuovo accordo egiziano-greco nel Mediterraneo

La Turchia dichiara “non valido” il nuovo accordo egiziano-greco nel Mediterraneo

Il ministero degli Esteri turco ha affermato giovedì sera che l’accordo per delimitare i confini marittimi egiziano-greci è da considerarsi “non valido” per Ankara, aggiungendo che viola anche i diritti marittimi libici.

Il ministero degli Esteri turco ha dichiarato: “L’area specifica all’interno dell’accordo greco-egiziano si trova all’interno della piattaforma continentale turca”.

2020-08-07

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha affermato venerdì che l’accordo greco-egiziano sulla demarcazione dei confini marittimi è “inutile e vuoto”.

Il presidente turco ha sottolineato che il suo paese continuerà la sua esplorazione del Mediterraneo orientale, sottolineando che è stata interrotta in precedenza su richiesta del cancelliere tedesco Angela Merkel, ma la Grecia e Ankara non si impegneranno: “Quindi abbiamo inviato una nave per esplorare il gas. ” Erdogan, provocatoriamente, ha continuato: “Non abbiamo bisogno di negoziare con coloro che non hanno alcun diritto, avendo in conto quale sia la validità della legge marittima”.

Non è chiaro se e a quali principi del diritto marittimo faccia riferimento il presidente turco. L’art. 76 e seguenti della Convenzione di Montego Bay, riferendosi alla piattaforma continentale, fa salva la libertà di tutti gli stati di utlizzare le acque e lo spazio atmosferico sovrastanti (art.78). Lo stato costiero ha il diritto esclusivo di sfruttare tutte le risorse della piattaforma (art.77), intesa come quella parte del suolo marino contiguo alle coste che costituisce il naturale prolungamento delle terre emerse, fino a che non sprofonda negli abissi marini. Il diritto esclusivo di esercitare il potere di governo sulle attività di sfruttamento, viene acquistato in modo automatico, a prescindere da qualunque occupazione effettiva della piattaforma. Il potere di governo che ne discende trova la sua applicazione soltanto e nella misura necessaria per controllare e sfruttare le risorse della piattaforma. Ha, cioè, natura funzionale.

Il problema che viene posto da Ankara è la delimitazione dei confini della piattaforma fra stati contigui o che si fronteggiano. Allontanandosi dal criterio della equidistanza adottato dalla Convenzione di Ginevra, la Corte Internazionale di Giustizia, ha sentenziato, nel 1969, che la delimitazione può essere effettuata soltanto attraverso accordi fra gli stati interessati, che fossero ispirati a principi di equità. Sorge la domanda se accordo c’è, a che serve l’equità? La Convenzione di Montego Bay (art.83) ha aderito all’opinione della Corte e, tuttavia, resta da definire, proprio equitativamente, come delimitare i confini marittimi di uno stato la cui proiezione sottomarina si sviluppi in un piattaforma molto ridotta. Ecco, dunque, a che serve l’equità. Andiamo, quindi, al mare internazionale.

Diciamo che il mare internazionale è l’unica zona nella quale ancora viga ancora e trovi applicazione il vecchio principio della libertà dei mari. Infatti, parlando di mari internazionali e di aree internazionali dei fondi marini, negli spazi marini oltre la zona d’interesse economico esclusiva cessa ogni tutela degli interessi degli stati costieri. L’attribuzione delle risorse della zona economica esclusiva allo stato costiero deve essere salvaguardata e, tuttavia, non pregiudicherà la possibilità per gli altri stati di partecipare alle altre possibili utilizzazioni della zona: tutti gli altri stati continueranno a godere del diritto di navigazione, di sorvolo e di posa dei cavi sottomarini e degli oleodotti.

Il presidente turco seguendo, invece, una sua logica intransigente, ha aggiunto che il suo Paese continuerà ad aderire agli accordi firmati con la Libia e “ad attuarli con grande fermezza”. Bleffa, si atterrà alla sentenza della Corte Internazionale che sarà richiesta da Atene o rischierà impunemente la guerra? Di certo, per ora, Erdogan ha seppellito la NATO. Sia come sia, giovedì, la Grecia e l’Egitto hanno firmato questo accordo sulla demarcazione dei loro confini marittimi nel Mediterraneo, che è una risposta alle azioni della Turchia nella regione e della quale Erdogan dovrà tenere conto, forse, non tanto per la effettività della determinazione di Grecia e Egitto a difendere i loro diritti con le armi, quanto per gli interessi in gioco delle vere potenze. E la Turchia non è e non sarà mai una potenza.

La Grecia intende citare in giudizio la Turchia in un tribunale internazionale per la questione del Mediterraneo orientale

2020-08-06

Dal Partito popolare europeo – A23A8701, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=77339957

Il primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis, ha annunciato che il suo Paese è pronto a rivolgersi alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia, sulla questione della delimitazione delle aree marittime.

Durante una partecipazione virtuale all’Aspen Security Forum, giovedì, Mitsotakis ha dichiarato: “Ho incontrato due volte il presidente Erdogan da quando ho assunto la carica di primo ministro, gli ho detto del nostro desiderio di rinnovare le relazioni greco-turche, perché resteremo vicini per sempre – parole sagge -. Non credo davvero che ci sia inimicizia tra il popolo greco e quello turco. Purtroppo non ho ricevuto la risposta che mi aspettavo. ”

Il primo ministro greco ha sottolineato che la Grecia considera nulla la firma di un memorandum d’intesa tra Turchia e Libia, che viola chiaramente, secondo Atene, i diritti sovrani della Grecia, perché non riconosce la zona economica esclusiva della Grecia, isole comprese. “Il comportamento della Turchia, a mio avviso, è destabilizzante e questo non è solo un problema per la Grecia. È un problema per l’Europa e penso che sia anche un problema per gli Stati Uniti ”, ha detto Mitsotakis. Ha continuato: “Sono stato molto onesto con la Turchia e la comunità internazionale, e ho detto che se non riusciremo a raggiungere un accordo faremo ricorso al tribunale dell’Aja, concordiamo che questa è l’unica soluzione praticabile e rispetteremo la decisione della Corte. E rispettare il diritto internazionale, penso che sia un approccio ispirato a equità, se non potremo risolvere il conflitto tra noi . “Penso che la Turchia si stia comportando in modo inaffidabile all’interno della NATO. Ad esempio, la questione dell’acquisto di missili S-400 solleva tutte le nostre preoccupazioni, compresi gli Stati Uniti, perché minaccia l’F-35, che è parte integrante della NATO come il velivolo dell’alleanza più avanzato ”, ha aggiunto.

Solo giovedì, gli aerei turchi hanno violato lo spazio aereo greco 33 volte

2020-08-06

Giovedì scorso, le autorità militari greche hanno affermato che otto aerei militari turchi hanno effettuato, solo mercoledì, un totale di 33 violazioni dello spazio aereo greco. È quanto riportato dalla pubblicazione, Ekathimerini. Atene ha confermato che 6 F-16 e due bimotori CASA CN-235 hanno effettuato voli non autorizzati sulle isole Nord-Est, centrali e Sud-Est del Mar Egeo, violando anche la Regione Informazioni Volo, FIR, di Atene 4 volte.

Le autorità militari greche hanno sottolineato che gli aerei turchi sono stati identificati e monitorati o intercettati, secondo le regole di ingaggio internazionali.

Queste violazioni da parte dell’aeronautica militare turca tendono a aumentare la tensione tra Ankara e Atene, poiché la prima continua i suoi progetti espansivi nel Mediterraneo orientale, nonostante gli avvertimenti di diverse nazioni, compresa, naturalmente, la Grecia.