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5966.- Riguardo ai recenti fatti

I globalisti hanno tenuto le braci accese per anni in Ucraina, in Palestina, come a Taiwan. Ora, hanno perso in Ucraina e stanno già attaccando in Palestina.

Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Leonardo Guerra, 10 Ottobre 2023

guerra esplosione
Smoke rises following Israeli strikes in Gaza, October 7, 2023. REUTERS/Mohammed Salem

di Leonardo Guerra

Consentitemi una breve considerazione sulla guerra attualmente in corso fra Israele e Hamas.

I globalisti, i cosiddetti potenti del mondo, da moltissimi anni, probabilmente da sempre, creano polarizzazione sociale in modo scientifico e sistematico, soprattutto nei paesi stabili. Creando, quindi, e alimentando lo scontro fra le due fazioni estreme, contrapposte. Destabilizzano società consolidate e distruggono civiltà.

Israele e Palestina sono in guerra perenne da 70 anni e quest’area del mondo funziona da vero “incubatore” per conflitti in tutto il globo.

Sanno bene anche loro che la sola via di soluzione è la pace e, infatti, si guardano bene dall’ intraprendere tale possibilità.

Stanno trasformando il mondo intero in una Babele e una nuova Babilonia.

Lo stanno facendo usando tecnologie militari potentissime e molte di queste sono coperte da segreto militare. Mentono sapendo di mentire.

Sanno come manipolare le menti e corrompere persone, governi e organizzazioni.

Sul caos, sulla guerra e sulla morte (ne sappiamo qualcosa col COVID 19) si basa e si regge tutto il loro sistema di dominio globale, in ogni settore della vita umana.

Solo con questa prospettiva si può leggere correttamente quanto sta succedendo anche in questi giorni.

Non dimentichiamoci che Biden ha appena finito di finanziare con 6 miliardi di USD l’Iran e con 8 miliardi Israele.

Le guerre per noi persone normali, anche se apparentemente non coinvolte direttamente (al momento) nel conflitto, si traducono concretamente in maggiori tasse, in un maggior costo della vita e quindi in una crescente povertà.

Il loro scopo infatti è quello di continuare a saccheggiare le casse degli Stati alleati con ogni scusa possibile, e direttamente anche noi contribuenti e cittadini con aumenti spesso ingiustificati del costo dell’energia, dell’inflazione, dei tassi e dei prezzi al consumo dei prodotti.

Vogliono che tutti siano coinvolti in questa “guerra mondiale a rate” per ridurre la popolazione progressivamente alla povertà e così piegare la volontà e il morale delle persone di buona volontà che sono ancora moltissime, anche se isolate, grazie alle loro tecniche di controllo mentale.

La borsa che produce profitti spropositati non è più quella dei beni e/o dei prodotti industriali classici, bensì è diventata la borsa di “esseri umani e della loro manipolazione sistematica”.

Le prime 5 aziende del Nasdaq sono tutte Company Big Tech che hanno una capitalizzazione superiore al PIL del nostro paese e rappresentano circa il 15 % del PIL mondiale. Fra questa c’è anche Meta (holding di Face Book).

Il caos, la preoccupazione, la paura, l’instabilità, l’odio e lo scontro sociale sono le condizioni migliori per ottimizzare la manipolazione delle masse e i profitti in borsa.

Per questo vogliono mantenerci in uno stato di terrore costante e così potenziare/aumentare “l’effetto nocebo” generato negli ultimi 3 anni grazie al terrore COVID da bombardamento mediatico.

Sì proprio così, altro non è che l’evoluzione della tattica militare “shock & awe” del complesso Industrial-militare applicata in chiaro alle popolazioni civili dei paesi del primo mondo.

Lo dimostra in modo inequivocabile come gli Amish (-90% di morti covid vs popolazione USA) e l’Africa non abbiamo avuta alcuna pandemia COVID, perché non sono stati raggiunti dai media mainstream globalisti.

La visione del mondo di questi “signori del vapore globalista” non è umana, bensì mefistofelica.

5883.- La Fondazione Soros teme la vittoria di Trump nel 2024 e un globalismo “In pericolo”.

Preghiamo perché Trump vinca, perché se non lo farà, quella sarà la fine degli Stati Uniti d’America. Con la prospettiva di brogli elettorali elettronici, garantire un’elezione legittima è quasi impossibile. George Soros è un nazista nato e il suo obiettivo è governare il mondo.

Soros Foundation Worries Trump Will Win in 2024 and 'Imperil' Globalism

L’investitore miliardario George Soros tiene un discorso a margine dell’incontro annuale del World Economic Forum a Davos, nella Svizzera orientale, il 24 gennaio 2019. (Fabrice Coffrini/AFP tramite Getty Im

Da The Epoch Times, di Tom Ozimek, 9/4/2023. Alcuni dei 1.178 commenti.

La fondazione di George Soros è preoccupata che l’ex presidente Donald Trump vinca le elezioni del 2024 e che mini l’”unità” globalista, mentre mette in guardia sui presunti danni derivanti da una potenziale “vittoria repubblicana in stile MAGA” più in generale.

La Open Society Foundations (OSF), guidata ora dal figlio 37enne di Soros, Alex Soros, si sta “adattando” in modo da essere in grado di rispondere a qualunque scenario politico emerga dopo che le polveri si saranno depositate dalle elezioni presidenziali del prossimo anno in America.

“Stiamo adattando l’OSF per essere in grado di rispondere a qualunque scenario possa emergere, su entrambe le sponde dell’Atlantico”, ha scritto il figlio di George Soros in un recente editoriale per Politico intitolato “Nessuna ritirata di Soros dall’Europa”.

L’editoriale è arrivato in risposta ai titoli dei giornali secondo cui la fondazione Soros si stava “ritirando” dall’Europa come parte di una nuova “direzione strategica” sotto una nuova leadership.

In esso, Alex Soros (dichiaratamente “più politico” di suo padre) ha chiarito che la presunta uscita non è niente del genere, o non esattamente. Ha definito il cambiamento come uno spostamento delle priorità verso l’Europa dell’Est che comporterebbe un ridimensionamento di alcune operazioni, inclusa una riduzione “significativamente” dell’organico.

Tuttavia, anche il giovane Soros ha sfruttato l’opportunità dell’editoriale per esprimere le sue opinioni sulla politica americana – e preoccuparsi della prospettiva di una vittoria di Trump.
Trump vince per mettere in pericolo “l’unità”?

Soros teme che una vittoria del presidente Trump – o di un altro candidato “in stile MAGA” – metterebbe in pericolo l’unità europea e assesterebbe un duro colpo all’agenda globalista.

“L’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, o almeno qualcuno con le sue politiche isolazioniste e antieuropee, sarà il candidato repubblicano”, ha previsto, aggiungendo di ritenere che “una vittoria repubblicana in stile MAGA alle elezioni presidenziali americane del prossimo anno potrebbe , alla fine, sarà peggiore per l’UE che per gli Stati Uniti.”

Soros ha descritto la minaccia di una vittoria repubblicana di Trump o “in stile MAGA” nel 2024 come un risultato che “metterà in pericolo l’unità europea e minerà i progressi raggiunti su così tanti fronti in risposta alla guerra in Ucraina”.

Anche se non ha spiegato ulteriormente come una vittoria di Trump metterebbe in pericolo l’unità europea o porterebbe a risultati indesiderati per quanto riguarda l’Ucraina, si è ipotizzato che il presidente Trump spingerebbe per un accordo di pace che costringerebbe l’Ucraina ad accettare alcune concessioni territoriali.

Il presidente Trump si è impegnato a porre fine alla guerra in Ucraina entro 24 ore dall’insediamento, rifiutandosi di dire da che parte vuole che sia il vincitore.

“Quando sarò presidente, risolverò la guerra in un giorno, 24 ore”, ha detto il presidente Trump durante un municipio della CNN a metà maggio, aggiungendo che incontrerà sia il presidente ucraino Volodymyr Zelensky che il presidente russo Vladimir Putin e spingerli a fare un accordo.

“Entrambi hanno punti deboli ed entrambi hanno punti di forza, ed entro 24 ore la guerra sarà risolta, sarà finita”, ha detto il presidente Trump in municipio.

L’ex presidente Donald Trump parla al municipio della CNN presso il St. Anselm College di Manchester, NH, il 10 maggio 2023, in un’immagine del video. (CNN/Screenshot tramite The Epoch Times)

In un’intervista su Fox News più o meno nello stesso periodo, il presidente Trump ha fornito maggiori dettagli su come avrebbe convinto entrambe le parti a deporre le armi e ad accettare un accordo di pace.

“Lo direi a Zelenskyj, niente di più. Devi fare un accordo. Direi a Putin che se non si fa un accordo gli daremo molto. Daremo all’Ucraina più di quanto abbia mai ricevuto, se necessario”, ha detto il presidente Trump, aggiungendo che “concluderà l’accordo in un giorno”.

I sondaggi mostrano che il sostegno alla guerra in Ucraina tra il pubblico americano è diminuito, con un recente sondaggio della CNN-SSRS (pdf) pubblicato il 4 agosto che mostra che la maggioranza (51%) ha affermato che gli Stati Uniti hanno fatto abbastanza.
Gli Stati Uniti sono stati uno dei principali fornitori di assistenza in materia di sicurezza all’Ucraina, con il Dipartimento di Stato americano che ha dichiarato il 22 agosto che gli aiuti militari e l’addestramento degli Stati Uniti all’Ucraina ammontano a quasi 46 miliardi di dollari dal 2014, di cui 43,1 miliardi da quando la Russia ha lanciato la sua invasione. nel febbraio 2022.

La campagna di Trump non ha risposto a una richiesta di commento su questa storia da parte di The Epoch Times.
“Questo non è un tipo di ritiro”

L’editoriale di Soros è arrivato in mezzo ad una serie di titoli di giornale che dicevano che l’OSF stava staccando la spina alle sue operazioni europee.
Citando un’e-mail interna dell’OSF inviata allo staff a luglio, The Guardian ha riferito che il nuovo cambio di direzione per l’organizzazione “prevede il ritiro e la cessazione di gran parte del nostro attuale lavoro all’interno dell’Unione Europea, spostando la nostra attenzione e l’allocazione delle risorse ad altre parti del mondo.”
Il rapporto del Guardian ha definito il cambiamento strategico come una “ritirata dall’Europa” che potrebbe “spegnere le luci sui diritti umani”, mentre Bloomberg ha pubblicato un titolo che diceva “Soros si ritira mentre la destra guadagna in Europa”.
Ma Soros ha spiegato che, mentre l’OSF “riorganizza il suo funzionamento a livello globale”, la fondazione sta spostando le sue priorità in Europa ma “non si tratta di una sorta di ritirata”.

“Sì, questo significa che abbandoneremo alcune aree di lavoro concentrandoci sulle sfide di oggi, così come su quelle che dovremo affrontare domani. E sì, ridurremo anche significativamente il nostro organico, cercando di garantire che più soldi vadano dove è assolutamente necessario”, ha scritto Soros.

Tuttavia, nonostante il taglio dei posti di lavoro e la riorientazione dei flussi di denaro, Soros ha affermato che l’OSF continuerà a sostenere i suoi affiliati in Moldavia e nei Balcani occidentali e che “non dovrebbero esserci assolutamente dubbi sul fatto che continueremo a sostenere la nostra fondazione in Ucraina”.

Ha anche detto che l’OSF aumenterà “drasticamente” il suo sostegno a circa 12 milioni di rom, la maggior parte dei quali vive nell’Europa dell’Est, nei loro sforzi per “garantire la parità di trattamento”.

Secondo l’e-mail di luglio citata dal Guardian, circa il 40% del personale globale dell’OSF sarà tagliato come parte del cambiamento strategico.

Il megadonatore democratico disse all’epoca al Wall Street Journal che inizialmente non voleva cedere il controllo della fondazione a nessun membro della sua famiglia “per una questione di principio”.

Tuttavia, ha detto che lui e suo figlio “la pensano allo stesso modo” e che assumerà la guida della fondazione perché “se lo è guadagnato”.

All’epoca, Alex Soros aveva dichiarato di essere “più politico” di suo padre e di essere preoccupato per la prospettiva di una vittoria di Trump nel 2024.

“Per quanto mi piacerebbe ottenere soldi dalla politica, finché lo fa l’altra parte, dovremo farlo anche noi”, ha detto al Journal, suggerendo che le tasche profonde dell’organizzazione Soros saranno schierato per sostenere le campagne presidenziali contro il presidente Trump.

Alex Soros è stato eletto presidente del consiglio di amministrazione dell’OSF nel dicembre 2022.

Commenti recenti dagli USA

gadz, 12 minuti fa

Soros non fa mai nulla di buono e se suo figlio fosse più in politica le cose andrebbero ancora peggio. Lui, Bill Gates e Charles Schab sono nemici dell’umanità con i loro progetti globalisti. Parliamo di una visione avvelenata.

sam33705, 6 settembre 2023, 1 ora fa

Ciò significa che la frode elettorale sarà peggiore che mai. Faremmo meglio a pregare che Trump vinca perché se non lo farà, quella sarà la fine degli Stati Uniti d’America. George Soros è un nazista nato e il suo obiettivo è governare il mondo. Sono i suoi soldi che stanno dietro lo Stato profondo e faremmo meglio a sperare che non viva abbastanza a lungo per realizzare il suo sogno. O che non vivo così a lungo. Sono nato in un paese libero e voglio morire in un paese libero e noi siamo l’unico paese libero rimasto su questa Terra. Quest’uomo è l’incarnazione del diavolo e deve essere fermato insieme alla sua scimmia ben addestrata, Obama.

Jennifer, Operaio, 6 settembre 2023, circa 1 ora fa
La sua “fondazione” (nota anche quale organizzazione criminale) non dovrebbe essere in grado di operare in questo paese poiché il globalismo è un tentativo di conquista malvagia del mondo di cui qualsiasi acerrimo nemico nei fumetti sarebbe orgoglioso.
QUESTO, ciò che stanno facendo con il globalismo, È ciò che sostenevano che Hitler stesse cercando di fare con il dominio del mondo e ciò che stanno tentando di affermare che Vladimir Putin stia facendo.

Michael Duggan. 6 settembre 2023, circa 1 ora fa

Soros è in missione da molti anni per distruggere l’America, ma ultimamente i democratici gli hanno dato il punto d’appoggio di cui aveva bisogno per avere successo. Soros sta vincendo su tutti i fronti in questo momento e i democratici non conoscono altro che il denaro con cui sostiene le loro elezioni.

Senza paura1, 4 ore fa
CHIUNQUE si allinei con Soros dovrebbe essere immediatamente considerato un nemico dell’America.
Non sono di qui, eppure pensano con arroganza di poterci controllare.
È tempo di condividere questo articolo e tutti gli altri che mostrano il loro impegno nel FORZARE gli americani a unirli.
Gli americani DEVONO sapere che Democratici=Soros=perdita della nostra libertà.
Periodo! Per ogni persona che crede nella preghiera, inizia a pregare contro queste persone e questo movimento.
Le chiese devono parlare di questi fatti e delle agende piuttosto che di “sciocchezze”.
Diventa reale o perderemo TUTTI.
I vicini devono dialogare tra loro, i funzionari democratici eletti devono essere eliminati.
La gente comune ha bisogno di candidarsi alle elezioni minori e di farsi coinvolgere. Se qualcuno vota democratico – non si tratta più di votare quello che hanno fatto i tuoi genitori o di votare perché non gli piace ciò che Trump twitta – è meschino.
Si tratta dell’AMERICA.
Sbarazzarsi di RINOS, dei repubblicani dalle ginocchia deboli e di TUTTI coloro che si allineano con gli ordini del giorno di Soros.
Si tratta degli Stati Uniti.
SE NON CI ALZIAMO, PERDEREMO TUTTO QUELLO CHE AMIAMO E CHE DIFENDIAMO!

thaloblues, 4 ore fa
La versione del globalismo di Soros è il comunismo con l’élite al comando ed è sostenuta dal PCC di Xi e dai suoi militari. Cercatelo sul sito del WEF. Non nascondetelo. Sono MALVAGI, nessun piano di rimorso per spopolare il pianeta e fingere di essere i nostri salvatori va oltre le grottesche dei film di Bond più oscuri. A cominciare dalle pandemie e dalla fame.
Non dimentichiamo che quello che sarebbe il “Re del mondo” non è Soros. È quel rifugiato calvo di un film di spionaggio di Michael Meyers, Klaus Schwab. Qualcuno ha mai trovato il suo “Mini-Me?” Penso che sia Soros! Scommetto che sanguinano Black Goo (il black goo – “visicidume nero”, su per giù – come viene chiamato nella fantascienza l’ossido di grafene
.).

falco notturno, 9 ore fa
I repubblicani non dovrebbero lasciarsi distrarre da questo essere privo di rimorsi e di coscienza.
Devono rimanere concentrati nel garantire che vengano espressi e conteggiati solo i voti legittimi.
A mio parere, non ci sono ancora garanzie sufficienti per impedire ai democratici di raggiungere la vittoria barando.
Questa è la mia grande preoccupazione.
L’amministrazione Biden ha incasinato le cose così gravemente che, se il voto fosse legittimo, i repubblicani dovrebbero vincere alla grande.
Tuttavia, con il numero di immigrati clandestini presenti nel paese e con la prospettiva di brogli elettorali elettronici, garantire un’elezione legittima è quasi impossibile.

PatriotMom1776 1776, 14 ore fa
FOTTITI SOROS!!! Quello sporco marcio nazista! Ha venduto la sua eredità ebraica e ha consegnato gli ebrei durante l’Olocausto in cambio di denaro per iniziare la ricchezza che attualmente possiede. Quest’uomo è un assassino di massa e una minaccia assoluta per gli Stati Uniti. Non è nemmeno cittadino americano, quindi non sono affari suoi quello che facciamo durante le nostre elezioni. Questo pezzo di m… deve sapere che vogliamo Donald Trump come nostro presidente.

RA, 16 ore fa
Soros odia l’America perché lo è stata fondata su principi cristiani.
Soros ha fatto soldi distruggendo le valute delle nazioni e la vita delle persone a
milioni. Ora lui e il suo burattino Biden stanno facendo lo stesso con gli Stati Uniti. Loro e
molti come loro, tra noi, servono Satana.
Soros teme il ritorno di Trump come Satana si preoccupa del ritorno di Gesù Cristo !

donne patriote, 16 ore fa
Alex Soros si è laureato alla Young Global Leaders Initiative di Klaus Schwab.
I suoi problemi con il “papà” lo collocano come un attore globale molto pericoloso perché “ha bisogno” di essere “più cattivo” e “più politico” di suo padre.
È determinato a portare avanti l’agenda globalista di spopolamento del mondo da parte di 7 miliardi di persone, senza frontiere, senza stati nazionali, senza classe media, senza elezioni giuste… il completo capovolgimento del mondo come lo conosciamo. Pandemia, controllo sanitario dell’OMS, controllo del governo delle Nazioni Unite e oltre. Trump è un candidato popolare, noi, le persone che vogliamo mantenere vive e vegete la nostra Repubblica e le nostre libertà donate da Dio, è ciò che gli dà la sua forza. Questi politici antiamericani, miliardari e globalisti hanno paura e quella paura riguarda la gente comune degli Stati Uniti.
Le persone comuni in tutto il mondo sono liberate!
L’UE ha svenduto i propri Stati nazionali ed è sotto il controllo di Soros, Schwabb, ONU…Si sta ritirando perché hanno vinto la battaglia in Europa. Ora si concentrano su
la nostra nazione dove i loro compagni d’armi Biden/Clinton/Obama/Neusom stanno facendo del loro meglio per distruggere gli Stati Uniti. NOI abbiamo ancora la nostra nazione e la nostra Costituzione e NOI IL POPOLO dobbiamo parlare forte e chiaro e far sapere a questi malvagi psicopatici che hanno una GUERRA MOLTO dura da combattere prima di conquistare la nostra NAZIONE!

ROCCO2021 R, 17 ore fa
Se vuoi davvero sapere che razza di feccia è davvero questo ragazzo, leggi il (Congressional Record, Volume 152 Issue 125, Friday, September 29, 2006) o controlla: https://www.govinfo.gov/content /pkg/CREC-2006-09-29/html/CREC-2006-09-29-pt1-PgE1917.htm. Questo viene dalla sua stessa bocca, dove sta rispondendo alle domande del Congresso per la cronaca.
Questo ragazzo è una delle più grandi minacce per gli Stati Uniti d’America.
È davvero un quinto editorialista in ogni senso della parola. È preoccupato che Trump venga rieletto nel 2024. Spero che Trump vinca e sconfigga questo pezzo di merda. Vuoi sapere perché questo paese è andato all’inferno?
Non guardare oltre il volto del male.
E suo figlio ha preso in mano le redini della sua attività. Tutto quello che ho sentito su George Soros è la verità assoluta.
E non può negarlo, perché è registrato e proviene dal suo vile buco della torta.

inno702, 17 ore fa
È preoccupato che non possano uccidere più persone per il loro obiettivo di spopolamento.

Linda Solakian, 17 ore fa
Questo essereo deve essere la persona più malvagia su questa terra. Si diverte vedendo e promuovendo la distruzione di proprietà, la violenza, l’alta criminalità e vedendo le persone soffrire. Leggi cosa ha fatto durante la seconda guerra mondiale. Perché i leader di questo paese permettono a quest’uomo di camminare libero e di commettere tali crimini?

Owend,19 ore fa
Il globalismo crollerà perché i sauditi non giocheranno. E nemmeno la Cina. Ora che ci penso, non lo faranno nemmeno gli Emirati Arabi Uniti. E non dimentichiamoci del resto del Medio Oriente come l’Iran. Poi c’è Israele. Nemmeno loro si adegueranno. E, ultimo ma non meno importante, non lo faremo nemmeno noi. Sappiamo tutti cosa stanno facendo. Sappiamo chi sono (qualcuno può dire Davos?) e chi esegue i loro ordini.

Paolo G.2023-09-05
Questo essere, suo figlio e tutti i loro amici dovrebbero essere in arresto per aver tentato di conquistare il mondo e tutte le accuse previste che da ciò si applicano. Sequestrare tutti i loro fondi e rinchiuderli.

5395.- La metamorfosi dell’Impero e le sue vittime

Come accadde per l’impero Romano a partire dal II secolo d.c.

cover

Andrea Zhok pubblicato in Attualità


1. Il riflusso dell’imperialismo globalista USA

Nella frenesia angosciosa degli ultimi due anni, prima con la pandemia e ora con la guerra russo-ucraina, molti processi stanno accelerando e prendendo forme inedite.

Per comprendere gli eventi recenti bisogna partire da una constatazione, ovvero dall’esaurimento della spinta globalizzante dell’economia capitalistica mondiale. Come noto, il sistema capitalistico si conserva in equilibrio soltanto se e nella misura in cui può garantire ai detentori di capitale (investitori) una crescita futura del proprio capitale. Uno stato stazionario perdurante equivale senza resti ad un collasso per il sistema capitalistico, a partire dal fallimento degli istituti finanziari, che possono esistere soltanto sulla base di questo assunto di crescita.

La globalizzazione è stata la forma principale della crescita capitalistica (e delle promesse di crescita) a partire dagli anni ’70 del XX secolo. Dopo la caduta dell’URSS l’espansione globalizzante ha iniziato ad accelerare. 

La globalizzazione tuttavia non è semplicemente un moto acefalo del capitale, per quanto essa esprima tendenze strutturali del capitalismo in quanto tale. Nell’ultimo mezzo secolo la globalizzazione è stata la forma presa dall’espansionismo “imperiale” americano.

La narrazione liberista per cui l’ampliamento e l’intensificazione degli scambi creerebbero automaticamente benessere per tutti i transattori è soltanto una fiaba per gonzi, che nasconde un punto cruciale: in ogni scambio è sempre decisivo il rapporto tra i poteri contrattuali dei contraenti. Chi ha maggior potere contrattuale è in grado di estrarre dallo scambio un profitto molto maggiore; chi estrae maggior profitto rafforza ulteriormente il proprio potere contrattuale futuro; e ciò che conta nel sistema è la gerarchia di potere che ne emerge (il capitale è potere).

Quando l’asimmetria di potere contrattuale conferito dalla capitalizzazione è grande, la parte “perdente” nello scambio è di fatto in condizioni di dipendenza totale, non dissimile da quella di uno schiavo nei confronti del padrone. Ciò accade negli scambi tra individui non meno che in quelli tra nazioni. In uno scambio tra poteri contrattuali massivamente asimmetrici la parte debole è disponibile a fornire qualunque servizio pur di evitare il collasso. Nel sistema mondiale degli scambi, all’indomani della caduta dell’URSS c’era un solo paese in cima alla piramide alimentare: gli USA, mentre un gran numero di paesi, soprattutto africani, in parte asiatici e sudamericani, fornivano la base della piramide, in condizioni di dipendenza totale.

In questa fase gli USA hanno alimentato la globalizzazione attraverso istituzioni internazionali (World Bank, International Monetary Fund, World Trade Organization) e hanno controllato il rispetto dei patti, dei contratti internazionali, e delle proprie aspettative, con l’esercito più forte del mondo.

Con il nuovo millennio è iniziata una fase caratterizzata da due principali fenomeni. 

Il primo fenomeno è la comparsa sulla scena mondiale di un protagonista capace di sfruttare le occasioni offerte dalla globalizzazione in modo più efficace degli USA, battendoli proprio sul punto che la teoria predicava come qualificante: la capacità di produrre meglio a costi minori. La Cina, diversamente da altri paesi, aveva caratteristiche politiche, geografiche e demografiche tali da non essere senz’altro ricattabile e assoggettabile da parte americana. E sotto queste condizioni peculiari, invero uniche al mondo, il libero commercio ha operato effettivamente come capacità di trasferimento di capitali verso il produttore migliore. La Cina ha inoltre anche iniziato a fare affari con le parti più sfruttate del mondo, fornendo condizioni di scambio migliori, e così ha esteso la propria influenza insieme economica e geopolitica.

Il secondo fenomeno, parzialmente legato al primo, è stata la crescente fragilità di catene produttive sempre più estese e complesse. Quanto più estese e complesse, tanto maggiore la possibilità che eventi locali, guerre, epidemie, rivolgimenti politici, bolle finanziarie, ecc. creassero bruschi crolli delle aspettative di profitto.

La crisi subprime del 2007-2008 ha segnato qui la svolta, coinvolgendo l’intero pianeta, ma in maniera particolarmente dura l’Occidente a guida americana e i suoi satelliti. Dal 2008 il sistema finanziario e produttivo occidentale è stato tenuto artificialmente in vita con somministrazioni massive di denaro. Queste somministrazioni non hanno però avuto carattere “keynesiano”, anticiclico. Il denaro “stampato” dalle banche centrali è stato destinato direttamente o indirettamente allo stesso sistema finanziario che aveva creato la crisi, entrando solo in minima percentuale nell’economia reale. Dopo il 2008, a causa di queste politiche di trasferimento dalle banche centrali al sistema finanziario, il rischio di una bolla inflattiva senza crescita (stagflazione) era sempre più forte. Questo processo non poteva durare indefinitivamente e ha dato ripetuti segni di essere sulla strada di un nuovo tracollo (l’ultimo grave segno fu la crisi di liquidità bancaria del settembre 2019).

La fase in cui siamo entrati è quella in cui la “globalizzazione imperiale” americana è entrata in fase di riflusso. I vertici del complesso politico-finanziario-militare americano devono ripensare il proprio ruolo, modificando il modello propagandato negli ultimi decenni e riposizionando il proprio potere, mentre le catene produttive si accorciano. 

Tutto ciò che ci sta succedendo da due anni a questa parte ricade nella cornice definita da questa inversione di una tendenza storica, inversione che ha una portata storica simile a quella della ritrazione dell’Impero romano dalla propria fase di massima espansione dopo il II secolo d.C. Un sistema come quello romano sul piano militare, o come quello americano sul piano economico, che può prosperare solo crescendo, quando inizia a decrescere deve cambiare pelle e, nel lungo periodo, natura.

Questa fase di transizione può essere lunga o breve, ma in ogni caso non può non essere traumatica.

2. Il ruolo della pandemia di Covid-19

Che la pandemia di Covid sia stata scatenata appositamente, o che sia stato invece un accidente, questo probabilmente non lo sapremo mai con certezza. Quello che è certo è che una volta avviata, le sue opportunità di manipolazione di sistema sono state prontamente colte. 

Da anni si facevano simulazioni intorno a cosa sarebbe potuto e dovuto accadere in presenza di un grave evento pandemico (le più note simulazioni: Clade-X, del 2017-2018, e Event 201 del settembre 2019, entrambe a guida americana). Queste simulazioni consideravano sia le ripercussioni economiche, sia le esigenze di “indirizzo mediatico”, cioè di controllo del messaggio da rivolgere alla popolazione.

Quale che ne sia stata l’origine, dunque, quando la pandemia si è presentata, esistevano indicazioni operative e previsioni circa gli effetti, ed esisteva un dominus della vicenda, ovvero gli USA, che avevano tutte le conoscenze e tutti i mezzi per orientare le scelte, se non del mondo, almeno di tutti i paesi da essi direttamente dipendenti sul piano politico-militare.

E in effetti, la prima cosa da osservare è che i paesi che hanno adottato, con piccole variazioni, il medesimo modello basato sulla vaccinazione a tappeto, con vari livelli di pressione sui renitenti, coincidono con l’area di influenza geopolitica e militare diretta degli USA: questo modello è stato adottato da tutta l’Europa inclusa nella Nato, da Canada, Israele, Australia e Nuova Zelanda.

Il modello di gestione della pandemia è stato sin dall’inizio di tipo militare, e militare è stata la retorica della “guerra al virus”, dei “no vax” come disertori, ecc. 

Gli obiettivi di questa manipolazione sono stati due: l’incremento di controllo interno sulla popolazione e il compattamento internazionale delle catene di comando del blocco a guida americana.

Ben prima dello scoppio della pandemia c’erano stati tumulti e proteste diffuse in molti paesi europei, visto che dai postumi della crisi del 2008 non si era mai davvero usciti. I tumulti più tenaci e minacciosi sono stati quelli promossi dai gilets jaunes in Francia, ma le proteste avevano punteggiato tutti i paesi. In Italia le proteste erano state contenute, trovando un’apparente valvola di sfogo elettorale, con la nascita di un governo “atipico” e apparentemente “antisistema” (che inizialmente suscitava alcune preoccupazioni a livello UE).

Con la pandemia tutti i margini di protesta, contestazione e rivendicazione sono stati messi a tacere per “cause di forza maggiore”. Questo è un desideratum di chiunque gestisca il potere, e ha un significato di lungo periodo. Infatti, che circostanze di stagnazione, inflazione, contrazione economica, disoccupazione, ecc. conducano a tumulti e proteste potenzialmente esplosive è ovvio. In una fase di massiva contrazione e riflusso, come quella avviata, questo rischio è previsto, e perciò il potere si premunisce, procedendo a restrizioni, con incremento di controlli, limitazioni agli spostamenti, controllo intensivo sulle espressioni d’opinione, ecc.

Il secondo obiettivo ha carattere internazionale e geopolitico. La pandemia si presenta come un’occasione per addomesticare e “normalizzare” il contrarsi della globalizzazione, specificamente in rapporto al grande concorrente cinese. Con lo scoppio della pandemia la Cina venne immediatamente presentata (lo era invero già in precedenza) come il grande untore mondiale. Questo fatto ha iniziato una spinta a riportare la produzione in una sfera di nuovo direttamente controllabile da parte della potenza imperiale americana. È un processo costoso, lungo e faticoso, che non si sarebbe potuto mai avviare se non grazie a qualcosa che venisse percepito come una inesorabile e fatale “causa di forza maggiore”.

3. Il ruolo della guerra russo-ucraina

Mentre nel caso della pandemia attribuirne l’avvio ad un’iniziativa volontaria da parte americana è solo una congettura, nel caso della guerra attualmente in corso individuare un’intenzione americana diretta di innescare il conflitto è piuttosto facile.

Nessuno, che non sia uno sfortunato lettore dei gemelli diversi Corriere-Repubblica, può avere dubbi sul fatto che gli USA hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per provocare questo conflitto. Ci sono le prove che il golpe in Ucraina del 2014 sia stato, almeno in parte, finanziato dagli USA e che questi abbiano deciso unilateralmente (alla faccia della sovranità ucraina) chi sarebbe succeduto a Yanukovich. Ci sono le prove di attività di armamento e addestramento militare americano delle forze armate ucraine ben prima del 2022. E c’è, come evidenza macroscopica, l’intero processo di espansione della Nato verso Est, in corso da oltre vent’anni, rispetto a cui i conflitti diplomatici con la Russia sono stati ripetuti e crescenti. Dunque, che gli USA abbiano lavorato per creare la condizioni di tale conflitto è certo. Questo, naturalmente, non significa che Putin sia stato costretto ad agire, visto che nessuna azione umana è mai obbligata: Putin porta la responsabilità delle scelte fatte, scelte che, nella propria ottica di una potenza internazionale che vuole rimanere tale, erano non obbligate, ma solo fortemente motivate.

Nell’ottica dell’impero americano la guerra perfeziona il processo avviato con la pandemia: questa volta l’operazione di ritrazione delle dipendenza globali si rivolge all’altro grande protagonista mondiale dopo la Cina, ovvero la Russia. La Russia non è economicamente comparabile con la superpotenza produttiva cinese, ma è l’unico vero competitore militare degli USA, oltre ad essere il paese con le maggiori risorse naturali del mondo; dunque, dopo gli anni del declino con Eltsin, la Russia è nuovamente di diritto una potenza capace di tenere testa all’impero americano.

Anche qui, come nel caso della pandemia, non bisogna mai cadere nell’errore di pensare che sia il fatto in sé, nella sua oggettività a creare certi esiti politici. Decisiva è la specifica orchestrazione interpretativa che ne viene data. Non è la pandemia ad aver causato i lockdown, né ad aver bloccato i consumi, né ad aver prodotto il Green Pass, ecc., parimenti, non è la guerra a causare automaticamente il distacco economico e politico dell’Europa dalla Russia. 

Cruciale è invece il modo in cui la guerra è stata interpretata e continua ad essere letta dai principali media europei, modo che nutre una narrazione volta a creare una barriera di filo spinato tra l’“Occidente liberale” e l’“Impero del Male russo”. La demonizzazione di Putin, e dei russi in toto, è funzionale a creare una barriera durevole nel sentire popolare, che induca nel lungo periodo a separare Russia ed Europa, riconducendo economicamente l’Europa pienamente sotto l’ala americana.

L’Europa, cui gli USA avevano allentato la catena negli ultimi trent’anni, lasciando che dopo il trattato di Maastricht essa divenisse un polo neoliberale autonomo, viene ora richiamata all’ordine. 

L’idea, cullata da molti europeisti, che l’UE fosse il nucleo di una forza mondiale autonoma viene riportata alla dura realtà: salvo i fratelli minori degli USA nel Regno Unito, l’Europa dal 1945 non è mai stata altro che una colonia americana, territorio occupato. L’americanizzazione culturale ha proceduto in maniera capillare a tutti i livelli, sempre però all’ombra silente di una dipendenza militare e politica assoluta (cui solo la Francia ha occasionalmente opposto qualche mugugno).

4. Chi guida il vascello?

Veniamo alla domanda più difficile. Chi è l’agente di tutto questo processo? Chi sta ai posti di comando della nave su cui siamo nostro malgrado imbarcati? La domanda è importante perché è proprio l’idea che il processo non sia nelle mani di nessuno, che sia qualcosa di “spontaneo”, a creare le condizioni della sua percezione pubblica come qualcosa di naturale, inevitabile, fatale.

Purtroppo non essendo di fronte ad istituzioni ufficiali, le possibilità di fornire una sorta di “elenco esaustivo di congiurati” è altamente improbabile. Ma forse una tale risposta, una risposta che desse i nomi e i piani di una sorta di “loggia segreta mondiale” non è richiesta, e non è nemmeno necessario che davvero una tale entità esista (per quanto non lo si possa escludere).

Forse invece di un tale “club di congiurati” è più sensato nominare ciò che li lega, prima e a prescindere dall’entrare in tale (eventuale) club. La migliore risposta che si può dare riecheggia la celebre espressione di Eisenhower, quando parlava del “complesso militare-industriale” americano.

Oggi come quando parlava Eisenhower, gli USA rimangono alla guida dell’impero globale, tuttavia la forma delle strutture di potere centrale ha subito una metamorfosi. La finanza ha una dimensione meno nazionalmente definita rispetto alla tradizionale economia industriale. E la dimensione militare negli USA è riassorbita nella politica neoliberale americana, che ha imparato da tempo a usare la sfera militare come il proprio più utile strumento. Lo stato neoliberale infatti non si affida al “libero scambio”, ma agisce energicamente per controllare gli approvvigionamenti di materie prime, usa l’esercito come strumento di pressione nei “trattati di libero scambio”, e usa le spese militari come mezzo di “intervento anticiclico”. Dunque invece che parlare di un “complesso militare-industriale” americano possiamo parlare di un “complesso politico-finanziario” a guida americana

Questo complesso ha capacità e moventi per gestire la situazione mondiale nelle forme attuali. Se non è un’entità statutaria, sul modello di una “società segreta”, è probabile che si tratti di un nucleo flessibile dove ideologia e potere convergono. L’interesse primario è la conservazione del potere dell’attuale concentrazione finanziaria. Gli strumenti principali per implementare questo intento sono due: 1) la capacità di spostare i capitali internazionali (promuovendo politici graditi, condizionando gli apparati mediatici, ecc.) e 2) la minaccia militare rappresentata dall’esercito americano e dai suoi “alleati” (Nato in primis).

Al livello di questi gestori apicali del potere non c’è qui bisogno che “tutti siano d’accordo”, perché per ottenere spostamenti decisivi bastano accordi di minoranza di un gruppo compatto, capace di spostare i pesi nelle decisioni politiche e finanziarie che contano. Questo complesso è sì accomunato dall’interesse primario nel mantenimento del potere (la supremazia mondiale relativa), ma è anche accomunato da un’ideologia liberale in cui si identifica senza resti. Questo gruppo di comando non richiede una struttura istituzionale, né una distribuzione di compiti, come avviene nelle organizzazioni formalizzate, essendo unito dalla coincidenza tra il proprio potere, da preservare, e la visione del mondo liberale che sostiene e giustifica tale potere.

Queste caratteristiche di relativa indefinitezza rendono l’imputabilità dei responsabili delle odierne vicende ardua. Nominare questo o quel personaggio della finanza internazionale (Bill Gates, George Soros, ecc.), questo o quell’intellettuale di riferimento (Klaus Schwab, Bernard-Henry Levy, ecc.), questo o quel leader politico (Hilary Clinton, Emmanuel Macron, ecc.) non presenta mai un quadro di sufficiente distinzione, perché i confini di questo gruppo apicale del capitalismo liberale non sono netti ed è improbabile che ci sia un club specifico la cui tessera tutti debbano necessariamente avere in tasca. Esistono numerose associazioni che coltivano questo campo ideologico e operativo (World Economic Forum, Gruppo Bilderberg, ecc.), ma probabilmente non esiste alcuna “cupola” cui tutti facciano riferimento. Ciò che conta è la comune ideologia e la comune posizione apicale nella distribuzione del potere politico-finanziario a guida americana.

5. Apocalypse Now

Concludendo, oggi ci troviamo in una fase di ritrazione della fase globalista dell’impero americano, che sta richiamando una parte dei propri tentacoli, per consolidarsi ed arroccarsi sulle posizioni per gli USA più facilmente difendibili dell’Occidente egemonizzato o colonizzato.

Questa fase ha, ed avrà, costi economici e sociali spaventosi. Essi devono venir fatti pagare alla periferia dell’impero, in proporzione al potere contrattuale delle varie parti. 

Ne saranno esentati i gruppi apicali USA e minoranze scelte delle province dell’impero. I costi interni agli USA dovranno essere tenuti bassi, perché, come per la Roma imperiale, non ci si può permettere di avere eccessivi tassi di malcontento sotto casa. Via via che ci si allontana dal centro dell’impero verso le sue propaggini meno integrate i costi saliranno esponenzialmente, e alcuni paesi verranno semplicemente sacrificati.

In questa fase, che durerà certamente per diversi anni, il potenziale esplosivo delle proteste e dei moti di ribellione verrà tenuto a bada con la duplice leva di “alte ragioni morali” e “doverose strette repressive”.

Da un lato, grazie al controllo dei media, la propaganda promuove un “bene superiore” che esprime l’adesione ideologica positiva, quella che identifica i “buoni” e i “cattivi”. Nella cornice liberale il “bene superiore” ha tipicamente la forma di “solidarietà con le vittime”, quali che siano (recentemente siamo passati dai morti per Covid alle vittime ucraine, ma la lista è lunga). Una volta inventata mediaticamente una vittima acconcia, e suscitati i gridolini di sdegno della plebe telecomandata, si può chiedere ogni sacrificio, fiduciosi nella malleabilità del pubblico.

Simultaneamente, delle vittime reali di questa catastrofica trasformazione, delle popolazioni schiacciate, delle culture cancellate, dei nuovi schiavi, delle plebi emarginate e ricattate né oggi né domani sentirà parlare nessuno.

Se questa dimensione “positiva” non basta come motivante, per gli altri, per i reprobi, per quelli che non si lasciano commuovere dai peana su commissione per le “vittime” col bollino, per questi bruti si ricorre, e si ricorrerà sempre di più, a forme repressive: minacce, rappresaglie lavorative, sanzioni, censure, divieti di manifestazione, sistemi di controllo e ricatto, ecc.

Il punto d’arrivo di questo processo, se riuscirà a dispiegare i propri effetti senza un’opposizione dura ed efficace, sarà l’abbandono integrale, anche formale, del paradigma democratico (già svuotato di fatto) e l’avvento di un neo-feudalesimo a base tecnocratica e plutocratica.

5352.- Gli Usa ci stanno letteralmente prendendo per il culo. 1 miliardo di importazione dalla Russia al mese.

Il 25 settembre voto “…o”.

Martha Mendoza

A sei mesi dall’inizio della guerra, le merci russe continuano a fluire negli Stati Uniti

By JULIET LINDERMAN and MARTHA MENDOZAAugust 25, 2022

BALTIMORE (AP) — In una calda e umida giornata della costa orientale di quest’estate, un’enorme nave portacontainer è entrata nel porto di Baltimora carica di fogli di compensato, barre di alluminio e materiale radioattivo, tutti provenienti dai campi, dalle foreste e dalle fabbriche della Russia.

Il presidente Joe Biden ha promesso di “infliggere dolore” e infliggere “un duro colpo” a Vladimir Putin attraverso restrizioni commerciali su materie prime come vodka, diamanti e benzina sulla scia dell’invasione russa dell’Ucraina sei mesi fa. Ma centinaia di altri tipi di merci non autorizzate per un valore di miliardi di dollari, comprese quelle trovate sulla nave diretta a Baltimora da San Pietroburgo, in Russia, continuano ad affluire nei porti degli Stati Uniti.

L’Associated Press ha rilevato oltre 3.600 spedizioni di legno, metalli, gomma e altre merci sono arrivate nei porti statunitensi dalla Russia da quando ha iniziato a lanciare missili e attacchi aerei nel suo vicino a febbraio. Si tratta di un calo significativo rispetto allo stesso periodo del 2021, quando sono arrivate circa 6.000 spedizioni, ma si tratta comunque di un fatturato di oltre 1 miliardo di dollari al mese.

In realtà, nessuno si aspettava che il commercio si fermasse dopo l’invasione. Il divieto delle importazioni di determinati articoli probabilmente danneggerebbe maggiormente quei settori negli Stati Uniti che in Russia.

“Quando imponiamo sanzioni, potrebbe interrompere il commercio globale. Quindi il nostro compito è pensare a quali sanzioni producono il maggiore impatto consentendo allo stesso tempo al commercio globale di funzionare”, ha detto all’AP l’ambasciatore Jim O’Brien, a capo dell’Ufficio di coordinamento delle sanzioni del Dipartimento di Stato.

Gli esperti affermano che l’economia globale è così intrecciata che le sanzioni devono essere di portata limitata per evitare di far salire i prezzi in un mercato già instabile.

Inoltre, le sanzioni statunitensi non esistono nel vuoto; strati di divieti dell’Unione Europea e del Regno Unito si traducono in regole commerciali contorte che possono confondere acquirenti, venditori e politici.

Ad esempio, l’amministrazione Biden e l’UE hanno pubblicato elenchi separati di società russe che non possono ricevere esportazioni, ma almeno una di queste società – che fornisce all’esercito russo metallo per fabbricare aerei da combattimento che attualmente sganciano bombe in Ucraina – sta ancora vendendo milioni di dollari di metallo a ditte americane ed europee, ha scoperto AP.

Mentre alcuni importatori statunitensi stanno acquistando materiali alternativi altrove, altri affermano di non avere scelta. Nel caso delle importazioni di legno, le fitte foreste di betulle della Russia creano legname così duro e resistente che la maggior parte dei mobili americani in legno per le classi, e molti pavimenti per la casa, ne sono fatti. Contenitori di spedizione di articoli russi – semole, scarpe da sollevamento pesi, attrezzatura per il mining di criptovalute e persino cuscini – arrivano nei porti degli Stati Uniti quasi ogni giorno.

Un’analisi delle merci importate dalla Russia mostra che alcuni articoli sono chiaramente legali e persino incoraggiati dall’amministrazione Biden, come le oltre 100 spedizioni di fertilizzanti arrivate dall’invasione. Prodotti ora vietati come petrolio e gas russo hanno continuato ad arrivare nei porti degli Stati Uniti molto tempo dopo l’annuncio delle sanzioni dovute a periodi di “rilassamento”, consentendo alle aziende di completare i contratti esistenti.

In alcuni casi, l’origine dei prodotti spediti dai porti russi può essere difficile da discernere. Le compagnie energetiche statunitensi continuano a importare petrolio dal Kazakistan attraverso i porti russi, anche se a volte quel petrolio è mescolato con carburante russo. Gli esperti commerciali avvertono che i fornitori russi sono inaffidabili e le strutture aziendali opache della maggior parte delle principali società russe rendono difficile determinare se hanno legami con il governo.

“È una regola generale: quando hai sanzioni, avrai tutti i tipi di schemi oscuri e commercio illecito”, ha affermato l’economista russo Konstantin Sonin, che insegna all’Università di Chicago. “Tuttavia, le sanzioni hanno senso perché anche se non puoi uccidere il 100% dei ricavi, puoi ridurli”.

Molte aziende americane stanno scegliendo di tagliare il commercio russo. La birra Coors, ad esempio, ha restituito una spedizione di luppolo a una società russa di proprietà statale a maggio come parte dell’impegno a sospendere tutte le attività nel paese, ha affermato la portavoce di Molson Coors Beverage Co. Jennifer Martinez.

La Russia e gli Stati Uniti non sono mai stati importanti partner commerciali, e quindi sanzionare le importazioni è solo una piccola fetta della strategia di ritorsione. Le restrizioni alle esportazioni dagli Stati Uniti, in particolare di tecnologia, causano ulteriori danni all’economia russa e le sanzioni alla Banca centrale russa hanno congelato l’accesso della Russia a circa 600 miliardi di dollari di riserve valutarie detenute negli Stati Uniti e in Europa.

Tuttavia, le sanzioni comportano un peso simbolico al di là del danno finanziario che potrebbero infliggere, in particolare per i consumatori americani inorriditi dalla guerra. Ecco uno sguardo ad alcune delle merci che sono fluite tra i due paesi:

METALLI

La Russia è un esportatore chiave di metalli come alluminio, acciaio e titanio; l’interruzione di tale commercio potrebbe far aumentare drasticamente i prezzi per gli americani già alle prese con l’inflazione, ha affermato l’economista di Morgan Stanley Jacob Nell.

“L’idea di base con le sanzioni è che stai cercando di agire in un modo che causi più dolore all’altra parte e meno dolore a te stesso”, ha detto.

La maggior parte delle aziende americane che si occupano di metalli hanno relazioni di lunga data con fornitori russi. Tale commercio, in particolare dell’alluminio, è proseguito pressoché ininterrotto dall’inizio della guerra.

AP ha trovato più di 900 spedizioni per un totale di oltre 264 milioni di tonnellate di metalli da febbraio. La Russia è uno dei maggiori produttori di alluminio greggio al di fuori della Cina e un importante esportatore globale. Ma la guerra ha colpito anche quel mercato globale. “Come tutti i produttori”, ha affermato il portavoce dell’Aluminium Association Matt Meenan, “abbiamo assistito a impatti sulla catena di approvvigionamento in termini di aumento dei costi energetici e altre pressioni inflazionistiche che l’invasione ha esacerbato”. L’alluminio russo finisce su parti di automobili e aeroplani americani, lattine e cavi di bibite, scale e rack solari. Il più grande acquirente statunitense all’inizio del 2022 era una filiale del colosso mondiale dell’alluminio di proprietà russa Rusal. Ad aprile, i dirigenti senior di Rusal America hanno acquistato la parte della società con sede negli Stati Uniti e l’hanno rinominata PerenniAL. Solo nel mese di luglio, PerenniAL ha importato più di 35.000 tonnellate dalla Russia. La società non ha risposto alle richieste di commento.

Inoltre, tra le società private che scelgono di reperire materiali dalla Russia ci sono appaltatori del governo degli Stati Uniti supportati da dollari delle tasse federali. Boeing, la più grande compagnia aerospaziale del mondo, ha firmato un contratto federale per un massimo di 23,8 miliardi di dollari nel 2021; ha importato 20 tonnellate di alluminio a giugno da Kamensk-Uralsky Metallurgical Works. A marzo, gli Stati Uniti hanno vietato le esportazioni a Kamensk-Uralsky perché fornisce metalli all’esercito russo, ma non hanno imposto restrizioni alle importazioni. Un rappresentante della Boeing ha affermato che la società ha preso la decisione di interrompere il commercio con la Russia a marzo e ha spiegato che la spedizione arrivata a giugno era stata acquistata quattro mesi prima.

Un altro importatore di metalli, Tirus US, è di proprietà della società russa VSMPO-AVISMA, il più grande produttore mondiale di titanio. VSMPO fornisce anche metallo all’esercito russo per costruire aerei da combattimento. L’ampia impronta globale dell’azienda e il prodotto specifico, il titanio, sottolineano le sfide legate all’isolamento della Russia dal commercio globale. Tirus US vende titanio a più di 300 aziende in 48 paesi, tra cui una serie di acquirenti statunitensi, dai produttori di gioielli alle aziende aerospaziali.

La società ha affermato solo che, a causa delle sfide significative negli Stati Uniti, ha collaborato con diverse società americane per alleviare i problemi della catena di approvvigionamento.

LEGNAME

Le vaste foreste della Russia sono tra le più grandi al mondo. Dopo il Canada, la Russia è il secondo maggiore esportatore di legno e possiede alcuni degli unici stabilimenti in grado di produrre compensato di betulla baltico robusto e solido, pavimenti utilizzati in tutti gli Stati Uniti. Quest’anno, l’amministrazione Biden ha iniziato a imporre tariffe sulle esportazioni di legno russe, una mossa che ha fatto infuriare Ronald Liberatori, un commerciante di legno con sede in Nevada che vende betulla baltica coltivata in Russia a tutti i principali produttori di mobili, imprese edili e produttori di pavimenti negli Stati Uniti. “Il problema qui è che la Russia è l’unico paese al mondo che produce questo prodotto, ” Egli ha detto. “Non c’è una fonte alternativa”. Ha detto che oltre alla tariffa, ha dovuto versare una cauzione di $ 800.000 per assicurarsi di pagare le tasse, aumentando ulteriormente i prezzi. “Chi lo paga? Chi? Tu e ogni altro individuo negli Stati Uniti”, ha detto. “Siamo così dannatamente arrabbiati per quello che ha fatto Biden. Questa è una questione di governo contro governo”.

Liberatori ha affermato che i decisori devono considerare chi sarà più danneggiato dalle tariffe prima di imporle.

Un altro importatore di legno e carta ha detto ad AP che, sebbene avesse interrotto qualsiasi nuovo ordine a febbraio, aveva in Russia enormi quantità di legname che erano già state pagate; la spedizione finale è arrivata negli Stati Uniti a luglio.
Un’analisi delle merci importate dalla Russia mostra che alcuni articoli sono chiaramente legali e persino incoraggiati dall’amministrazione Biden, come le oltre 100 spedizioni di fertilizzanti arrivate dall’invasione. Prodotti ora vietati come petrolio e gas russo hanno continuato ad arrivare nei porti degli Stati Uniti molto tempo dopo l’annuncio delle sanzioni dovute a periodi di “rilassamento”, consentendo alle aziende di completare i contratti esistenti.

CARBURANTE

L’8 marzo, Biden ha annunciato che gli Stati Uniti stanno vietando tutte le importazioni di petrolio, gas ed energia russi, “prendendo di mira l’arteria principale dell’economia russa”. “Ciò significa che il petrolio russo non sarà più accettabile nei porti statunitensi e il popolo americano infliggerà un altro potente colpo alla macchina da guerra di Putin”, ha affermato. In poche ore, è stato riferito che una nave che trasportava 1 milione di barili di petrolio russo negli Stati Uniti ha cambiato rotta verso la Francia. Ma molti altri hanno continuato. Quella settimana, circa un milione di barili di greggio russo era arrivato al largo del porto di Filadelfia, diretto alla raffineria di petrolio di Delta Airlines Monroe Energy. Nel frattempo, una petroliera con circa 75.000 barili di petrolio di catrame russo è entrata nel porto di Texas City, in Texas, diretta alle raffinerie di Valero dopo una lunga traversata dell’Atlantico settentrionale, secondo i registri commerciali. Le spedizioni sono continuate a Valero, ExxonMobil e altri. Julie King, media manager della ExxonMobil, ha detto ad AP che una consegna di petrolio a luglio era di origine kazaka e non soggetta a sanzioni. Ha affermato che la Exxon “sostiene gli sforzi coordinati a livello internazionale per porre fine all’attacco non provocato della Russia e sta rispettando tutte le sanzioni”.

Il portavoce della Monroe, Adam Gattuso, ha affermato che la società non ha ricevuto più carburante russo e non “prevede di farlo nel prossimo futuro”. Valero non ha risposto alle richieste di commento.

Andrea Schlaepfer, portavoce dell’esportatore olandese di combustibili Vitol, ha affermato che tutte le sue spedizioni di petrolio e gas dal 22 aprile provengono dal Kazakistan, dove gli oleodotti e le reti ferroviarie corrono dai giacimenti petroliferi e dalle raffinerie del paese senza sbocco sul mare ai vicini porti russi.

Per l’uso della sua infrastruttura portuale, degli ormeggi e delle tasse, la Russia guadagna circa 10 milioni di dollari all’anno. Schlaepfer ha affermato che gli agenti della dogana e della protezione delle frontiere statunitensi esaminano e verificano che le sue spedizioni che entrano negli Stati Uniti non contengano prodotti russi. Ma il CBP non ha risposto a ripetute domande su come gestisce sanzioni e divieti sulle merci russe.

Una scheda informativa del CBP afferma che svolge un “ruolo critico” nell’imporre divieti alle importazioni, tuttavia un portavoce ha ripetutamente riferito l’AP ai dipartimenti di Stato e del Tesoro.

ALTRO

Finora quest’anno, quasi 4.000 tonnellate di proiettili russi sono arrivate anche negli Stati Uniti, dove sono state distribuite a negozi di armi e rivenditori di munizioni. Alcuni sono stati venduti ad acquirenti statunitensi da società statali russe, mentre altri provenivano da almeno un oligarca sanzionato. Quelle spedizioni sono rallentate in modo significativo dopo aprile.

AP ha anche tracciato milioni di dollari di spedizioni di esafluoruro di uranio radioattivo dalla Tenex JSC, di proprietà statale russa, il più grande esportatore mondiale di prodotti del ciclo del combustibile nucleare iniziale, a Westinghouse Electric Co. nella Carolina del Sud. Il materiale nucleare non è sanzionato.

Il materiale radioattivo inviato dalla Russia negli Stati Uniti viene trasportato a nord del confine per sterilizzare le forniture mediche imballate utilizzate in tutto il Nord America.

Sebbene le importazioni di alcuni prodotti alimentari, come frutti di mare e vodka, siano state limitate, il mese scorso il Dipartimento del Tesoro ha pubblicato una scheda informativa in cui ribadisce che il commercio agricolo tra Stati Uniti e Russia è ancora molto consentito.
La fabbrica di cioccolato Red October si trova proprio di fronte al Cremlino a Mosca. Oggi è un’attrazione turistica con appartamenti, negozi e ristoranti.
Ma l’azienda, Krasny Oktyabr, produce e vende ancora caramelle e altre prelibatezze tradizionali da uno stabilimento di produzione alla periferia della Russia.

A Brooklyn, New York, Grigoriy Katsura, presso gli uffici statunitensi di Krasnyi Oktyabr Inc, ha affermato che continuano a importare delizie, un assaggio dell’infanzia per gli immigrati russi.

“Certo che ci sono abituati”, ha detto.

E così, ogni poche settimane, le spedizioni arrivano al loro magazzino dalla Russia: grano saraceno, frutta secca e il loro cioccolato di fama mondiale.

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AP Data journalist Larry Fenn in New York contributed to this report. Mendoza reported from Santa Cruz, California.

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5117.- Mons. Crepaldi: Globalismo e globalizzazione: il mondo dopo la pandemia

Avrete sentito, da più parti politiche, argomentare della rifondazione di un partito politico di centro e, a un tempo, della sfiducia dei cittadini nella politica del potere per il potere. Mi è arduo il pensare a una politica di centro, come fu rappresentata dalla Democrazia Cristiana, oggi che non si vedono politiche di sinistra e, all’occorrenza, in sostanza, nemmeno di destra, ma solo chiacchiere. Se pensiamo alla politica come incontro delle coscienze e non come mercato del potere, è bene armarsi di fede e pazienza. Pazienza, sopratutto, verso i compagni di questo progetto, che, calato il sipario, non rinunceranno mai al progetto del potere, pure parlandovi di equilibri, di partecipazione, di valori e del messaggio di Cristo: senza dubbio, il Figlio di Dio, vista la pazienza infinita e l’amore.

Abbiamo, in Italia, tante manifestazioni del magistero sociale della Chiesa cattolica che dovrebbe animare in primis quel terzo stato produttivo di cui è paladino un caro amico; che dovrebbe costituire un fondamento dell’istruzione e della crescita sociale, come intesero i padri costituenti, da Aldo Moro, con il principio lavoristico dell’art. 1, a quel mirabile manifesto sindacale che scorgo nell’art. 38. Nella sostanza, verrebbero a mente le associazioni, come le Acli; ma, poi, tutto sfuma e ritroviamo le catene di sempre.

In Italia; ma è all’Europa che dobbiamo mirare, per infondervi, in una costituzione confederale per gli europei, i valori cristiani, ben rappresentati e poco difesi nella nostra carta costituzionale. All’Europa, perché avanti è la meta. Ben volentieri presento questa conversazione di Mons. Giampaolo Crepaldi, fonte e stimolo per la nostra riflessione.

Di Redazione Blog di Sabino Paciolla|Maggio 21st, 2022

Mons. Giampaolo CrepaldAi, arcivescovo di Trieste
S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi, Vescovo di Trieste – Italia

In questa conversazione mi propongo di svolgere il mio intervento in due momenti. Dapprima cercherò di mettere a fuoco la corretta concezione della globalizzazione e del globalismo, tenendo conto delle principali indicazioni in questo campo della Dottrina sociale della Chiesa. Mi riferisco non solo ai passaggi in cui le encicliche sociali affrontano direttamente l’argomento, ma soprattutto ai principi di riflessione e ai criteri di giudizio del magistero sociale della Chiesa. Ritengo che una serie di precisazioni iniziali siano fondamentali per costruire un quadro di riferimento adeguato per questo seminario. In un secondo passaggio entrerò più specificamente nel titolo che mi è stato assegnato, con clune riflessioni sulla pandemia che ha interessato il pianeta negli ultimi due anni. Si tratterà di vedere se essa ha favorito una globalizzazione corretta e conforme ai principi che avremo evidenziato nella prima fase, oppure no. Infine, terminerò con brevi suggerimenti sulla ripartenza dopo la crisi.

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La prima distinzione utile e per certi versi indispensabile a farsi, è quella tra globalità, globalizzazione e globalismo. La globalità è la realtà dell’unità del genere umano accomunato da un unico destino e caratterizzato da relazioni umane fondamentali per la sua vita. Non si tratta solo di una unità esistenziale, accertabile di fatto mediante l’analisi dei fenomeni di interconnessione. Questa sarebbe una unità solo superficiale e accidentale, a proposito della quale la Caritas in veritate afferma che ci rende più vicini ma non più uniti. La globalità è un fatto antropologico, è una dimensione vera e reale della vita umana e, almeno potenzialmente, c’è sempre stata. La globalizzazione è invece il processo per cui i fenomeni della vita si mostrano sempre più interconnessi a seguito dello sviluppo scientifico e tecnologico ma anche di quello culturale. La comunicazione, l’economia, i movimenti sono sempre più integrati. Quello della globalizzazione è un processo di fatto in atto e, quindi, la parola non esprime nessuna valutazione assiologica. Come tutti i processi esso richiede di essere governato e indirizzato ed è su questo punto – il suo governo – che si deve esprimere una valutazione. Il criterio principale per questa valutazione è che il processo di globalizzazione deve essere finalisticamente orientato dalla globalità, ossia dal bene del genere umano su cui si fonda la sua unità C’è poi il termine globalismo che indica la degenerazione della globalizzazione quando diventa pericolosa per il bene del genere umano, ossia per la globalità. Il globalismo è l’ideologia della globalizzazione, è un concetto artificiale funzionale ad interessi di parte. Per questi motivi l’aggettivo “globale” oggi è ambiguo e viene adoperato a seconda degli interessi ideologici in vari significati, ciò non aiuta a chiarire la problematica della globalizzazione.

Vorrei ora approfondire meglio come la Dottrina sociale della Chiesa vede quanto ho chiamato l’unità del genere umano e che fa da fondamento per ogni discorso sulla globalizzazione. L’unità del genere umano si colloca a tre livelli e la visione cristiana non deve tralasciarne nessuno. Il primo livello possiamo definirlo ontologico. Gli uomini hanno una medesima natura umana, sono collocati allo stesso livello nell’ordine naturale dell’essere, esprimono una “fraternità nell’essere”. Da questo deriva la grammatica naturale che permette loro di capirsi e la legge morale naturale e universale. C’è poi un livello morale o pratico che possiamo chiamare di “fratellanza nel bene”. Nel male è impossibile fraternizzare ed essere uniti. Ad unire praticamente le persone è sempre solo il fine, ossia il bene comune. Da qui deriva il concetto corretto di “cittadinanza universale”, oggi spesso abusato. Tale cittadinanza ha una base ontologica e morale fondata su quanto ho chiamato la “fraternità del bene”. Infine, c’è l’aspetto religioso e salvifico dell’unità del genere umano, fondata sull’incorporazione a Cristo, Unico Capo del suo Corpo Mistico e basata sulla partecipazione alla sua Grazia. È bene ricordare che questi tre livelli non sono da intendere come tre scalini successivi, che si aggiungono l’uno all’altro, ma come un ordine in cui certamente prevale l’ultimo di essi, ma in una specie di circolarità complementare come avviene nel rapporto tra la fede e la ragione. I tre livelli vanno distinti e perseguiti per sé in quanto dotati della loro legittima autonomia, ma non vanno mai separati perché in questo caso andrebbero perduti. Il livello che possiamo chiamare “superiore” è fondamentale per permettere al livello “inferiore” di essere sé stesso. Sottolineo questo aspetto perché certamente esiste una fratellanza ontologica, autonoma al suo proprio livello, ma senza la fratellanza nel bene (morale) e in Cristo (religiosa) anche quella ontologica viene perduta di vista. C’è senz’altro una “amicizia civica”, nota anche ad Aristotele, ossia alla filosofia in quanto tale, ma senza l’amicizia in Cristo, senza la presenza di Dio, non si dà pienamente alcuna fraternità civica. Questo afferma la Dottrina sociale della Chiesa che distingue per unire e unisce per distinguere.

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Nella filosofia politica contemporanea e nelle principali correnti delle scienze sociali di oggi si parla pure e insistentemente di una unità globale. C’è oggi una forte tendenza all’universalismo e al globalismo nell’intento di integrare tutto il mondo in una sola comunità universale dotata di un’unica morale e di una unica religione civile. Si tratta però di una visione artificiale, dato il passo decisivo della mentalità moderna verso la società come artificio, come costruzione umana a seguito di un patto, come convenzione. I tre livelli di cui ho parlato sopra – ontologico, morale, religioso – sono rifiutati da una visione pattizia e consensuale della società, compresa la società universale. La storia ci ha dato molti esempi di una simile visione: Tommaso Campanella, Hobbes, Rousseau, l’illuminismo, Kant, le utopie socialiste e anarchiche, Saint-Simon, Comte, il comunismo nelle sue varie accezioni, gli obiettivi universalisti massonici e così via. Le versioni di questo genere non possono evitare di trasformare la globalità in globalismo, per tornare ai due concetti evidenziati sopra, dato che si fondano su un patto artificiale mancante volutamente di presupposti. Ne consegue che tali visioni dell’unità del genere umano e della globalizzazione avranno carattere utopistico (non fondate su cosa è ma su cosa sarà), violento (perché innaturali), rivoluzionario (incentrate su ciò che si vuole che sia), dispotico e ateo, ossia tendente ad una nuova religione civile globale vagamente umanistica. Tutti fenomeni, questi, che possiamo riscontrare anche oggi In questa visione artificiale della globalizzazione la dimensione universale sarà costituita da un accostamento di individui collegati esteriormente in una massa globale, che danno il loro consenso ad una serie di principi artificiali imposti dal prevalere di una cultura e una religione artificiali. Una simile visione, oggi molto avanti nella realizzazione, non rispetta l’ordine naturale e finalistico della società e nemmeno i principi della Dottrina sociale della Chiesa, compreso quello di sussidiarietà. In questa visione, le famiglie, i popoli e le nazioni tendono ad essere centrifugati in una marmellata universale dai caratteri stabiliti dai potenti di turno.

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Vorrei passare ora ad alcune considerazioni sulla pandemia e sul dopo-pandemia in relazione alle problematiche della globalizzazione.  L’epidemia connessa con la diffusione del “COVID-19” ha avuto un forte impatto su molti aspetti della convivenza tra gli uomini. Il contagio è stato prima di tutto un evento di tipo sanitario e già questo lo collega direttamente con il fine del bene comune, di cui la salute fa certamente parte. Nel contempo pone il problema del rapporto tra l’uomo e la natura e ci invita a superare il naturalismo oggi molto diffuso e dimentico che, senza il governo dell’uomo, la natura produce anche disastri e che una natura solo buona e originariamente incontaminata non esiste. Poi pone il problema della partecipazione al bene comune e della solidarietà, invitando ad affrontare in base al principio di sussidiarietà i diversi apporti che i soggetti politici e sociali possono dare alla soluzione di questo grave problema e alla ricostruzione della normalità dopo il suo passaggio. È emerso con evidenza che tali apporti devono essere articolati, convergenti e coordinati. Il finanziamento della sanità, problema che il Coronavirus ha fatto emergere con grande evidenza, è un problema morale centrale nel perseguimento del bene comune. Urgono riflessioni sia sulle finalità del sistema sanitario, sia sulla sua gestione e sull’utilizzo delle risorse, dato che un confronto con il recente passato fa registrare una notevole riduzione del finanziamento per le strutture sanitarie. Connesse con il problema sanitario ci sono poi le questioni dell’economia e della pace sociale, dato che l’epidemia mette in pericolo la funzionalità delle filiere produttive ed economiche e il loro blocco, se continuato nel tempo, produrrà fallimenti, disoccupazione, povertà, disagio e conflitto sociale. Il mondo del lavoro sarà soggetto a forti rivolgimenti, saranno necessarie nuove forme di sostegno e solidarietà e occorrerà fare delle scelte drastiche. La questione economica rimanda a quella del credito e a quella monetaria. Ciò, a sua volta, ripropone la questione della sovranità nazionale, facendo emergere la necessità di rivedere la globalizzazione intesa come una macchina sistemica globalista, la quale può anche essere molto vulnerabile proprio a motivo della sua rigida e artificiale interrelazione interna per cui, colpito un punto nevralgico, si producono danni sistemici complessivi e difficilmente recuperabili. Destituiti di sovranità i livelli sociali inferiori, tutti ne saranno travolti. D’altro canto, il coronavirus ha anche messo in evidenza le “chiusure” degli Stati, incapaci di collaborare veramente anche se membri di istituzioni sovranazionali di appartenenza.

Il fenomeno della pandemia da Covid-19 ha senz’altro prodotto una maggiore consapevolezza della necessità di lavorare insieme soprattutto davanti a queste crisi sistemiche. Però ha anche messo in evidenza alcune caratteristiche non condivisibili o preoccupanti circa il mondo di affrontare insieme queste crisi sistemiche.

L’emergenza pandemica ha impresso una accelerazione ad alcuni fenomeni che sembrano problematici. Il primo è un nuovo evidente accentramento di potere sia a livello nazionale che internazionale. Si assiste, soprattutto in America Latina ma non solo, a nuove forme di statalismo e di neosocialismo. Il cosiddetto “Modello cinese” viene spesso imitato come possibile risposta alla crisi pandemica. A livello globale pure si è verificato una tendenza ad un accentramento, comprensibile da un lato perché il fenomeno da tenere sotto controllo era globale, ma dannoso dall’altro perché c’è stata come una grande esercitazione per il controllo centralizzato dei movimenti delle persone, la sospensione delle garanzie di libertà, la prevalenza del potere esecutivo sul legislativo e sul giudiziario, l’appello interessato agli “esperti”, la diffusione di una narrazione politica stabilita dal potere. Durante la pandemia si sono sperimentate forme di controllo e sorveglianza sociale che potrebbero essere impiegate in futuro in altri campi diversi da quello sanitario. E’ stata anche implementata la regola dei “crediti sociali”: se non assumi un certo comportamento non puoi usufruire di questo o quell’altro benefit sociale.

Certamente la pandemia ha aumentato la sensibilità ai problemi comuni, ma ha anche alimentato forme di individualismo, di contrapposizione, di squalificazione reciproca, di delazione, di emarginazione sociale. Ne usciamo più consapevoli della necessità di aprirci alla collaborazione, ma anche più sospettosi gli uni degli altri e anche rispetto alle autorità siano esse politiche che sanitarie.

La pandemia è stata qualificata come una grande “emergenza”, e realisticamente lo è stata. Però non si può negare che essa sia anche stata utilizzata per legittimare cambiamenti globali che senza di essa sarebbe stato difficile far accettare. Può quindi aver costituito un precedente e in futuro nuove emergenze potrebbero essere artificialmente prodotte proprio per giustificare cambiamenti strutturali. E’ questo un pericolo che dobbiamo tenere in contro. L’emergenza ecologica, l’emergenza demografica, l’emergenza energetica, una nuova emergenza sanitaria … domani potrebbero indurre a nuovi “Reset”. Uno di questi cambiamenti mi preme qui portare alla vostra attenzione: la transizione digitale.  La digitalizzazione della vita quotidiana – dalla burocrazia all’economia alla finanza – costituisce certamente un fattore di progresso ma presenta anche il pericolo di fornire le basi tecnologiche per un sistema di controllo molto diffuso e pervasivo. La questione dei Big Data non è di secondaria importanza. La necessità di controllare i movimenti delle persone durante la pandemia – legittima entro certi limiti – è stata sviluppata come invito ad una transizione digitale che interesserà anche altri campi ed altri movimenti e finirà per riguardare la vita intera delle persone. Tra l’altro con il consenso dei cittadini, dato che essi sono impauriti dall’emergenza e quindi concedono al potere politico un raggio di azione più ampio di quanto non concederebbero in situazione normali.

Molti fenomeni innescati dalla pandemia vengono indirizzati ad una globalizzazione intesa come globalismo. Si parla di creare una società di non-possidenti, con l’abolizione della proprietà privata sostituita da uno sharing universale senza chiarire chi avrà la proprietà delle cose da condividere. Si prospetta una ideologia ambientale globalista antinatalista ed antifamilista. Si vorrebbe creare una religione universale priva di dogmi e che consiste in “buone pratiche” sociali che però non si sa chi le debba stabilire.

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Vorrei ora intrattenermi brevemente a considerare alcuni aspetti della ripartenza dopo la crisi. Tutti, infatti, ci interroghiamo sui punti di partenza per la ripartenza dopo la pandemia. Vorrei qui indicarne tre: ripartire dalla coscienza, ripartire dalla ragione, ripartire dalla fede.

Ripartire dalla coscienza. La ripartenza dovrà prima di tutto fondarsi sulla coscienza. Dobbiamo realisticamente chiederci se nella attuale situazione politico-sanitaria ci si sia veramente preoccupati di alimentare il giudizio della coscienza personale. Spesso le decisioni sono state dettate dall’imitazione, dall’obbligo indiretto, dalla fretta, sulla parola di uno o dell’altro esperto, affidandosi ad una o all’altra delle narrazioni in campo, dentro un mare di informazioni confuse e contraddittorie in cui spesso la coscienza è naufragata. Quando la coscienza si addormenta, quando ci si abitua a risolvere senza troppa fatica questioni che invece sono complesse, quando ci si scontra tra di noi non con argomentazioni ma con scelte assunte “per sentito dire” o per “parte presa”, i danni sono destinati a ripercuotersi a lungo.

Nel suo famoso libro “Il potere” del 1951, Romano Guardini aveva messo in luce il pericolo che il potere fosse separato dalla responsabilità: “La progressiva statalizzazione dei fatti sociali, economici, tecnici – e noi potremmo aggiungere, sanitari – e insieme le teorie materialistiche che concepiscono la storia come un processo necessario significano il tentativo di abolire il carattere della responsabilità accettata, di scindere il potere dalla persona”. Guardini, nella stessa opera, mette in guardia da un pericolo che anche oggi stiamo vivendo, ossia quello del potere “anonimo”: “Può anche avvenire che dietro di esso – ossia del potere – non ci sia alcuna volontà a cui ci si possa rivolgere, nessuna persona che risponda, ma solo una organizzazione anonima”, e sembra che l’azione passi attraverso le persone come semplici anelli di una catena.

Ripartire dalla ragione. Durante la pandemia la ragione scientifica non è stata utilizzata per quello che è, ossia nei suoi successi e nei suoi limiti. In certi casi la scienza è stata esaltata, andando ben oltre la saggia umiltà di molti scienziati ben consapevoli del suo carattere ipotetico. In altri casi è stata svilita e accusata di complicità col potere politico, il quale del resto – occorre riconoscerlo – l’ha utilizzata altrettanto spesso per i propri scopi, nascondendosi dietro l’espressione “lo dice la scienza”. Il piano empirico della raccolta dei dati, quello scientifico teso ad informare sui contenuti scientifici delle scelte in campo, il piano etico della valutazione morale in vista del bene sia personale che interpersonale, il livello politico teso a considerare il tutto della comunità politica per agire in vista del bene comune, senza riduzionismi a logiche di parte, siano esse quelle delle industrie farmaceutiche o quelle degli imprenditori o quelle dei sindacati eccetera …  sono piani distinti tra loro e nello stesso tempo collegati.

Ricominciare dalla Fede. La Chiesa non confonde mai la salute, nel senso sanitario del termine, con la salvezza. La Chiesa non aiuterà la comunità a vincere la sfida sulla “salute” diventando una agenzia “sanitaria” ma proponendo la “salvezza”, che dall’alto della vita di grazia scende anche in basso a fecondare la vita sociale.

Mi avvio alla conclusione. L’emergenza dell’epidemia in atto interpella in profondità la Dottrina sociale della Chiesa. Questa è un patrimonio di fede e di ragione che in questo momento può dare un grande aiuto nella lotta contro l’infezione, lotta che deve riguardare tutti i gradi ambiti della vita sociale e politica. Soprattutto può dare un aiuto in vista del dopo-coronavirus. Serve uno sguardo di insieme, che non lasci fuori nessuna prospettiva veramente importante. La vita sociale richiede coerenza e sintesi, soprattutto nelle difficoltà, ed è per questo che nelle difficoltà gli uomini che sanno guardare in profondità e in alto possono trovare le soluzioni e, addirittura, le occasioni per migliorare le cose rispetto al passato.

S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi

[1]  Conferenza tenuta il 19 maggio 2022 al Corso internazionale on-line  GLOBALISMO, SOBERANÍA E IDENTIDAD NACIONAL. UNA REFLEXIÓN DESDE EL ÁMBITO POLÍTICO, SOCIAL Y ECONÓMICO, promosso dalla facoltà di Diritto della Università Pontificia Argentina e diretto dal Prof. Daniel Passaniti.

5016.- Non c’è democrazia nel regime di Mosca e nemmeno nell’ipocrisia di Washington, ma non è di tutti.

In estrema sintesi, la differenza sta nel fatto che l’oligarchia russa “di Putin” si batte per la Federazione Russa, mentre la democrazia degli Stati Uniti “di chi Non si Sa” manda a combattere per il potere finanziario di pochi. Infine, l’Unione europea non sa per chi deve combattere e usa “fare ammuina” alla sua maniera:

(Napuletano)
« All’ordine di Joe, Ursula dicite: Facite Ammuina!

Tutti chilli che stann’ a Strasbourg vann’ a Bruxelles
e chilli che stann’ a Bruxelles vann’ a Strasbourg:

chilli che stann’ a popolari vann’ a socialisti
e chilli che stanno a conservatori vann’ a verdi:

chilli cchiu draghi assai stann’ a retro a Joe, ma
tutti chilli che stanno abbascio vann’ ncoppa a iddu
e chilli che stanno ncoppa a iddu vann’ bascio

passann’ tutti p’o ‘sto pertuso:
Macron e Scholz che nun tene nient’ a ffà, s’ aremenano a ‘cca e a ‘llà”.

N.B. da usare in occasione di “stati d’emergenza nell’Unione.”

Come a Pearl Harbour, nessuna sorpresa.

Pochi giorni prima dell’invasione russa dell’Ucraina, il 10 febbraio 2022, in un intervento al Congresso americano, il senatore Bernie Sanders, candidato alla presidenza, lanciò un monito chiarissimo sui possibili rischi “in materia di sicurezza” per la relazione corrente tra Stati Uniti e Ucraina. “Ci saranno ingenti costi per entrambi i paesi”, avvertì il senatore, sottolineando, in un lungo discorso che “le preoccupazioni di Putin per un eventuale ingresso di Kiev nella Nato non sono state inventate ieri, così dal nulla”. Spiegando l’importanza che la “dottrina Monroe” ha nella politica estera statunitense,

“Chiaramente, l’invasione russa dell’Ucraina non è una risposta; ma non lo è neanche l’intransigenza della NATO”. “Negli ultimi 200 anni il nostro paese ha operato sotto la dottrina Monroe.”

Sanders ha quindi proseguito: “Anche se la Russia non fosse stata governata da un oligarca corrotto e da un leader autoritario come Putin, Mosca continuerebbe ad avere interessi nella security policy dei propri vicini”.

Una previsione, ma sarebbe più corretto chiamarla constatazione, la sua, che letta alla luce di quanto accaduto poi suona quasi profetica, visto il contesto temporale in cui è avvenuta, ossia pochissimi giorni prima che la situazione dell’Est Europa degenerasse totalmente.

Ecco quali furono, solo qualche settimana fa, le preoccupazioni e le dichiarazioni di Sanders il merito al rapporto fra la Russia, l’Ucraina e gli attori geopolitici internazionali della NATO.

Bernie Sanders lo aveva predetto: le parole del senatore sul conflitto in Ucraina

Abbiamo compreso, ormai, che l’invasione della Ucraina non è stata un atto di pazzia da parte di Putin, ma l’atto conclusivo, imposto dall’assedio della NATO alle frontiere della Federazione Russa: un assedio che si è sviluppato negli anni che hanno seguito il dissolvimento dell’Unione sovietica, a completare la vittoria americana e il controllo e, quindi, il dominio dell’Eurasia da parte del potentato finanziario che controlla, in modo variabile, le aree dell’Occidente: Stati Uniti (non più d’America, a leggere il dollaro), Canada, Unione europea, Giappone, Australia. E ripetiamo: Chi controllerà l’Eurasia, controllerà il mondo.

Soltanto, vogliamo far notare come qui non si parli necessariamente di Stati, ma, come per l’Occidente di aree soggette a controllo finanziario e una conferma ci viene dalle violazioni cui soggiacciono le costituzioni degli stati europei, quella italiana in primis. Abbiamo compreso, anche, che in Ucraina si sta giocando una partita fra Stati Uniti e Cina e, anche qui, in considerazione delle interessenze finanziarie fra le due potenze, guardiamo, più che agli stati, ai due emisferi. Infine, emerge il confronto in atto fra l’ordine nuovo internazionale rappresentato ufficialmente da Biden e il nuovo fronte liberista alternativo, di fatto al globalismo, di cui parla Pompeo (vedasi al nostro n. 5009).

Soltanto si ricorda che questo movimento mette in prima fila gli interessi dei singoli paesi in subordine alle organizzazioni sovranazionali rappresentate – male – da Joe Biden. E tutto questo per ricordare che il nuovo ordine internazionale dispone a piacimento della NATO, disporrebbe altrettanto di un esercito futuro europeo, mercenario e che i dolori del popolo ucraino se li sono, ‘sì, cercati, ma, un domani non lontano, potrebbero essere i nostri. Putin aveva avvertito e avverte sempre.

Parliamo, quindi, dell’intervento in una seduta del Congresso statunitense riguardante, proprio, i rapporti fra gli Stati Uniti e l’Ucraina e l’atteggiamento della NATO verso quest’ultima, intervento tenuto dal senatore Bernie Sanders qualche giorno prima che la Russia, inascoltata, dichiarasse guerra all’Ucraina.

Il politico ha infatti lanciato l’allarme circa i rischi “in materia di sicurezza” fra gli Stati Uniti e Kiev, avvertendo che ci sarebbero stati “ingenti costi per entrambi i paesi”.

Nel suo lungo intervento il senatore ha esplicitato, mettendolo nero su bianco, le sue considerazioni circa la preoccupazione di Putin di “un eventuale entrata nella Nato”della nazione ucraina e ribadendo l’enorme importanza della dottrina Monroe in materia di politica estera statunitense.

A tal riguardo Sanders ha aggiunto: “Anche se la Russia non fosse stata governata da un oligarca corrotto e da un leader autoritario come Putin, Mosca continuerebbe ad avere interessi nella security policy dei propri vicini”.

Con tale dichiarazione, Sanders si riferiva all’ipotesi che se paesi vicini come Messico, Cuba e America del Sud si alleassero fra di essi, di certo gli Stati Uniti non starebbero a guardare inermi.

“Sapevamo a cosa andavamo incontro”: il monito di Sanders che non è stato ascoltato

L’ex segretario della difesa, William Perry, definì gli Stati Uniti come responsabili di gravi errori nei rapporti con la Russia, in primis la decisione di espandere i territori NATO verso l’Est Europa, pur consapevoli dei rischi a cui si stava andando incontro, come ha citato lo stesso Sanders.

Preoccupazioni, queste ultime, che vennero condivise dall’ex diplomatico Bill Burns, il quale nelle sue “memorie” riporta una nota che egli stesso scrisse quando ricopriva il ruolo di Consigliere per gli Affari Politici nell’ambasciata a Mosca nel 1995:

“L’ostilità verso l’espansione NATO è quasi universalmente avvertita in tutto lo spettro politico interno”, scrisse.

A distanza di 26 anni le sue considerazioni si sono dimostrate quanto mai veritiere.

L’attualità della Dottrina Monroe

Con la Dottrina Monroe si fa riferimento al messaggio ideologico lanciato da James Monroe, presidente degli Stati Uniti dal 1817 al 1825, e che è contenuto all’interno del discorso sullo stato dell’Unione che Monroe pronunciò dinanzi al Congresso il 2 dicembre del 1823.

Il messaggio che il presidente voleva comunicare, implicitamente ma non troppo, era il fatto che gli Stati Uniti non avrebbero ammesso ulteriori invasioni da parte delle potenze europee o loro potenziali intromissioni.

A ribadire l’estrema attualità di tali considerati è sempre Sanders, che nel suo intervento conclude:

“Signor Presidente, i Paesi dovrebbero essere liberi di scegliere le proprie politiche estere. Ma fare tali scelte in maniera saggia richiede una seria considerazione sui costi e sui benefici che ne conseguono. Il fatto è che gli USA e l’Ucraina stanno entrando in una profonda relazione in materia di sicurezza, ed è verosimilmente probabile che ci saranno seri costi per entrambi i Paesi”.

Dunque, Sanders cita gli USA e l’Ucraina, ma ben sappiamo come la Cina e l’India guardino con interesse alle risorse ucraine, come alle russe, mentre le sanzioni degli Stati Uniti sembrano mirare tanto alla Russia quanto e forse di più all’Unione europea. Al presente, gli attori principali sono Stati Uniti e Cina, insieme alla Russia che lotta per non essere retrocessa da potenza globale a potenza regionale. Ecco perché Putin a parlato ai popoli russi di guerra per il futuro.

4822.- Ucraina? Ci pensi l’Europa, gli Usa puntano l’Asia. Intervista a Elbridge Colby

Come riflettere su queste esternazioni, mentre la politica estera Usa e, per lei, quella britannica lanciano allarmi sulla prossima invasione russa? Dice Bechis: “Abbiamo bisogno di un più forte impegno nel contenimento cinese, di nuove risorse da investire nella competizione tra grandi potenze.”

Nemmeno una riflessione sul fatto che la Federazione Russa sarebbe ed è Occidente, ma è lì, sospesa, perché gli Stati Uniti d’America non sarebbero in grado di dominarla. Ecco una ragione a favore del globalismo.

La risposta di Putin a Biden è stata semplice e chiarissima: “Se la NATO si installa in Ucraina, ricorrerò alle armi!” Putin ha paventato “missili fuori della porta di casa” e sappiamo, ormai, che è proprio questa la strategia del Pentagono per recuperare il gap con la tecnologia russa. Mentre gli Stati Uniti soffiano sul fuoco delle tensioni armando l’Ucraina e sanzionando ulteriormente la Russia, al confine con l’Ucraina, per ora, l’esercito russo ha uno schieramento difensivo e la Ue, preoccupata, ché di più non può, non è riuscita a diventare un interlocutore diretto di Mosca.

Così, mentre Washington è proiettato nell’Indo-Pacifico, Regno Unito e Polonia investono nella spesa militare e faranno da mestatori in Europa, ma, guardando alle relazioni della Germania con la Russia, siamo proprio sicuri che Stati Uniti e Regno Unito faranno gli interessi degli europei? Li hanno mai fatti? E qual’è la posizione comune europea sull’Ucraina che hanno elaborato Macron e Scholz, a Berlino? E sulla Georgia? Dobbiamo uscire da questa anomalia istituzionale europea e diventare un vero stato.

Di Francesco Bechis | 27/01/2022 – Formiche.it, Esteri

Ucraina? Ci pensi l’Europa, gli Usa puntano l’Asia. Intervista a Elbridge Colby

Intervista all’uomo che ha firmato la Strategia per la difesa nazionale americana nell’amministrazione Trump, una vita tra intelligence e Pentagono. Ucraina? Ci pensi l’Europa, la Germania fa free riding. La nostra priorità è una sola: la Cina nell’Indo-Pacifico. Ecco cosa (non) può fare l’Italia

“Cara Europa, pensaci tu”. Nell’ultimo libro di Elbridge Colby, “Strategy of Denial” (“Strategia del rifiuto”, Yup), è riflesso il pensiero di una parte rilevante dell’establishment della politica estera e di sicurezza americana. Intervistato da Formiche.net Colby, analista di fama, architetto della Strategia per la difesa nazionale dell’amministrazione Trump del 2018 con un lungo trascorso al Pentagono e nell’intelligence, dà una lettura controcorrente. L’imminente invasione della Russia in Ucraina, dice, non deve distrarre neanche un minuto dalla competizione con l’unico, vero rivale dell’America.

Partiamo dal titolo. Cos’è la strategia del rifiuto?

Non abbiamo più il potere militare necessario per affrontare tutte le minacce del mondo contemporaneamente: dobbiamo scegliere. Il “rifiuto” di cui parlo riguarda soprattutto la strategia della difesa nazionale. Dobbiamo lavorare il più possibile con gli alleati, ma per difendere il vero interesse nazionale americano dobbiamo anzitutto impedire che una potenza straniera estenda il suo potere nella nostra vita quotidiana e metta in pericolo la nostra libertà e prosperità.

Di chi parla?

C’è solo una potenza al mondo in grado di farlo: la Cina. La centralità dell’Europa è in declino, così come la sua quota di Pil globale. Le potenziali minacce sono remote.

La Russia non sembra porre una minaccia molto remota…

La Russia è un attore pericoloso ma molto più debole della Cina. Non vuole dominare l’Europa, vuole restaurare un vecchio ordine in Europa orientale, e l’Ue la sovrasta in termini economici. Il nostro focus deve essere l’Asia, soprattutto sul fronte militare.

Perché?

Abbiamo bisogno di creare una coalizione anti-egemonica in Asia per impedire il dominio cinese insieme ai Paesi coinvolti in prima linea: India, Giappone, Australia. La Cina ne è spaventata. Ha al suo arco una serie di armi economiche, ma vanta anche una formidabile capacità militare. Che non è più solo diretta alla difesa nazionale, è sempre più una proiezione di potenza.

Qual è la strategia di Pechino?

Colpire i Paesi più deboli della coalizione per cercare di farla collassare. Gli Stati Uniti sono la pietra di volta di questo confronto in Asia. Se la Cina continuerà il pressing, alcuni alleati della regione potrebbero voler scendere a compromessi.

Dunque?

Abbiamo bisogno di costruire un’alleanza di difesa militare basata su standard militari comuni e di includervi Taiwan. Dopo il ritiro progressivo dal Medio Oriente e in parte anche dall’Europa, di fronte a noi c’è l’occasione storica di fare quel che andava fatto dieci anni fa: una grande transizione verso l’Indo-Pacifico. L’amministrazione Biden però sta remando contro. Un grave errore, perché rende la transizione più drammatica e gli alleati meno preparati.

Il famoso “Pivot-to-Asia” lanciato da Obama all’inizio della sua amministrazione. Non crede che in questo momento un’invasione russa in Ucraina ponga una più diretta minaccia all’Occidente?

Attenzione, la minaccia è diretta all’Europa. L’Occidente è un concetto culturale che ha poco a che vedere con la pianificazione militare. È vero, l’Ucraina sta attirando l’attenzione dell’amministrazione Biden. Un danno sia all’America che all’Europa.

Un danno?

Esatto. Gli alleati europei devono realizzare che in un futuro non molto lontano l’America non sarà sempre a loro disposizione. Così facendo si indebolisce in Asia, dove invece le mosse cinesi richiedono una drammatica revisione della strategia. La miglior cosa da fare dunque è mettere pressione sull’Europa per spingerla a difendersi da sola e accelerare la nostra transizione asiatica.

La copertina del libro

Mi faccia capire: invadendo l’Ucraina Putin sta facendo un favore alla Cina di Xi?

Il Cremlino ha le sue ragioni per invadere. Di certo un’invasione farebbe il gioco della Cina. Per questo, qualsiasi cosa succeda in Europa, noi dobbiamo proseguire il nostro spostamento strategico in Asia. Temo che Biden non l’abbia capito, continua a prendere tempo.

Un pronostico: la Russia invaderà?

Non posso dirlo con certezza. Certamente ne sono convinti alla Casa Bianca.

La Nato cosa dovrebbe fare?

Deve concentrarsi sulla Russia e sulla difesa del territorio europeo. E ovviamente confrontare la Cina lavorando sulla cooperazione nelle tecnologie e nella Difesa. Ma la sua missione principale è proteggere gli alleati da un’aggressione russa.

E la Difesa europea?

Deve essere il nucleo centrale di questo sforzo: l’America non ha più il potere e la forza per farlo. È giusto così: sarebbe naïve pensare di mantenere lo stesso assetto settantacinque anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando c’era Eisenhower al comando.

A suo parere l’Europa non sta facendo abbastanza?

Un passo indietro. Durante la Guerra Fredda gli europei, italiani inclusi, avevano ampie capacità militari convenzionali. Negli anni le hanno smantellate. È stata una decisione razionale, non giudico, ma il mondo dove sono gli americani a dover coprire le lacune di spesa nella Difesa europea non esiste più, non ha senso.

Biden sembra pensarla diversamente.

Si sbaglia, di grosso. Chiariamo: ci sono Stati come gli alleati scandinavi, il Regno Unito, la Polonia o la Francia che hanno aumentato le spese nella Difesa. Altri, come la Germania, che nonostante tutto continuano a fare free riding. È inaccettabile non solo per gli Stati Uniti ma soprattutto per gli alleati europei sul fronte Est che in queste ore fanno i conti con un’imminente incursione russa.

Si riferisce al Nord Stream II, il gasdotto russo in Germania?

È un tassello del quadro: semplicemente assurdo. Chiudono gli impianti di energia nucleare e si attaccano ai rubinetti del gas russo? Non bisogna sorprendersi, era prevedibile. A dispetto della retorica, la politica estera tedesca è sfacciatamente egoistica.

Torniamo all’Asia. Lei dice che gli Stati Uniti devono investire di più nella deterrenza anti-cinese. Ma quel piano c’è già: si chiama Aukus, il patto sui sottomarini a propulsione nucleare con Australia e Regno Unito. E ha già causato un terremoto con la Francia…

Disastro? Successo? Punti di vista. Il piano australiano per i sottomarini francesi non aveva senso, hanno preso la giusta decisione. Capisco che Parigi sia arrabbiata, ma diciamoci la verità: per gli Stati Uniti oggi l’Australia è un alleato molto più importante della Francia. Probabilmente il più allineato agli interessi americani e quello più esposto alla pressione cinese, mentre Macron va in giro a parlare di autonomia strategica. L’amministrazione Biden ha gestito male la partita, ha fatto marcia indietro. I benefici si vedranno nel medio lungo periodo.

Quattro anni fa ha firmato l’ultima versione della strategia per la sicurezza nazionale. Oggi cosa cambierebbe?

Abbiamo bisogno di un più forte impegno nel contenimento cinese, di nuove risorse nella da investire nella competizione tra grandi potenze. Purtroppo in questi anni l’establishment della Difesa e della politica estera americana è rimasto immutato.

Quali sono le nuove priorità?

La deterrenza nucleare contro la Cina. Il progressivo ritiro dal Medio Oriente e una maggiore responsabilizzazione degli alleati in Europa.

Il ritiro in Afghanistan è stata la mossa giusta?

Biden ha preso una decisione saggia e necessaria, l’ha gestita in modo catastrofico. La sua amministrazione non ha previsto la reazione dei talebani, non si è consultata con gli alleati europei. Ma almeno ha avuto il coraggio di uscire.

C’è ancora una missione americana in Medio Oriente?

Sì: sostenere convintamente gli accordi di Abramo. E dar vita a un’alleanza di partner regionali in chiave anti-iraniana non così diversa dalla Nato. Sauditi ed emiratini vanno aiutati insieme a Israele. Dovremmo vender loro armi, non sanzionarli.

L’Italia ha un ruolo nel Quadro strategico che ha descritto?

Sento parlare di un ruolo italiano nella crisi russa: improbabile. Un alleato come l’Italia dovrebbe piuttosto prendere le redini in Nord Africa e nel Mediterraneo orientale, da dove arrivano le vere minacce per la sua sicurezza nazionale, da un’immigrazione incontrollata al terrorismo. Dagli Stati Uniti ben venga tutto il supporto di intelligence necessario.

Nella competizione con la Cina l’Italia ha voce in capitolo?

Non ha le capacità militari necessarie per proiettarsi nell’Indo-Pacifico. Può però fronteggiare la Cina nelle sue attività economiche in Europa, mettere un freno alle mire cinesi nelle tecnologie sensibili. Questo sì sarebbe un contributo prezioso.

4678.- GEOPOLITICA DEL DRAGHISMO

Maurizio Blondet  17 Dicembre 2021 

Un ottimo articolo geopolitico di Eurasia che esamina dal 1992 fino ad oggi, dal Britannia al covid, il ruolo di Mario Draghi quale agente dell’atlantismo. Ne esce anche un quadro che evidenzia da un lato la presenza americana in Europa, attraverso i suoi uomini quale Draghi, intesa ad impedire l’unità politica e dall’altro come l’Ue sia in realtà un gioco di nazionalismi, di rapporti di forza tra gli Stati egemoni, Germania e Francia, e che pertanto essa è stata il paravento di ben altre strategie nascoste dalla retorica europeista. Uno scenario amaro per chi crede nell’Europa trimillenaria ma è purtroppo la triste realtà attuale. LC.

Di Daniele Perra – 16 Dicembre 2021 (I grassetti e le citazioni esprimono la nostra condivisione).

Il 2 giugno 1992, al largo delle coste di Civitavecchia, venne organizzato a bordo del Royal Yacht Britannia (il panfilo di Sua Maestà la Regina Elisabetta II) un incontro organizzato da alcuni finanzieri londinesi sul futuro economico dell’Italia. Tra gli ospiti italiani vi era l’allora Direttore Generale del Tesoro Mario Draghi. In quell’occasione, l’ex Direttore Esecutivo della Banca Mondiale tenne un discorso incentrato sulle privatizzazioni, in cui, sulla scia dei “successi” del “thatcherismo”, insistette sull’idea che la vendita del patrimonio statale fosse la migliore soluzione per accrescere le potenzialità produttive di un’Italia che si trovava sull’orlo del collasso politico ed economico. Più o meno nello stesso periodo, infatti, partirono le inchieste di “Mani Pulite” che avrebbero spazzato via la quasi totalità della classe politica della cosiddetta Prima Repubblica. E, a pochi giorni dall’incontro sul Britannia, vennero assassinati, a distanza di qualche settimana l’uno dall’altro, Giovanni Falcone ed il collega Paolo Borsellino. Inoltre, di lì a breve (nel settembre dello stesso anno), la Lira italiana subì un’ondata di attacchi speculativi che consentirono al “filantropo” George Soros di guadagnare 1,1 miliardi di dollari.

Questi eventi non possono essere compresi appieno senza tenere in considerazione il particolare contesto geopolitico nel quale si verificarono. Di fatto, si tratta dell’era del trionfo unipolare nordamericano, in cui alla politica italiana non poteva più essere concesso alcun margine di autonomia strategica (si pensi alla moderata politica filoaraba di molti governi della suddetta Prima Repubblica).

L’8 dicembre 1991 Boris E’lcin, Stanislav Shushkevic e Leonid Kravchuk, riuniti in una dacia al confine tra Russia e Bielorussia, in uno slancio che potrebbe essere facilmente definito controrivoluzionario, optarono per la dissoluzione dell’Unione Sovietica, andando apertamente contro la volontà popolare che nel marzo dello stesso anno aveva votato per il mantenimento della struttura statale esistente.

Pochi anni prima, il blocco socialista dell’Europa Orientale era imploso (dando vita all’espansione della NATO ad Est caldeggiata da Zbignew Brzezinski) e nel febbraio del 1992 venne siglato il Trattato di Maastricht con il quale si diede avvio definitivo alla creazione di un’Unione Europea che nei piani nordamericani non avrebbe mai dovuto raggiungere l’unità politica e divenire un competitore diretto dei loro piani egemonici.

Questi erano gli anni in cui il processo di globalizzazione assunse connotati puramente americanocentrici grazie alla spinta che ad esso venne data a partire dagli anni ’70 dalla Commissione Trilaterale fondata da David Rockfeller e dallo stesso Brzezinski, con l’obiettivo di consentire ad uno specifico gruppo di attori economici (monopolistici e multinazionali) di cogliere i profitti globali per concentrarli nelle mani di alcuni determinati Paesi incaricati di gestire e sfruttare apertamente i mercati dell’economia globale.

In questi stessi anni, le teorie economiche sul “governo globale” erano incentrate su tre derivazioni dirette del neoliberismo e del cosiddetto “Consenso di Washington”: il già citato “thatcherismo”, la “reaganomics” e la successiva “terza via” portata avanti da Bill Clinton e Tony Blair. Tutte, senza alcuna particolare distinzione, sostenevano l’idea della creazione di mercati più grandi a fronte della riduzione del potere politico dello Stato. Tutte vennero introdotte ed instillate più o meno dogmaticamente nei Paesi dell’Occidente a guida nordamericana attraverso il lavoro di gruppi di pressione legati al capitalismo monopolistico internazionale. La loro essenza era dominata dal fondamentalismo del mercato (al quale si potrebbe attribuire un afflato religioso sulla falsariga del fondamentalismo protestante caratteristico dell’Anglosfera), secondo il quale la “mano invisibile” (divina?) del mercato avrebbe prevalso autoregolandosi e costringendo la politica all’impotenza.

Da qui, si afferma il sistema degli Stati, fatti kapò, che invertendo il significato della sovranità, trasmettono gli indirizzi ricevuti, ciascuno al proprio popolo, anziché sostenerne le ragioni. ndr.

Così lo Stato, pur continuando a rimanere uno degli attori principali del sistema globale insieme alle organizzazioni internazionali ed alle società multinazionali, dovette iniziare a cedere quote di sovranità alle stesse organizzazioni internazionali ed al mercato globale, costruito in una fitta rete di centri ed istituzioni in cui gli Stati Uniti godevano (e godono) del potere di veto. Ad esempio, le principali proposte politiche della Banca Mondiale devono ottenere almeno l’85% dei voti per essere adottate. Gli Stati Uniti detengono una quota di voto equivalente al 15,85%. Lo stesso vale per il Fondo Monetario Internazionale, dove gli USA detengono un potere di voto del 17,45%. Uno squilibrio che ha consentito (e consente) a Washington di stabilire chi (e con quali modalità) potesse usufruire dei programmi di aiuti in cambio di un’evidente riduzione di sovranità economica nazionale.

Ora, è bene ribadire che il sistema di governo globale è un dato di fatto. Esiste già. Non è un qualcosa in fase di costruzione ed al quale si può porre un freno. Alcuni pensatori cinesi contemporanei, come Jiang Shigong, a questo proposito, hanno parlato di “impero globale” fondato sul concetto egemonico di Pax Americana, in cui Stati come Cina e Russia agiscono come forze riformatrici più che “revisioniste” (come vengono indicate nei documenti prodotti dal Dipartimento della Difesa di Washington). Tuttavia, attualmente esiste una tensione profonda interna allo stesso sistema di governo globale. Lo studioso e diplomatico cinese He Yafe ha indicato tre diverse correnti di pensiero che competono per il comando all’interno del sistema: il nazionalismo, l’internazionalismo ed il globalismo[1].

Nell’ambito del nazionalismo si possono individuare due modelli di sovranità: uno attivo e l’altro passivo. Il modello passivo contraddistingue gli Stati che mantengono una sovranità formale ma che, nella realtà, non possiedono alcun margine di azione autonoma in ambito internazionale (a prescindere dalla retorica utilizzata dai rispettivi governi). Al contrario, il modello attivo è quello che caratterizza le grandi potenze e che in determinati casi può essere esercitato in termini imperialistici o concedendo spazi di manovra subimperialista a terzi (il caso turco in Siria, ad esempio). È il sistema “centro/margine” (Occidente al centro, Paesi in via di sviluppo in posizione periferica) che ha caratterizzato il momento di dominio unipolare degli Stati Uniti. L’internazionalismo, invece, è la corrente che enfatizza la cooperazione internazionale su di un piano multilaterale. Invece il globalismo mira alla progressiva riduzione del ruolo dello Stato in favore di una forza trainante garantita da società multinazionali ed organizzazioni non governative, che tuttavia si dimostrano spesso e volentieri portatrici di interessi particolari sul piano sia geopolitico sia geoeconomico (ad esempio, le compagnie farmaceutiche trasformatesi in strumenti di ricatto politico sui governi o le ONG che si occupano del traffico di esseri umani). In questo senso, l’approccio “nazionalista” e quello “globalista” si presentano come le due facce della stessa medaglia.

Questa tensione è derivata dal progressivo fallimento del sistema costruito intorno ai dogmi neoliberisti sia sul piano interno allo stesso Occidente, sia sul piano geopolitico. A questo proposito, ha scritto lo studioso David Held: “In effetti, spingere indietro i confini dell’azione statale e indebolire le capacità di governo, aumentando la portata delle forze di mercato in una società, ha significato ridurre i servizi che hanno offerto protezione ai vulnerabili. Le difficoltà incontrate dai più poveri e dai meno potenti – nord, sud, est e ovest – sono state aggravate e non migliorate. L’ascesa delle questioni di sicurezza in cima all’agenda politica riflette, in parte, la necessità di contenere i risultati che tali politiche aiutano a provocare. Indebolendo la cultura e le istituzioni del governo e della vita pubblica a livello locale, nazionale e globale, il Consenso di Washington ha eroso la capacità dei Paesi di tutto il mondo di fornire beni pubblici urgentemente necessari. Ha confuso la libertà economica con l’efficacia economica. La libertà economica è sostenuta a spese della giustizia sociale e della sostenibilità ambientale con danni a lungo termine per entrambi[2].

C’è un passaggio che merita di essere sottolineato, soprattutto alla luce del fatto che lo stesso Held ha spesso indicato il suddetto Consenso di Washington e l’agenda di sicurezza di Washington come “forze” che spingono dal “male al peggio”. È il punto in cui si afferma che la centralità attribuita alle questioni di sicurezza riflette la necessità di contenere i risultati provocati da politiche che hanno generato una situazione di crisi economica permanente, l’amplificarsi della conflittualità geopolitica e del degrado ecologico.

Due sono state le “questioni di sicurezza” che hanno contraddistinto i primi due decenni del XXI secolo: il terrorismo cosiddetto “islamico” e la pandemia di Covid19. Sul ruolo geopolitico dei gruppi terroristi di matrice “islamista” molto è stato detto. Qui basterà ricordare la dottrina dell’“arco di crisi” elaborata dal già citato Brzezinski e dagli strateghi nordamericani Robert Gates e Graham E. Fuller. Quest’ultimo nel 1999 dichiarò: “La politica di guidare l’evoluzione dell’Islam e di aiutarlo contro i nostri avversari ha funzionato meravigliosamente bene in Afghanistan contro i Russi. Le stesse dottrine possono ancora essere utilizzate per destabilizzare ciò che resta della Russia e per contrastare l’influenza cinese in Asia Centrale[3].

Più complesso è il discorso per ciò che concerne la crisi pandemica. In questo contesto non si vuole entrare nel merito della discussione sull’origine del virus. Tuttavia, esiste un rapporto del National Intelligence Council (centro strategico delle comunità di intelligence nordamericane), datato dicembre 2004 ed intitolato Mapping the global future – Project 2020, in cui si esprimono i timori statunitensi di vedersi sfuggire la guida del processo di globalizzazione.  In esso è scritto: “by 2020, globalization is likely to take on much more of a non western face […] what could derail globalization?[4] La risposta fornita dal documento è abbastanza prevedibile. Alla pagina 34 si legge che, essendo un conflitto di ampie proporzioni piuttosto improbabile, l’unico evento che potrebbe fermare o rallentare la globalizzazione sarebbe una pandemia (prevista come imminente dagli “esperti”) che potrebbe colpire con forza le metropoli globali e quelle dell’Asia, dalla Cina all’India ed al Pakistan.

A ciò si aggiunga che una dottrina elaborata nel 1967 da un variegato gruppo di studiosi nordamericani (politici, scienziati, economisti), alla quale venne dato il titolo di Report from the iron mountain: on the possibility and desiderability of peace, afferma esplicitamente: “Il sistema militare rende possibile la stabile gestione della società […] Occorre insistere sul bisogno di trovare un nemico che sia convincente sia in qualità che in portata. È più facile, a nostro giudizio, inventare tale minaccia piuttosto che derivarla da condizioni sconosciute[5].

Queste parole suonano alquanto sinistre nel contesto dell’attuale condizione di crisi epidemica (con il contorno di varianti definite come sempre più contagiose), soprattutto alla luce della retorica militare utilizzata dagli apparati propagandistici e dalla classe politica “occidentale” in riferimento alle misure di contenimento del virus. Di fatto, si utilizzano continuamente espressioni del tipo: “il nemico è il virus”; “guerra al virus”; “dare la caccia al virus”. E la stessa gestione della “campagna vaccinale”, in l’Italia (Paese eletto al ruolo di laboratorio dai gruppi di potere atlantisti), è stata affidata ad un “pluridecorato” generale della NATO, decorato, fra l’altro, con la Legion of Merit degli Stati Uniti d’America.

Questa enfasi riposta sulle questioni di sicurezza, a prescindere dalla loro origine artificiale o meno, è la più evidente manifestazione dell’ansia strategica che ha caratterizzato il centro di potere imperiale nel momento in cui ha dovuto confrontarsi con l’improvvisa accelerazione dell’evoluzione del sistema globale verso il multipolarismo. La presa degli Stati Uniti sul mondo è irreversibilmente diminuita e la loro strategia globale si è concentrata sulla creazione di uno stato permanente di crisi come strumento per garantire il proprio sistema egemonico a discapito di forze emergenti che mirano a riequilibrare lo stesso sistema attraverso uno schema di condivisione del potere Ovest-Est.

La geopolitica vaccinale, con il dominio semi-monopolistico del gruppo Pfizer (amministrato da un “good friend” di Joe Biden, l’ebreo “greco” Albert Bourla) sull’Occidente, al pari del colpo di Stato atlantista in Ucraina nel 2014, si è dimostrata uno strumento assai efficace per riaffermare il controllo nordamericano sull’Europa. E lo stesso avvento al potere in Italia (tra il giubilo della quasi totalità della classe politica e del mondo dell’informazione generalista) dell’ex banchiere di Goldman Sachs Mario Draghi (già in ottimi rapporti con l’avanguardia politico-economica dell’atlantismo, il Gruppo Bilderberg creato da CIA ed MI6) deve necessariamente essere interpretato alla luce di questi fatti. Il suo ruolo è sì quello di “curatore fallimentare” di uno Stato in evidente sfacelo socioeconomico ed ormai privo di qualsiasi autonomia strategica. Tuttavia, allo stesso tempo, questo “curatore” deve fare in modo che le rimanenti risorse italiane vengano (s)vendute in modo corretto[6]; e che tale (s)vendita avvenga in modo controllato e concentrando l’attenzione dell’opinione pubblica sull’invasività dell’evento pandemico con tutte le sue sfaccettature: dal certificato verde al corollario di scienziati (o pseudo tali) che dicono tutto ed il contrario di tutto, fino alla sterilissima polemica novax/provax che evita scientemente di rimarcare il portato geopolitico dell’affermazione di un modello di capitalismo della sorveglianza che si presenta come naturale evoluzione del modello occidentale (quello impiantato in Europa dopo il 1945) e non come instaurazione di un qualcosa ad esso estraneo.

Non sorprende che, dal momento del suo insediamento, il governo Draghi (spinto anche dal ministro ultratlantista della Lega Giancarlo Giorgetti) abbia utilizzato lo strumento del Golden Power ben tre volte per evitare l’acquisizione da parte di gruppi cinesi di aziende italiane che operano in specifici settori. L’ultimo caso è quello della Zhejiang Jingsheng Mechanical, alla quale è stato impedito di acquisire il ramo italiano di Applied Materials, azienda che opera nel settore dei semiconduttori. Nel marzo del 2021, sempre nel settore dei microchip, aveva impedito l’acquisizione del 70% di Lpe da parte del gruppo Shenzen Invenland Holding, mentre ad ottobre il Golden Power era stato esercitato per impedire gli sforzi del colosso agrochimico Syngenta per assumere la guida del gruppo agroalimentare romagnolo Verisem[7].

Al contempo, il governo italiano non ha palesato nessuna particolare preoccupazione di fronte al tentativo di acquisizione di TIM da parte del fondo nordamericano KKR & Co. Cofondatore del gruppo è l’ebreo statunitense Henry Kravis, ben inserito nel già citato Gruppo Bilderberg (insieme ai proprietari dell’importante gruppo editoriale italiano GEDI). Non c’è da stupirsi se al KKR fa riferimento anche l’Axel Springer Group, che possiede i giornali tedeschi (apertamente anticinesi) Die Welt e Bild. Inoltre, non è da dimenticare il ruolo che all’interno dello stesso KKR ha avuto l’ex generale e direttore della CIA David Petraeus e la partecipazione del gruppo al programma Timber Sycamore di finanziamento e assistenza logistica dei “ribelli” siriani.

Così come non vi è stato nessun particolare sussulto di orgoglio nel momento in cui Fincantieri, fermata da un patto anglo-australiano che ha fatto da apripista al più celebre (ed allargato agli USA) AUKUS, ha perso una commessa di 23 miliardi per la fornitura di fregate Fremm alla Royal Australian Navy.

Il ruolo di Draghi come agente degli interessi atlantisti in Europa è di lunga data. Quando era guida della BCE, il suo compito fu quello di contrastare la potenza della più grande banca centrale europea, la Bundesbank. L’obiettivo, neanche troppo velato, era quello di porre un freno al “problema” del surplus commerciale tedesco che costituiva un fattore indesiderato di non poco rilievo nel progetto di riaffermazione dell’egemonia nordamericana sull’Europa. Non bisogna dimenticare, infatti, che l’appoggio statunitense alla creazione di una moneta unica europea venne garantito proprio dalla speranza che costringere la Germania a rinunciare al Marco potesse impedirne un eccessivo rafforzamento. Al contrario, Berlino è stata comunque capace di creare un enorme ed integrato blocco manifatturiero che include tutte le regioni industriali vicine ai confini tedeschi. Ha approfittato e tratto vantaggi notevoli dai cambi depressi rispetto all’Euro vigenti nei Paesi dell’est ed ha scaricato su di essi e sull’area mediterranea il costo della moneta unica, favorendo al contempo le esportazioni tedesche.

Il progetto di riaffermazione dell’egemonia nordamericana sull’Europa contrasta con l’idea di una NATO rafforzata da una doppia guida americana e europea, confermando la dottrina USA, bene espressa a proposito della richiesta italo-britannica di rinviare l’abbandono di Kabul. La risposta dell’alleato-padrone fu: “Se volete restare, restateci da soli.” L’indirizzo di questa politica è “Fronte all’Indo-Pacifico”. Di comune – per modo di dire -, a giustificare l’esistenza della NATO, restano il contrasto all’espansione cinese in Africa e la riscoperta dell’orso russo. É sciocco continuare a parlare di Occidente.

In questa operazione di controllo della Germania (sia in termini di eccessivo potere all’interno dell’Europa che in termini di aspirazioni alla costruzione di un rapporto privilegiato con la Russia) deve essere inserito anche il recente Trattato del Quirinale tra Francia e Italia sotto la supervisione del Segretario di Stato USA Antony Blinken. A questo proposito è bene sottolineare il fatto che il ruolo di ago della bilancia tra Germania e Francia era stato storicamente riservato alla Gran Bretagna. Nel corso dei secoli, il Regno Unito si è alleato a seconda della propria convenienza con l’una o l’altra sempre al preciso scopo di impedire una reale unificazione continentale: ciò che le potenze talassocratiche (Regno Unito prima e Stati Uniti poi) hanno sempre considerato come una minaccia esistenziale nei confronti dei rispettivi disegni egemonici.

Oggi, dopo la Brexit (nonostante la Gran Bretagna continui ad esercitare il suo nefasto ruolo in diversi teatri, dalla Polonia all’Ucraina), si è voluto attribuire questo compito all’Italia di Mario Draghi, che, assieme alla Francia, eserciterà anche un ruolo di controllo all’interno del Mediterraneo per fare in modo che l’egemone reale possa concentrare i propri sforzi nel contenimento della Cina (sempre più capace di intervenire anche nel “cortile interno” degli USA, come dimostrato dall’interruzione delle relazioni diplomatiche tra Taiwan e Nicaragua). Nell’articolo 2 del Trattato si legge: “le Parti s’impegnano a promuovere le cooperazioni e gli scambi sia tra le proprie forze armate, sia sui materiali di difesa e sulle attrezzature, e a sviluppare sinergie ambiziose sul piano delle capacità e su quello operativo ogni qual volta i loro interessi strategici coincidano. Così facendo, esse contribuiscono a salvaguardare la sicurezza comune europea e rafforzare le capacità dell’Europa della Difesa, operando in tal modo anche per il consolidamento del pilastro europeo della NATO[8].

Di fatto, il Trattato del Quirinale altro non è che l’ennesima biforcazione interna alle strutture di potere dell’atlantismo.

NOTE

[1]He Yafe, La Cina e la governance globale, Anteo Edizioni, Cavriago 2019, p. 27.

[2]Reframing global governance: apocalypse soon or reform, contenuto in D. Held – A. McGrew, Globalization theory: approaches and controversies, Cambridge Polity Press (2007), p. 240.

[3]Si veda A. Turi, La destabilizzazione dello Xinjinag attraverso il terrorismowww.cese-m.eu.

[4]Il documento è scaricabile sul sito www.dni.gov.

[5]Si veda L. Savin, prefazione a M. Ghisetti, Talassocrazia. I fondamenti della geopolitica anglo-statunitense, Anteo Edizioni, Cavriago (Reggio Emilia) 2021, pp. 3-8.

[6]A questo proposito, un documento pubblicato recentemente su Wikileaks ha rivelato come, nel 2008, l’allora Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi autorizzò l’acquisto di Banca Antonveneta da parte di MPS grazie ad un aumento di capitale di un miliardo di euro garantito dalla banca di investimenti multinazionali JP Morgan.

[7]Si veda Altolà Cina, c’è lo stop di Draghi. Golden Power sui microchipwww.formiche.net.

[8]Trattato tra la Repubblica Italiana e la Repubblica Francese per una cooperazione bilaterale rafforzatawww.governo.it

4455.- Green Pass, ovvero il capitalismo della sorveglianza

“capitalismo della sorveglianza”è tutto vero!

Maurizio Blondet  24 Ottobre 2021 

Cosa c’è dietro il green pass? Non (solo) la spinta, sotto ricatto, alla vaccinazione. C’è il primo segnale del mondo distopico alle porte, un mondo nel quale  gli algoritmi delle piattaforme globali gestite dalla finanza transnazionale detteranno le regole della nostra vita. Una studiosa di fama internazionale, la Zuboff, lo ha battezzato “capitalismo della sorveglianza”, che da il titolo al suo omonimo libro.https://liberopensare.com/la-card-non-e-un-mezzo-ma-lo-scopo-eroghera-diritti-solo-agli-schedati/embed/#?secret=RMpIoxxdNy

In pratica, dietro al green pass vaccinale c’è lo stesso software, lo stesso sistema (informatico e legale) che può stravolgere le nostre vite: con il green pass pagherete le tasse, con il green pass salderete le multe. Anzi, non farete nulla: il danaro vi sarà direttamente prelevato senza che voi facciate nulla, perché tutto sarà gestito da un potere centrale che vuole la trasparenza totale. La trasparenza delle vostre finanze, la trasparenza del vostro stato di salute: la privacy non è più un diritto e nemmeno un valore.

L’euro digitale mira all’abolizione totale del contante.

Con esso l’Europa potrebbe portarsi persino più avanti della Cina nell’evoluzione dello Stato moderno verso il totalitarismo della sorveglianza assoluta. Con l’euro digitale, ogni vostro acquisto sarà tracciato. Quanto spendete in cibo, vestiti, servizi. I prodotti stessi che consumate: la marca dei gelati, la griffe del maglione, il titolo del film, il medicinale omeopatico per l’ansia. Dove andate in vacanza, in che albergo, quale ristorante. Tutti dati che al fisco interessano – e non solo al fisco. Interessano alla Sanità, al Ministero degli Interni, a quello degli Esteri.  Interessano anche a «terze parti». I dati sono il petrolio del XXI secolo si dice. Il green pass è un’automobile che vi costringono a comprare per attaccarvi al nuovo ciclo del combustibile.

Di più: ogni vostra transazione può essere impedita. Avete il diabete? Il sistema potrebbe impedirvi di comprare la Nutella. Domenica senz’auto? Vi possono impedire di acquistare la benzina. Voglia di approfondire? Certi libri no-vax non si possono comperare – su Amazon, lo sapete, è già così: tanti autori sono spariti.

Tutto può essere controllato in tempo reale da algoritmi talmente potenti da non poter nemmeno spiegare se stessi. Incrociano i dati in modi incomprensibili per la mente umana, e danno un responso che decide della vita di una persona: è quello che si vede in Cina, dove il sistema del pass è stato implementato immediatamente durante la pandemia, con le persone controllate all’uscita della metropolitana – se ti capitava il coloro rosso, dovevi ritornartene a casa e metterti in quarantena. Nessuna spiegazione. Lo Stato e il suo cervellone non ve ne devono alcuna.

Questa è la destinazione del mondo moderno: la sottomissione dell’individuo. La nuova schiavitù economica, informatica e biotica che tocca al XXI secolo.

Qualche lettore potrà dire: comodo, non avere più la roga di pagare più le multe, ora che te lo potranno prelevare direttamente. La realtà è che alla vostra comodità non pensano minimamente. L’idea è quella di abolire ogni passo intermedio, cioè lo spazio per la reazione ad una decisione calata dall’alto: non avrete il tempo di opporvi, subirete la sentenza e basta. È la disruption, la disintermediazione dello Stato di diritto. Lo stiamo già vedendo con i social media, che bannano e censurano, «depiattaformano» migliaia di persone senza nemmeno dire loro cosa hanno fatto che non va. Nessun processo, tantomeno un «giusto processo». È la nuova civiltà autoritaria che si nasconde dietro il mito della trasparenza.

E, visto che parliamo di processi, pensiamo davvero a cosa succederà al sistema legale. Sarà più facile, sarà immediato, ottenere i danari in un decreto ingiuntivo – o vederveli sottratti. Al contempo, immaginate quando un giudice potrà bloccare o cancellare tutti i vostri beni con un clic. Non avrete più di che vivere, perché non ne avrete nemmeno di nascosti sotto il materasso, perché il contante sarà illegale, e anche l’elemosina avverrà (se sarà ancora consentita) per via digitale – quindi potranno stopparvi anche quella.

Ora capiamo meglio perché hanno insistito tanto con il vaccino.

Ora capiamo meglio perché per il green pass sono andati allo scontro totale con la società e con un numero cospicuo di lavoratori – con il rischio di innescare un autunno di lotte operaie che potrebbe paralizzare l’Italia e l’Europa.

I pagamenti saranno facili e rapidissimi, spariranno i bancomat e forse anche le cassiere. Tanti ebeti (quelli che hanno votato, magari, un partito il cui guru aveva promesso in effetti tutto questo) saranno felicissimi: «io non ho niente da nascondere». Con l’ID account del green pass, avremo il conto dove metteranno gli euro digitali creati dal niente della Eurotower. Magari, per aiutarci ad iniziare a usarli, potrebbero addirittura regalarcene in quantità.

Milioni cadranno nella trappola. Qualsiasi cosa faranno, dovrà avere il marchio elettronico.

Il futuro prossimo dello Stato moderno, e delle nostre vite, passa di lì. Un sistema di sorveglianza totalista che non ha precedenti nella storia.

Un sistema che, tuttavia, ci era stato descritto da migliaia di anni.

«Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome» 

(Apocalisse 13, 16-17)

Roberto Dal Bosco

4332.- La sovranità in un mondo globalizzato

La Ue secondo Draghi: Necessaria un’Europa più forte dal punto di vista economico, diplomatico e militare.

14 Settembre 2021, di Redazione Wall Street Italia.

Draghi: “Germania e Italia condividono lo stesso obiettivo strategico: il completamento del percorso di integrazione europea. Un’Europa più forte dal punto di vista economico, diplomatico e militare è il solo modo per avere un’Italia più forte e una Germania più forte. Dobbiamo essere fieri del nostro modello sociale, per la sua attenzione alla sanità, all’ambiente e alle diseguaglianze. E dobbiamo adattarlo al futuro, grazie all’innovazione, alle riforme strutturali e a un maggiore coinvolgimento dei giovani e dalle donne nel mercato del lavoro”. A dirlo il presidente del consiglio, Mario Draghi, in un videomessaggio al quindicesimo Forum economico Italo-Tedesco.”

Mario Draghi lo sa.

Da associazioneeuropalibera 4308, 4313, 4323, 4326. Aggiornato 15 settembre 2021.

Secondo Mario Draghi è necessaria un’Europa più forte dal punto di vista economico, diplomatico e militare. Non dimentichiamo cosa scriveva Jean Monnet più di 50 anni fa: “Abbiamo bisogno di un’Europa per ciò che è essenziale… un’Europa per ciò che le nazioni non possono fare da sole”.

Abbiamo ribadito sia l’auspicio che Europa e Stati Uniti tendano a non frammentarsi, ma anzi a procedere sempre più uniti e sia che l’auspicio ha bisogno di essere adeguato alla realtà attuale. Non dobbiamo ripercorrere l’errore degli italiani, divisi per principio, dal tempo dei guelfi e ghibellini e presentatisi in questa guisa nella competizione europea. Si può chiedere agli Stati Uniti d’America di marciare uniti con i popoli europei divisi? Non si può e, senza una costituzione della nuova nazione europea, sovrana, non avremo presto più né NATO né Occidente.

Come più volte si è detto, la NATO a trazione americana vuole una seconda gamba. Kabul docet. È tutta la politica dell’Occidente – e, nell’Occidente si deve comprendere la Russia -, che deve essere ripensata per fare fronte alle potenze asiatiche, non solo alla Cina e non solo in economia. È, infatti, in atto uno scontro di civiltà.

L’Europa è “un grande continente di scambi commerciali” (sicuramente più degli Stati Uniti d’America) e avrà, col tempo, sempre più bisogno della Cina, dell’Asia Orientale e delle opportunità e possibilità offerte dalla BRI e, perciò, deve presentarsi unita ai suoi competitori. Soltanto un’Europa unita sarà in grado di accompagnare gli Stati Uniti d’America a rimodellare l’Occidente per contribuire alla forma del prossimo ordine mondiale.

Nello scenario geopolitico futuro è importante anche che una forza multinazionale europea, espressione imprescindibile di una politica estera e di una costituzione europea, possa conferire peso all’Occidente nello scacchiere internazionale. Sopratutto, sarebbe impossibile costituire la seconda gamba della NATO, senza essere uno Stato, al pari degli Stati Uniti.

Abbiamo, perciò contestato chi afferma che è tempo che la Ue si evolva da «Europa Mercato ad Europa Potenza» e sosteniamo, invece, che è tempo che la Ue si evolva, anzitutto, da «Europa Mercato a Stato» e, solo poi, a potenza. Allo stesso modo, esprimiamo la nostra riserva quando Mario Draghi afferma la necessità di un’Europa più forte dal punto di vista economico, diplomatico e militare.

Condividiamo, infatti, la necessità e non solo, ma in questa sintesi, si appannano e sono i problemi. Dai rapporti della NATO con la Russia, dell’Occidente con la BRI, all’intraprendenza turca nell’Asia Centrale, in Mediterraneo e, quindi, all’Africa Bianca, al Sahel. L’insufficienza istituzionale di Bruxelles richiede di por mano a una costituzione per l’Europa e, solo dopo, sarà possibile un’accelerazione sulla costruzione della difesa comune. L’Ue, unita nella Costituzione, sarà credibile e avremo una sua maggiore presenza nella politica estera, nella NATO e, anche, maggior peso in economia. Anche l’accoglienza godrà di una visione diversa. L’Europa è un faro di civiltà e il suo raggio, unito, deve aprirsi sul mondo.

L’argomento è la sovranità e, qui, è utile rileggere cosa disse Mario Draghi a Bologna il 22 febbraio 2019.

Mario Draghi, ieri, 15 settembre, a conclusione del G20.

Intervento di Mario Draghi, Presidente della BCE, in occasione del conferimento della Laurea ad honorem in Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bologna, Bologna, 22 febbraio 2019

Fonte “Banca centrale europea”, Frankfurt am Main.

È per me un grande onore essere qui oggi nell’Università di Bologna, culla dell’istruzione in Europa, fin dal 1088. La sua storia ha visto studiare qui Thomas Becket e Copernico, e nel 1506 Erasmo da Rotterdam che avrebbe dato il suo nome al programma europeo in cui l’Università di Bologna è protagonista di prima grandezza.

Il programma Erasmus è uno degli esempi più apprezzati dei benefici che una stretta cooperazione a livello europeo può portare. Ma sappiamo che altre sue dimensioni non riscuotono eguale approvazione.

Al cuore del dibattito sui meriti della cooperazione europea sta una percezione che appare in superficie inevitabile: da un lato l’integrazione genera indubbi benefici; dall’altro, perché questi si materializzino è necessaria una cooperazione talvolta politicamente difficile da conseguire o da spiegare. Questa tensione tra i benefici dell’integrazione e i costi associati con la perdita di sovranità nazionale è per molti aspetti e specialmente nel caso dei paesi europei, solo apparente. In realtà in molte aree l’Unione europea restituisce ai suoi paesi la sovranità nazionale che avrebbero oggi altrimenti perso.

Ciò non implica che si abbia bisogno dell’Unione europea per qualsiasi cosa ma, in un mondo globalizzato, l’Unione europea diviene oggi ancora più rilevante. Come scriveva Jean Monnet più di 50 anni fa: “abbiamo bisogno di un’Europa per ciò che è essenziale… un’Europa per ciò che le nazioni non possono fare da sole”[1]

Sovranità in un mondo interconnesso

Nel complesso i cittadini europei apprezzano i benefici dell’integrazione economica che l’Unione europea ha prodotto[2] e da anni considerano come il suo maggior successo la libera circolazione delle persone, dei beni e dei servizi, cioè il mercato unico. Inoltre il 75% dei cittadini dell’area dell’euro è a favore dell’euro e dell’unione monetaria e il 71% degli europei è a favore della politica commerciale comune.

Allo stesso tempo però diminuisce dal 57% nel 2007 al 42% di oggi la considerazione che i cittadini europei hanno delle istituzioni dell’Unione. Peraltro questo declino è parte di un fenomeno più generale che vede diminuire la fiducia in tutte le istituzioni pubbliche. Quella verso i governi e i parlamenti nazionali oggi si attesta appena al 35%.

Questa discrasia nei sondaggi può essere spiegata con la percezione che ci sia un trade-off tra l’essere membri dell’Unione europea e la sovranità dei singoli Stati. Secondo questo modo di pensare, per riappropriarsi della sovranità nazionale sarebbe necessario indebolire le strutture politiche dell’Unione europea.

Ritengo sbagliata questa convinzione, perché confonde l’“indipendenza” con la sovranità.

La vera sovranità si riflette non nel potere di fare le leggi, come vuole una definizione giuridica di essa, ma nel migliore controllo degli eventi in maniera da rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini: “la pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo”, secondo la definizione che John Locke ne dette nel 1690[3]. La possibilità di agire in maniera indipendente non garantisce questo controllo: in altre parole, l’indipendenza non garantisce la sovranità.

Si prenda l’esempio, estremo ma efficace, di quei paesi che sono totalmente al di fuori dell’economia globale: essi sono indipendenti, ma certamente non sovrani in un senso pieno della parola, dovendo ad esempio spesso contare sull’aiuto alimentare che proviene dall’esterno per nutrire i propri cittadini.

La globalizzazione aumenta la vulnerabilità dei singoli paesi in molte direzioni: li espone maggiormente ai movimenti finanziari internazionali, a possibili politiche commerciali aggressive da parte di altri Stati e, aumentando la concorrenza, rende più difficile il coordinamento tra paesi nello stabilire regole e standard necessari per il conseguimento al proprio interno degli obiettivi di carattere sociale. Il controllo sulle condizioni economiche interne ne risulta indebolito.

In un mondo globalizzato tutti i paesi per essere sovrani devono cooperare. E ciò è ancor più necessario per i paesi appartenenti all’Unione europea. 

La cooperazione, proteggendo gli Stati nazionali dalle pressioni esterne, rende più efficaci le sue politiche interne.

Cooperare per proteggersi

La globalizzazione ha profondamente cambiato la natura del processo produttivo e aumentato l’intensità dei legami tra paesi. La proprietà transnazionale di attività finanziarie è oggi il doppio del PIL mondiale: nel ’95 era pari al 70%. Il commercio con l’estero è aumentato da circa il 43% del PIL mondiale nel 1995 a circa il 70% di oggi. E circa il 30% del valore aggiunto estero è oggi prodotto attraverso catene del valore[4]

A livello mondiale ciò non è tanto il risultato di scelte politiche quanto il frutto del progresso tecnologico nei trasporti, nelle telecomunicazioni, nei computer e nel software che ha reso conveniente lo scambio globale e la frammentazione produttiva[5]

L’Unione europea, sia per le scelte politiche del passato sia per la vicinanza geografica dei suoi membri, è, per i paesi che ne fanno parte, di gran lunga la più importante area commerciale. La maggior parte del commercio mondiale avviene all’interno di tre grandi blocchi: l’Unione europea, il NAFTA e l’Asia che, nonostante una crescita nelle loro relazioni commerciali, restano relativamente chiusi tra loro, con una quota di scambi al di fuori del blocco inferiore al 15% del prodotto[6].

Fra questi tre blocchi, l’Unione europea è il più integrato. Due terzi del commercio europeo sono con altri Stati membri, contro circa il 50% nel caso dell’USMCA e circa il 50% di tutte le attività finanziarie proviene da altri paesi europei. In concreto, ciò significa che l’Italia esporta di più in Spagna che in Cina e più in Austria che in Russia o in Giappone. Nel 2017 gli investimenti tedeschi in Italia sono stati pari a 5 volte quelli americani.

L’Europa ha tratto grandi benefici da questa integrazione. Tenendo conto sia degli effetti diretti derivanti dal commercio, sia di quelli prodotti dalla maggiore concorrenza, si valuta che il mercato unico contribuisca a un livello del PIL per l’Unione europea che è più alto del 9% circa[7].

Ma quanto più i vari paesi sono tra loro collegati, tanto più esposti essi sono alla volatilità dei flussi di capitale, alla concorrenza sleale e ad azioni discriminatorie, quindi ancor più necessaria diviene la protezione dei cittadini. Una protezione, costruita insieme, che ha permesso di realizzare i guadagni dell’integrazione, contenendone in una certa misura i costi. Una protezione che attraverso strutture e istituzioni comunitarie limita gli spillover, assicura un uguale livello di concorrenza, protegge da comportamenti illegali, in altre parole, una protezione che risponde ai bisogni dei cittadini, e quindi permette ai paesi di essere sovrani.

Nella struttura dell’Unione europea, le regole comuni vengono definite nel Consiglio e nel Parlamento europeo. La Commissione provvede a che siano rispettate, la Corte di Giustizia europea assicura la protezione in giudizio in caso siano violate. Per quel che riguarda i paesi dell’area dell’euro, la vigilanza bancaria europea e l’autorità che presiede alla risoluzione delle banche contribuiscono a contenere gli effetti dell’instabilità finanziaria.

In questo mondo così interconnesso, cercare l’indipendenza da queste istituzioni pone i paesi di fronte a scelte complesse. O, per poter continuare ad avere accesso al mercato unico, devono accettare passivamente regole scritte da altri perdendo il controllo su decisioni che toccano l’interesse dei propri cittadini, o devono separarsi dai partner commerciali più importanti, perdendo controllo sul benessere dei loro cittadini.

Si stima che nel caso di una possibile reintroduzione delle barriere commerciali in Europa, il PIL della Germania sarebbe più basso circa dell’8% e quello dell’Italia del 7%[8].

L’argomento per cui la cooperazione accresce la sovranità vale anche per le relazioni tra l’Unione europea e il resto del mondo. Ben pochi paesi europei hanno una dimensione tale da poter resistere agli spillover provenienti dalle altre grandi aree economiche del mondo o una voce forte abbastanza da essere ascoltata nei negoziati commerciali mondiali. Ma, insieme nell’Unione europea la loro forza è ben più grande.

L’Unione europea produce il 16,5% del prodotto mondiale[9], secondo solo alla Cina: il che dà a tutti i paesi europei un mercato interno di grandi dimensioni in cui riparare in caso di crisi commerciali nel resto del mondo. Il commercio dell’Unione europea vale infatti il 15% degli scambi mondiali[10], contro l’11% negli USA; e ciò contribuisce ad aumentare il peso negoziale dell’Unione europea nei negoziati sul commercio con gli altri paesi. Inoltre, il fatto che l’euro sia la seconda moneta più utilizzata negli scambi internazionali contribuisce a isolare l’economia dell’area dell’euro dalla volatilità del tasso di cambio.

Infatti, poiché circa il 50% delle importazioni dai paesi al di fuori dell’euro è oggi fatturato in euro[11], la trasmissione delle variazioni del cambio ai prezzi delle importazioni è oggi minore. La politica monetaria può quindi concentrarsi sugli sviluppi interni all’area dell’euro senza dover reagire ripetutamente agli shock ad essa esterni[12]

Per tutte queste ragioni, porsi al di fuori dell’UE può sì condurre a maggior indipendenza nelle politiche economiche, ma non necessariamente a una maggiore sovranità. Lo stesso argomento vale per l’appartenenza alla moneta unica.

La maggior parte dei paesi, da soli, non potrebbero beneficiare della fatturazione delle loro importazioni nella loro valuta nazionale, il che esaspererebbe gli effetti inflazionistici nel caso di svalutazioni. Sarebbero inoltre più esposti agli spillover monetari dall’esterno che potrebbero condizionare l’autonomia della politica economica nazionale: primi tra tutti gli spillover della politica monetaria della BCE, come negli ultimi anni è peraltro accaduto alla Danimarca, alla Svezia, alla Svizzera e ai paesi dell’Europa centrale e orientale[13].

Furono proprio questi spillover provenienti dalle economie più grandi uno dei motivi per cui si creò la moneta unica. Nel Sistema monetario europeo ad essa antecedente, la maggior parte delle banche centrali doveva seguire la politica monetaria della Bundesbank. Per questo dopo più di un decennio di esperienze deludenti quando non devastanti, si preferì riguadagnare la sovranità monetaria condividendola nella creazione della moneta unica[14].

Cooperazione e politica economica

Il secondo modo in cui la globalizzazione vincola la sovranità di un paese sta nel limitarne la capacità di emanare leggi e fissare standard che riflettano gli obiettivi sociali del paese stesso.

L’integrazione del commercio mondiale tende a ridurre l’autonomia dei singoli paesi nel fissare le regole, perché con il frammentarsi della produzione nelle catene del valore, aumenta l’importanza di standard comuni. In generale questi non vengono fissati nell’ambito di un processo multilaterale come il WTO ma vengono imposti dalle economie più grandi che hanno una posizione dominante nella catena del valore. Le economie più piccole solitamente non possono che accettare passivamente le regole stabilite da altri nel sistema internazionale[15].

Analogamente, l’integrazione finanziaria globale riduce il potere che i singoli paesi hanno di regolare, tassare, fissare gli standard di protezione sociale. Le imprese multinazionali influenzano la regolamentazione dei singoli paesi con la minaccia di ricollocarsi altrove, scelgono i sistemi fiscali a loro più favorevoli spostando tra le varie giurisdizioni i flussi di reddito e le attività intangibili. 

Tutto ciò può spingere i governi a usare gli standard di protezione sociale come uno strumento di concorrenza internazionale: la cosiddetta “corsa al ribasso”.

Per un paese diventa più difficile la difesa dei suoi valori essenziali, quindi la protezione dei suoi cittadini: si ha inoltre un’erosione della base fiscale societaria che riduce il finanziamento del welfare state[16]. L’OCSE stima la perdita di gettito causata dall’elusione fiscale tra il 4% e il 10% del totale del gettito dell’imposizione sul reddito societario[17].

Ciò avviene quando i paesi non sono grandi abbastanza da avere potere regolamentare da opporre alle imprese transnazionali o a una mobilità dei capitali distruttiva di valore. Ma è più difficile che ciò avvenga nei confronti dell’Unione europea perché nessuna impresa può permettersi di abbandonare il suo mercato. Il fatto di disporre di poteri di regolamentazione a livello comunitario permette agli Stati membri di esercitare la propria sovranità nelle aree della tassazione, della protezione del consumatore e degli standard del lavoro.

L’Unione europea dà agli Stati membri la capacità di impedire alle multinazionali di erodere la base imponibile sfruttando loopholes e beneficiando di sussidi. Recentemente qualche progresso è stato fatto anche in quest’area indubbiamente complessa. Quest’anno sono entrate in vigore nuove regole europee che dovrebbero eliminare le forme di elusione più comuni[18]. E se è vero che la Corte di Giustizia Europea si è recentemente pronunciata contro la Commissione in un caso di esenzione fiscale, è anche vero che ha stabilito che accordi fiscali tra le multinazionali e i singoli paesi possono costituire aiuti di Stato illegali che la Commissione ha il diritto di esaminare[19].

Inoltre l’Unione europea ha ben maggiori capacità di difendere i consumatori e assicurare loro un equo trattamento all’interno del mercato europeo.

Ciò si è visto quando l’Unione europea ha voluto affermare i propri valori in tema di protezione della privacy, con il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati[20]. Si è visto anche quando, grazie alle regole europee, le tariffe del roaming sono state drasticamente ridotte per i consumatori[21] o quando è stato stabilito che le commissioni per i pagamenti internazionali in euro all’interno dell’Unione europea non possono essere superiori a quelle applicate all’interno dei paesi[22].

Inoltre gli Stati membri possono, attraverso l’Unione europea, coordinarsi per difendere la propria rete di protezione sociale senza dover imporre restrizioni al commercio. Con la Carta sui Diritti Fondamentali, la legge europea ha ridotto la possibilità di concorrenza sleale da parte dei paesi con leggi sul lavoro meno protettive. Ma ha contribuito a innalzare gli standard di protezione del lavoro anche all’interno dell’Unione europea. Un esempio è quello della Direttiva sul lavoro a tempo parziale del 1997 che ridusse alcune discriminazioni che fino ad allora erano ancora praticate in 10 su 15 Stati membri[23], inclusa l’Italia.

Successivamente, l’OCSE mostrò come l’eliminazione di discriminazioni tra vari tipi di lavoro portasse a una maggior probabilità di contratti di lavoro permanenti[24].

Queste stesse protezioni non esistono a livello globale o sono molto meno incisive in altri blocchi commerciali regionali come il NAFTA. La stessa storia degli USA ci offre un esempio delle difficoltà che singoli Stati hanno nell’allineare le condizioni di lavoro.

Nella prima parte del Novecento, in molti Stati americani era crescente la preoccupazione per la mancanza di una rete di protezione sociale, specialmente per i più anziani. Ma prevalse il timore che fornire protezione sociale avrebbe imposto, nelle parole usate allora, “un carico fiscale sulle industrie dello Stato che le avrebbe poste in posizione di svantaggio nella concorrenza con gli Stati vicini non appesantiti da un sistema pensionistico” [25]. Tutto ciò portò a una seria carenza di protezione sociale che fu esacerbata dalla Grande Depressione. Nel 1934 metà della popolazione con più di 65 anni di età era in stato di povertà[26]. Fu solo con l’approvazione del Social Security Act federale nel 1935 che i singoli Stati poterono coordinarsi aumentando la protezione sociale.

In maniera analoga l’esistenza dell’Unione europea ha offerto ai singoli paesi quel coordinamento che ha permesso loro di conseguire obbiettivi che non avrebbero potuto raggiungere da soli. Inoltre, questi standard sono esportati globalmente. L’Unione europea è il più importante partner commerciale di 80 paesi, mentre gli USA lo sono solo di 20[27]. In questi trattati l’Unione europea può pretendere che vengano rispettati questi standard sulla protezione del lavoro e sulla qualità dei prodotti[28], come pure che vengano protetti i nostri produttori. Il recente trattato con il Canada per esempio protegge 143 indicazioni geografiche.

Ma l’Unione europea può estendere il proprio potere regolamentare anche al di fuori dei trattati commerciali. Poiché coloro che esportano verso l’Unione europea devono osservare questi standard, essi finiscono per essere applicati alla produzione in tutti i paesi, il cosiddetto “Effetto Bruxelles” [29].

In tal modo, l’Unione europea influenza di fatto o di diritto le regole globali in un’ampia gamma di settori. E ciò permette ai paesi europei di conseguire un risultato unico: fare in modo che la globalizzazione non sia “una corsa al ribasso” degli standard. Piuttosto l’Unione europea innalza gli standard nel resto del mondo al livello dei propri.

Le istituzioni e le regole

È quindi evidente che, in un sistema economico integrato a livello mondiale e regionale, i paesi europei devono cooperare per poter esercitare la propria sovranità. Ma su come organizzare questa cooperazione, le opinioni sono diverse. 

Per taluni è sufficiente una cooperazione guidata dai governi nazionali e disegnata di volta in volta per rispondere a specifiche esigenze. Vi sono molti esempi di accordi di questo tipo, che hanno avuto successo. Quando tutte le parti di un accordo traggono da esso uguali benefici, anche una forma non rigida di cooperazione si è dimostrata sostenibile nel lungo periodo. Un esempio di questo tipo è offerto dall’accordo di Bologna che allinea gli standard dell’educazione superiore e assicura il mutuo riconoscimento dei diplomi universitari in tutti i paesi membri del Consiglio d’Europa[30].

Ma è chiaro che forme di cooperazione flessibile, non vincolante non funzionano proprio nei casi in cui la cooperazione è più necessaria: i problemi di coordinamento esistono quando i paesi hanno incentivo a non coordinarsi o quando gli spillover avvengono tra paesi di diversa dimensione e con effetti asimmetrici[31]. In queste situazioni occorrono forme di cooperazione più forti.

Nella sua storia l’Unione europea ha seguito due metodi di cooperazione. In taluni casi, sono state create istituzioni comunitarie a cui è stato conferito un potere esecutivo, come ad esempio, nel caso della Commissione per ciò che riguarda le politiche commerciali o la BCE per la politica monetaria. In altri casi, quali la politica di bilancio o le riforme strutturali, sono i governi nazionali a detenere il potere esecutivo, legati però tra loro da regole comuni. 

Questi settori della politica economica furono considerati troppo specifici della storia dei singoli paesi per poter essere affidati a una organizzazione comune. Si ritenne cioè che l’esercizio di una sovranità nazionale che mantenesse questa specificità fosse l’unica forma di governo possibile in questi settori: la scelta di affidarsi a regole per disegnare la cooperazione in queste aree fu vista come la sola coerente con questa visione. Occorre però chiedersi quale successo abbia avuto questa scelta. Nei casi in cui il potere esecutivo è stato conferito a istituzioni comunitarie, il risultato è stato, secondo molti, positivo. La politica commerciale ha aperto nuovi mercati: l’Unione europea ha concluso 36 accordi di libero scambio a fronte dei 20 degli USA[32]. La politica monetaria ha adempiuto al suo mandato. Invece, nelle aree di cooperazione basate su regole comuni, il giudizio è meno positivo. Le regole di bilancio sono state negli anni un importante schema di riferimento per la politica fiscale dei paesi membri, ma si sono rivelate spesso difficili da far osservare e complesse da spiegare ai cittadini. Nel campo delle politiche strutturali, il quadro non è molto diverso; le raccomandazioni specifiche per i paesi hanno avuto un impatto limitato: la percentuale delle raccomandazioni seguite è stata ogni anno inferiore al 10%[33]

La disparità negli esiti dei due metodi non è sicuramente dovuta a differenze nella qualità professionale delle autorità europee o nazionali; essa è il prodotto della differenza intrinseca nel loro funzionamento. Vi sono due ragioni per cui la cooperazione fondata su istituzioni si è rivelata superiore. 

La prima è che, mentre ai paesi regole solitamente statiche chiedono azioni specifiche, alle istituzioni si chiede di raggiungere degli obbiettivi. Ciò implica che le istituzioni dispongano di flessibilità nel perseguimento dei loro obbiettivi. Le regole non possono essere modificate rapidamente di fronte a circostanze inattese, ma le istituzioni possono essere dinamiche e flessibili nel loro approccio. Questa differenza è molto importante specialmente quando, come spesso succede, la realtà cambia. È ovviamente una differenza importante per i cittadini a cui alla fine interessano soprattutto i risultati della politica economica più che le azioni intraprese dai governi. La politica monetaria della BCE durante la crisi è un esempio di questa maggiore adattabilità dell’azione delle istituzioni, rispetto alle regole. 

Pochi, quando il nostro mandato venne definito, avrebbero potuto prevedere le sfide che la BCE avrebbe dovuto affrontare nella sua breve esistenza. Ma la discrezionalità di azione prevista dal Trattato ha permesso l’utilizzo di strumenti prima mai impiegati al fine di mantenere il tasso di inflazione in linea con il nostro obbiettivo nel medio termine. Né una politica monetaria basata su una regola fissa, né l’utilizzo dei soli strumenti utilizzati in passato, sarebbero stati sufficienti. 

In quel caso, la discrezionalità e la flessibilità nell’uso degli strumenti hanno contribuito ad accrescere la credibilità della BCE: flessibilità e credibilità sono state complementari.

Le considerazioni sono di segno opposto quando consideriamo che le regole, se applicate con discrezionalità, perdono di credibilità. Non può esserci fiducia in un sistema in cui i vari paesi riscrivono o aggirano le regole ogni volta che queste divengono vincolanti. Eppure, vi saranno sempre circostanze che non erano state previste quando le regole erano state scritte e che richiedono flessibilità di azione. Nel caso delle regole, il trade-off tra flessibilità e credibilità è inevitabile. Questa è la ragione per cui avremo sempre tensioni nelle aree di politica economica in cui la cooperazione è fondata su regole. Ma il passaggio dalle regole alla costruzione di un’istituzione richiede vi sia fiducia tra i paesi. Fiducia che è fondata da un lato sull’osservanza rigorosa delle regole esistenti, ma dall’altro anche sulla capacità dei governi, di raggiungere compromessi soddisfacenti, quando le circostanze richiedono flessibilità, ma anche di saperli spiegare ai propri cittadini.

Ciononostante questa transizione resta necessaria.

Un altro esempio della necessità di progredire dall’attuale costellazione di leggi diverse e di regole ad hoc verso un sistema fondato su armonizzazione e istituzioni è offerto dalla recente iniziativa della Commissione europea sul ruolo internazionale dell’euro. Il crescere delle tensioni commerciali e l’uso ormai più comune delle sanzioni come strumenti di politica estera hanno reso sempre più frequente l’applicazione extraterritoriale delle leggi USA. Questa, nella forma di multe alle società non americane e di interdizione all’accesso al sistema dei pagamenti USA, è fondata sulla centralità del sistema finanziario americano e del dollaro negli scambi mondiali. Centralità che potrebbe, secondo vari governi europei, essere attenuata da un maggior ruolo internazionale dell’euro. Perché i mercati considerino la possibilità di un maggiore utilizzo dell’euro occorre chiedersi quali sono le condizioni che fanno del dollaro la moneta dominante. La lista è lunga ma il fatto di essere l’espressione di un mercato integrato dei capitali è una delle condizioni[34]. Perché questa, più raggiungibile di altre, si verifichi a questo stadio di sviluppo dell’Unione europea occorre una complessa opera di armonizzazione legislativa e istituzionale che potrebbe però essere intrapresa al più presto. 

La seconda ragione per cui un approccio fondato sulle istituzioni produce solitamente risultati migliori è che su di esse, sul loro operato è più chiaro il controllo democratico dei cittadini. Proprio perché a queste istituzioni sono stati conferiti un mandato e poteri precisi, più diretto è il nesso tra decisioni e responsabilità.

L’Unione europea già dispone di molti canali istituzionali a questo fine. Sono le autorità nazionali presenti nel Consiglio dell’Unione europea, i membri del Parlamento europeo che esercitano su queste istituzioni il controllo democratico in nome dei cittadini che li hanno eletti. Ed è motivo di soddisfazione osservare che per la prima volta la maggioranza degli europei sente che la loro voce conta nell’Unione europea[35]

È auspicabile che questo processo di controllo sulle istituzioni continui a rafforzarsi perché da esso dipende la percezione di legittimità delle loro azioni. Il ruolo del Parlamento europeo è essenziale in quanto, tra le istituzioni chiamate dai cittadini a esercitare questo controllo, è l’unica con una prospettiva europea. Il secondo pilastro del controllo è rappresentato dalla Corte di Giustizia Europea. Il suo ruolo nella valutazione dell’operato delle istituzioni rispetto al loro mandato è particolarmente importante in un contesto in cui non c’è un governo europeo. L’osservanza delle sentenze della Corte di giustizia europea è un presupposto necessario per lo stato di diritto.

La coerenza e l’omogeneità nell’interpretazione del diritto dell’UE in tutti i 28 Stati membri sono il caposaldo del diritto dell’UE in quanto ordine giuridico efficace e autonomo[36]. Una funzione essenziale del diritto è stabilizzare le aspettative creando un fondamento affidabile sul quale i cittadini e le imprese possano organizzare le proprie attività e programmare il futuro[37]. Questa prevedibilità e questa certezza sono particolarmente importanti oggi per l’Unione economica e monetaria.

Conclusioni

Nel mondo di oggi le interconnessioni tecnologiche, finanziarie, commerciali sono così potenti che solo gli Stati più grandi riescono a essere indipendenti e sovrani al tempo stesso, e neppure interamente. Per la maggior parte degli altri Stati nazionali, fra cui i paesi europei, indipendenza e sovranità non coincidono. L’Unione europea è la costruzione istituzionale che in molte aree ha permesso agli Stati membri di essere sovrani. È una sovranità condivisa, preferibile a una inesistente. È una sovranità complementare a quella esercitata dai singoli Stati nazionali in altre aree. È una sovranità che piace agli Europei.

L’unione europea è stata un successo politico costruito all’interno dell’ordine internazionale emerso alla fine della seconda guerra mondiale. Dei valori di libertà, pace, prosperità, su cui quest’ordine si fondava, l’Unione europea è stata l’interprete fedele. 

L’Unione europea è stata un successo economico perché ha offerto l’ambiente in cui le energie dei suoi cittadini hanno prodotto una prosperità diffusa e durevole fondata sul mercato unico e protetta dalla moneta unica. Gli ultimi dieci anni hanno messo drammaticamente in luce carenze delle politiche nazionali e necessità di evoluzione nella cooperazione all’interno dell’Unione europea e al suo esterno.

Una lunga crisi economica mondiale, movimenti migratori senza precedenti, disuguaglianze accentuate dalle grandi accumulazioni di ricchezze prodotte dal progresso tecnologico hanno fatto emergere faglie in un ordine politico ed economico che si credeva definitivo.

Il cambiamento è necessario, ma vi sono strade diverse per attuarlo. Da un lato, si riscoprono antiche idee che hanno plasmato gran parte della storia, per cui la prosperità degli uni non può essere raggiunta senza la miseria di altri; organizzazioni internazionali o sovranazionali perdono di interesse come luoghi di negoziato e di indirizzo per soluzioni di compromesso; l’affermazione dell’io, dell’identità, diviene il primo requisito di ogni politica. In questo mondo la libertà e la pace divengono accessori dispensabili all’occorrenza.

Ma se si vuole che questi valori restino essenziali, fondanti, la strada è un’altra: adattare le istituzioni esistenti al cambiamento. Un adattamento a cui si è finora opposta resistenza perché le inevitabili difficoltà politiche nazionali sembravano sempre essere superiori alla sua necessità. Una riluttanza che ha generato incertezza sulle capacità delle istituzioni di rispondere agli eventi e ha nutrito la voce di coloro che queste istituzioni vogliono abbattere. Non ci devono essere equivoci: questo adattamento dovrà essere profondo, quanto lo sono i fenomeni che hanno rivelato la fragilità dell’ordine esistente e vasto quanto lo sono le dimensioni di un ordine geopolitico che va cambiando in senso non favorevole all’Europa.

L’Unione europea ha voluto creare un sovrano dove non ne esisteva uno. Non è sorprendente che in un mondo in cui tra le grandi potenze ogni punto di contatto è sempre più un punto di frizione, le sfide esterne all’esistenza dell’Unione europea si facciano sempre più minacciose. Non c’è che una risposta: recuperare quell’unità di visione e di azione che da sola può tenere insieme Stati così diversi: non è solo un auspicio, ma un’aspirazione fondata sulla convenienza politica ed economica. Ma esistono anche sfide interne che vanno affrontate, non meno importanti per il futuro dell’Unione europea. Bisogna rispondere alla percezione che questa manchi di equità: tra paesi e classi sociali. Occorre sentire, prima di tutto, poi agire e spiegare.

Quindi, unità, equità e soprattutto un metodo di far politica in Europa. Voglio ricordare in chiusura le parole del Papa Emerito Benedetto XVI in un suo famoso discorso di 38 anni fa: “Essere sobri ed attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale… Ma la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole… Non è morale il moralismo dell’avventura… Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica” 

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