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4709.- Quasi nessuna correlazione tra tasso di positività e livello di copertura vaccinale in Ue

Questo è l’Economist che lo ammette. Questi sono i morti totali, non “covid”, in eccesso della media dal 2020. Chi ha avuto meno morti di tutti ? La Svezia ! Chi più morti totali di tutti ? L’Italia ! (poi c’è l’Europa dell’Est un disastro, la loro sanità è terribile…)

Ammesso che si possano comparare i paesi, e su base quotidiana, i dati Covid_19 di Italia e UK di oggi 28 dicembre fanno riflettere: 1) Italia: 78mila contagi e 200 morti 2) UK (tutto aperto): 129mila contagi e 18 morti.

Analisi comparativa nei Paesi Ue

Sono stati analizzati i dati forniti dall’EDCD. I risultati più sorprendenti si ottengono comparando la situazione dei contagi in Romania (considerata dai media il worst case, per la sua scarsa copertura vaccinale), con quella dei Peasi più virtuosi. Si stanno studiando i dati sui casi di Covid in Europa.

Portogallo, Malta e Spagna (i 3 Paesi EU a maggiore copertura vaccinale) hanno registrato nelle ultime 2 settimane un tasso di positività maggiore del 43,35%, del 57,25% e del 24,97% rispetto a quello della Romania (copertura vaccinale pari alla metà dei 3 Paesi citati).

Per apprezzare ancora di più il risultato, considerate che la Romania è ritenuto (come detto) il Paese con la situazione sanitaria peggiore (Bassetti: in Romania, situazione disperata), mentre Spagna e Portogallo sono ritenuti esempi virtuosi per l’elevata copertura vaccinale.

Considerate altresì lo scarsissimo numero di terze dosi in Romania (nessun dato disponibile nel database ECDC), da contrapporre ai buoni risultati finora raggiunti da Portogallo, Malta e Spagna (21% in media), tra i primi a iniziare la somministrazione del booster.

Altro Paese ora considerato virtuoso è la Germania, alla luce del “successo” del lockdown dei non vaccinati. Ebbene, il tasso di positività in Germania è 10 VOLTE (+909%) maggiore di quello della Romania e più del TRIPLO (+236,81%) di quello della Bulgaria (cop. vacc. del 27,5%).

In pratica, i contagi corrono molto di più in Germania, nonostante le misure reclusive e la maggiore copertura vax, rispetto non solo a Romania e Bulgaria, ma anche alla Svezia, Danimarca e UK, dove viene concessa più libertà ai cittadini, indipendentemente dallo status vaccinale.

Non fa eccezione l’Italia che, nonostante la copertura vax doppia, il più alto numero di III dosi somministrate, greenpass sui luoghi di lavoro, e supergreenpass, registra un tasso di positività maggiore del 43,6% rispetto a quello della Romania.

Dall’analisi dei dati ECDC per 30 Paesi EU, non emerge nessuna correlazione (o meglio, lieve corr positiva) tra tasso di positività e livello di copertura vaccinale anti COVID19. I Piani vaccinali sono falliti. 

3081.- “In Portogallo Covid-19 contenuta grazie ai medici di base, in Italia li hanno abbandonati”.

A monte di questo articolo sulla sanità portoghese di base, dobbiamo rilevare che il medico condotto italiano dei tempi che furono, ridotto a un facitore di ricette e, a parte tutte le teorie, non è inserito nel sistema sanitario in modo efficiente e, in particolare, nei reparti ospedalieri di Medicina Generale; anzi, molto spesso gli ambulatori sono asserviti e offerti dalle catene di farmacie – altro problema – quasi ne costituissero il braccio armato.

Parla all’Huffpost Martino Gliozzi, medico imolese a Baixa, quartiere centrale di Lisbona: “Non ci siamo mai dovuti preoccupare dei dispositivi di protezione. Abbiamo contattato ogni paziente per spiegare il virus. Le Usf sono un punto di riferimento per il territorio”.

  1. Da Huffpost, Federica Olivo
Martino Gliozzi (a sinistra) all'interno dell'Usf che coordina, con i rappresentanti
Martino Gliozzi (a sinistra) all’interno dell’Usf che coordina, con i rappresentanti dell’Oms

“In Italia i medici di base sono stati lasciati soli nell’emergenza Coronavirus. Qui, in Portogallo, non è successo. Il nostro sistema di cure primarie ci ha consentito di affrontare in modo diverso, e più efficace, la crisi Covid-19”. Risponde al telefono in un momento di pausa dal lavoro il dottor Martino Gliozzi. 37 anni, originario di Imola, vive in Portogallo dal 2009. Dal 2015 è coordinatore Unidade de Saúde Familiar di Baixa, quartiere centrale e multietnico di Lisbona. Con lui altri colleghi con una caratteristica che colpisce: nessuno, a parte lui, ha più di 35 anni.

Le unità di salute portoghesi sono delle equipe che svolgono, in sostanza, la funzione dei nostri medici di famiglia. Nate già da decenni, esistono nella forma attuale dal 2007. “Siamo squadre di medici, infermieri, psicologi e assistenti sociali. A differenza dei medici di base italiani siamo funzionari pubblici, lavoriamo in strutture statali. C’è più o meno un’Usf per quartiere, abbiamo da 5mila ai 20mila pazienti e un rapporto diretto con le strutture centrali, anche se possiamo organizzarci in autonomia. Nel centro che coordino curiamo circa 15mila persone. Il 30% sono migranti”, spiega ad Huffpost. In molti casi questi centri diventano un punto di riferimento della comunità. E il rapporto di fiducia che si è creato tra professionisti e persone in cura ha giocato un ruolo importante in un momento di crisi sanitaria come quello che sta vivendo il mondo intero.
In Portogallo i numeri dell’espansione del Covid sono molto contenuti, rispetto ad altri Paesi europei, nonostante l’alto numero di anziani e i pochi posti in terapia intensiva. Gliozzi ci spiega perché.

Dottore, i media internazionali parlano di eccezione portoghese. È davvero così? Qual è la situazione sul fronte del Coronavirus?

Al momento non sono stati raggiunti numeri che si temevano. (Al 21 aprile, infatti, i contagiati erano 21379, i morti 762 e i guariti 917, ndr). Chiaramente non è il Paradiso, ma per ora la situazione è sotto controllo. Non è stato registrato un picco perché la curva sembra essere piuttosto piana. Ancora la crisi Covid-19 non è finita e non possiamo escludere altre ondate in futuro, ma per adesso il Portogallo se la sta cavando meglio di altri. Per vari fattori.

Quali?

Intanto qui il virus è arrivato dopo rispetto a Paesi, come la Spagna e l’Italia. Sapevamo, quindi, già quali fossero i rischi e quali misure potessero funzionare. Il governo ha imposto il lockdown – con divieti meno rigidi rispetto a quelli che ci sono in Italia – quando c’erano appena due morti e poco più di 600 contagiati. La stragrande maggioranza delle persone rispetta le misure, nonostante non siano previste sanzioni per chi trasgredisce. Mi viene da dire che ciò accade perché c’è una maggiore fiducia nelle istituzioni rispetto a quanto avviene in Italia. Poi, per quanto riguarda la prevenzione e il contenimento del contagio, sicuramente ha influito anche il sistema delle cure primarie.

 Un sistema diverso da quello italiano. Ci spieghi. 

Le cure di base sono affidate non a un medico singolo ma a delle squadre. Siamo funzionari pubblici, seguiamo delle linee guida nazionali ma abbiamo un’importante fetta di autonomia. E lavoriamo in edifici statali. Questo significa, ad esempio, che a differenza dei medici italiani non dobbiamo pagare l’affitto dello studio, né la segretaria, né avere l’esigenza di associarci con un collega solo per dividere questo tipo spese.

Una differenza di non poco conto. Quali altre figure professionali lavorano con voi?

Nelle Usf non ci sono solo medici, ma anche infermieri, psicologi, assistenti sociali. Ci sono riunioni settimanali per decidere come portare avanti il lavoro, e lo stesso coordinatore viene valutato dagli altri operatori periodicamente. In ogni team ci sono persone che scelgono di lavorare in un determinato quartiere o città, accettando quindi le peculiarità, anche sociali, del posto. Ad esempio, il centro che coordino io è frequentato da molti migranti. Tanti hanno situazioni complesse, molti non parlano portoghese, ma i medici che decidono di lavorare qui lo sanno. E per loro non è un problema, anzi sono pronti ad affrontare questo tipo di situazioni. Tra i pazienti e il personale si crea fiducia, un legame molto forte. Siamo un punto di riferimento per loro. Per tutti loro.

Come si è organizzato il suo centro quando è iniziata l’emergenza Coronavirus?

Avevamo un database con i contatti di tutti i pazienti. Abbiamo mandato a ognuno di loro un messaggio per spiegare la situazione e il link che avevamo creato per illustrare tutte le informazioni. Attualmente nel centro, che è aperto dalle 8 alle 20, effettuiamo solo le visite urgenti. Il resto lo facciamo da casa. Certo, per i pazienti più anziani all’inizio è stato difficile abituarsi a queste modalità a distanza, poi hanno capito. Appena l’emergenza è arrivata anche qui, abbiamo subito trovato il modo di separare, per le visite all’interno del centro, i pazienti che avevano sintomi riconducibili al Covid-19 da quelli che invece avevano altri problemi. Questo ha evitato rischi di contagio, anche per i medici. A questo proposito vorrei aggiungere una cosa.

Prego.

Noi non ci siamo mai dovuti preoccupare dei dispositivi di protezione. Non abbiamo dovuto cercarli noi. Ce li ha sempre forniti lo Stato.

La carenza dei dispositivi di protezione è stato uno dei principali problemi in Italia all’inizio dell’emergenza. Ieri, in un’intervista a Repubblica, il presidente dell’ordine dei Medici della Lombardia ha detto che ha puntato tutto sulle strutture ospedaliere abbandonando il territorio. Lei che, anche se vive e lavora da anni all’estero, osserva quanto avviene nel suo settore nel nostro Paese, è d’accordo?

Sì, condivido questa riflessione. La Lombardia è un caso significativo sotto questo aspetto, perché hanno degli ospedali d’eccellenza ma poi hanno abbandonato i medici di base. Ma in generale ho la sensazione che accada più o meno in tutta Italia. Purtroppo i medici di famiglia vengono lasciati lavorare da soli, sono considerati spesso di serie B. E questo si vede già dal trattamento che ricevono durante la specializzazione. 

Torniamo un attimo al suo centro e ai suoi pazienti. Quali fasce, secondo lei, stanno avendo più difficoltà in queste settimane?

Sicuramente i senzatetto, i disoccupati, alcuni migranti. È facile dire ‘state a casa’, ma c’è chi non ha un posto dove stare, oppure vive con tante altre persone in ambienti molto piccoli. Per questi ultimi è chiaro che sia molto più complicato restare mesi chiusi tra quattro mura, senza uscire.

Ormai sono anni che lavora all’estero. Tornerebbe in Italia?

Sarebbe molto dura, ma se cambiasse qualcosa non lo escluderei. Io sono diventato coordinatore del mio centro a Lisbona a 32 anni. In Italia sarebbe mai successo? Ne dubito. Ultimamente, però, noto dei barlumi di cambiamento. Spero sempre in una riforma del settore delle cure primarie nel nostro Paese. Magari, quando la crisi sarà alle spalle, sarà la volta buona per pensare a un sistema diverso.

Il team dell'Usf coordinata dal dottor
Il team dell’Usf coordinata dal dottor Gliozzi

1876.- A chi serve la Forza militare d’intervento europea

Abbiamo già trattato l’argomento Esercito europeo e le sue implicazioni dal lato ordinativo – organizzativo, anche nei confronti della NATO. Citiamo l’iniziativa dell’Unione europea nell’ambito della Politica di sicurezza e di difesa comune: La Cooperazione strutturata permanente (il suo acronimo è PESCO, dall’inglese Permanent Structured Cooperation) volta all’integrazione strutturale delle forze armate di 25 dei 28 stati membri. Dopo anni di acronimi e sigle NATO, ci mancavano quelle europee. Comunque, la PESCO è simile ad una cooperazione rafforzata, poiché non richiede l’adesione di tutti gli stati membri per poter essere avviata e si basa sull’articolo 42.6 e sul protocollo 10 del TUE, Trattato sull’Unione europea che con il TFEU, compone il Trattato di Lisbona del 2007 ed è stata avviata nel 2017 con un primo gruppo di progetti che saranno lanciati, appunto, quest’anno.
La PESCO è, quindi, attiva e la sua funzione di segretariato viene svolta congiuntamente dal “Servizio europeo per l’azione esterna” e dall’”Agenzia europea per la difesa”.
Ora, l’evoluzione della politica del direttorio franco – tedesco, attratto dal mercato russo, ha influito sul legame transatlantico per quegli stati, che seguendo Germania e Francia, progettano un affrancamento dalla catena di comando e controllo NATO e, qui, c’entra in gioco lo sfilamento annunciato da Trump dai bilanci della NATO.
L’Italia, che di recente ha espresso il suo favore per Mosca, ma a Bruxelles non vi ha dato seguito e che ha approvato nuovamente le sanzioni, vuole vedere chiarite le posizioni dell’Unione nei riguardi della migrazione di massa e dubito che si sottrarrebbe alla NATO per sottomettersi alla politica di Parigi; così, è rimasta fuori da questa “intesa a nove”, pure se l’anno passato ha già aderito a un corpo sanitario militare comune. Recuperando, però, Mussolini, l’Italia è una portaerei nel Mediterraneo, la terza o la prima del Gruppo d’Attacco della Sesta Flotta e può contare, comunque, sull’interesse di Trump: un interesse che misureremo presto nell’incontro di Giuseppe Conte alla Casa Bianca, il 30 luglio.
Sorvolando su queste considerazioni, un esercito rappresenta l’ultima chance della diplomazia e ha senso se si ha una politica estera, cosa che assolutamente manca all’Unione Europea. Singolare la partecipazione della Gran Bretagna a questa intesa, come dire, “fuori dall’Unione, dentro l’Europa”. Per quanto abbiamo sostenuto in più occasioni, nei confronti delle politiche europee finanziarie, sui flussi migratori ed estere in generale, presupposto e condizione necessaria di una vera unione europea è la definizione del rapporto, equivoco per certi versi, tenuto da Parigi fra l’eurozona e la Comunità Finanziaria Africana del franco CFA, che fa della Francia una potenza colonialista, in contraddizione con l’Unione; un rapporto che si aggiunge alle diseguaglianze nelle politiche economiche e finanziarie. Non è casuale che si sia venuto a creare un direttorio franco-tedesco. Ecco che è necessario e importante comprendere sia dove va e dove potrà andare l’Europa di oggi, sia “A chi serve la Forza militare d’intervento europea” e lo leggiamo da LIMES, in questo articolo a cura di Lorenzo Di Muro.

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Nove Stati membri dell’Ue hanno siglato un’intesa per la creazione di una Forza militare di intervento europea volta, tramite l’integrazione tra un gruppo ristretto di eserciti nazionali, a prevenire e fronteggiare crisi internazionali.
Mentre non è ancora chiaro se la natura della Forza sia difensiva o meno, quali crisi debba fronteggiare e possibili teatri di impiego (probabilmente, in prossimità dei confini comunitari), il progetto voluto dal presidente francese Emmanuel Macron – cui hanno aderito sinora Germania, Belgio, Uk, Danimarca, Olanda, Estonia, Spagna e Portogallo – è distinto dai quadri di riferimento Nato e Ue (Pesco) e soprattutto conta la partecipazione di Londra. Il Regno Unito si era sempre opposto a costruzioni in grado di minare la special relationship transatlantica, soppiantando la Nato o il coinvolgimento degli Usa nella sicurezza del Vecchio Continente. Una posizione alterata da Brexit, che impone invece all’esecutivo di Theresa May di spingere per preservare un’influenza in Europa anche dal punto di vista militare.
Altrettanto significativa è l’assenza dell’Italia, il cui precedente governo – stando a Parigi – aveva dato il proprio sostegno al piano presentato da Macron alla Sorbona lo scorso anno. Fonti interne riferiscono di uno scetticismo di Roma sulla complementarità del progetto alla Nato e alla Pesco, ma visti i dossier attualmente in discussione sul tavolo comunitario – su tutti quello migratorio – il messaggio italiano è precipuamente politico.
Per il presidente di Francia, d’altro canto, l’istituzione di tale Forza risponde a diversi calcoli: la creazione di una forza indipendente propriamente europea ma ristretta, con strutture decisionali che garantiscano una maggiore efficienza e reattività rispetto al formato a 25 della Pesco (nel cui ambito ieri il Consiglio Europeo ha adottato un documento sulle linee guida); un contrappeso all’influenza economica tedesca in Europa (che difatti aveva finora privilegiato un approccio inclusivo in materia); la risposta, paradossalmente, alla richiesta di Trump all’Europa di farsi carico della propria difesa; nonché un potenziale stimolo all’industria bellica nazionale.
In tal senso, il ministro della Difesa francese Florence Parly ha vagheggiato la creazione di una “cultura strategica europea”; un’esternazione paradigmatica dell’assenza di soggettività geopolitica dell’Ue, che si riflette – oltre che nel limbo comunitario nei comparti della difesa e della sicurezza – soprattutto nella mancanza di una visione e dunque di una strategia comune nella gestione della politica estera.

Il presidente francese Emmanuel Macron ha incontrato oggi papa Francesco a Roma, dove presso la basilica di San Giovanni in Laterano nel pomeriggio riceverà il titolo di protocanonico d’onore del capitolo lateranense.
Il vertice con il pontefice dopo l’incontro con una delegazione della Comunità di Sant’Egidio – mentre non è previsto alcun meeting con le autorità italiane – ha una evidente dimensione politica. Nel corso del bilaterale, i duei capi di Stato hanno discusso di temi quali migranti, clima, futuro della cristianità e responsabilità dell’Europa, la quale affronterà fra tre giorni l’ennesimo Consiglio Europeo che rischia di far saltare la costruzione comunitaria.
Per Macron – che si dice agnostico in ossequio alla laicité dello Stato ma fa sfoggio della sua istruzione gesuita e si è reso protagonista di un riavvicinamento con la Santa Sede e l’episcopato locale dopo gli anni difficili sotto la presidenza di Hollande – il sostegno (anche retorico) del papa può difatti costituire un perno non secondario nel suo attivismo in politica estera.
In primis – malgrado la necessità di destreggiarsi tra un approccio alla questione migratoria che cozza con i toni usati per raffigurare la posizione in materia del nuovo esecutivo italiano – ottenendo la sponda papale prima del vertice di Bruxelles. E magari, come sul fronte militare, consolidando la posizione di Parigi alla guida (anche sul piano morale) di un’Europa en marche.
USA E COREA DEL NORD
Gli Usa non impongono scadenze temporali nel negoziato con P’yongyang, ma continueranno a valutare le mosse del paese eremita verso la denuclearizzazione per il ristabilimento di piene relazioni.
Lo ha dichiarato il segretario di Stato Mike Pompeo dopo che ieri era circolata la voce che gli Usa fossero in procinto di presentare a Kim Jong-un una lista di specifiche richieste con relative scadenze, al fine di vagliare l’aderenza di P’yongyang al documento siglato durante il vertice di Singapore. Frattanto, il segretario alla Difesa Jim Mattis è arrivato in Cina, dove il dossier coreano sarà uno dei temi di discussione con Pechino.
La notizia conferma come Washington debba accontentarsi di contropartite limitate da parte di P’yongyang, come la cancellazione della manifestazione “anti-imperialista” annuale. Probabilmente, gli Stati Uniti hanno già raggiunto il massimo risultato ottenibile in questa fase, ossia provare a convincere il mondo dell’imminenza della (assai improbabile) rinuncia di Kim alla Bomba.
ALLARGAMENTO UE E NATO
L’Europa è divisa anche sull’allargamento dei confini comunitari, mentre si discute dell’apertura di negoziati per l’ingresso nell’Ue di Albania e Macedonia.
Da una parte Francia, Olanda e Danimarca sono i paesi più scettici, considerati gli scarsi avanzamenti di Tirana e Skopje in settori come la lotta alla corruzione e alla criminalità.
Dall’altra, l’allargamento ai Balcani occidentali è sostenuto dall’Ungheria e più recentemente dalla Germania, cui potrebbe far comodo anche la creazione di hotspot (centri di accoglienza) per migranti – progetto di cui si sta valutando la fattibilità – in paesi come l’Albania. Dell’apertura delle trattative è fautrice anche la Nato, di cui Tirana è già membro e che vedrebbe l’ingresso macedone nell’Ue come prodromico a quello nell’Alleanza Atlantica.

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