Archivio mensile:febbraio 2018

1689.- Il conflitto fra Turchia e Cipro scopre una Italia “anello debole”. Caso Eni-Saipem, la versione di Crosetto: perché l’Italia non ha convocato l’ambasciatore turco? E la Turchia minaccia di invadere la Grecia?

Perché l’est Mediterraneo, fra Balcani e Medio Oriente, sarà una priorità per il prossimo governo italiano. L’analisi di Emanuele Rossi​
L’Italia è “l’anello più debole”. A dirlo, senza difetto di chiarezza, è stato il ministro degli Esteri cipriota, Ioannis Kasoulides, che ​parlando del​le perforazioni nell’area orientale dell’isola ​ha spiegato che queste ​potrebbero essere abbandonate se le navi turche continueranno a ostruirle: “La forza delle armi prevale sempre”​. E se compagnie come l’americana Exxon Mobile e la francese Total continuano a lavorare pressoché indisturbate, si capisce il riferimento alla debolezza italiana che spiegherebbe perchè Erdogan ha preso di mira proprio la piattaforma dell’Eni.

​La complessità della situazione aveva già spinto ieri l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, ​a pronunciare parole precise e moderate. Se da un lato aveva dichiarato che l’attività della società italiana avrebbe potuto essere sospesa finché la Turchia non si fosse convinta a ritirare le sue navi militari,​ dall’altro​ aveva ​voluto ribadire che non rinuncerà al business cipriota, ​ricord​ando che Eni è abituata ​gestire ​a questo genere di situazioni​.

Si ricorderà che la rotta della “Saipem 12000″ (che si stava spostando da una parte all’altra dell’isola sotto l’autorizzazione di Nicosia) era stata interrotta dai battelli di Ankara due settimane fa, formalmente perché stava entrando in acque in cui erano in atto “operazioni militari” turche. Rimasta ancorata a 30 miglia nautiche dal punto di destinazione, la Turchia ne aveva confermato il fermo fino al 10 marzo. Nonostante l’intenso lavorio tra governi sembra – almeno per il momento –​ che l’Italia​ sia nella condizione di​ dover​ fare un passo a lato.

Il governo turco è ​sempre più esplicito nel minacciare che non permetterà a Cipro di effettuare una ricerca di gas “unilaterale” nella fascia orientale dell’isola del Mediterraneo, a meno che i turco-ciprioti separatisti non ne raccolgono benefici. È stato il ministro turco dell’Energia, Berak Albayrak, a dichiarare che la Turchia avrebbe comunque bloccato qualsiasi ricerca di idrocarburi in mare aperto fino a quando non ci sarà un accordo per riunificare etnicamente la divisa Cipro – dunque, manovre militari, ossia scuse formali, a parte.

La Turchia ​asserisce che la perforazione ignora i diritti d​ei turco-ciprioti separatisti, che dovrebbero godere delle stesse possibilità di sfruttare le risorse naturali dell’isola; quando Ankara parla di unilateralità, si riferisce agli accordi che il governo regolare di Nicosia ha preso e prende con diverse società straniere per l’estrazione delle riserve di gas (tra questi l’Eni, fin dal 2013, è stata una delle meglio piazzate, con sei licenze esclusive concesse dai ciprioti, sebbene nella vicenda sembra essere quella più danneggiata).​ ​

Il governo di Nicosia – che gode del riconoscimento dell’UE, mentre la Repubblica nordista è legittimata solo dalla Turchia – sostiene che la politica energetica è parte delle proprie scelte sovrane, e non deve essere soggetto a interferenze turche. Però, al di là degli annunci formali, Formiche.net ha contatto un alto esponente della Farnesina, che però ha declinato ogni commento; è una scelta comprensibile visto la delicatezza della situazione (pensare per esempio, che pochi giorni prima dello stop marino alla “Saipem 12000″, il presidente turco Recep Tayyap Erdogan si era recato in Italia e in Vaticano in visita ufficiale; dunque, sulla vicenda, pesano le relazioni tra due importanti paesi del Mediterraneo, peraltro alleati Nato).

L’Associated Press sottolinea che è comunque difficile stabilire colloqui di pace (per la riunificazione di Cipro) se la Turchia continua a interferire negli affari interni dell’isola, dando spinta di background ai nordisti per perpetrare i propri interessi – e dunque: quando potrà la nave Eni tornare a lavorare su quell’importante reservoir gasifero? I turchi in effetti hanno da tempo buttato l’occhio sulle dinamiche energetiche del Mediterraneo orientale, e vogliono costruirsi un ruolo centrale da cui trattare con gli altri attori in campo, l’UE, Israele, l’Egitto. Ultimamente è stato siglato un accordo tra Tel Aviv e il Cairo per l’esportazione di gas naturale, che, come su queste colonne ha fatto notare l’analista dell’Ispi Giuseppe Dentice, è uno schiaffo ad Ankara, tagliata fuori da Israele. E dunque un presupposto per aumentare (incattivire) le tensioni in un quadrante che la politica italiana ha difficoltà a inquadrare (testimonianza: il ministro cipriota parla di Roma come “anello debole” tra la concatenazione di interessi che si muovono nell’area) sebbene sia una priorità strategica nazionale, e che sarà di certo uno dei temi di politica estera che si troverà ad affrontare il governo che uscirà dalle urne il 4 marzo.

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Il conflitto fra Turchia e Cipro scopre una Italia “anello debole”Gentiloni dovrebbe spiegare come e perché il dossier è stato (non) gestito così. Intervista a Guido Crosetto, coordinatore nazionale di Fratelli d’Italia e presidente di Aiad
“Perché il governo Gentiloni non ha ancora convocato l’ambasciatore turco? L’Italia è stata umiliata dal sultano turco Erdogan”. Così Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia scrive su Facebook a proposito della situazione incandescente nel Mediterraneo orientale con Ankara che ha bloccato e minacciato la nave dell’Eni Saipem 12000 intenta a effettuare rilievi nella zona economica esclusiva di Cipro. Secondo Guido Crosetto, già sottosegretario alla Difesa, siamo in presenza di una palese violazione del diritto internazionale.

Cosa avrebbe dovuto fare il nostro governo?

Convocare l’ambasciatore turco. La Turchia ha commesso un atto violento contro un’azienda italiana. Credo sia necessario che il governo turco spieghi al nostro il motivo di questa ingerenza in acque non territoriali.

Il consiglio supremo di difesa sarebbe stato troppo?

Prima ci sono le spiegazioni diplomatiche, per cui prima avremmo dovuto convocare l’ambasciatore turco a Palazzo Chigi, poi semmai avremmo potuto richiamare dalla Turchia il nostro ambasciatore e in seguito avremmo potuto chiedere all’Europa un intervento. Ma intanto regola vuole che ci si telefoni tra capi di Stato per manifestare tutta la propria disapprovazione per una violazione di leggi internazionali. Si è trattato di un atto molto grave, che difficilmente qualunque altra nazione al mondo avrebbe accettato in (quasi) silenzio così come fatto dall’Italia.

Come ne esce l’Eni?

L’Eni nel confronto con uno Stato non può che rimetterci, nessuna azienda al mondo è così forte da reggere. Non capisco perché il nostro Governo non si sia mosso: anzi, attendo con impazienza di conoscerne il motivo. Suppongo che ve ne sia uno davvero valido che giustifichi la nostra posizione che ad oggi non capisco. Il silenzio italiano su una vicenda di questa portata mi sembra un fatto surreale.

Crede investa la differenza di politica tra l’oggi e la Prima Repubblica?

Non credo, anche oggi Gentiloni dà del tu alle cancellerie europee, come accadeva in passato. È proprio questo il motivo per cui io non comprendo perché questo dossier sia stato gestito in maniera così superficiale, quasi come se non fosse accaduto, se non esistesse. Ad ora non mi è chiaro e vorrei che il governo me lo spiegasse. Magari c’è una buona ragione…

Il caso Regeni crede possa intrecciarsi allo scontro Eni-Ankara e ai silenzi di Roma?
No. Vedo solo lo scontro non nuovo tra Ankara e Cipro per il controllo che i turchi vorrebbero esercitare sull’isola occupata dal 1974. Certo, capisco che il punto di arrivo della mossa turca è proprio Nicosia e l’Eni in questo particolare momento è in mezzo a due fuochi. Ma resta il fatto che l’Italia non avrebbe potuto ugualmente accettare questa situazione, come invece ha fatto. L’obiettivo è Cipro, ma il danno è stato fatto ad una nostra azienda.

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Cipro, Descalzi conferma l’impegno di Eni e la diplomazia va avanti<img
“Noi non ci ritiriamo”. Così il numero uno di Eni Claudio Descalzi, dopo che la Turchia ha reso noto di aver rinviato la scadenza dell’avviso delle sue attività militari al 10 marzo, interviene per fare chiarezza sulla situazione che si è venuta a creare nel Mediterraneo orientale.

Secondo l’ad del colosso italiano il blocco della nave di perforazione Saipem 12000, fermata dalla Marina turca dal 9 febbraio scorso al largo di Cipro, rientra nei “possibili contenziosi che abbiamo”, ma a questo punto l’evoluzione delle cose dipende dalle decisioni che verranno prese da Cipro Nord e Cipro Sud.

“Abbiamo dei permessi che durano moltissimi anni. Se ci sono degli stalli si ferma l’orologio ma non siamo andati via dalla Libia o da altri Paesi dove c’erano delle situazioni complesse – aggiunge – quindi questa è l’ultima delle preoccupazioni, siamo tutti molto tranquilli e sereni”. In seguito annuncia che Eni tornerebbe lì “in attesa che la diplomazia internazionale, europea, turca, greca e cipriota trovi una soluzione”.

DA NICOSIA
Le trivellazioni potrebbero essere fatte anche in altre aree marittime. Così il ministro degli Esteri cipriota Ioannis Kasoulides sulla stampa locale, secondo cui le esplorazioni di idrocarburi previste nella ZEE di Cipro non dovranno comunque subire interruzioni, anzi, dovrebbero comunque continuare.

DA ANKARA

Oltre il caso Eni, la spinta neo ottomana della Turchia e i rischi del conflitto con la Grecia. La Turchia minaccia di invadere la Grecia? Se lo chiede il giornalista turco, Uzay Bulut, in una lunga analisi pubblicata sul magazine Usa Gatestone Institute. Punto di partenza il recente episodio che si è verificato nelle acque dell’Egeo con lo scontro tra il pattugliatore greco “090 Gavdos” e il turco “Umut” della Guardia Costiera, dopo che Ankara aveva violato lo spazio aereo greco per 138 volte in un giorno.

SCONTRI

Lo scorso 13 febbraio è stata colpita una nave della guardia costiera greca vicino all’atollo di Imia, una delle tante isole greche per le quali la Turchia rivendica la sovranità. Ma è stato solo l’ultimo di una lunga serie, come accaduto lo scorso 2 agosto, quando undici F16 turchi avevano sconfinato per 12 ore di seguito nei cieli greci, provocando tredici decolli di aerei greci destinati ad intercettare gli intrusi. Immediata fu la reazione del ministero della Difesa di Atene che aveva segnalato l’episodio alla Nato e alle autorità internazionali. Gli sconfinamenti si concentrano nelle isole dell’Egeo orientale, come Limnos, Lesvos, Samos e Chios. Qualche giorno prima, il 28 luglio, un aereo spia turco CN-235 era stato respinto dall’aviazione greca.

Il partito di Erdogan, l’AKP, in Turchia sostiene (assieme a gran parte dell’opposizione) che un giorno o l’altro conquisterà quelle isole greche, con la logica che si tratta in realtà di territorio turco. E dopo la debole risposta euroitaliana contro lo schiaffo turco all’Eni, nel Paese questa consapevolezza aumenta. Sul caso, ecco l’annuncio della marina militare turca che ha deciso di prolungare sino al 10 marzo l’avviso relativo alle sue attività militari (Navtex) al largo di Cipro nel Mediterraneo. Ufficialmente è questo il motivo che da 10 giorni sbarra la strada alla nave da perforazione noleggiata dall’Eni Saipem 12000 impedendole di raggiungere la zona della ZEE di Cipro su licenza di Nicosia. E che rappresenta il vulnus della reazione turca circa le pretese che Erdogan avanza su quelle acque, pur non essendo confortate da leggi o trattati internazionali.

Infatti il trattato di Montego Bay, del 1982, sostiene che la sovranità dello Stato può estendersi per massimo dodici miglia fino ad una zona di mare adiacente alla sua costa, il cosiddetto mare territoriale, su cui il singolo Stato esercita le proprie prerogative. Invece lo sfruttamento esclusivo di minerali, idrocarburi liquidi o gassosi, che riguarda nello specifico il caso cipriota, si estende su tutta la propria piattaforme continentale, intesa come il naturale prolungamento della terra emersa sino a che essa si trovi ad una profondità più o meno costante prima di sprofondare negli abissi. Per cui lo Stato costiero legittimo, come è Cipro stato mebro dell’Ue, e non la parte nord occupata dalla Turchia e autoproclamatasi Repubblica turca di Cipro nord non riconosciuta dall’Onu, è unico titolare del diritto di sfruttare tutte le risorse biologiche e minerali del suolo e del sottosuolo.

GLI ANNUNCI DELLA POLITICA

Un mese fa Kemal Kilicdaroglu, leader dell’opposizione CHP, ha detto che quando vincerà le elezioni nel 2019, “invaderemo e prenderemo più di 18 isole greche nel Mar Egeo”, perché non c’è “nessun documento” per dimostrare che queste isole appartengono alla Grecia.

Maral Askenner, capo della neonata opposizione “Good Party”, ha anche invocato l’invasione e la conquista delle isole con un tweet: “Ciò che deve essere fatto”, ha scinguettato il 13 gennaio scorso.

Ed Erdogan ha chiuso con una frase sibillina: “Mettiamo in guardia coloro che hanno superato la barra nell’Egeo e Cipro”. E ha accostato la contingenza siriana con l’invasione militare nella regione Afrin al Mar Egeo e a Cipro. “Non pensate che la ricerca di gas naturale a Cipro e l’opportunismo nell’Egeo rimangono inosservati dal nostro radar” ha detto pochi giorni fa alla stampa locale.

E in riferimento ai giorni passati dell’Impero Ottomano, il Presidente ha continuato: “Quelli che credono di aver sradicato dal nostro cuore le terre che abbiamo perso cento anni fa sbagliano. In ogni occasione ripetiamo che la Siria, l’Iraq e altre parti della mappa non sono separate dalle terre della nostra patria. Combattiamo perché nessuna bandiera di uno stato straniero vada dove risuona l’appello islamico alla preghiera”.

TRATTATO DI LOSANNA

Il ritornello che Ankara ripete da almeno cinque anni è relativo alla contestazione del Trattato di Losanna, che nel 1923 disegnò i confini nell’Egeo ma anche quelli territoriali tra Turchia, Iraq e Siria. Il Trattato di pace, firmato nel luglio 1923 tra Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone, Grecia, Romania, Jugoslavia e Turchia, aveva per l’appunto fissato i confini del nuovo Stato turco formatosi dopo la dissoluzione dell’Impero Ottomano. Due anni fa per la prima volta Erdogan aveva annunciato ufficialmente di volerne una revisione, con la motivazione che non fosse vantaggioso per il suo Paese, ma trovando l’opposizione del governo greco.

Tra l’altro proprio le isole contese, nella zona più orientale dell’Egeo, sono nuovamente al centro del caso migranti con gli sbarchi che ricominciano: 117 tra migranti e rifugiati sono arrivati negli ultimi tre giorni a Lesbo, a Chio e a Samos mentre nel solo mese di febbraio sono stati in totale 575 gli arrivi, con ben 17 incidenti in 30 giorni tra gommoni affondati e scafisti che li hanno abbandonati in panne.

ALTA TENSIONE

Inoltre da tre giorni al confine settentrionale tra Grecia e Turchia, nei pressi del fiume Evros, si stanno svolgendo una serie di esercitazioni militari turche con un intenso movimento di truppe di stanza nella base di Adrianopoli, con carri armati, mezzi alfibi e soldati che hanno contribuito ad aumentare la tensione.

Lo scorso lunedì un motoscafo era stato intercettato dalla Guardia Costiera greca mentre trasportava illegalmente migranti dalla costa turca di Faliraki a Rodi. Dopo la localizzazione però non ha potuto procedere al salvataggio per l’ostruzionismo di un aereo turco e un elicottero che volavano a un’altezza molto bassa sopra il porto di Harnos, impedendo il salvataggio dei migranti. Sopo dopo 3 ore le autorità greche sono riuscite a trasferire i 15 migranti irregolari nel porto di Rodi.

FRANCESCO DEPALO

1688 .- Caso Eni. Si scrive Turchia ma si legge Russia. Parla Arduino Paniccia

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Continua l’approfondimento di Formiche.net sulla piattaforma Eni costretta a lasciare le coste di Cipro dopo l’intervento turco. Il prof. Paniccia invita ad una analisi più ampia
Oltre lo schiaffo di Ankara all’Eni: la partita è tra Bruxelles e Mosca, ecco come sul gas nel Mediterraneo “da oggi cambia tutto, per l’Ue e per gli assetti futuri”. Così Arduino Paniccia, analista di strategia militare e di geopolitica e docente di Relazioni Internazionali alla Facoltà di Scienze Politiche di Trieste, che ricostruisce “le movenze neo ottomane” della politica di Erdogan alla base dell’episodio Eni-Saipem e che si intrecciano con la mancata stabilizzazione istituzionale di paesi come Libia e Iraq e con la reale portata dello scontro che non è limitato a soli due paesi, ma tocca il prezzo del gas.

Come cambia, anche per l’Italia, la partita geopolitica legata agli idrocarburi dopo lo schiaffo di Ankara?

Non solo per l’Italia: quello scacchiere cambia del tutto da oggi. Cambia per l’Europa e per gli assetti del Mediterraneo orientale, un’area dove l’Italia ha comunque una sua sfera di interesse, tanto quanto la Turchia. Ankara considera quella porzione di mare nostrum, con tutto ciò che comprende, come una sua area di influenza diretta. Dietro le sue spalle vi sono anche i russi in questa nuova alleanza.

Tutto connesso quindi al problema del gas a Cipro, stato membro dell’Ue?

Sì ma è uno dei problemi in quella macroregione. La questione è molto più vasta, riguarda l’intero versante euromediterraneo, tocca l’Ue dietro le spalle dell’Italia e Mosca dietro le spalle di Ankara. Riduttivo inquadrarlo come uno scontro solo tra due paesi intorno ad un giacimento di gas. Concerne le linee economiche e strategiche dell’intero Mediterraneo orientale: quindi il problema è più vasto e lo sarà anche nell’immediato futuro.

Da escludere un passo indietro di Ankara?

Non recederà facilmente dal suo atteggiamento. Dobbiamo prepararci ad un grande braccio di ferro, intanto tra Italia e Turchia, ma poi in un ambito che diventa più vasto.

I tracciati dei gasdotti come si intrecciano a tale scenario?

Anch’essi riguardano il convitato di pietra che è dietro la Turchia, ovvero la Russia. Nel momento in cui parte un gasdotto che passa da Israele, Cipro, Grecia e arriva in Italia, tutti gli altri che passano per la Turchia verrebbero aggirati, perdendo di importanza. Inoltre, cosa che ai russi sta molto a cuore, il prezzo del gas per i paesi Ue potrebbe essere inferiore rispetto a quello praticato da Mosca.
Come giudica la reazione di Bruxelles, con le parole di Tajani?

Tardiva, perché da tempo i turchi avanzano pretese su quell’area. La questione relativa alla Repubblica turco cipriota autoproclamata da Ankara e non riconosciuta dall’Onu è stata per troppo tempo ignorata da Bruxelles che ha voltato la testa dall’altra parte. Ed oggi ne si pagano le conseguenze. Dal 1974 la zona nord dell’isola è ancora militarmente occupata dai turchi. Ma guardare altrove può andare bene fin quando il benessere copre tutto: va meno bene quando poi inizia la “lotta per il centesimo” sul gas. Da qui in avanti l’Ue si ritroverà ad affrontare quei dossier sui quali non è intervenuta in passato. Non è esattamente questo ciò che deve fare un’unione da 500milioni di persone.

La decisione di Trump di mollare il Mediterraneo per concentrarsi sul quadrante orientale ha influito su dinamiche e azioni?

E’il problema chiave che riguarda l’atteggiamento conseguente dell’Europa e della Turchia. Era da un pezzo che gli Usa, soprattutto dopo aver fatto la scelta dello shale oil, covavano questa deriva. La maggior parte di scelte simili hanno un substrato di natura economica, soprattutto oggi che non è più il tempo delle ideologie. Gli Usa oggi sono pari per export e produzione interna, e domani potrebbero essere esportatori netti di petrolio. Qui entrano in scena i turchi che, anziché fare i soldatini della Nato, hanno avviato con Erdogan una politica di stampo neo ottomana, con successi e insuccessi, ma perseguendo imperterriti sulla strada tracciata. Che passa anche per l’alleanza con Mosca, la quale ha ripreso lo spunto tanto caro alla vecchia Unione Sovietica di voler influenzare fortemente il Mediterraneo, arrivando addirittura a cercare basi in Libia. Se a questo quadro si somma la mancata stabilizzazione istituzionale di paesi chiave come Libia, Iraq e Siria allora lo scenario si delinea maggiormente in tutta la sua complessità.

1687.-LE CANNONIERE TURCHE MINACCIANO SAIPEM. E LA UE DOVE’? NON C’E’ PIU’.

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La piattaforma Saipem 1200 ha rinunciato. Per conto dell’ENI doveva perforare una zona attorno a Cipro, ma cinque navi turche hanno minacciato di speronarla.

Siamo scappati come conigli. Le nostre navi da guerra dov’erano? Non chiedetelo: nel febbraio di due anni fa sono scappate davanti a due criminali scafisti armati di kalashnikov che “hanno intimato agli italiani di lasciare loro l’imbarcazione dopo il trasbordo dei migranti. E così è avvenuto. Il personale della Guardia Costiera a bordo delle motovedette non è armato”. E’ chiaro: le nostre navi da guerra concepiscono la loro missione come ONG soccorritrici, navi-accoglienza del papa, navi-infermeria, navi asili-nido galleggianti di rifocillamento di prostitute africane e stregoni nigeriani hanno speso 3-5 mila dollari per venire qui: gettano loro i bei salvagente arancione, li imboccano, li scaldano in morbide coperte, li rivestono, poi li sbarcano qui dove vengono forniti di smartphone. E i nostri angeli del mare in blu tornano a “salvare altre vite” sotto la Libia, senza nemmeno le armi per difendere se stessi. Bandiera bianca.

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(Gentiloni non appare nella foto)

Almeno le ONG che li vanno a prendere sottocosta si fanno pagare da Soros. Dovremmo farci pagare da “Francesco”, invece siamo noi contribuenti a pagare il carburante di corvette e incrociatori trasformati in asili-nido: se la Saipem 1200 costa solo di carburante 600 mila dollari al giorno, fate voi i conti.

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(Anche qui Gentiloni non appare) Obbligatorio citare la fonte LaPresse/Palazzo Chigi/Tiberio Barchielli

Allora dovrebbe difenderci la NATO? Da chi: dalla Turchia che ne è un membro essenziale? La NATO poi sta preparando la guerra alla Russia con baltici e polacchi, ma al Sud è in piena, storica crisi d’identità, gioca sul doppio tavolo, alleata alla Turchia arma i curdi che la Turchia attacca in Siria: ci getta nella guerra ad Assad, a fianco dei sauditi, per Israele sua unica cura; la “protezione” di un alleato minore e servile, che mai esige nulla e mai protesta, è l’ultima delle preoccupazioni del Pentagono.

L’Unione Europea? Come sempre quando dovrebbe schierarsi con l’Italia, fa finta di nulla. Tanto, Gentiloni ed Alfano mai chiedono qualcosa. Vaghe informazioni riferiscono che della questione delle navi turche che hanno minacciato la nostra, non si parlerà. Invece si parlerà del contenzioso di Cipro con Ankara, ma su iniziativa del “ primo ministro della Grecia Alexis Tsipras e il presidente di Cipro Nikos Anastasiadis”, i quali “chiederanno una presa di posizione dell’Unione Europea”.

Loro, i greci, hanno capito che devono “chiedere”, esigere, bussare – hanno capito che l’Unione Europea da sé, se non è spinta e premuta, non fa nulla, perché questa è la sua natura: di mostro burocratico passivo, incapace di reazioni proprie. Persino Tsipras l’ha capito. Ma secondo notizie RAI di due giorni fa, “del blocco nei confronti di Eni dovrebbe discutere anche il premier italiano, Paolo Gentiloni”. Dovrebbe. Diceva una breve di due giorni fa. Risulta a qualcuno che Gentiloni abbia disturbato la Merkel su questa faccenda, lei che ha tante cose a cui pensare? Avrà posto la questione al suo tanto amico Macron, il tanto amico che ci ha fregato i rapporti petroliferi con la Libia? Presto, temo, nelle acque di Cipro vedremo una piattaforma Total.

L’Italia è “l’anello più debole”, ha detto il ministro degli Esteri cipriota, Ioannis Kasoulides. Ecco, al confronto, uno statista. La “Unione Europea” è ormai un posto dove ciascuno pensa a sé al proprio interesse nazionale, e cerca solo di fregare gli altri: se poi questi sono “anelli deboli” del tutto privi di una dottrina dell’interesse nazionale, è un invito a nozze per il saccheggio. Lo hanno già fatto alla Grecia.

“La UE si sta sfaldando”
E’ essenziale che l’elettorato italiano non affidi più il suo destino a questo genere di “europeisti” che ci governano su mandato di Berlino . Perché la sedicente “Unione” Europea è in accelerato sgretolamento e decomposizione, si sta già trasformando in qualcos’altro, e gli altri, più lesti, ne approfittano.

In ballo ci sono i miliardi. I 400 miliardi del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), di cui noi siamo il terzo contribuente, e che è già servito a salvare le banche tedesche e francesi con la finzione di “aiutare la Grecia”. Gentiloni, se non ha parlato dell’Eni minacciata dalle navi turche, ne parlerebbe al “prossimo vertice dei capi di Stato e di governo dell’UE, il 22 e il 23 marzo 2018”? Ma questo vertice è dedicato appunto al MES: che gli altri capi di Stato e di Governo vogliono “freneticamente” far diventare la fonte di finanziamento alternativa dei loro bilanci nazionali, quando la BCE ridurrà la sua generosa di titoli di Stato.

Come ha spiegato il giornalista Ronald Barazon, direttore di Der Volkswirt, “nella cerchia dei capi di stato e di governo, come dei ministri delle finanze, c’è una crescente intenzione di riorganizzare il MES senza il coinvolgimento della Commissione europea. La Commissione complicherebbe tutto e ostacolerebbe un approccio efficace, dicono. Pertanto, il MES dovrebbe funzionare sulla base di un accordo degli Stati e non sulla base del diritto dell’UE. Ciò sarebbe giuridicamente semplice, mentre una costruzione all’interno del quadro dell’UE richiederebbe una revisione dei trattati, decisioni dei parlamenti nazionali, probabilmente anche referendum”. Quindi ci teniamo trattati da revisionare che non possono essere revisionati, perché ciò implicherebbe interessarne i parlamenti nazionali, o ancor pggio, i popoli: i quali si sa come si pronunciano nei referendum sulla UE.

Ma insomma la riunione del 22 marzo sarà la fiera del braccio di fermo e dell’arraffa-arraffa, stati uno contro l’altro, i forti contro i deboli. Chi vincerà? Basta dire che il capo del MES si chiama Klaus Regling, ed è colui che “quando Germania e Francia hanno superato i limiti di disavanzo concordati nel 2002 e nel 2003, ha avviato un procedimento per la Commissione europea contro i due paesi”, che ha poi lasciato cadere.

“I capi di Stato e di governo – ci informa Barazoin – stanno ora reagendo come molti cittadini: sono arrabbiati per le complicazioni della Commissione europea e cercano modi per sfuggire alla responsabilità della Commissione. I governi temono che la Commissione e il Parlamento esigano una disciplina di bilancio e che un MES sia più rilassato in bocca agli Stati. Si vuole sfuggire alla verga della commissione”. Ma anche è da notare che “sorprendentemente vaghe e scarse sono le dichiarazioni sulla UE del governo tedesco di Angela Merkel e Martin Schulz. A differenza del passato, la Germania non è attualmente il pioniere di una comunità forte e finanziariamente stabile”. E “mentre le casse vuote uniscono i governi nella ricerca di nuove fonti di denaro, si è incidentalmente desiderosi di smantellare l’UE nella sua forma attuale e convertirla in una confederazione allentata”.

LA UE non è stata capace di impegnarsi in “una politica di immigrazione intelligente e concertata”, che curi “la minaccia a lungo termine del declino ed invecchiamento della popolazione senza sovraesporre la società europea a stress etno sociali intollerabili”. Risultato, “Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria hanno sostanzialmente chiuso i confini. L’Austria ha aderito a questo movimento, col governo che è in carica da dicembre. E il paese assumerà la presidenza dell’UE nella seconda metà dell’anno e ha già annunciato un “summit dei rifugiati” di capi di stato e di governo. Per non dimenticare la Baviera, che ha anch’essa imposto un freno all’immigrazione di rifugiati in Germania. E il rifiuto dell’immigrazione va di pari passo con un nazionalismo più pronunciato che vuole indebolire le istituzioni dell’UE e rafforzare gli stati.

La UE senza difesa

Oltretutto, gli europei si sono di colpo resi conto di “avere un serio problema di sicurezza. Gli Stati Uniti non si considerano più una potenza protettiva degli europei, ma sostengono che l’Europa stessa deve provvedere alla sua difesa. Diventa quindi evidente che le numerose dichiarazioni sulla politica europea di difesa e sicurezza erano solo frasi vuote. La UE ha sempre fatto affidamento sugli Stati Uniti come leader della NATO e non ha sviluppato una propria strategia”.

Barazon ricorda persino come gli “europeisti derisero e attaccarono De Gaulle”, quando “nel 1962 fece uscire la Francia dalla NATO e volle che la Francia si costruisse una proprio autonoma forza di dissuasione” (anche nucleare). Negli anni seguenti la gente si abituò alla protezione della NATO e quando l’Unione Sovietica crollò nel 1991, si ebbe l’illusione che non ci fossero più minacce. E ora l’UE è indifesa.

“Ogni paese ha il suo esercito, che non può far molto in caso di emergenza. Il coordinamento di tutti questi piccoli eserciti è meno che modesto. Ed oggi è anche difficile immaginare che i governi, che sono attualmente impegnati nella riconquista del loro presunto potere, subordinino i loro eserciti a un comando congiunto o addirittura contribuiscano a un esercito europeo”. Ma aggiunge il giornalista europeista, che “inoltre, l’attuale trattato di Lisbona, che è una specie di costituzione dell’Unione europea, stabilisce espressamente la cooperazione con la NATO”.

Dunque gli europeisti hanno scritto in quella “specie di costituzione” il servaggio e la dipendenza dalle armi americane. Ci siamo legati mani e piedi ad un protettore che ci manda, disarmati, alla guerra contro la Russia. Lo riconosce Barazon:

“Ucraina: la crisi se l’è voluta la UE”
“La UE non vuol vedere un altro fallimento: che la crisi ucraina non è prima di tutto colpa della Russia, ma soprattutto della NATO e dell’UE. E’ stata ripetutamente promessa l’inclusione del paese nella NATO e nell’UE senza rafforzare economicamente attraverso un programma di ricostruzione. Era inevitabile che gli sforzi per legare l’Ucraina alla NATO e all’Unione europea dovessero allarmare la Russia. Per la politica di difesa russa l’Ucraina forma una specie di muro. La flotta russa del Mar Nero è di stanza in Crimea; dunque la NATO in Crimea e al confine russo è inaccettabile per la Russia. Di conseguenza, vi è stata annessione della Crimea e disordini sul confine orientale dell’Ucraina alla Russia. L’Unione europea e gli Stati Uniti hanno utilizzato l’annessione della Crimea, che essi stessi hanno provocato, come un’opportunità per dichiarare la Russia un aggressore e per imporre sanzioni, il che rendeva impossibile una cooperazione costruttiva con la Russia. Conclusione: la Crimea è ancora russa, l’Ucraina è economicamente in una situazione catastrofica, l’economia europea stessa subisce perdite attraverso le sanzioni e la Russia ha ulteriori problemi nel modernizzare la sua economia. E non c’è modo di uscire da questo impasse a Bruxelles”. Naturalmente, l’uscita dalla NATO una alleanza alla Russia eliminerebbe il nemico militare a cui ci opponiamo militarmente, ma “da Bruxelles è impossibile”

E’ qui compendiato il fallimento di tutte le politiche “europeiste” degli ultimi 30 anni. Tutti i nodi ideologici, tutte le ricette economiche radicalmente sbagliate stanno venendo al pettine. Tutte le politiche di Merkel, a cui i nostri oligarchi (che chiamano se stessi “democratici”) hanno obbedito, si stanno disfacendo nel disordine. E qui? Stiamo per votare le sinistre, Più Europa con Berlusconi, o il neo-europeista 5 Stelle, che ha scelto la “moderazione conformista” quando sarebbe stato il suo momento rivoluzionario. Auguri, italioti.

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I bocconiani la votano al 23%. Il PD, al 33%. (Salvini, 5%. Cinque Stelle 3,5). Generazione Erasmus

Maurizio Blondet

1686.- Fascisti e antifascisti, Marcello Veneziani definitivo: “Ecco la differenza tra neri e rossi”. Lezione alla Boldrini6

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“Ecco le differenze tra rossi e neri”. Marcello Veneziani, sul Tempo, dice la sua sul dibattito, assai peloso, su violenza fascista e antifascista e lo fa con una sentenza spietata, raggelante, definitiva. “I reati dei fascisti – spiega – sono soprattutto simbolici, a volte non sono neanche considerati tali, come i saluti romani nelle commemorazioni e il richiamo proibito al fascismo. I reati dei rossi – antagonisti, centri sociali, anarco-insurrezionalisti, neo- comunisti – sono soprattutto fisici, reali, su persone e cose”.
I neri, continua Veneziani, non impediscono ai rossi di fare manifestazioni, cosa che puntualmente accade a parti invertite quando, alla fine, quelli dei centri sociali si ritrovano a “fare la guerra” contro le forze dell’ordine. “I due movimenti neri più accusati dai media e dalla piazza, vale a dire CasaPound e Forza Nuova, si sono presentati alle elezioni, aspirano a far comizi e campagna elettorale e una democrazia saggia dovrebbe incoraggiare i gruppi radicali che cercano di essere inclusi nella democrazia parlamentare – continua nell’analisi -. Invece i centri sociali rossi non si presentano alle elezioni, non cercano il consenso, non vogliono entrare in parlamento, ma vogliono restare selvatici, extraparlamentari”.

E poi, qui c’entra la stampa “amica”, quando accadono atti violenti come quello di Luca Traini a Macerata si parla di violenza fascista, anche se l’atto è di un isolato squilibrato. Quando a menare le mani sono gli antifascisti si arriva alla patetica formula della “violenza senza colore” tanto cara a Repubblica. “Alle origini – è l’amara conclusione di Veneziani – c’è un’indulgenza culturale e politica verso la violenza in nome dell’antifascismo rispetto a quella nel nome del fascismo”. Perché alla fine siamo sempre qua: a stabilire cos’è bene e cosa è male sono i comunisti stessi, “che sono giocatori, arbitri e giudici”.

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Il leader di Forza Nuova definisce la magistratura di Palermo “infiltrata“, addirittura “deviata“, “oggi come quaranta anni fa“. Il motivo? La scarcerazione dei Giovanni Codraro e Carlo Mancuso, i due attivisti dei centri sociali accusati del pestaggio del segretario provinciale di Forza Nuova, Massimiliano Ursino. «Siamo oggetto di attacchi perché stiamo facendo la rivoluzione – ha aggiunto – Stanno venendo con noi anche persone di sinistra». Sul rischio di una deriva violenta del dibattito politico il leader di FN ha detto: «non dipenderà da noi. Noi lo abbiamo dimostrato. Avremmo potuto rispondere all’aggressione dei giorni scorsi in altro modo, invece la disciplina del movimento è stata ferrea».

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Prove tecniche di regime: L’aggressione a Giorgia Meloni a Livorno di qualche giorno fa: indagati 14 uomini e 7 donne. … Adesso le indagini andranno avanti per identificare gli altri responsabili che hanno partecipato all’aggressione contro la Meloni. …. e la fascista sinistra che li manda questa gentaglia. Mattarella,c’è? Perché tollera che si ostacolino le campagne elettorali di Forza Nuova – L’Italia Agli Italiani, Casapound e Fratelli d’Italia?

Casapound, invece, mette un piedino nel sistema e lancia l’accordo politico tra CasaPound e Salvini, che raccoglie e schiaccia in un angolo Berlusconi e i moderati del centrodestra.

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Intanto, a Bologna oggi un altro fatto di straordinaria gravità: poche decine di manifestanti possono, alzando la voce, impedirci di esprimere le nostre opinioni sulla libertà educativa dei genitori e contro la dottrina “Gender”. E’ grave non solo perché si impedisce con la violenza l’esercizio della democrazia, ma anche perché l’esistenza di una vera e propria “ideologia Gender” è così sotto gli occhi di tutti: una ideologia violenta, che non tollera chi non aderisce ai suoi dogmi.il Bus della Libertà è stato accolto, oltre che dai propri sostenitori, anche da poche decine di manifestanti minacciosi, che hanno di fatto impedito lo svolgersi della manifestazione.

1685.- LA PAROLA DELLA GIUSTIZIA Antifascisti e CasaPound, parla il giudice Salvini: “Vi dico cosa sono davvero i centri sociali”

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“Che cosa mi ha colpito di più in questi giorni? Le bombe con i chiodi a Torino contro i poliziotti”. A parlare è Guido Salvini, gip a Milano e giudice istruttore negli anni di piombo, e probabilmente anche lui verrà accusato a sinistra di essere un “fascista”. Intervistato dal Messaggero, la toga colpisce duro i centri sociali e gli antagonisti violenti: “Quelle bombe dimostrano la volontà di fare del male, non solo di manifestare in forma violenta”. Il paragone con gli Anni 70 secondo Salvini è eccessivo: “Allora si sparava e c’erano le stragi. Da molti anni non ci sono più morti causati da una guerra civile nelle strade.
La tensione oggi nasce dalla presenza alle elezioni, con un discreto seguito, di movimenti come Forza Nuova e CasaPound”.
Anche in questo caso, però, l’allarme è esagerato. Laura Boldrini e Liberi e Uguali hanno già proposto di sciogliere quelle forze di estrema destra: “Non concordo – ribatte Salvini -. Si consegnerebbero alla illegalità non piccoli gruppi già al di fuori della legalità, ma decine di migliaia di persone. Oltretutto sarebbe incostituzionale”. Perché, sottolinea, il “fascismo storico, cui si riferisce anche la Legge Scelba del ’52, non sembra essere oggi il programma delle forze di destra anche estrema. Non vi sono elementi che possano giustificare uno scioglimento giudiziario”. Gli “antifascisti” inorridiscono per le idee su immigrazione e case popolari solo agli italiani e nel dubbio picchiano. “Ci si deve confrontare sul piano politico – è la lezione del gip -. Questa è l’essenza della democrazia, pensare di fare diversamente è poco illuminista. È un errore considerare l’estrema destra solo un problema criminale e non un avversario politico”. In molti riflettono sulle “cattive idee” della destra estrema, ma a sinistra? “Dal ’70 c’è una cultura politica che non si è mai estinta, che considera la violenza un’arma abituale di lotta politica, e che decide con la violenza chi può parlare e chi no. Un tempo si esprimeva nei servizi d’ ordine, oggi nei centri sociali con il loro antifascismo di stampo squadristico molto pericoloso”.
Salvini si avventura anche in un confronto di piazza: “L’ideologia dei centri sociali dagli anni ’70 è sempre quella, autoreferenziale: più che cercare consensi, i centri sociali vivono dentro sé stessi, più che fare la rivoluzione vogliono preservare il proprio spazio privato. I cortei della destra hanno un atteggiamento più legalitario, danno un’ idea di ordine, neanche una cartaccia per terra. Dobbiamo però chiederci se questa scelta sia definitiva o solo strategica. A me hanno detto di avere scelto definitivamente la democrazia parlamentare. Spero sia vero”.

Ciò non toglie che gli aizzatori di popolo hanno nomi, cognomi e incarichi istituzionali o di sostegno: Pietro Grasso, Laura Boldrini, A.N.P.I., CGIL e altre mezze figure. Se questo non è uno sporco regime!

Antifascisti violenti, volevano uccidere il poliziotto a Torino. Lui: “Basta, cosa dobbiamo fare adesso”
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I centri sociali in azione a Torino non volevano solo fare male, volevano uccidere. Contro le forze dell’ordine hanno tirato bombe con chiodi e bulloni e una ha colpito un poliziotto, Luca Cellamare, 35 anni, una moglie e due figlie di 7 e 2 anni. Gli è andata male: colpito alla natica, la foto del suo sfregio ha fatto il giro del web. Al Corriere della Sera l’agente del Reparto Mobile, consigliere provinciale del sindacato autonomo di polizia, ha spiegato cos’ha fatto dopo l’attacco brutale: “Mi sono tolto dallo schieramento e sono andato nelle retrovie. Ho guardato in faccia il funzionario del servizio e ci siamo capiti: io ero il lanciatore di lacrimogeni e lui ha dato l’ordine di lanciare”. I manifestanti antifascisti però non hanno mollato l’osso. Cellamare ha fatto lo stesso, resistendo al dolore: “A un certo punto sentivo male, sì. Ma avevo in testa solo l’idea di aiutare gli altri. E ho corso e lavorato per un’ora, con quelli che insultavano, lanciavano ordigni, bottiglie, sampietrini…”. Alla fine è dovuto andare in ospedale, e l’adrenalina ha lasciato il posto alla rabbia: “Penso che questa gente abbia bisogno di disciplina e che sia arrivato il momento storico per dire basta al nostro lavoro politically correct nelle piazze. L’altra sera la città è stata ostaggio di 400-500 teppisti pregiudicati che arrivavano da vari centri sociali d’Italia. Secondo lei è normale? Io dico che ci sono due tipi di fascismo: quello dei fascisti e quello degli antifascisti”. La ferita brucia, conclude amaro, ma “brucia molto di più l’idea che qualcuno di noi prima o poi possa rimetterci la vita per gente che si dichiara antifascista o per chiunque altro fa della violenza la sua bandiera”.

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Torino: Bombe carta con chiodi contro la polizia. «Superato ogni limite»TorinoFotogrScontri Torino: 'da corteo bombe carta con schegge metallo'

1684.-ECCO LA MAPPA DEI CENTRI SOCIALI, UN COLOSSALE BUSINESS ESENTASSE CHE OFFRE UN VOTO DI SCAMBIO ALLA GIUNTA DI SINISTRA

Ma l’Italia fascista era più seria e non trafficava così.
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“A soffiare sul fuoco dell’antifascismo, a far finta di nulla difronte agli attacchi dei centri sociali, si rischia il morto”. Gianni Tonelli, segretario generale Sap-polizia, nel suo editoriale su Il Tempo, attacca: “Per poco non c’è scappato a Piacenza, col carabiniere picchiato da una banda di infami mascherati, oppure a Torino col lancio di bombe carta con chiodi e cocci di ceramica contro i miei colleghi feriti ovunque”.

ECCO LA MAPPA DEI CENTRI SOCIALI da Maurizio Blondet

5 maggio 2015 Claudio Bernieri
Milano 5 Maggio – Sono una quarantina in città i palazzi occupati dai centri sociali, emuli del Leoncavallo.

Un business appetibile, quello del “divertimentificio” abusivo in stile via Watteau: che pochi conoscono, e a cui si è affiancato da poco quello della ristorazione e dello “studentato”.

Utenze (luce e gas) a carico del Comune, scontrini inesistenti, bar, discoteca, sala da concerti, sale prove, palestre, albergo, il tutto è esentasse. E infine la beffa e l’affare per chi occupa: l’immobile occupato verrà infine acquistato (a spese dei milanesi) dalla giunta compiacente (quella di Pisapia) e dato in comodato gratuito agli occupanti. Che lo gestiranno per sempre esentasse, incassando gli introiti in nero. E’ il business dei centri sociali.

Il caso Loencavallo ha fatto da volano a una trentina di occupazioni in città, che si stanno moltiplicando man mano che “l’affaire Leonka” si avvicinerà alla sua poca nobile conclusione: perché dietro a ogni occupazione abusiva si nasconde un business miliardario, per gli occupanti, e nuove tasse, per i milanesi.

E’ un fatturato di tutto rispetto quello dei centri sociali che, si calcola, frutta agli occupanti un rispettabile introito, valutato circa 20.000 euro a week end, rigorosamente in nero, tra pranzi, chupito, aperitivi, concerti, ristorazione e alloggio.

Perché il giovane emarginato, il rappomane sfigato, il “ggiovane tatuatissimo”, il clandestino, lo studente fuori corso, il giramondo no global consumano. E rappresentano un colossale affare per l’imprenditore antagonista No Tav: perchè al centro sociale tutto ha un prezzo. Ascoltare musica rap, ballare, suonare nelle sale prove, esercitarsi in palestra, boxare, bere nei bar, alloggiare nelle case albergo per studenti, tutto ha un costo. Niente Siae, niente biglietti, niente fatture: si entra con una ” offerta libera”. Tutto è low cost, ma gli incassi sono da capogiro. Ne sanno qualcosa gli imprenditori della notte del Cantiere, le nave scuola del vandalismo e dell’antagonismo dei black block chic, che girano ormai in Mercedes e ostentano Rolex da Costa Smeralda.

I fighetti del Cantiere, tutti nobili cadetti dei più prestigiosi licei privati milanesi, gestiscono un giro di concerti (abusivi e senza pagare la Siae) di tutto rispetto in concorrenza con il Leoncavallo, con un giro di affari di migliaia di euro. La gara ad accaparrarsi il business della movida del popolo antagonista tra Lambretta, Cantiere, Zam, centri sociali anarchici, Leoncavallo dura da anni ma è noto solo agli addetti ai lavori: il monopolio da scalzare era il Leoncavallo, un ritrovo cult della intellighenzia radical chic.

Niente scontrini, niente Siae, niente biglietti, niente fatture, in una zona franca dove le Forze dell’ordine non potevano entrare. Poi, il voto di scambio con Pisapia, a cui hanno garantito l’elezione. Sono stati dapprima gli imprenditori del Cantiere a far concorrenza al Leoncavallo,e inventare il restaurant à la carte nella sala mensa di viale Monterosa: Una iniziativa commerciale subito copiata dagli antagonisti del Lambretta e dello Zam, che avevano aperto nelle villette di viale Romagna, ora disoccupate, e in via Santa Croce, dei “restaurant a la carte”. Il modello ? Una discoteca senza limiti di orario, una tavola calda con vini della casa, lasagne, tortelloni e lo spaccio di torte alla cannabis per gli studenti liceali, il targhet mirato..

I fatturati di tutto rispetto hanno moltiplicato le occupazioni: gli “osti” alternativi e antagonisti cercano di imitare gli imprenditori della notte che hanno reso grande (nel fatturato) il Leoncavallo: la formula vincente è una sola. Uno stabile fatiscente di una immobiliare viene occupato, dopo una “dritta” ricevuta da una gola profonda della Giunta di Pisapia. A volte lo stabile è di un costruttore edile da “ammorbidire”, vedi Ligresti, a volte un imprenditore radical chic amico. I centri sociali funzionano così sia da Volante Rossa per “punire ” i palazzinari ostili al comandero Pisapia, oppure da volano per le nuove imprenditorialità illegali e abusive. Gli imprenditori antagonisti della notte sanno che alla fine la giunta Pisapia, come voto di scambio, acquisterà lo stabile occupato dai legittimi proprietari, ai quali offrirà aree appetibili da ristrutturare o da edificare. E’ successo con gli imprenditori radical chic Cabassi, ma può succedere ancora.

E’ un business colossale in quando la gestione di una sala prove, di un ristorante, di un piano bar, di una discoteca, di una sala da concerto o una palestra è totalmente esentasse, se avviene in un centro occupato. La Guardia di Finanza non entra mai nei centri sociali, che sono diventati una vera e propria catena illegale del divertimento notturno. Il business è il monopolio della movida selvaggia e dello sballo: musica, cocaina, cannabis, alle quali si aggiungono palestre, sale di tatoo e, recentemente, gli alloggi per studenti in case occupate.

Se ne stanno occupando gli “imprenditori” di Casa Loca e del Cantiere: il business degli studenti fuori corso è davvero appetibile.

Gli scontri del primo maggio si spiegano anche con motivazioni poco nobili e più commerciali: i centri sociali hanno voluto ricordare alla giunta Pisapia e al Pd che sono loro, le nuove coop rosse, a controllare le notti di Milano (e migliaia di voti). Insieme alla ‘ndrangheta e al fondamentalismo islamico dei Fratelli Musulmani, i centri sociali controllano la movida selvaggia e lo sballo. Concerti , palestre, alloggi, tutto ruota intorno ai palazzi occupati, un appetibile business: e tutto , ovviamente, a spese dei milanesi che si accolleranno gli oneri di acquisto degli stabili occupati.

I CENTRI SOCIALI CHE FANNO BUSINESS A MILANO

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1-Cascina autogestita Torchiera, p,le Cimitero Maggiore 18: concerti e pranzi. (con regolare contratto di affitto)

2-Cox 18, via Conchetta 18, concerti, pranzi, bar, dibattiti, cinema.

3.Leoncavallo – via Watteau 7, concerti , ristorante, mostre, palestre

4-casa Loca , viale Sarca 183, concerti , bar.

5- casa Loca, appartamenti occupati in via san Gallo 5 (foresteria)

6 –villa Litta Okkupata, via Litta Modignani 66 (foresteria)

7- centro sociale Micene, via Micene 4 (organizzazione occupazioni e assegnazione di alloggi)

8- adrenaline. Viale Gorizia 28 ( bar)

9- ciurma de Nautilus, via Erodoto 16

10- gruppi punkabbestia, via Valvassori Peroni (alloggi foresteria universitaria)

11- Nazi Femen, via dei Transiti 28 (bar)

12-panetteria occupata, via Conte Rosso 20 (bar)

13 -circolo Malfattori, via Torricelli 19 (bar)

14- punkabbestia, anarchici, No tav, via Emilio Gola (alloggi e foresteria universiaria)

15- Zam, via Olgiati (alloggi, bar)

16- hotel Mitra, via Washingon (alloggi e foresteria universitaria)

17 -Lambretta, via Cornalia (bar)

18 -officina beni comuni, via Arbe (bar)

19 –Macao, viale Molise (concerti, mostre, bar)

20 -laboratorio piano terra, via Confalonieri (bar)

21-Cantiere, via Monterosa 84 (concerti ristoranti)

22-Cantiere, piazzale Stuparich (alloggi)

23, 24- appartamenti occupati il Cantiere

25- occupazioni universitarie

26- circolo anarchico ponte della Ghisolfa (concerti, bar, mostre, dibattiti) – con regolare contratto d’affitto –

27- centro sociale Vittoria, viale Friuli (concerti, dibattiti )

28- Fornace, via Moscova, Rho (concerti)

29 – case occupate via Odazio, il Cantiere (alloggi e foresteria clandestini)

30- case occupate Corvetto, anarchici insurrezionalisti (alloggi) e foresteria clandestini

31-case occupate via Ripamonti ( alloggi e foresteria clandestini ).

( con la collaborazione di Angelo Mandelli )

http://www.milanopost.info/category/milano/

Maurizio Blondet

1683.- DIO LO VOLESSE.

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PROVVEDIMENTI URGENTI E PRIORITARI
La coalizione di forze politiche e sociali che compone il blocco politico “Italia agli italiani” identifica tra le diverse tematiche alcune vere e proprie urgenze prioritarie per la sopravvivenza stessa del nostro popolo: Resistenza Nazionale contro l’invasione in corso, Diritti Sociali reali invece degli ipocriti “diritti civili”, Sovranità Monetaria contro il potere finanziario internazionale e Rivoluzione Demografica contro la sostituzione.

RESISTENZA NAZIONALE
Dove c’è la volontà politica di impedire l’invasione di massa del proprio territorio, l’invasione non si verifica, come dimostrano Polonia e Ungheria. In Italia è urgentissimo impedire anche la più remota ipotesi di Ius Soli, impedire la costruzione di nuove moschee così come l’assegnazione di case e posti di lavoro agli immigrati quando ancora mancano per tanti italiani, rifiutare ogni influenza giuridico-culturale derivante dalla sharia, bloccare ogni tipo di invasione e avviare in modo celere e ordinato, un umano rimpatrio delle masse extracomunitarie e islamiche verso i paesi d’origine cominciando dagli irregolari, da quelli che si sono resi responsabili di reati e di propaganda islamista. Ogni influenza culturale incompatibile con la tradizione europea che è greco-romana e cristiana, va rifiutata. I flussi migratori non vanno semplicemente gestiti: vanno bloccati e invertiti.
Le leggi attuali sull’accoglienza e l’asilo politico vanno riviste drasticamente in senso restrittivo. Nessun extraeuropeo ha il diritto di entrare nel nostro territorio senza motivo e permesso preventivo. I clandestini giunti in Italia vanno riportati tutti in centri in Libia. Le concessioni della cittadinanza e i ricongiungimenti familiari dal 1996 in poi vanno revocati e il matrimonio con un italiano cessa di dare diritto alla cittadinanza. La residenza non può essere concessa se non dopo 20 anni di versamenti pensionistici senza interruzione.

DIRITTI SOCIALI, CASA E LAVORO
Noi vogliamo uno Stato che sia “padre” e non patrigno o padrino del suo popolo. Tutte le risorse oggi bruciate a favore degli invasori extracomunitari e della costruzione di moschee vanno immediatamente reindirizzate verso le nostre classi popolari con la creazione di un ente statale totalmente pubblico che garantisca a ogni famiglia italiana il diritto alla casa, riconosciuto come primario e fondamentale. Chiediamo la edificazione di nuovi quartieri a misura d’uomo (costruzioni con fondi pubblici, case rivendute a prezzo di costo, spazi e verde a misura di famiglie, bioarchitettura tradizionale e bassa densità abitativa) e l’istituzione del Mutuo Popolare, senza banche, interessi e usura. In attesa dell’istituzione del Mutuo Popolare chiediamo il blocco immediato di tutti gli sfratti a danno di italiani e una sanatoria generale degli italiani “senza titolo” che abitano in case di proprietà pubblica.
L’attuale politica razzista a danno degli italiani e a favore degli extracomunitari deve terminare immediatamente. Chiediamo la cancellazione delle leggi antisociali come il jobs act e la riforma Fornero, l’aumento delle pensioni minime e l’abbassamento delle tasse che congelano la nostra economia. il ripristino dell’originario articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e il ripristino delle garanzie a tutela dei lavoratori, la nazionalizzazione di tutte le imprese strategiche, il ripristino della separazione tra banche di risparmio e banche d’affari, l’applicazione dell’art. 46 della Costituzione che prevede la cogestione delle aziende e l’introduzione della partecipazione agli utili da parte dei lavoratori. Una delle due camere deve divenire una rappresentanza delle categorie del lavoro.

SOVRANITA’ NAZIONALE – ITALEXIT
Un popolo non può essere libero se non ha sovranità. Non accettiamo che il nostro destino sia deciso da organismi burocratici non eletti e da banche internazionali che sfruttano i popoli. Noi esigiamo il ripudio di tutti i debiti da usura verso le banche centrali, la creazione di una Moneta di Popolo, dichiarata proprietà dei cittadini che non viene prestata e quindi non crea debito o inflazione e la nazionalizzazione della Banca d’Italia. Noi invochiamo il ritorno in mani italiane di aziende storiche svendute a stranieri, una politica contraria alle delocalizzazioni e che favorisca il ritorno in Italia delle aziende già delocalizzate. Noi auspichiamo un rilancio dell’IRI che possa ridare slancio a tutta l’economia italiana.
Noi affermiamo il diritto degli italiani alla legittima autodifesa organizzata sia a livello familiare che di quartiere. Tutti i cittadini incensurati e in possesso di requisiti psicofisici possono detenere un’arma e hanno il diritto di difendere la casa e la famiglia, donne e anziani hanno diritto a possedere mezzi di difesa alternativi e deve essere concesso il porto d’armi a tutte le categorie giudicate “a rischio”: commercianti, farmacisti, avvocati, imprenditori agricoli e residenti in campagna.
Il nostro popolo deve essere padrone della sua moneta, della sua casa, della sua sicurezza e delle sue strade o non sarà mai libero!
Noi esigiamo l’uscita dell’Italia da UE, EURO e NATO e l’affermazione di una politica di amicizia e collaborazione con la Russia.

RIVOLUZIONE DEMOGRAFICA
Tutti i capitali oggi spesi a favore di coppie gay, propaganda gender, manipolazioni genetiche e aborto, vanno urgentemente reindirizzati per finanziare le giovani coppie appena sposate e le famiglie più numerose. Le attuali leggi abortiste vanno abrogate immediatamente. Chiediamo l’introduzione di un Reddito alle Madri, una riduzione progressiva delle tasse alle famiglie che crescono con l’aumento dei figli, una vera e propria politica statale di investimento sui figli, futuro del nostro popolo e sulla famiglia naturale, cellula base della società. Le famiglie più numerose vanno sostenute e finanziate come vere e proprie imprese che producono capitale umano per il nostro popolo. Chiediamo l’introduzione a certe condizioni, della Proprietà Familiare, inalienabile, indivisibile e non tassabile. I giovani devono essere educati e incoraggiati a creare famiglie naturali e numerose senza le quali il nostro popolo non ha futuro. In particolare chiediamo il sostegno alla maternità fino alla maggiore età del figlio, bonus per la nascita di figli di entrambi genitori italiani, asili nido gratuiti per madri a basso reddito, la concessione di libri e materiale didattico gratuiti agli studenti della scuola dell’obbligo. Ogni propaganda gender nelle scuole deve cessare immediatamente.

1682.- IL CAPITALISMO DI MEFISTOFELE. LA FINE DEL LAVORO.

di Maurizio Blondet e Roberto Pecchioli

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La fine del lavoro è il titolo di un celeberrimo saggio del 1995 di Jeremy Rifkin, in cui il sociologo americano profetizzava che la terza rivoluzione industriale allora in corso, quella dell’avvento del computer, avrebbe lasciato in eredità una disoccupazione strutturale. Facile profezia, brillante nella diagnostica, acuta nella prognosi e scadente nella terapia, giacché l’unica soluzione proposta era la diminuzione dell’orario di lavoro, possibile solo al termine di un profondo salto di paradigma rispetto alla logica di profitto e dominazione che guida il capitalismo contemporaneo. Tuttavia, è da Rifkin che dobbiamo partire per uno sguardo sul presente e sul prossimo futuro, in cui la sua previsione diventa drammatica realtà.

In Italia, al di là dei proclami trionfalistici dei servitori del potere, non solo la disoccupazione reale non scende, ma si apprende che oltre 600.000 persone – il tre per cento del totale, la popolazione di una regione come la Basilicata- sono considerati occupati nonostante lavorino meno di dieci ore settimanali. Nella più ottimistica delle ipotesi, il loro reddito non supera i 400 euro mensili. Il numero dei richiedenti il sussidio di disoccupazione è cresciuto di circa tre punti e mezzo nell’anno trascorso, mentre il numero dei poveri non solo aumenta, ma coinvolge ormai moltissimi che un lavoro ce l’hanno. Secondo qualificate analisi, sarebbero 18 milioni – il trenta per cento della popolazione – i cosiddetti working poors, ovvero i poveri nonostante in famiglia esista un reddito. L’unico dato in crescita (più 120 per cento!) è quello dei contratti di lavoro intermittente. Intermittente, come le frecce dell’automobile…

Oltre 20 anni or sono, Rifkin non poteva conoscere le conseguenze di quello che abbiamo definito capitalismo di Mefistofele, un sistema sociale, economico e culturale che non soltanto si considera unico e immodificabile, ma lavora per strappare l’anima a miliardi di persone. Per di più, a differenza del diabolico personaggio del Faust di Goethe, presenta il conto alle vittime. E’ ragionevole affermare che se le prime due rivoluzioni industriali hanno inverato la “distruzione creatrice” descritta da Joseph Schumpeter, cambiato il mondo in profondità ma senza distruggere il lavoro, la terza ha ribaltato la situazione. Gli anni che viviamo sono quelli di una ulteriore fase, caratterizzata da tecnologia informatica, cibernetica e automazione. Tutti fenomeni che distruggono gli equilibri precedenti trasferendo quote enormi di potere e di risorse nelle mani di una minoranza piccolissima senza minimamente distribuire reddito o creare lavoro. La sconfitta delle ideologie nemiche del liberismo economico ha fatto il resto, rendendo debolissima la resistenza nei confronti della nuova realtà.

I corifei dei tempi nuovi si affannano a convincerci che tutto va per il meglio, ma risultano poco credibili: alla prova dei fatti, il verdetto della strada è impietoso. In prima fila ci sono i media del progressismo cosmopolita. Su Repubblica è comparsa una lunga intemerata di Enrico Moretti, docente di economia a Berkeley, intitolata “Il robot in fabbrica. Più lavoro se cresce la produttività”. La tesi di fondo, non nuova, è che tutto si aggiusterà, e altri impieghi sostituiranno senz’altro i milioni di posti sottratti dall’automazione. Che fine farà l’aumento della produttività in un mondo dove mancano i mezzi per spendere, non è chiaro. Il professorone è costretto ad ammettere che “l’automazione influenzerà sicuramente il tipo di posti di lavoro e la loro collocazione geografica”.

Si preparino i giovani, e non solo loro, a un destino di nomadi con il trolley in mano e qualche suppellettile dell’Ikea al seguito. Carl Schmitt scriveva negli anni 20 del secolo XX che il nuovo è talmente pieno di sé da non aver bisogno di alcuna legittimazione giuridica; la coscienza moderna nasconde l’aggressività nella concezione acritica del progresso. Il “nuovo” è legittimo in quanto tale. Il grande giurista ammonì che il libro più importante sarebbe diventato l’orario ferroviario; i tempi corrono, siamo passati all’ app con i voli low cost per la generazione Erasmus. Elogio della follia.

Secondo Moretti, il futuro premierà i titolari di master in nuove tecnologie, mentre tutti gli altri “perderanno terreno”. Decifrato il linguaggio – la crittografia è un elemento del nuovo che avanza- significa che pochi fortunati in grado di ottenere determinate specializzazioni in università esclusive e costosissime, avranno moltissimo, tutti gli altri rimarranno a bocca asciutta. Alla faccia della proclamata uguaglianza delle opportunità!

Le due scommesse più importanti riguardano le tecnologie informatiche che stanno spostando su piattaforme digitali la richiesta di beni e servizi – pensiamo a Uber per i trasporti, Airbnb per gli affitti brevi, la consegna di cibo da strada (sinonimo di spazzatura), Amazon per le vendite a distanza – e l’intelligenza artificiale (A.I.) in grado di costruire robot per ogni mansione. Un altro entusiasta maestro cantore, sulla Stampa, organo domestico della ex Fiat, padroni progressisti con domicilio fiscale in Olanda e Stati Uniti, celebra la possibilità che l’intelligenza artificiale faccia aumentare i profitti del 38 per cento entro il 2020 e anche l’occupazione “se investiremo in una efficace cooperazione uomo-macchina”. Difficile capire che cosa significhi, c’è sempre il trucco nelle subordinate degli economisti di servizio. Più chiara è la somma di 4,8 trilioni di dollari di crescita dei profitti che scatena il giubilo del giornalista embedded.

Resta un unico piccolo problema, giacché “milioni di lavoratori in tutto il mondo dovrebbero inventarsi un nuovo ruolo e una nuova funzione “. Fortunatamente sono già stati sperimentati i robot giornalisti, con programmi digitali i cui algoritmi catturano in tempo reale le informazioni in rete, le collegano tra loro e fanno articoli d’attualità, talché è segnato anche il destino del gazzettiere torinese. Non è inutile ricordare che almeno il 90 per cento delle notizie che ci raggiungono proviene da cinque- sei grandi agenzie, di proprietà dei soliti noti: Mefistofele ha conquistato il campo.

Secondo Newsweek, venerato Vangelo liberal, l’intelligenza artificiale toglierà il lavoro a circa due milioni di americani entro il 2020. Altrettanti impieghi si creeranno, affermano con un eccesso di ottimismo, ma solo fintantoché la tecnologia non riuscirà a sostituirli con altri apparati, il che non pare difficilissimo, giacché si tratterebbe di operatori del medesimo sistema digitale e cibernetico. Il futuro appartiene dunque a una élite di cervelloni con la valigia in mano, titolari di master delle grandi università.

Chi vorrà testardamente restare a casa propria, non ha i mezzi per procurarsi il tipo di preparazione richiesta, o non è versato per quelle attività è e sarà sempre più un paria, ossia, in linguaggio americano, un perdente. Del sistema Amazon sappiamo: i dipendenti –chiamarli collaboratori fa più fine –corrono come lepri al suono di tamburi segnatempo, muniti di braccialetti a radiofrequenza, in attesa di ricevere i pacchi dai droni e competere con i robot. I veri pacchi sono i lavoratori, da spostare a piacimento, retribuiti con gli spiccioli e senza le tutele costate un secolo di battaglie.

E’ questo il sintomo sicuro della natura perversa del sistema. Mefistofele ha comprato l’anima delle forze culturali, politiche e sociali che, dall’Ottocento e sino alla fine del Novecento, si sono opposte ai suoi piani: innanzitutto le sinistre, ma anche i fautori della dottrina sociale cattolica sino alle destre fagocitate dal liberalismo puro e duro dei privatizzatori del mondo. Il vasto arco di chi si oppone alla deriva è frammentato, confuso, incapace di una risposta organica. Un esempio viene da “Inventare il futuro”, un saggio presentato come manifesto di una rinnovata sinistra radicale e digitale. Prendendo posizione a favore dell’automazione, gli autori non vanno oltre un orizzonte già sconfitto dai fatti. Proclamano: pretendi la piena automazione; pretendi il reddito universale; pretendi il futuro.

Stupisce l’ingenuità di chi è convinto che un’economia del tutto automatizzata libererebbe dalla schiavitù del lavoro, producendo quantità sempre più grandi di ricchezza. Utopie già sbaragliate dalla volontà di potenza del liberalcapitalismo, e la prova della schiacciante vittoria di Mefistofele, che ha conquistato l’anima di coloro che sfrutta. Ebbero ragione gli antichi, osservando che Giove toglie la ragione a chi vuole rovinare. Ed anche la vista, giacché è sotto gli occhi di tutti la perdita di ricchezza per la maggioranza, la diminuzione del lavoro qualificato, mentre la fatica che le macchine hanno tolto a milioni di esseri umani si è soltanto trasferita.

“Lo scopo del futuro è la disoccupazione totale. Così potremo divertirci” scherzava il futurologo e scrittore di fantascienza Arthur Clarke, scomparso circa dieci anni fa. Sapeva già, probabilmente, che l’intelligenza artificiale avrebbe fatto irruzione nelle nostre vite con una forza paragonabile a quella di Internet. I software dei robot umanoidi intelligenti, attraverso algoritmi detti evolutivi, sono già in grado di trovare soluzione a problemi senza che sia stato spiegato loro come trovarla. Prestissimo gli investimenti del settore manifatturiero si allocheranno presso chi disporrà delle migliori infrastrutture robotiche. Bracci artificiali ultra sensibili dotati di mani con diverse dita messi a punto da un’azienda di Taiwan sono in procinto di sostituire rapidamente il milione di operai cinesi utilizzati nella produzione del popolarissimo iPhone 6.

La robotica di servizio varrà da sola, nell’area europea, 100 miliardi di euro entro il 2020. L’americana Kiva System è stata assorbita per 800 milioni di dollari da Amazon, allo scopo di fornire al colosso di Jeff Bezos i carrelli intelligenti per i centri di spedizione. Google non è da meno, con l’acquisto di Meka Robotics, in grado di produrre robot destinati a lavorare con gli uomini. In Giappone lavorano ad apparati con sistemi di visione tridimensionale e Google ha effettuato anche il gran salto nella robotica militare, con Big Dog, robot a quattro zampe in grado di raggiungere i 50 km all’ora e Wild Cat (gatto selvaggio!), agile come i felini, che salta, si gira e fa svolte di 90 gradi.

Ciò significa che siamo entrati nell’era della concorrenza tra apparati automatizzati e uomini. I robot sono in grado di svolgere funzioni complesse sinora riservate al cervello umano, e la tecnologia si affina a velocità enorme. Uno studio di Oxford su 702 mestieri e professioni afferma che negli Stati Uniti entro 20 anni il 47 per cento degli impieghi potrebbero essere affidati a macchine intelligenti. Dunque, non saranno solo i colletti blu a sparire, ma identica sorte toccherà a moltissimi impiegati, professionisti, quadri. Con buona pace dell’ottimismo del professor Moretti, gran parte dei lavori perduti non si recupereranno più.

Qualcuno, con un efficace gioco di parole, ha sostituito la distruzione creatrice di ieri con la “disruption creative” o disruptive innovation, innovazione devastante. La rivoluzione digitale cambia fulmineamente l’intera prospettiva della produzione e degli affari. Esempio di scuola è Kodak, gigante della fotografia con 140 mila dipendenti e 30 miliardi di capitalizzazione in Borsa, fallita nel 2012 per aver perduto la battaglia del digitale. Instagram, nello stesso anno, minuscola realtà con 13 dipendenti titolare di un’applicazione per diffondere foto in telefonia cellulare, passava a Facebook per oltre 700 milioni di dollari. Due anni più tardi Zuckerberg avrebbe messo sul tavolo 19 miliardi per acquisire Whatsapp, la messaggeria istantanea.

I settori della disruptive innovation vivono in regime di sostanziale monopolio. L’industria musicale, per l’emersione delle “piattaforme” di diffusione ha già dimezzato i suoi organici. Il meccanismo delle piattaforme di messa in connessione sopprimono l’intermediazione tra clienti e fornitori, ma soprattutto trasformano il rapporto di lavoro in una collaborazione ultra flessibile, a chiamata. Fuori gioco sindacati, contratti e leggi sociali, esautorato il ruolo di controllo degli Stati e scavalcate le legislazioni fiscali, pongono a carico di chi fornisce i servizi i rischi d’impresa e i costi generali. Uber ha un giro d’affari superiore ai 10 miliardi di dollari con circa mille dipendenti e sta distruggendo il lavoro dei tassisti e dei noleggiatori di auto. Analogo dumping realizza Airbnb nel settore alberghiero. Amazon contatta venditori saltuari con chiamata su smartphone, mentre si fanno strada le piattaforme di recapito di pasti a domicilio.

Pochissimi dipendenti governano una pletora di collaboratori privi di assicurazioni sociali e dal reddito minimo. Questo è il risibile significato di diventare imprenditori di se stessi, più realisticamente gig economy, l’economia dei lavoretti. Il travolgente successo è dovuto al basso costo per il consumatore, che viene illuso da un modesto recupero di potere d’acquisto e non si rende conto di contribuire per miope egoismo all’ulteriore precarizzazione della società. Inoltre, i suoi gusti e le sue scelte, governate dall’alto, eterodirette, al ribasso, altro non sono che la volontà di chi dirige il gioco per creare consumatore schiavi, pronti ad acquistare paccottiglia a credito convinti di aver fatto scelte smart, furbe.

Il sistema pensa a tutto, promette un’economia di condivisione (sharing economy), ma l’utopia digitale è travolta dalla logica puramente mercantile delle super corporazioni, ogni giorno più ricche e potenti. Entro il 2025, l’automazione farà scendere del 16 per cento il costo del lavoro: tutto si risolverà in ulteriore profitto. L’economista francese Daniel Cohen ha parlato apertamente di rivoluzione industriale senza crescita, poiché la metà degli impiegati di oggi rischiano il licenziamento, resi obsoleti da automobili senza pilota, traduttori intelligenti, robot esperti in diritto, algoritmi di diagnostica medica, banche e negozi senza personale. Uno dei mercati più interessanti sembra essere quello dei cobot, i robot collaboranti, destinati a soppiantare le badanti. Afferma Eric Schmidt di Google: “I lavori realmente interessanti sono oggi quelli di creazione di robot capaci di riconoscere i movimenti dell’uomo e interagirvi”.

L’homo numericus sarà ancora più solo, in compagnia di cobot privo di confronto intellettuale. Anche per assumere o licenziare, l’algoritmo affidato alle macchine sembra più affidabile del funzionario umano. Grande progresso, i tagliatori di testa non avranno più nome e cognome. Il finale di questa rivoluzione sembra scritto: resteranno appannaggio degli esseri umani solo le professioni ad alto valore aggiunto di creatività e, all’opposto, i residuali compiti di fatica. Secondo Nuriel Roubini, economista à la page, una manodopera limitata al 20 per cento di quella attuale. Non sappiamo se le previsioni siano attendibili e i tempi saranno quelli incalzanti della tecnologia, ma è certo che aveva ragione Gunther Anders a denunciare, inascoltato, che l’uomo è antiquato.

Naturalmente, la cupola sa che un mondo siffatto è una bomba pronta ad esplodere. Per questo, ha già immaginato il rimedio per la larga fetta di umanità esclusa dallo loro festa: un modesto reddito universale in grado di depotenziare la frustrazione sociale, evitando rivolte e incanalando l’ormai ex homo sapiens verso un destino di consumatore compulsivo, moderatamente soddisfatto, un leone addomesticato sempre all’erta per scoprire, smartphone alla mano, le offerte speciali generosamente prodotte dal sistema. L’idea è che versando una piccola rendita vitalizia verrà soffocato il senso di ingiustizia, il desiderio di vita, la ribellione.

Incidentalmente, la fine del lavoro diventa anche la morte dei veri diritti civili, a partire dai contratti sino alle assicurazioni sociali. Lo Stato arretra e declina sino all’irrilevanza. Al contrario, l’uomo del Terzo millennio deve riappropriarsi dello spazio pubblico e volgere a proprio vantaggio le opportunità offerte da scienza e tecnologia sottratte alla proprietà esclusiva di pochi, restituite ad un ruolo comunitario presidiato da istituzioni pubbliche. Gli apparati cibernetici, una volta ammortizzato il costo, si pagano da sé, non si ammalano, non vanno in ferie e non maturano pensione: un boccone troppo ghiotto per la volontà di potenza dei padroni del mondo.

Mefistofele asserisce che il reddito offerto dai suoi mandanti sarà un surplus di libertà, ma è l’esatto contrario, per quanto troppi non se ne rendano conto. Decideranno loro ciò che è gratuito e ciò che non lo è. L’esercito narcotizzato dei disoccupati con sussidio sarà indotto a occupare la mente con pensieri scelti da loro: un consumo triviale, il soddisfacimento rapido delle pulsioni più istintive, nessuno spazio alla spiritualità o alla riflessione. Una vita avvolti nel cellophane, a condizione di non ribellarsi, pena la disconnessione, morte civile prossima ventura.

Ci forniranno una carta prepagata, meglio ancora un chip sottocutaneo attraverso il quale accederemo ai centri commerciali di loro proprietà, dove acquisteremo beni e servizi scelti per noi da lorsignori con addebito diretto. Tornati a casa, potremo sederci davanti a uno schermo per assistere a spettacoli prodotti dai soliti noti (Netflix, Amazon e compagnia pessima). Ovviamente, potremo accoppiarci con chiunque, se vorremo figli ci affideremo alla procreazione assistita, cioè ad altre macchine, la malattia grave non ci spaventerà più perché verremo soppressi alle prime avvisaglie, più o meno volontariamente, previo espianto di qualche organo in buono stato e del chip da cui sarà diffalcato il credito residuo da restituire agli Iperpadroni e su cui sarà leggibile in linguaggio binario l’intera sequenza delle nostre inutili vite.

Avremo il piacere di trascorrere la vita con tablet e smartphone su cui si alterneranno immagini piacevoli ad altre terrorizzanti; ogni cinque anni ci permetteranno di votare per qualcuno che eseguirà le disposizioni dell’oligarchia, la mera amministrazione dell’esistente. Una vita siffatta non è dissimile da quella dei polli di batteria e degli allevamenti intensivi di bovini da carne o latte. L’iperemotività postmoderna ci rende intollerabile tale sfruttamento degli animali, “i nostri fratelli minori”. Chissà perché, non abbiamo analoga sensibilità verso la nostra specie.

Per quanto adombrata dai cancelli di Auschwitz, resta centrale l’espressione il lavoro rende liberi. E’ il lavoro, insieme con la conoscenza, a donare dignità e grandezza all’essere umano, unica creatura morale, l’opera, l’uso dell’intelligenza, l’impegno di se stessi verso gli altri. Tutta la scienza non può, non deve essere volta, come oggi, al profitto di pochi e alla dominazione mascherata da benevola propensione al progresso, al consumo, alla materia. Fatti non foste a viver come bruti: l’uomo ha un’anima, comunque vogliamo chiamare la sua tensione verso l’infinito. Se è già mostruoso venderla per quattro soldi a Mefistofele, il nome d’arte del capitalismo ultimo, ancora più drammatico, grottesco è accettare di pagarla a chi ce la sta espropriando con vite divenute animali.

La fine del lavoro, se ci sarà nei termini in cui viene prospettata, non sarà una festa, o il ritorno nel giardino dell’Eden, ma la fine dell’Uomo. Affrettiamoci all’uscita: il gioco è chiaro, le carte truccate. Servono ribelli, partigiani della vita, innamorati della libertà. In principio era l’azione: Faust vinse su Mefistofele.

ROBERTO PECCHIOLI

1681.- LA PROSSIMA GUERRA AMERICANA SI RICOMBATTERA’ IN EUROPA!

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ANSA MONDO: Siria: Mosca invia i nuovissimi caccia ‘stealth’ SU-57
E’ il battesimo del jet. Tornano anche gli SU-35 e i SU-25. La Russia ha dislocato nella sua base siriana di Khmeimim due caccia SU-57 di quinta generazione (ovvero con tecnologia stealth). E’ la prima volta che questi aerei vengono utilizzati attivamente. Lo riporta Meduza che cita a sua volta il blogger Wael Al Hussaini, che ha pubblicato su Twitter un video con i due velivoli. I jet SU-57 sono ‘il gioiello della corona’ dell’aviazione russa. Mosca avrebbe inoltre inviato 4 jet SU-35, 4 SU-25 e 1 aereo da ricognizione A-50U. Il ministero della Difesa non ha commentato.

UN'ALTRA STRAGE IN SIRIA, A GHUTA 100 MORTI IN DUE GIORNIE’ di una decina di morti il bilancio di nuovi raid aerei governativi sulla Ghuta orientale, l’area a est di Damasco assediata dalle truppe lealiste e controllata da gruppi anti-regime. Lo riferiscono fonti mediche, citate dall’Osservatorio nazionale per i diritti umani, secondo cui i bombardamenti più intensi proseguono nella parte sud della Ghuta, in particolare a Kfar Batna, dove si registrano le prime vittime di stamani.

Ieri, un mese esatto dopo l’inizio dell’offensiva turca su Afrin, nel nord della Siria, milizie fedeli al regime di Damasco sono entrate nell’enclave per cercare di dare man forte alle unità curde, portando a livelli di guardia le tensioni tra Ankara e Damasco. L’artiglieria turca ha immediatamente risposto, costringendo le milizie filo-Assad a ritirarsi di una decina di chilometri, secondo l’agenzia turca Anadolu. Alle porte di Damasco, intanto, si è consumata una delle peggiori tragedie dei sette anni di conflitto civile. Quasi 250 civili, di cui 57 bambini o adolescenti, sono stati uccisi a partire da domenica dai bombardamenti governativi con artiglieria, aerei ed elicotteri sulla regione della Ghuta orientale, controllata da una congerie di gruppi ribelli e fondamentalisti. Questi ultimi hanno risposto facendo piovere razzi e obici di mortaio su alcuni quartieri della capitale, dove almeno 8 civili, di cui 3 bambini, sono stati uccisi e 15 feriti.

La situazione nella regione della Ghuta orientale, in Siria, va “oltre l’immaginazione”, ha detto alla Bbc il coordinatore umanitario regionale delle Nazioni Unite, Panos Moumtzis, alla luce degli ultimi tre giorni di bombardamenti da parte delle forze governative.

La sconfitta militare dello ‘Stato islamico’ non ha messo fine alla guerra in Siria, cominciata ben prima dell’avvento dell’Isis nel 2013, e destinata a continuare a lungo mentre le cellule jihadiste si riorganizzano in clandestinità in aree “liberate”, controllate da un mosaico di eserciti regolari, milizie, signori della guerra siriani e stranieri. Nella Siria dilaniata dalla guerra si combattono due conflitti principali: uno a ovest, dove la Russia, l’Iran, la Turchia e la Giordania si stanno spartendo i territori che vanno dall’estremo sud al confine col regno hascemita, all’estremo nord alla frontiera turca; e uno a est, lungo la valle dell’Eufrate, nella parte più ricca dal punto di vista energetico, dove gli Stati Uniti sostengono il Pkk curdo per arginare l’avanzata russo-iraniana verso l’Iraq.

Negli accordi siglati ad Astana, in Kazakhstan, la Russia ha raggiunto l’anno scorso con Turchia e Iran un’intesa – detto di “de-escalation” – in cui i tre Paesi stabiliscono delle linee di demarcazione tra le rispettive aree di influenza: alla Turchia il nord-ovest, anche se c’è da sciogliere il nodo dell’enclave curda di Afrin e del distretto di Manbij, conquistato dai curdi ma rivendicato da popolazioni arabe. Alla Russia la zona costiera, con le importanti basi militari, aeree e marittime sul Mediterraneo, e ampie zone della Siria centrale e dell’area di Damasco. All’Iran la zona attorno al Libano, dove opera la milizia filo-iraniana Hezbollah, presente in Siria da anni, e vaste aree a ridosso delle Alture del Golan, controllate da Israele ma rivendicate dalla Siria. Lungo questo asse, rimangono delle sacche di oppositori armati ormai quasi del tutto controllati da attori esterni: dalla Turchia nel nord-ovest, dalla Giordania nel sud, dal Qatar e dall’Arabia Saudita nel nord e nel centro del paese. Nell’est e nel nord-est, l’ala siriana del Pkk, appoggiata dalla Coalizione a guida Usa e che al suo interno ha coinvolto milizie di altre comunità, si è allargata a zone non curde ma miste o del tutto arabizzate, come Raqqa, ex capitale dell’Isis in Siria, e la riva orientale del distretto di Dayr az Zor, tradizionalmente feudo di tribù sunnite legate a quelle della vicina regione irachena di Anbar, da 15 anni culla del qaidismo e del jihadismo.