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6159.- Nave Duilio è stata mandata in una missione di guerra, non di pace. La favola è già finita


Italia in guerra nel Mar Rosso – Perché la favola della missione difensiva è già finita

Alta tensione con gli Houthi titolava a 6 colonne ieri Il Corriere in prima pagina; “La nave Duilio abbatte altri due droni nel Mar Rosso” e “i ribelli minacciano: l’Italia sta con i nemici”. Secondo Davide Frattini, “tutte le imbarcazioni che transitano al largo delle coste yemenite sono nel mirino del gruppo sciita” e “Così, nella volontà degli estremisti l’offensiva a Gaza contro Hamas diventa globale”; notare i termini: quello di Gaza non solo non è un massacro e, tantomeno, un genocidio, ma non è manco una guerra vera e propria. E’ un’offensiva: l’offensiva dei moderati ai quali si contrappongono gli estremisti che, ovviamente, non sono altro che un proxy di forze ancora più oscure perché chi mai, nel pieno possesso delle sue facoltà, deciderebbe di sua sponte di provare a ostacolare l’arrivo in Israele delle armi che usano per sterminare i bambini palestinesi? Queste forze oscure, ovviamente, in primo luogo sono l’Iran che, da dietro le quinte, “muove le sue armate per procura”, un tassello importante della propaganda suprematista che non sta né in cielo, né in terra e non è che lo diciamo noi: lo dice pure il Corriere stesso; basta girare pagina. “La milizia non ha vincoli” si legge “ed è autonoma dall’Iran”: a sottolinearlo non è esattamente un pasdaran del nuovo ordine multipolare, ma l’ultra atlantista Guido Olimpo che, sebbene ricordi – giustamente – che “è innegabile l’importanza del vincolo bellico con i pasdaran”, ha comunque un raro sprazzo di lucidità e sottolinea come “è opinione condivisa che il vertice Houthi abbia autonomia di scelta”.
Una lucidità che, evidentemente, manca al buon Davide Frattini che rilancia, perché – oltre all’Iran – c’è un’altra forza oscura dietro ai pupazzi yemeniti, la più oscura di tutte le forze oscure: il plurimorto dittatore sanguinario Vladimir Putin; “Il blocco di fatto dei traffici verso il canale di Suez”, sottolinea infatti Frattini l’irriducibile, “ha rilanciato i trasporti via terra lungo le ferrovie russe” che, essendo la Russia un sanguinario regime autarchico, ovviamente, sono “monopolio di proprietà dello Stato”. Ed ecco così che il cerchio si chiude e quegli estremisti degli Houthi, alla fine, commettono un crimine in prima persona e ne sostengono un altro indirettamente perché “Ogni vagone che passa sopra quei binari va a finanziare l’invasione dell’Ucraina”: come si fa a non prendere orgogliosamente parte a questo ennesimo capitolo della lunga guerra del Bene occidentale contro il Male del resto del mondo?
La notizia dell’aumento del traffico merci sui binari russi dall’inizio della crisi del Mar Rosso, riportata da Frattini, arriverà dal Financial Times: i vari operatori, scrive la testata britannica, avrebbero in effetti parlato di aumenti dal 30 al 40%. Ma c’è un piccolo dettaglio che a Frattini, evidentemente, è sfuggito: “I volumi mensili sulla rotta” riporta infatti il Financial Times “sono diminuiti dopo l’invasione e rappresentano ancora meno della quantità trasportata da una singola grande nave portacontainer moderna”; un altro capitolo della lunga saga dell’odio viscerale dei giornalisti di colonia Italia verso i numeri e la logica matematica. Secondo Frattini, la Russia spingerebbe verso un’escalation potenzialmente devastante per spostare il traffico di mezza nave container: quando si dice il giornalismo basato sui dati; la guerra del bene contro il male comunque, continua Frattini, potrebbe essere solo all’inizio perché “L’asse della resistenza, come si autodefinisce, adesso spera che il mese più sacro per i musulmani” e, cioè, il periodo di Ramadan iniziato domenica scorsa “spinga ad aprire altri fronti contro Israele”. Pensate, addirittura, che vorrebbero incitare “proteste violente a Gerusalemme e in Cisgiordania”: cosa c’avranno mai da protestare lo sanno solo loro e i loro cattivi maestri di Teheran e Mosca… Per fortuna che ci sono gli USA: guidati da spirito di sacrificio, infatti, “Gli americani continuano a negoziare un’intesa per la liberazione”, da un lato, di “un centinaio di ostaggi” sequestrati senza motivo dai crudeli “terroristi” e, dall’altro, di “detenuti palestinesi” ai quali, invece, vengono garantiti tutti i diritti e che, quasi quasi, stanno meglio in carcere che nei loro villaggetti di selvaggi, tant’è che ora nelle carceri israeliane ci vogliamo mandare anche i palestinesi residenti in Italia.

Italia in guerra nel Mar Rosso – Perché la favola della missione difensiva è già finita

Di Fabrizio Micheli

Alta tensione con gli Houthi titolava a 6 colonne ieri Il Corriere in prima pagina; “La nave Duilio abbatte altri due droni nel Mar Rosso” e “i ribelli minacciano: l’Italia sta con i nemici”. Secondo Davide Frattini, “tutte le imbarcazioni che transitano al largo delle coste yemenite sono nel mirino del gruppo sciita” e “Così, nella volontà degli estremisti l’offensiva a Gaza contro Hamas diventa globale”; notare i termini: quello di Gaza non solo non è un massacro e, tantomeno, un genocidio, ma non è manco una guerra vera e propria. E’ un’offensiva: l’offensiva dei moderati ai quali si contrappongono gli estremisti che, ovviamente, non sono altro che un proxy di forze ancora più oscure perché chi mai, nel pieno possesso delle sue facoltà, deciderebbe di sua sponte di provare a ostacolare l’arrivo in Israele delle armi che usano per sterminare i bambini palestinesi? Queste forze oscure, ovviamente, in primo luogo sono l’Iran che, da dietro le quinte, “muove le sue armate per procura”, un tassello importante della propaganda suprematista che non sta né in cielo, né in terra e non è che lo diciamo noi: lo dice pure il Corriere stesso; basta girare pagina. “La milizia non ha vincoli” si legge “ed è autonoma dall’Iran”: a sottolinearlo non è esattamente un pasdaran del nuovo ordine multipolare, ma l’ultra atlantista Guido Olimpo che, sebbene ricordi – giustamente – che “è innegabile l’importanza del vincolo bellico con i pasdaran”, ha comunque un raro sprazzo di lucidità e sottolinea come “è opinione condivisa che il vertice Houthi abbia autonomia di scelta”.
Una lucidità che, evidentemente, manca al buon Davide Frattini che rilancia, perché – oltre all’Iran – c’è un’altra forza oscura dietro ai pupazzi yemeniti, la più oscura di tutte le forze oscure: il plurimorto dittatore sangunario Vladimir Putin; “Il blocco di fatto dei traffici verso il canale di Suez” sottolinea infatti Frattini l’irriducibile “ha rilanciato i trasporti via terra lungo le ferrovie russe” che, essendo la Russia un sanguinario regime autarchico, ovviamente, sono “monopolio di proprietà dello Stato”. Ed ecco così che il cerchio si chiude e quegli estremisti degli Houthi, alla fine, commettono un crimine in prima persona e ne sostengono un altro indirettamente perché “Ogni vagone che passa sopra quei binari va a finanziare l’invasione dell’Ucraina”: come si fa a non prendere orgogliosamente parte a questo ennesimo capitolo della lunga guerra del Bene occidentale contro il Male del resto del mondo?
La notizia dell’aumento del traffico merci sui binari russi dall’inizio della crisi del Mar Rosso, riportata da Frattini, arriverà dal Financial Times: i vari operatori, scrive la testata britannica, avrebbero in effetti parlato di aumenti dal 30 al 40. Ma c’è un piccolo dettaglio che a Frattini, evidentemente, è sfuggito: “I volumi mensili sulla rotta” riporta infatti il Financial Times “sono diminuiti dopo l’invasione e rappresentano ancora meno della quantità trasportata da una singola grande nave portacontainer moderna”; un altro capitolo della lunga saga dell’odio viscerale dei giornalisti di colonia Italia verso i numeri e la logica matematica. Secondo Frattini, la Russia spingerebbe verso un’escalation potenzialmente devastante per spostare il traffico di mezza nave container: quando si dice il giornalismo basato sui dati; la guerra del bene contro il male comunque, continua Frattini, potrebbe essere solo all’inizio perché “L’asse della resistenza, come si autodefinisce, adesso spera che il mese più sacro per i musulmani” e, cioè, il periodo di Ramadan iniziato domenica scorsa “spinga ad aprire altri fronti contro Israele”. Pensate, addirittura, che vorrebbero incitare “proteste violente a Gerusalemme e in Cisgiordania”: cosa c’avranno mai da protestare lo sanno solo loro e i loro cattivi maestri di Teheran e Mosca… Per fortuna che ci sono gli USA: guidati da spirito di sacrificio, infatti, “Gli americani continuano a negoziare un’intesa per la liberazione”, da un lato, di “un centinaio di ostaggi” sequestrati senza motivo dai crudeli “terroristi” e, dall’altro, di “detenuti palestinesi” ai quali, invece, vengono garantiti tutti i diritti e che, quasi quasi, stanno meglio in carcere che nei loro villaggetti di selvaggi, tant’è che ora nelle carceri israeliane ci vogliamo mandare anche i palestinesi residenti in Italia.

Anan Yaeesh

E’ l’incredibile caso di Anan YaeeshIl terrorista palestinese vezzeggiato da sinistra e 5scome titolano i paladini del garantismo del Giornanale – un garantismo che vale solo per la razza ariana e per i redditi da 100 mila euro in su; sulla testa di Yaeesh, infatti, incombe una richiesta di estradizione da parte del regime fondato sull’apartheid di Tel Aviv, che il procuratore ha deciso di fare sua: Yaeesh sarebbe accusato di aver collaborato con le Brigate Tulkarem in attività che avrebbero “finalità terroristiche” che, per gli israeliani, significa qualsiasi cosa che uno fa per resistere alla pulizia etnica. L’articolo 3 della CEDU, ovviamente, impedirebbe di consegnare una persona a un paese che pratica la tortura, ma siccome Israele è una l’unica democrazia del Medio Oriente, lì la tortura la chiamano metodi avanzati di interrogatorio e alla propaganda suprematista a sostegno del genocidio tanto basta. Tornando all’articolo di Frattini, bisogna concedergli che anche lui, a un certo punto, ammette che “La situazione per la popolazione di Gaza continua ad essere disastrosa”; peccato la colpa sia tutta di Hamas che non solo, con il suo pogrom ingiustificato del 7 ottobre, ha scatenato l’offensiva dei pacifici israeliani, ma ora ostacola anche l’arrivo degli aiuti a 2 stelle Michelin: grazie anche al supporto della sempre generosissima Unione Europea, infatti, è stato stabilito un corridoio marittimo che da Cipro sfocia direttamente in un nuovo molo in costruzione al nord di Gaza ed è qui che sbarcheranno gli aiuti della “World Central Kitchen, l’organizzazione creata dallo chef ispano – americano José Andrés”: volevano il pane; gli abbiamo dato la cucina molecolare (e si lamentano pure). In questo contesto, scrive il Giornanale, “essere sullalavagna nera delle milizie finanziate dall’Iran costituisce un motivo di orgoglio”.
Alcuni, infatti, si limitano a parlare di autodifesa della nostra Caio Duilio, ma – ovviamente – in ballo qui c’è molto di più: lo rivendica con orgoglio l’ammiraglio Luigi Mario Binelli Mantelli Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, già capo di stato maggiore della marina militare: “Finiamola di parlare di autodifesa” avrebbe affermato al Giornanale; “qui difendiamo gli interessi europei e nazionali” e per difenderli adeguatamente, le regole d’ingaggio, che prevedono una missione meramente difensiva, cominciano già a stare strette. “Le informazioni della Caio Duilio” sottolinea, infatti, Rinaldo Frignani sempre sul Corriere della Serva “comprendono la posizione di chi lancia e manovra i droni” e – indovina indovinello – “vengono comunicate agli alleati, come gli USA, che potrebbero usarle”; così, en passant, come se nulla fosse, Frignani ammette candidamente che la nostra Aspides non è ancora iniziata e già la favoletta della missione difensiva non regge più: la nostra presenza nel Mar Rosso è, a tutti gli effetti, parte della missione offensivadei padroni a stelle e strisce, che continua ad allargarsi.
All’alba di martedì, infatti, Ansar Allah avrebbe preso di mira il cargo americano Pinocchiocon una serie di missili: nel gioco delle tre carte che le portacontainer legate a Israele stanno cercando di fare dall’inizio delle operazioni di Ansar Allah per dissimulare i loro legami con il genocidio, la nave risultava battere bandiera liberiana e legata alla compagnia USA Oaktree Capital Management, ma c’era qualcosa che aveva insospettito l’intelligence yemenita; la nave infatti, riporta Al Akhbar, “portava sopra il logo della compagnia israeliana Zim, e tra i vecchi nomi dell’imbarcazione risultavano nomi come Zim San Francisco. Ad aumentare i sospetti – poi – il fatto che la nave, che era partita domenica dal porto di Gedda in direzione del canale di Suez, non avesse menzionato nelle sue dichiarazioni la destinazione finale”. “Le navi americane e britanniche dirette verso i porti della Palestina occupata” continua Al Akhbar “falsificano deliberatamente sistematicamente i loro dati nel tentativo di attraversare il Mar Rosso”. La reazione USA è stata feroce: oltre 20 raid aerei in cinque aree diverse e non tutte con chiari obiettivi militari, come l’attacco nel Governatorato di Saada che, sempre secondo Al Akhbar, sarebbe giustificato soltanto dal fatto che “è la roccaforte del leader di Ansar AllahAbdul Malik Al Houthi”. L’efficacia di questi attacchi rimane comunque piuttosto dubbia, ed ecco così che gli USA stanno cercando un’alternativa: secondo Al Akhbar, infatti, “Gli Stati Uniti hanno fornito imbarcazioni militari al Consiglio di Transizione Meridionale affiliato agli Emirati, nel tentativo di coinvolgerlo in una guerra per procura”; si tratta dell’organizzazione politica secessionista yemenita guidata dall’ex governatore di Aden, Aidarus al-Zoubaidi che, nata nel 2017 per rivendicare la separazione dello Yemen del Sud dal resto della nazione, è sostenuta da Abu Dhabi. “Aidarus al-Zoubaidi che, in precedenza, aveva espresso la volontà di normalizzare le relazioni con l’entità israeliana” scrive Al Akhbar “è apparso a bordo di una delle barche americane in una parata navale, e insieme a lui c’erano numerosi comandanti militari fedeli agli Emirati Arabi Uniti”: secondo Al Akhbar avrebbero ricevuto l’incarico dagli USA di accompagnare le navi legate a Israele mentre si avvicinano al porto di Aden e allo stretto di Bab el-Mandeb. A emettere un appello ad affiancare le forze USA e britanniche contro Ansar Allah sarebbe stato anche Abu Zara’a Al-Muharrami, comandante delle Forze dei giganti – le milizie fedeli ad Abu Dhabi – e vicepresidente del Consiglio di Transizione, una macchinazione che, però, avrebbe fatto infuriare la popolazione locale: contro l’appello, infatti, “Gli studiosi e i predicatori di Aden” riporta Al Akhbar “hanno emesso una fatwa, che riconosce che esiste una disputa con chi è al governo a Sanaa” e cioè, appunto, Ansar Allah, “ma che non è assolutamente consentito schierarsi dalla parte di Israele e dell’America”; “Questa fatwa” continua Al Akhbar “indica che esiste un diffuso rifiuto tra le milizie di transizione di qualsiasi escalation contro Sana’a, e che le opzioni di Washington per mobilitare queste fazioni sono diventate così più limitate”.

Hicham Safieddine

Fortunatamente però, dopo tante delusioni, per gli occidentali a sostegno del genocidio è arrivata anche una buona notizia; l’ha annunciata su Telegram Nasr El-Din Amer, il vice presidente dell’agenzia dei media di Ansar Allah: “La prima vittoria ottenuta da America e Gran Bretagna” ha annunciato “è la rimozione delle spunte blu dagli account Twitter dei leader statali di Sana’a. Per quanto riguarda invece le forze armate yemenite, dai razzi, ai droni a tutte le capacità militari, non sono state scalfite. Si scopre che l’America è una forza da non sottovalutare, fratelli”. Quella di bullizzare i colonialisti e gli aspiranti tali, in Yemen, effettivamente, è una vecchia tradizione: come ricorda su Middle East Eye lo storico canadese di origini libanesi Hicham Safieddine, nonostante i britannici abbiano mantenuto il controllo della città costiera di Aden per oltre 125 anni, non sono mai riusciti ad “espandere il loro dominio nell’entroterra” fino a quando “Nel 1963, il Fronte di Liberazione Nazionale (FNL) lanciò una lotta armata con il sostegno rurale della regione montuosa di Radfan. Gli inglesi designarono l’FNL come un’organizzazione terroristica e risposero bruciando villaggi e altri atti di violenza collettiva. Le campagne punitive britanniche, tuttavia, fecero ben poco per smorzare la resistenza yemenita”; “Le forze radicali della resistenza dello Yemen del Sud” continua Safieddine “adottarono un’ideologia marxista – leninista che prevedeva un futuro socialista per uno Yemen liberato. La loro posizione intransigente nei confronti dell’occupazione britannica portò a una vittoria spettacolare nel 1967. E i tentativi britannici di negoziare un ruolo economico o militare nello Yemen post indipendenza, simile a quello francese in Algeria, furono di breve durata e in gran parte infruttuosi, con gli inglesi che alla fine furono costretti a pagare oltre 15 milioni di dollari come indennità. Questo” sottolinea Safieddine “ha lasciato un ricordo doloroso tra i funzionari britannici che perdura ancora oggi”. A differenza di altre lotte di liberazione nazionale che hanno conquistato fama e riconoscimento internazionale – da quella algerina a quella cubana – la vicenda yemenita è stata sistematicamente snobbata dal pubblico occidentale, ma per alcuni storici, sottolinea Safieddine, “Lo Yemen è stato il Vietnam della Gran Bretagna”, una storia gloriosa che continua a ispirare Ansar Allah: in un recente discorso televisivo, riporta Safeiddine, “Abdel-Malik al-Houthi ha messo in guardia il Regno Unito da qualsiasi illusione nutrisse di ricolonizzare lo Yemen. Tali illusioni, ha detto, “sono i segni di una malattia mentale la cui cura è nelle nostre mani: missili balistici che bruciano le navi in mare”. Anche a questo giro, la tendenza è stata subito quella di minimizzare e descrivere un gruppo di terroristi scappati di casa che attentano, con la loro barbarie, il giardino ordinato salvo poi, nella provincia dell’impero, dedicare titoloni a 6 colonne all’eroismo e alla professionalità dei nostri uomini per aver tirato giù un drone da ricognizione con un cannoncino.
La verità, però, potrebbe essere un po’ meno confortevole: “Quanti marinai USA ci sono adesso nel Mar Rosso?” ha chiesto la giornalista Norah O’Donnell al vice ammiraglio Brad Cooper durante una puntata del celebre programma televisivo statunitense 60 minutes; “Ne abbiamo circa 7.000 in questo momento. Si tratta di un impegno imponente”. “Quando è stata l’ultima volta che la Marina americana ha operato a questo ritmo per un paio di mesi?” ha chiesto ancora la giornalista; “Credo dovremmo tornare alla Seconda Guerra Mondiale” ha risposto il vice ammiraglio, “quando ci sono state navi impegnate direttamente nei combattimento. E quando dico impegnate in combattimento, intendo che ci sparano e noi rispondiamo al fuoco”. Il vice ammiraglio Cooper ricorda anche come “Gli Houthi sono la prima entità nella storia a utilizzare missili balistici antinave per colpire delle navi. Nessuno li ha mai usati prima contro navi commerciali, e tantomeno contro navi della marina americana”; come sottolinea il vice ammiraglio, parliamo di missili che viaggiano a circa 3 mila miglia orarie e, dal momento dell’avvistamento, il capitano di una nave ha dai 9 ai 15 secondi per decidere il da farsi e visto che è sempre meglio aver paura che prenderle, la tendenza a reagire sempre con il massimo della forza è inaggirabile. Risultato – sottolinea il servizio di 60 minutes -: “La marina ha lanciato circa 100 dei suoi missili terra – aria Standard, che possono costare fino a 4 milioni di dollari ciascuno”; l’unica via di uscita sostenibile, quindi, è questi benedetti missili balistici riuscire a colpirli con attacchi aerei in territorio yemenita prima che partano. Ed ecco allora che l’intelligence che forniamo, anche con la missione difensiva degli alleati europei, diventa fondamentale e la trasforma automaticamente in qualcosa che non è difensivo per niente e che potrebbe, a breve, dover affrontare uno scenario ben più complesso di quello attuale.

Maritime Security Belt

Lunedì scorso, nel Golfo di Oman, è iniziata un’esercitazione marittima congiunta di Iran, Russia e Cina; si chiama Maritime Security Belt ed è arrivata alla sua quinta edizione, un traguardo che hanno deciso di festeggiare alla grande: nella prima edizione, infatti, la Cina aveva partecipato con una sola nave; la seconda l’aveva saltata tout court e alle successive due si era presentata, di nuovo, sempre con una sola imbarcazione. Quest’anno, invece, non si raddoppia: si triplica e, ad affiancare il solito cacciatorpediniere, ci saranno anche una fregata e una nave di rifornimento che, insieme, costituiscono la 45esima task force di scorta. La 45esima task force era stazionata nel Golfo di Aden sin dall’ottobre scorso e, da allora, ha portato a termine ben 43 missioni durante le quali ha garantito il transito di 72 navi; ora quel compito è stato affidato alla 46esima task force che ha effettuato la sua prima missione appena 3 giorni fa: ed ecco così che la presenza cinese nell’area raddoppia. A ottobre la Cina aveva già condotto un’esercitazione congiunta con la marina pakistana, “la più grande di sempre tra i due paesi” aveva sottolineato il South China Morning Post e dove erano state coinvolte altre 6 imbarcazioni del dragone, comprese una fregata, due cacciatorpedinieri e una nave di rifornimento: anche a questo giro i pakistani sono nuovamente coinvolti, ma solo come osservatori al fianco di kazaki, indiani e sudafricani, lo stesso ruolo ricoperto anche dall’Oman e dall’Azerbaijan.


La prospettiva della grande guerra globale per il controllo del mare nell’era del declino della pax americana si fa sempre più minacciosa: magari se l’Italia, ogni tanto, avesse un piccolo moto se non proprio di orgoglio, perlomeno di opportunismo, e approfittasse del caos che ci circonda per farsi un attimino licazzisua invece che fare sempre da cavalier servente della potenza in declino del momento, non sarebbe proprio malissimo, diciamo; perché gli italiani tornino a fare un po’ anche i loro interessi, serve che prima imparino a riconoscerli e, per riconoscerli, serve un media che, invece che da ripetitore dei dictat atlantisti, dia voce agli interessi concreti del 99%. 

6110.- La lunga guerra di Israele per l’Occidente

Da Gatestone institute, di Pete Hoekstra, 4  Febbraio 2024. Traduzione libera.

(Image source: iStock/Getty Images)

Il filo conduttore che unisce Hamas, Hezbollah e le milizie sciite è il significativo finanziamento e sostegno che ciascuno riceve dall’Iran, che a sua volta li ha ricevuti dalle amministrazioni Obama e Biden. Quando è entrata l’amministrazione Biden, l’Iran aveva 6 miliardi di dollari di riserve; ora possiede, secondo l’ex generale dell’esercito americano Jack Keane, più di 100 miliardi di dollari, che presumibilmente è ciò che ha utilizzato per finanziare i suoi delegati e il suo programma nucleare.

L’amministrazione Biden sembra ora sul punto di aggravare il problema con un’altra catastrofica ritirata: si dice che ci siano discussioni sul fatto che gli Stati Uniti ritirino le loro truppe dall’Iraq ricco di petrolio – proprio come il regime iraniano ha cercato di costringere gli Stati Uniti a fare dai tempi dell’Iran. Rivoluzione islamica del 1979.

“Israele non ha iniziato questa guerra. Israele non ha voluto questa guerra… Nel combattere Hamas e l’asse del terrore iraniano, Israele sta combattendo i nemici della civiltà stessa… Mentre Israele sta facendo di tutto per ottenere i palestinesi i civili palestinesi fuori pericolo, Hamas sta facendo di tutto per tenere i civili palestinesi in pericolo. Israele esorta i civili palestinesi a lasciare le aree di conflitto armato, mentre Hamas impedisce a quei civili di lasciare quelle aree sotto la minaccia delle armi.” – Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Wall Street Journal.

L’ex ministro degli Esteri iraniano Ali-Akbar Salehi ha recentemente confermato che “lo scontro tra Iran e Israele continuerà finché [Israele] esiste… anche se verrà creato uno Stato palestinese”.

In realtà Israele è sulla buona strada per vincere. Il minimo che possiamo fare è consentirgli di avere tutto ciò di cui ha bisogno per completare la sua missione e il tempo necessario per farlo.

[P]proteggere i nostri confini e proteggere i nostri alleati non è una scelta alternativa…. Le eccezionali truppe americane stanno combattendo all’estero non perché gli Stati Uniti siano irresponsabilmente coraggiosi, e non per finanziare sconsideratamente il complesso militare-industriale, ma per difenderci qui a casa meglio.

Se hai un esercito forte, non dovrai usarlo: nessuno ti metterà alla prova.

Nel 1938, il primo ministro britannico Neville Chamberlain pensava che un “accordo” con Hitler avrebbe portato pace e stabilità. Ha portato il contrario. Hitler, non a caso, sfruttò l’opportunità offerta dall’illusione della pace per ampliare le sue invasioni. Quando diventarono intollerabili, fu chiaro a tutti che sarebbe stato molto meno costoso, in termini di vite umane e di denaro, fermare Hitler prima che il suo esercito attraversasse il Reno.

Come ha sottolineato il giornalista Daniel Greenfield, qualcuno ha mai chiesto durante la seconda guerra mondiale se ci fossero state troppe vittime tedesche e, in caso affermativo, che i combattimenti dovessero cessare?

L’amministrazione Biden probabilmente preferirebbe lavorare con un primo ministro israeliano, che fosse più compiacente, uno che sarebbe felice di vedere uno stato palestinese accanto a Israele, e non si preoccuperebbe così tanto se fosse un genocidio; un primo ministro che sarebbe felice di vedere un Iran armato di armi nucleari, e non diventare schizzinoso ogni volta che i mullah invocano “Morte a Israele” e dicono che Israele è una nazione “con una sola bomba”. L’amministrazione Biden potrebbe anche chiedersi: “Perché non può esserci un primo ministro israeliano ragionevole che approvi semplicemente questi piani senza dare del filo da torcere a tutti?”

“L’Iran vuole cancellare lo Stato ebraico dalla mappa geografica, ma il principale ostacolo che Blinken vede al suo piano è Israele.” — Comitato editoriale, Wall Street Journal, 24 gennaio 2024.

Altri hanno affermato che se questo è ciò che l’Iran sta facendo senza un’arma nucleare, basti pensare a cosa farà con una.

Non tutte le guerre sono “per sempre” o “inutili”, altrimenti gli Stati Uniti non sarebbero qui. Purtroppo, sembra esserci… un impegno a perdere.

Finora l’amministrazione Biden ha fornito un enorme sostegno a Israele in molti modi, il che è molto gradito. Si spera sinceramente che il suo sincero sostegno mantenga le distanze.

L’Iran stesso è stato esentato dal pagare qualsiasi prezzo per tutta la devastazione che sta causando, per non parlare della devastazione che potrebbe causare se gli fosse permesso di possedere armi nucleari. La diplomazia non lo fermerà, e un “accordo” non lo fermerà.

È tempo di affrontare seriamente la sfida iraniana, eliminare la capacità dell’Iran di finanziare e fornire armi ai suoi delegati che rappresentano molteplici minacce in questa lotta, e porre fine al suo programma nucleare prima che sia troppo tardi.

Il 17 gennaio 2024, il Council for a Secure America (CSA) ha pubblicato l’ultimo aggiornamento del suo rapporto “Guerra Israele-Hamas”, segnando 100 giorni dall’inizio della guerra. L’aggiornamento è il terzo di una serie che segue i rapporti di guerra di 50 e 70 giorni del CSA. Fin dall’inizio di questi rapporti, la vera domanda era quanto tempo sarebbe stato necessario per pubblicarli.

Storicamente, le guerre che coinvolgono Israele sono state relativamente brevi. La “Guerra dei Sei Giorni” del 1967 prese il nome dalla durata della guerra che vide Israele sconfiggere le forze combinate di Egitto, Giordania e Siria in quel periodo. La guerra dello Yom Kippur del 1973, iniziata con un attacco a sorpresa contro Israele guidato da Siria ed Egitto, durò poco meno di tre settimane prima della vittoria israeliana. Nel mezzo ci sono stati continui attacchi, ai quali Israele ha risposto “ripulendo” le fonti immediate degli attacchi, che gli israeliani hanno seccamente definito “falciare il prato”.

       L’attuale guerra di Gaza, purtroppo, è diversa. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha paragonato gli attacchi terroristici di Hamas da Gaza il 7 ottobre 2023 all’equivalente del “11 settembre”.

Il problema sembra essere che l’origine non è essenzialmente Hamas, ma l’Iran, che organizza, finanzia e rifornisce i suoi delegati: Hamas e la Jihad islamica palestinese a Gaza e nella Cisgiordania israeliana, Hezbollah in Libano e gli Houthi nello Yemen. Inoltre, l’attuale regime in Iran schiera la propria milizia, il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC), che addestra le milizie per procura, e milizie più piccole in Siria e Iraq.

Dall’inizio della guerra di Gaza, le milizie sciite sostenute dall’Iran in Iraq hanno intensificato gli attacchi contro le forze statunitensi in Siria e Iraq, aggiungendo ancora un altro fattore destabilizzante militare ed economico nella regione. Il filo conduttore che unisce Hamas, Hezbollah e le milizie sciite è il significativo finanziamento e sostegno che ciascuno riceve dall’Iran, che a sua volta li ha ricevuti dalle amministrazioni Obama e Biden. Quando è entrata l’amministrazione Biden, l’Iran aveva 6 miliardi di dollari di riserve; ora possiede, secondo l’ex generale dell’esercito americano Jack Keane, più di 100 miliardi di dollari, che presumibilmente è ciò che ha utilizzato per finanziare i suoi delegati e il suo programma nucleare. Inoltre, grazie all’amministrazione Biden, l’Iran ha potuto continuare a finanziare Hamas per circa 100 milioni di dollari all’anno, oltre a fornire armi e addestramento.

Ancora più problematico è che, in segno di gratitudine per la generosità dell’amministrazione Biden, l’Iran e i suoi delegati hanno finora lanciato più di 244 attacchi (qui, più 161 secondo il generale Jack Keane) contro risorse statunitensi in Siria e Iraq da quando Biden è entrato in carica. La filantropia fuorviante di Biden è la stessa del suo primo giorno in carica, quando, dopo aver di fatto ostacolato l’approvvigionamento energetico americano, gli Stati Uniti acquistarono petrolio dalla Russia (perché non dal Canada?). Il presidente russo Vladimir Putin presumibilmente ha utilizzato i prezzi del petrolio improvvisamente raddoppiati (e per un certo periodo triplicati) per portare avanti la sua guerra all’Ucraina. Allo stesso modo, l’Iran, ha utilizzato i suoi guadagni per accelerare l’arricchimento dell’uranio all’84%, appena al di sotto del 90% necessario per la capacità di sviluppare armi nucleari. Il regime allora non solo finanziò e ordinò il suo procuratore Hamas per attaccare Israele; un altro dei suoi delegati, gli Houthi dello Yemen, ha attaccato gli Stati Uniti e i loro alleati nella regione.

Il problema con un cessate il fuoco nella guerra di Gaza adesso, prima che Israele disabiliti le capacità terroristiche di Hamas, è che Israele sta combattendo non solo per difendere se stesso, ma per conto di tutti noi nel mondo libero che siamo stati attaccati dal terrorismo e di coloro che sponsorizzarlo e che potrebbero essere attaccati da loro in futuro. L’attuale guerra a Gaza in realtà ha meno a che fare con Hamas, la Jihad islamica palestinese, Hezbollah o gli Houthi, e ha molto più a che fare con il loro finanziatore e protettore, l’Iran.

Al momento, l’Iran sta espandendo la sua guerra mentre l’amministrazione Biden sembra fare tutto ciò che è in suo potere per non farlo. Questi due obiettivi sembrano scarsamente allineati: l’Iran e i suoi delegati massacrano gli israeliani e ora gli americani; e gli Stati Uniti affermano per l’ennesima volta che risponderanno quando e come vorranno, in un momento “di nostra scelta”. Ciò dovrebbe certamente incutere loro terrore!

All’inizio della guerra, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha delineato il conflitto:

“Mentre Israele sta facendo di tutto per tenere i civili palestinesi fuori dal pericolo, Hamas sta facendo di tutto per mantenere i civili palestinesi in pericolo. Israele esorta i civili palestinesi a lasciare le aree di conflitto armato, mentre Hamas impedisce a quei civili di lasciare quelle aree sotto la minaccia delle armi.

“La cosa più deplorevole è che Hamas detiene più di [136] ostaggi israeliani… compresi… bambini. Ogni nazione civilizzata dovrebbe schierarsi con Israele nel chiedere che questi ostaggi siano liberati immediatamente e senza condizioni.

“Le richieste di cessate il fuoco sono richieste a Israele di arrendersi a Hamas, di arrendersi al terrorismo, di arrendersi alla barbarie. Ciò non accadrà.

“La lotta di Israele è la tua battaglia. Se Hamas e l’asse del male iraniano vincono, tu sarai il loro prossimo obiettivo. Ecco perché la vittoria di Israele sarà la tua vittoria.”

L’ex ministro degli Esteri iraniano Ali-Akbar Salehi ha recentemente confermato che “lo scontro tra Iran e Israele continuerà finché [Israele] esiste… anche se verrà creato uno Stato palestinese”.

L’amministrazione Biden sembra ora sul punto di aggravare il problema con un’altra catastrofica ritirata: si dice che ci siano discussioni sul fatto che gli Stati Uniti ritirino le loro truppe dall’Iraq ricco di petrolio – proprio come il regime iraniano ha cercato di costringere gli Stati Uniti a fare dai tempi dell’Iran. Rivoluzione islamica del 1979. Come riportato dal New York Times:

“Dalla presa del potere dell’Iran da parte dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini nel 1979, il governo rivoluzionario islamico del Paese ha avuto un’ambizione fondamentale: essere il principale attore nel plasmare il futuro del Medio Oriente. Visto in un altro modo, vuole che Israele si indebolisca e gli Stati Uniti se ne vadano dalla la regione dopo decenni di primato.”

Quindi, dopo essersi arresi ai talebani in Afghanistan, gli Stati Uniti d’America, il grande difensore della libertà mondiale, si arrenderanno ancora una volta, arrendendosi ai terroristi e al loro padrone del terrore, l’Iran, e lasciando un vuoto in Medio Oriente essere riempito dagli avversari statunitensi?

I leader degli alleati degli Stati Uniti in Israele, Taiwan, Ucraina e nel Golfo Persico possono solo chiedersi quale di loro sarà il prossimo.

Israele, nonostante la straziante perdita di vite umane e il colpo devastante alla sua economia, non sta tagliando e fuggendo. È “una battaglia di civiltà contro la barbarie”, ha detto Netanyahu. “Vinceremo.”

Sembra che ci sia chi, però, preferirebbe che Israele non vincesse. Voci di propaganda disfattista (come qui e qui) stanno già cercando di affermare che “Israele non può vincere”. Al contrario, come ha spiegato il reporter militare Yaakov Lappin, Israele è in realtà sulla buona strada per vincere. Il minimo che possiamo fare è consentirgli di avere tutto ciò di cui ha bisogno per completare la sua missione e il tempo necessario per farlo.

Altre voci, nel frattempo, protestano dicendo che prima che gli Stati Uniti affrontino i confini esteri, dovremmo prima occuparci dei nostri, soprattutto quelli meridionali. Più di 8,6 milioni di immigrati clandestini sono entrati negli Stati Uniti da quando Biden ha iniziato il suo mandato, inclusi quasi 1,6 milioni di “fughe” di cui sappiamo, ma di cui non sappiamo nulla. È una crisi di sicurezza e deve essere affrontata. Tuttavia, proteggere i nostri confini e proteggere i nostri alleati non è una scelta alternativa.

Ciò che manca in una simile valutazione è che le truppe statunitensi di stanza all’estero stanno di fatto proteggendo un confine virtuale più ampio, per gli Stati Uniti e il mondo libero. Questi siti sono basi avanzate, non solo per difendere alleati come Ucraina, Israele, Taiwan, Medio Oriente, Indo-Pacifico, ma per assicurarci che non dovremo combattere nelle strade di Boston, San Francisco e New York . Se ciò sembra inverosimile, non c’è nemmeno bisogno di guardare indietro fino agli attacchi dell’11 settembre. Il direttore della CIA Christopher Ray, riferendosi ai segnali che erano sfuggiti prima dell’11 settembre, ha recentemente avvertito i senatori americani: “Vedo luci lampeggianti ovunque mi giri”.

Le migliori truppe americane combattono all’estero non perché gli Stati Uniti siano irresponsabilmente coraggiosi e non per finanziare sconsideratamente il complesso militare-industriale, ma per difenderci meglio qui in patria. Infatti, se vogliamo tenere il passo con gli eserciti stranieri che si stanno rapidamente modernizzando, e se vogliamo mantenere una deterrenza credibile, abbiamo bisogno di più finanziamenti per le forze armate oltre a uno studio serio delle migliori modalità aggiornate per utilizzarle. Questo non è essere un falco; in realtà è pura colomba: se hai un esercito forte non dovrai usarlo: nessuno ti metterà alla prova. Il presidente Ronald Reagan lo definì “Pace attraverso la forza”. Ha funzionato.

L’isolazionismo statunitense, una piacevole fantasia, è, come gli Stati Uniti hanno scoperto nel modo più duro durante la Seconda Guerra Mondiale, immensamente pericoloso. Mentre i nostri avversari si riversano per riempire ogni vuoto da cui gli Stati Uniti si ritirano, il desiderio di spodestare l’America non sarà trascurato. Per quanto costosi e spesso anche dispendiosi (un problema di gestione e responsabilità che dovrebbe essere indagato), questi impegni possono sembrare, sono un affare rispetto a quelle che potrebbero essere le spese successive in una guerra vera e propria.

Nel 1938, il primo ministro britannico Neville Chamberlain pensava che un “accordo” con Hitler avrebbe portato pace e stabilità. Ha portato il contrario. Hitler, non a caso, sfruttò l’opportunità offerta dall’illusione della pace per ampliare le sue invasioni. Quando diventarono intollerabili, fu chiaro a tutti che sarebbe stato molto meno costoso, in termini di vite umane e di denaro, fermare Hitler prima che il suo esercito attraversasse il Reno.

Se il problema sembra essere il numero delle vittime civili, il rapporto CSA rileva che, anche se sono significative – idealmente anche una sola morte è di troppo – non sono diverse da quelle delle guerre precedenti – e, secondo il New York Times, sono addirittura drammatiche. decrescente.

Il Ministero della Sanità di Gaza – gestito ovviamente da Hamas, le cui statistiche sono palesemente inaffidabili – ha riferito che più di 23.000 persone sono state uccise a Gaza. Il ministero, tuttavia, non fa distinzione tra terroristi e civili. Sfortunatamente, Hamas sembra credere che sia nel suo interesse pubblicare statistiche quanto più attendibili possibile, molto probabilmente nella speranza che sia Israele ad essere incolpato per le morti e non lui stesso per aver usato i propri cittadini come scudi umani.

Inoltre, come ha sottolineato il giornalista Daniel Greenfield, qualcuno si è mai chiesto durante la seconda guerra mondiale se ci fossero state troppe vittime tedesche e, se ci fossero state, che i combattimenti dovessero cessare? Come ha detto Netanyahu, Israele non voleva questa guerra e non ha chiesto questa guerra; gli dovrebbe essere consentito di porre fine a questa guerra prima che il piano del regime iraniano di “esportare la Rivoluzione” si diffonda ulteriormente. L’Iran controlla quattro capitali oltre alla propria, in Siria, Yemen, Libano e Iraq. L’Iran ha rafforzato i suoi intermediari terroristici; è vicino alla costruzione della sua bomba nucleare e da più di un decennio sta espandendo le sue operazioni in Sud America (qui, qui, qui e qui).

Ci sono state preoccupazioni circa il periodo di tempo di cui Israele potrebbe aver bisogno se non si vede una fine definita in vista. Netanyahu, tuttavia, ha dichiarato chiaramente i suoi “tre obiettivi di guerra”, secondo il Wall Street Journal:

“Questi obiettivi sono realizzabili”, ma la guerra “richiederà molti mesi”. Elenca gli obiettivi nel suo caratteristico baritono. “Uno: distruggere Hamas. Due: liberare gli ostaggi”, di cui circa 136 rimangono nei tunnel di Hamas, alcuni dei quali si presume siano morti. “Tre: garantire che Gaza non costituisca mai più una minaccia per Israele.”

Non è questo ciò che gli Stati Uniti vorrebbero in un confronto simile con al-Qaeda o ISIS?

L’amministrazione Biden probabilmente preferirebbe lavorare con un primo ministro israeliano, che fosse più compiacente, uno che sarebbe felice di vedere uno stato palestinese (qui e qui) accanto a Israele, e non si preoccuperebbe così tanto se fosse un genocidio; un primo ministro che sarebbe felice di vedere un Iran armato di armi nucleari, e non diventare schizzinoso ogni volta che i mullah invocano “Morte a Israele” e dicono che Israele è una nazione “con una sola bomba”. L’amministrazione Biden potrebbe anche chiedersi: “Perché non può esserci un primo ministro israeliano ragionevole che approvi semplicemente questi piani senza dare del filo da torcere a tutti?”

Sembra esserci una mentalità profonda negli Stati Uniti che crede: “Se solo Israele non ci fosse, non avremmo tutti questi problemi”. Potrebbero anche essere le stesse persone che pensano che se continuate a corrompere i vostri avversari, questi, come falsamente promesso dall’ayatollah Ruhollah Khomeini, non si opporranno agli interessi americani in Iran. Non ci sono prove che indichino che qualcosa sia cambiato. Perché dovrebbe farlo quando gli Stati Uniti continuano a dimostrare che essere un avversario è un grande business? I nostri avversari possono vedere che gli alleati degli Stati Uniti, come Israele, ricevono minacce (per esempio qui e qui); sono ordinati in giro; hanno subito interferenze nei loro affari interni, come le riforme giudiziarie, e compromesse le loro elezioni libere ed eque (qui e qui). I nostri avversari possono anche vedere agli alleati degli Stati Uniti sentirsi dire quando, dove, come possono o meno difendersi – anche dopo un attacco genocida (qui e qui). In quale squadra preferiresti essere?

Il Wall Street Journal ha osservato:

          ”L’Iran vuole cancellare lo Stato ebraico dalla mappa geografica, ma il principale ostacolo che Blinken vede al suo piano è Israele…

“A quanto pare, le concessioni politiche al terrorismo sono l’unica via da seguire…

“Lo prenda dal presidente israeliano Isaac Herzog, un oppositore di Netanyahu ed ex leader del partito laburista. ‘Se chiedi a un israeliano medio adesso’, ha detto giovedì, ‘nessuno sano di mente è disposto ora a pensare a quale sarà la soluzione di gli accordi di pace…’

Nell’entusiasmo dell’amministrazione Biden per il successo in politica estera, non si dovrebbe dimenticare che quanto più completa sarà la sconfitta di Hamas, tanto maggiore sarà lo spazio di compromesso che Israele avrà. La vittoria sarebbe il massimo per aprire la strada alla pace.”

Biden, con ogni probabilità, vede la cessazione della violenza e la creazione di uno Stato palestinese come un biglietto per la rielezione, o per lo meno, per un Premio Nobel per la pace. Sembra ancora, mistificantemente, determinato a garantire una sorta di “accordo” con l’Iran, anche se l’Iran non ha onorato nessuno dei suoi accordi in passato e non sembra probabile che ne onorerà uno in futuro.

“L’Iran minaccia il mondo”, ha detto il ministro dell’Economia israeliano Nir Barkat. “Vogliono creare una bomba per usarla.”

Altri hanno affermato che se questo è ciò che l’Iran sta facendo senza un’arma nucleare, basti pensare a cosa farà con una.

Non tutte le guerre sono “per sempre” o “inutili”, altrimenti gli Stati Uniti non sarebbero qui. Purtroppo, sembra esserci nell’amministrazione Biden l’impegno a perdere. Naturalmente, probabilmente sembra più facile – nel breve termine – arrendersi, come in Afghanistan, e ritirare le truppe americane dalla Siria e dall’Iraq, e abbandonare Israele a favore di un regime terroristico maligno. È molto meglio scoraggiare e ancora meglio vincere.

Sul confine settentrionale di Israele si trova il Libano, ora sotto il dominio di un’altra milizia per procura dell’Iran, Hezbollah. Per anni, ha ampliato gli sforzi dell’Iran schierando circa 150.000 missili puntati contro Israele, un paese più piccolo del New Jersey. Hezbollah ammette apertamente di aver condotto più di 670 attacchi contro Israele – oltre a quelli di Hamas nel sud di Israele – proprio da allora. 7 ottobre 2023. In risposta, il ministro del Gabinetto di Guerra israeliano Benny Gantz ha detto agli alti funzionari statunitensi dei crescenti attacchi di Hezbollah nel nord di Israele, “chiedendo a Israele di rimuovere tale minaccia”.

L’Iran, ovviamente, è felice che i suoi delegati combattano e muoiano per distruggere Israele, purché la guerra non si estenda a loro – il motivo, con ogni probabilità, in primo luogo per cui l’Iran ha dei delegati. L’amministrazione Biden, con suo enorme merito, ha stazionato diverse navi da guerra nella regione per scoraggiare l’espansione, il che prolungherebbe ulteriormente la durata della guerra. Finora l’amministrazione Biden ha fornito un enorme sostegno a Israele in molti modi, il che è molto gradito, e si spera sinceramente che il suo sincero sostegno mantenga le distanze.

Qualsiasi deterrenza, tuttavia, dovrà essere molto più potente e indirizzata direttamente all’Iran, un conto per i beni iraniani, per distrarre l’Iran dai suoi obiettivi egemonici. Una situazione diversa in questa guerra richiederebbe una risposta molto più forte da parte degli Stati Uniti rispetto a quella a cui abbiamo assistito attualmente. Il generale Keane ha suggerito di colpire i leader e le capacità militari dell’IRGC e dei suoi leader che stanno dando inizio all’aggressione, per impedire loro di causare ulteriori danni.

Come in tutte le guerre, entrambe le parti sono colpite da centinaia di migliaia di civili sfollati, sia palestinesi che israeliani.

Dalla lettura del rapporto CSA è possibile trarre alcune conclusioni significative.

In primo luogo, se l’Iran e i suoi delegati vengono ulteriormente coinvolti nel conflitto, gli Stati Uniti devono rispondere all’Iran, cosa che il presidente Biden ha accettato di fare, anche se non è ancora chiaro quando, dove o come. Almeno finora, l’amministrazione Biden è apparsa riluttante a rispondere all’Iran e alle sue provocazioni in un modo che potrebbe effettivamente scoraggiarlo. Il personale statunitense è morto e decine di soldati sono rimasti feriti, alcuni con gravi lesioni cerebrali traumatiche, ma l’Iran stesso è stato esonerato dal pagare qualsiasi prezzo per tutta la devastazione che sta causando, per non parlare della devastazione che potrebbe causare se gli fosse permesso. avere armi nucleari. La diplomazia non lo fermerà, e un “accordo” non lo fermerà.

L’Iran non è stato colpito affatto: né le basi dell’IRGC, né i centri di addestramento, né la sua nave spia nel Mar Rosso. Non sono state ripristinate nemmeno le sanzioni finanziarie. L’Iran può solo leggere questa risposta come un’opportunità d’oro per intensificare l’aggressione e, almeno fino alle elezioni presidenziali americane di novembre, fare tutto ciò che vuole.

Il capo di stato maggiore dell’IDF, il tenente generale Herzi Halevi, ha detto ai giornalisti che “sia la sicurezza che il senso di protezione” per il nord di Israele potrebbero richiedere alle forze dell’IDF di apportare un “cambiamento molto chiaro”. Non ha detto di cosa.

Ci sono anche segnali che la guerra sta diventando un conflitto regionale allargato, anche se l’amministrazione Biden, apparentemente facendo del suo meglio per evitarlo, potrebbe scoprire, come ha fatto Chamberlain, che tale posizione è esattamente ciò che la provoca.

Con una mezza mossa, l’amministrazione Biden ha recentemente aggiunto gli Houthi con sede nello Yemen a un elenco di gruppi designati come organizzazioni terroristiche. Purtroppo, l’elenco si è rivelato relativamente inefficace, ben al di sotto del livello delle organizzazioni terroristiche straniere a cui il gruppo era stato precedentemente assegnato.

Finora, l’amministrazione Biden non ha affrontato le minacce come se fossero sfide globali significative. L’amministrazione sta sostenendo le necessità militari di Israele, il che è positivo, ma si rifiuta ancora di affrontare il vero problema centrale: l’Iran. Fornire agli israeliani le risorse per vincere la guerra e costruire una coalizione per affrontare gli attacchi terroristici degli Houthi contro il trasporto marittimo globale sono passi concreti. Ciò che viene ignorato è che l’Iran è il burattinaio dietro le quinte che tira le fila. Per contenere la minaccia, l’amministrazione Biden deve ripristinare una strategia molto più vigorosa per affrontare l’Iran. L’Iran deve essere nuovamente sanzionato, ostracizzato nella comunità globale e la sua fonte di entrate – il petrolio – utilizzato per finanziare Hamas, Hezbollah, gli Houthi e le milizie sciite – deve essere tagliata.

Se all’Iran non verrà impedito di acquisire armi nucleari, il mondo si troverà in una situazione diversa, soggetto a innumerevoli corse agli armamenti o addirittura a una guerra nucleare.

Come evidenzia il rapporto CSA, la guerra in corso tra Israele e Hamas comporta rischi significativi per Israele, per la regione e per il mondo. È tempo di affrontare seriamente la sfida iraniana, eliminare la capacità dell’Iran di finanziare e fornire armi ai suoi delegati che rappresentano molteplici minacce in questa lotta, e porre fine al suo programma nucleare prima che sia troppo tardi.

Peter Hoekstra è un Distinguished Senior Fellow presso il Gatestone Institute. È stato ambasciatore degli Stati Uniti nei Paesi Bassi durante l’amministrazione Trump. Ha anche prestato servizio per 18 anni nella Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti in rappresentanza del secondo distretto del Michigan ed è stato presidente e membro di grado del comitato di intelligence della Camera.



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6188.- La Nato con 90.000 uomini ai confini russi, altri 60 attacchi in Yemen. Dove vogliono arrivare?

Dopo i morti in Ucraina, contiamo ancora quelli di Gaza e, ora, quelli yemeniti. Ultime notizie dai Media: Israele ha attaccato la Cisgiordania, invaso Betlemme; il Pakistan ha bombardato l’Iran; la Cina fiuta l’occasione e vola su Taiwan. Tensione alle stelle! A Gaza si muore di fame, di bombe. Non fa più notizia e dagli Usa giunge niente più di una nuova proposta per il dopo guerra. Si è già pericolosamente allargato il conflitto in Medio Oriente, dopo l’attacco anglo-americano allo Yemen, dopo l’attacco del Pakistan all’Iran. Quanto ancora reggeranno gli Ayatollah con le sole minacce? Nuovo raid dell’US Navy nello Yemen, contro l’esercito “ribelle” degli Houthi (ribelli a chi?). Gli Fa-18 delle portaerei hanno colpito 14 rampe di lancio degli Houthi, con i missili pronti al lancio. Quel “pronti” immaginario vuol giustificare la violazione del diritto internazionale?

Il generale Christopher Cavoli (foto Ansa)

Il generale Christopher Cavoli ha detto: “A Steadfast Defender partecipano più di 90mila soldati provenienti dagli alleati e dalla Svezia. L’alleanza dimostrerà la sua capacità di trasferire truppe dal Nord America, in uno scenario di risposta a una minaccia militare”. Bravo Cavoli, ma i marines avranno con se un arma individuale, cerotti e gallette. Tutto l’armamento pesante, gli Abrams, la logistica sono e li troveranno in Germania e in Polonia e, allora, di chi è la minaccia? Ecco il perché, la giustificazione dell’ipotesi millantata sulla grande offensiva di Mosca di quest’anno, contro Kiev e Kharkiv. L’esercitazione Nato “Steadfast Defender 2024” anti-Russia, ai confini della Russia, dalla Germania, alla Polonia, al Baltico. Una dimostrazione di potenza a ridosso del corridoio di Suwalki, lo stretto passaggio terrestre polacco-lituano tra la Bielorussia e Kaliningrad, uno dei punti più deboli e di probabile collisione per l’alleanza, stando ai documenti top-secret dei tedeschi citati dalla Bild-Zeitung, la prima testata europea per diffusione. Durerà 4 mesi, fino a maggio. Ci saranno svedesi, tedeschi, americani piovuti dall’America, Ci siamo anche noi nella mega esercitazione Nato, ma si tace, come è silenzio sul milione di tedeschi in strada, da giorni, alla fame, come si tace sulle decine di migliaia di israeliani scesi in strada a Tel Aviv chiedendo le dimissioni di Netanyahu e del suo governo. Non si parla delle dimostrazioni contro la guerra a Washington D.C., a Tokio. Sono tanti gli ebrei ai vertici degli USA, per esempio, Antony John Blinken, ma non si parla degli ebrei di Boston che cantano “Cessate il fuoco” e “Non in mio nome.” L’informazione delle democrazie è stata comprata facilmente. Tanto poco vale? Intanto, sul fronte ucraino, intercettati numerosi droni russi diretti verso Odessa, mentre Mosca denuncia, a sua volta, l’attività dei droni di Kiev nelle regioni della capitale e l’attacco a un deposito di petrolio a San Pietroburgo, incendiato.

Joe Biden ha un motivo di più per comprare altre armi per Kiev e, sorridendo agli arabi, replica dalla Casa Bianca, a Netanyahu: “Sicurezza Israele non può esserci senza Stato palestinese. “Biden crede in soluzione due Stati”. Ma dai? Per quanto riesca ancora a recitare, Biden è quello che, ponendo il veto al cessate il fuoco nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha firmato il massacro di migliaia di bambini palestinesi. Biden sta fornendo a Netanyahu quantità enormi di missili, bombe, munizioni e denaro. A Gaza non c’è più un metro quadrato dove i bambini possano rifugiarsi. Ma se Gaza, il Libano, la Cisgiordania sono o possono essere obiettivi di Israele, che ne sarà della Siria che ha offerto un porto del Mediterraneo alla Russia? Quanta gente dovrà morire, da qui a novembre, prima che Trump spodesti il sicario?

Per la sicurezza di Israele si discute e, intanto, si ammazza.

Dal Sole24ore:

“Non c’è alcun modo’’ di risolvere la questione di sicurezza di Israele e della regione ’’senza la creazione di uno Stato palestinese’’. Lo ha dichiarato il portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller nel corso di una conferenza stampa. ’’Non c’è modo di risolvere le sfide a lungo termine per garantire una sicurezza duratura e non c’è modo di risolvere le sfide a breve termine di ricostruire Gaza, stabilire una governance a Gaza e garantire sicurezza a Gaza senza la creazione di uno Stato palestinese’’, ha detto Miller. La sua è una risposta al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che oggi ha detto di respingere l’idea di uno Stato palestinese e di condividere solo un accordo che consenta a Israele di ottenere il controllo della sicurezza sull’intera Striscia di Gaza “.

Il commento di John Kirby alle dichiarazioni di Benjamin Netanyahu che ha detto di aver comunicato agli Usa di essere contrario allo Stato palestinese.

I palestinesi hanno il diritto di riposare in pace in uno stato indipendente

Ancora dal Sole24ore:

“Niente cambia nella posizione del presidente Biden che la soluzione dei due Stati è la soluzione migliore nell’interesse non solo degli israeliani ma anche dei palestinesi”. Così John Kirby risponde, durante un briefing con i giornalisti a bordo di Air Force One, a “E’ nel miglior interesse per la regione e non smetteremo di lavorare verso questo obiettivo”, ha aggiunto il portavoce del consiglio di Sicurezza della Casa Bianca, sottolineando i punti di vista diversi con Netanyahu. “Noi crediamo che i palestinesi abbiano il diritto di vivere in uno stato indipendente in pace” ha detto ancora sottolineando che il focus rimane che “Israele abbia quello di cui ha bisogno per difendersi da Hamas”. “Ma ci sarà una Gaza del dopo conflitto, non ci sarà una nuova occupazione di Gaza – ha concluso – siamo stati chiari su questo, vogliamo una governance che rappresenti le aspirazioni del popolo palestinese”.

6185.- Yemen, ovvero, la guerra larga di Netanyahu.

Ne parleremo con Massimo Martire domenica 21 dalle ore 7 a Notizie Oggi, Canale 71 nazionale e 12 regionale.

Attacco di USA e GB contro gli Houthi in Yemen: cosa sappiamo e quali sono i rischi

Da Geopop, di Alessandro Beloli, 12 gennaio 2024

Alle prime luci del 12 gennaio 2024 (ore 02:30 a Sana’a, capitale dello Yemen) una coalizione di Paesi coordinata dagli Stati Uniti d’America ha bombardato, con più di 100 missili, 60 obiettivi sensibili in 16 luoghi controllati dagli Houthi. Houthi che sono un gruppo ribelle che ha il controllo di gran parte dello Yemen, paese mediorientale affacciato su Mar Rosso e Golfo di Aden a sud dell’Arabia Saudita.

La coalizione è formata, oltre che dagli USA e da Regno Unito, da altri 8 Paesi: Australia, Bahrein, Canada, Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Nuova Zelanda e Corea del Sud. I motivi della risposta statunitense e britannica sono vari: sostenere Israele nel conflitto contro Hamas in Palestina, danneggiare un alleato dell’Iran in Medio Oriente, ma soprattutto tutelare il commercio globale.

A partire dal 17 ottobre 2023, infatti, gli Houthi hanno realizzato vari attacchi missilistici contro numerose navi cargo e commerciali di passaggio nel Mar Rosso, mettendo sotto scacco i traffici commerciali mondiali e costringendo varie imbarcazioni a circumnavigare l’Africa. Questo ha fatto aumentare i tempi di percorrenza e i costi di trasporto – e quindi i prezzi finali dei prodotti finiti – e danneggiato Paesi come l’Italia, i cui porti rischiano così di rimanere tagliati fuori dalle principali rotte commerciali.

In questo articolo e nel video qui sopra capiamo più nel dettaglio chi sono gli Houthi, i motivi dei loro attacchi e le ragioni della risposta statunitense; inoltre cerchiamo di ipotizzare eventuali scenari futuri: potrebbe scoppiare un’ampia guerra in tutto il Medio Oriente?

Carta dell’area mediorientale. Lo Yemen si trova a sud dell’Arabia Saudita
Chi sono gli Houthi e la guerra civile in Yemen

Chi sono gli Houthi e la guerra civile in Yemen
In estrema sintesi, in Yemen dal 2014 al 2023, a fasi alterne, si è verificata una sanguinosissima guerra civile che purtroppo ha causato la morte di più di 100.000 civili. Il conflitto interno al momento non è terminato, ma è stato solo congelato in una tregua grazie alla mediazione della Cina. La fazione vincitrice per ora risulta quella degli Houthi, un gruppo armato sciita, alleato dell’Iran e nato nel 1992 che attualmente controlla le parti più importanti del Paese: il nord-ovest, la capitale Sana’a e la costa che si affaccia sul Mar Rosso.

La guerra civile, in realtà, ha visto la partecipazione diretta e indiretta di forze esterne allo Yemen, alleate a fazioni diverse. Parliamo ad esempio dell’Iran, alleato degli Houthi per motivi politico-religiosi, che li finanzia e spedisce loro armamenti come missili e droni; e dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, avversari del gruppo in questione e quindi al momento sconfitti.

In questo senso il conflitto in Yemen ha avuto tra le sue cause sia questioni interne – condizioni socio-economiche drammatiche e rivalità tra vari gruppi di potere – sia questioni esterne al Paese. In Medio Oriente, infatti, è attiva da secoli e secoli una sfida per il controllo geopolitico della regione. E l’Iran – cioè l’antica Persia – e l’Arabia Saudita sono due dei principali poli di attrazione e di influenza e – per questo motivo – profondamente rivali tra loro.

Iran e Arabia Saudita, cioè, fin dai tempi dell’impero persiano e poi dell’impero arabo cercano di conquistare o di attrarre nella propria area di influenza quante più zone possibili del Medio Oriente e quindi avevano e hanno interesse e necessità di sfidarsi anche in Yemen.

Perché gli Houthi hanno attaccato le navi nel Mar Rosso

Gli Houthi si sono da sempre dichiarati nemici di Israele e degli Stati Uniti e, soprattutto, dall’inizio del conflitto tra Israele e Hamas, si sono apertamente schierati a difesa di quest’ultima e, più in generale, del popolo arabo-palestinese. Dal 17 ottobre 2023 hanno così iniziato ad attaccare numerose navi cargo e mercantili che dal Mar Rosso erano dirette nel Mar Mediterraneo e in Israele. Il conteggio ufficiale ad ora si attesta a 27 imbarcazioni, con problemi causati a più di 55 nazioni.

Oltre a sostenere in maniera concreta Hamas dal punto di vista politico e militare e a danneggiare due nemici dichiarati (USA e Israele), gli attacchi degli Houthi hanno anche altri obiettivi. Due dei più importanti sono mostrarsi a livello internazionale e mediorientale come un attore forte, capace e attivo, con il fine di essere maggiormente riconosciuti e considerati; e, dall’altro lato, cercare di indirizzare l’opinione pubblica interna su una questione esterna al Paese, viste le enormi difficoltà che gli Houthi stanno avendo nel risolvere i gravi problemi socio-economici presenti nei territori che controllano.

I danni degli Houthi al commercio globale e all’Italia

Gli Stati Uniti d’America basano molta della propria influenza a livello mondiale sulla loro capacità di controllare e difendere il commercio globale, commercio globale che avviene per l’80-90% via mare. Per fare questo, in particolare, tengono sotto controllo i nodi delle principali rotte marittime, dei colli di bottiglia attraverso cui le navi sono costrette a passare, che in inglese vengono chiamati choke points, cioè punti di soffocamento.

Ecco, gli Houthi attualmente stanno mettendo sotto scacco uno dei principali choke point mondiali. Minacciano concretamente, infatti, il traffico navale nello stretto di Bab el-Mandeb, tra Yemen e Gibuti, che collega Golfo di Aden e Mar Rosso, ma soprattutto l’Asia – e quindi Cina, Corea, Giappone, Sud-est asiatico, India, Medio Oriente – all’Europa, Italia compresa.

Pensate che si stima che attraverso lo Stretto di Bab el-Mandeb transiti oltre al 10% del traffico marittimo mondiale, compreso quello cruciale dal punto di vista energetico di gas naturale e petrolio, il cui uso contribuisce purtroppo al riscaldamento globale, ma attualmente, ad esempio ci permette di scaldare ancora in gran parte le nostre case. Avete quindi idea di che cosa significhi dal punto di vista economico e sociale danneggiare o bloccare il commercio in un punto del genere?

Se non possono passare per lo Stretto di Bab el-Mandeb, le navi mercantili sono costrette a circumnavigare l’Africa, come si faceva prima della costruzione del canale di Suez nel 1869, oltrepassando il Capo di Buona Speranza, e allungando il percorso di circa 3000 miglia nautiche, cioè oltre 5.500 km. In termini di tempo parliamo di circa due settimane di viaggio in più, con un conseguente aumento notevole dei prezzi finali dei beni che poi acquistiamo.

L’Italia ha moltissimo da perdere in una situazione in cui il Mar Rosso non sia più transitabile. Le navi in arrivo dall’Asia, infatti, che già spesso passano dal Mediterraneo solo per raggiungere i grandi porti dell’Europa del nord, dovendo circumnavigare l’Africa, avranno sempre meno interesse a fare tappa nei nostri porti e questo potrebbe causarci gravi problemi economici e, di conseguenza, sociali

Il problema per l’Italia è proprio che, circumnavigando l’Africa, , giunte a Gibilterra, passando dai porti italiani, le merci dirette ai grandi porti dell’Europa del Nord allungherebbero ancora più il percorso.

L’attacco in Yemen di americani e alleati

Prima di attaccare, una settimana fa, gli Stati Uniti e i loro alleati avevano dato un ultimatum agli Houthi, intimando loro di smettere di compromettere la navigazione nel Mar Rosso. Questi ultimi, però, hanno proseguito e così la coalizione coordinata dagli USA ha proceduto a bombardare, con più di 100 missili, 60 obiettivi sensibili in 16 luoghi controllati dagli Houthi. Parliamo di postazioni, strutture e infrastrutture militari, come siti di lancio di missili e droni, radar e magazzini che contengono armi, munizioni e razzi.

Ecco, ribadiamo una cosa: nell’attacco non è coinvolta l’Italia. Il bombardamento inoltre non ricade nemmeno all’interno dell’Operazione Prosperity Guardian che, per chi non lo sapesse, è una coalizione di difesa, formata da oltre 20 Stati, che dovrebbe vigilare sull’area per consentire il normale svolgimento del commercio marittimo.

I possibili scenari futuri

In seguito all’attacco, la Russia ha immediatamente criticato l’azione di Stati Uniti e Regno Unito e richiesto con urgenza una riunione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, la Cina si è detta molto preoccupata che il conflitto possa espandersi nell’area e l’Iran e la Turchia hanno condannato il bombardamento. Gli Houthi, dal canto loro, hanno ribadito che quest’operazione non li fermerà e continueranno ad agire.

I possibili scenari al momento sono diversi. Tutto dipenderà da quali saranno davvero le mosse del gruppo yemenita. Se riprenderanno gli attacchi missilistici alle imbarcazioni è probabile che gli Stati Uniti e i loro alleati possano procedere a nuovi bombardamenti; in caso contrario la questione dovrebbe congelarsi.

Quel che è certo è che se la situazione si dovesse evolvere per il peggio non è escluso che altri attori regionali, come l’Iran o Hezbollah (altro alleato di Hamas, Houthi e Iran), possano sentirsi portati a intervenire in difesa degli alleati o che gli Stati Uniti, non riuscendo a fermare gli Houthi solo con attacchi missilistici, possano decidere di portare un attacco via terra, rischiando però degli scenari come quelli delle lunghissime guerre in Iraq e Afghanistan.

Insomma, il rischio che il conflitto possa espandersi progressivamente ad altre aree del Medio Oriente, legandosi alla guerra tra Israele e Hamas, esiste. Speriamo ovviamente che non accada.

I bombardamenti Usa e britannici hanno riavvicinato vecchi e nuovi nemici

La Turchia accusa i due Paesi Nato di uso sproporzionato della forza e gli Usa di armare i terroristi 

[Da greenreport, 15 Gennaio 2024

Prima dei nuovi bombardamenti aererei e missilistici statunitensi e britannici contro strutture dell’esercito Houthi nord-yemenita, l’ambasciatore del governo yemem nita di Sana’a in Iran, Ibrahim Mohammad al-Deilami aveva detto in un’intervista con l’agenzia di stampa iraniana ISNA: «Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali cercano di impedire allo Yemen di sostenere il popolo di Gaza nel mezzo della guerra genocida di Israele contro gli assediati Territorio palestinese. Gli americani cercano di espandere la portata della guerra in tutta la regione, e li abbiamo già avvertiti di evitare qualsiasi atto insensato. Gli Stati Uniti sono responsabili di qualunque cosa possa accadere nel Mar Rosso. Il mio Paese non vuole un’ulteriore diffusione della guerra nella regione. Tuttavia, gli americani stanno cercando di espandere la portata della guerra [per] distogliere l’attenzione dalla questione della Palestina».

Il 12 gennaio a Sana’a e in diverse province dello Yemen del nord si sono svolte grandi  manifestazioni contro gli attacchi della coalizione guidata dagli Usa e con lo slogan “Vittoria promessa e santa jihad” e Murad Qasim Ali uno dei capi politici di Ansarullah – il movimento sciita che governa il nord dello Yemen – ha detto che «La nostra posizione è chiara, non staremo in silenzio, non ci fermeremo e risponderemo al nemico; Sosteniamo la nostra nazione a Gaza e questa aggressione non ci porterà ad allontanarci da loro».

Ma aerei, navi e sottomarini statunitensi e britannici hanno continuato a bombardare lo Yemen in risposta agli attacchi dell’esercito nord-yemenita nel Mar Rosso contro navi israeliane o legate in qualche modo a Israele e Mehdi Al-Mashat, capo del Consiglio politico supremo dello Yemen, ha dichiarato in un’intervista all’agenzia di stampa ufficiale nord-yemenita Sabah che «L’aggressione criminale degli Usa ed Inghilterra non allontanerà lo Yemen dalla sua posizione di sostegno alla Palestina. La nostra coscienza è chiara: stiamo effettivamente partecipando al vostro fianco [dei palestinesi] in questa guerra e da oggi la Palestina non sarà più sola nella battaglia. La navigazione nel Mar Rosso e nel Mar Makran è sicura per tutte le navi, ad eccezione delle navi la cui destinazione sono i territori palestinesi occupati. America ed Inghilterra sono responsabili della militarizzazione del mare e  dimostreremo all’America ed all’Inghilterra che lo Yemen sarà il cimitero dei grandi».

L’attacco allo Yemen del nord sembra ottenere l’effetto contrario a quello voluto e ha riavvicinato antichi e nuovi nemici. Se Hossein Amir Abdollahian, il ministro degli esteri dell’Iran, il più potente alleato degli Houthi, ha detto che «Gli Stati Uniti invece di sferrare attacchi allo Yemen, dovrebbero porre fine ai sostegni al regime sionista, in modo che la sicurezza ritorni nell’intera regione», perfino l’Arabia saudita, che per anni ha guidato una coalizione sunnita che fino a poche settimane fa bombardava quotidianamente il nord sciita dello Yemen, ha chiesto moderazione, imitata da uno dei partner della sua coalizione: l’Egitto che ha invitato tutti a compiere «Sforzi concertati a livello internazionale e regionale per allentare la tensione e ridurre l’instabilità nella regione, compresa la sicurezza della navigazione nel Mar Rosso. A partire da un immediato cessate il fuoco globale e la fine della guerra in corso contro i civili palestinesi». Perfino Ayman Safadi,  il ministro degli esteri della moderatissima Giordania  ha detto che «I crimini di guerra del regime sionista contro i palestinesi sono responsabili dell’accresciuta tensione regionale e della violenza nel Mar Rosso. L’operato di Israele minaccia di innescare una guerra più ampia in Medio Oriente. La comunità internazionale non è riuscita ad agire per fermare l’aggressione israeliana contro i palestinesi».

E l’azione militare di due Paesi Nato contro lo Yemen viene duramente condannata da un altro Paese Nato e sunnita: la Turchia. Durante un in un discorso in una moschea di Istanbul, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan – che di uso della forza se ne intende – ha dichiarato che «Tutte queste azioni rappresentano un uso sproporzionato della forza. Washington e Londra vogliono trasformare il Mar Rosso in un mare di sangue. Vogliono un bagno di sangue nel Mar Rosso. La Turchia è stata molto critica nei confronti di Israele per la sua operazione militare a Gaza, e nei confronti dei Paesi occidentali per il loro sostegno alla campagna israeliana».

Poi, tanto per mantenere buoni rapporto con i Paesi NATO, il quotidiano turco Hurriyet ha rivelato che gli Usa avrebbero recentemente fornito informazioni, armi e munizioni al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) e che «Lo scopo di questa azione è creare una guerra di logoramento per la Turchia. Le informazioni indicano che non solo gli Usa ma anche altri centri hanno fornito informazioni, munizioni e armi al PKK. L’aumento del numero degli attacchi terroristici è legato anche ad eventi nazionali ed esteri. Alcuni paesi non vogliono che la Turchia sia un attore attivo nella regione, per questo la prendono di mira attraverso organizzazioni terroristiche».

Un’accusa pesantissima contro gli statunitensi colpevoli di aver fornito armi ai kurdi del Rojava che hanno liberato gran parte la Siria dallo Stato Islamico/Daesh.

Il ministro degli esteri italiano Antonio Tajani ha detto al Corriere della Sera che «Noi abbiamo sottoscritto la dichiarazione politica sulla sicurezza nel Mar Rosso — che è la più importante, e che la Francia ad esempio non ha firmato —, ma non abbiamo sottoscritto quella sugli interventi armati offensivi: una scelta da una parte obbligata, visto che ci vorrebbe prima un passaggio parlamentare, secondo la nostra Costituzione; dall’altro frutto di una convinzione politica, condivisa sia con il presidente del Consiglio, con il ministro Crosetto e con le nostre forze armate: c’è il rischio di un’escalation che vogliamo assolutamente evitare» e ha aggiunto: «Rispetto alla reazione militare di tre giorni fa siamo stati informati con molte ore di anticipo, visto che siamo alleati e che abbiamo una nave militare nelle stesse acque. Noi finora abbiamo dato soltanto il nostro sostegno politico, non militare, se con questa parola si intende l’uso offensivo della forza pianificato a fini deterrenti. Ho parlato io con Blinken quando Washington ha definito la dichiarazione che autorizza la forza di alcuni Stati e gli americani sono perfettamente consapevoli della nostra posizione. Noi siamo favorevoli a una missione europea allargata, più strutturata, abbiamo chiesto al commissario Borrell di mettere all’ordine del giorno proprio questo argomento. Una missione europea diversa da quella attuale, anche con regole di ingaggio diverse, cui parteciperebbe anche la Francia, è un obiettivo di breve periodo».

E l’a posizione dell’Alto commissario Ue Borrell  del 12 gennaio ribadiva che «L’Ue accoglie con favore l’adozione della risoluzione 2722 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 10 gennaio che condanna fermamente gli attacchi Houthi contro le navi del Mar Rosso. Sostenere la libertà di navigazione nel Mar Rosso è vitale per il libero flusso del commercio globale e per la sicurezza regionale. Come ricordato dalla risoluzione 2722 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, gli Stati hanno il diritto di difendere le proprie navi da questi attacchi in conformità con il diritto internazionale. L’Ue fa eco al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e chiede che questi attacchi, che ostacolano il commercio globale e minano i diritti di navigazione così come la pace e la sicurezza regionale, cessino immediatamente. L’Ue sollecita la moderazione da parte degli Houthi per evitare un’ulteriore escalation nel Mar Rosso e nella regione più ampia. In questo contesto, l’Ue ricorda l’obbligo di tutti gli Stati di rispettare l’embargo sulle armi previsto dalla risoluzione 2216 (2015) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. L’Ue continuerà a contribuire alla stabilità regionale».

Ma l’ambasciatore dell’ Cina all’ONU, Zhang Jun,  ha sottolineato che «L’aggressione militare americana ed britannica  contro lo Yemen è fallita» e ha fatto notare agli occidentali che «Il Consiglio di Sicurezza non ha mai permesso a nessun Paese di usare la forza contro lo Yemen».

Una tesi in qualche modo avallata dal segretario generale dell’Onu António Guterres ha esortato i Paesi a «Evitare un’escalation della situazione nel Mar Rosso».

Guterres ha sottolineato che «La risoluzione 2722 deve essere pienamente rispettata nella sua interezza» e ha ribadito che , «Gli attacchi contro le spedizioni internazionali nell’area del Mar Rosso non sono accettabili poiché mettono in pericolo la sicurezza delle catene di approvvigionamento globali e hanno un impatto negativo sulla situazione economica e umanitaria in tutto il mondo. Tutti gli Stati membri che difendono le proprie navi dagli attacchi devono farlo in conformità con il diritto internazionale, come previsto dalla Risoluzione».  Bombardare un Paese più di 70 volte non sembrerebbe proprio “conforme”.

Guterres ha infatti concluso invitando tutte le parti coinvolte a «Non aggravare ulteriormente la situazione nell’interesse della pace e della stabilità nel Mar Rosso e nella regione più ampia» e sottolineando «La necessità di evitare atti che potrebbero peggiorare ulteriormente la situazione nello stesso Yemen. Chiedo che venga compiuto ogni sforzo per garantire che lo Yemen persegua un percorso verso la pace e che il lavoro intrapreso finora per porre fine al conflitto nello Yemen non vada perso».

Greenreport società cooperativa editore, iscritta al n.1/06 al registro stampa del Tribunale di Livorno.

6179.- “Quando la lite è ebraica”

Alla domanda sull’autenticità delle immagini dei bambini morti che Netanyahu aveva condiviso e sostenuto, il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha dichiarato il 12 ottobre: “Non credo che il nostro compito sia dover convalidare o approvare questo tipo di immagini”. “Provengono dal primo ministro israeliano e non abbiamo motivo di dubitare della loro autenticità“. Quindi, di fatto, Kirby le ha convalidate, ma Netanyahu aveva diffuso delle balle, come quelle sull’attacco di sorpresa. Per l’Italia e per gli italiani, per gli Stati del Mediterraneo, sono importanti gli israeliani, i palestinesi e gli arabi ma, fra tutti questi, soltanto quelli che vogliono e sanno convivere e lavorare in pace. Ecco, un obiettivo per il Piano Mattei che farebbe il paio con la solidarietà attiva.

Atrocity Propaganda, Moral Idealism, and the West

Da The UNZ Review, di MARSHALL YEATS • JANUARY 5, 2024. Republished from The Occidental Observer. Traduzione libera e premessa di Mario Donnini.

“Quando la lite è ebraica”,è necessaria più cautela del solito, poiché la stampa dell’Europa è in larga misura e sempre più nelle mani degli ebrei.” Così
Goldwin Smith , “Una nuova luce sulla questione ebraica[1]”

Dovrebbe essere considerato un assioma, semplice e scontato, il fatto che il sistema politico occidentale possa essere comprato con il denaro, ma che il suo popolo si compra meglio con storie singhiozzanti. La citazione sopra riportata, del brillante storico e giornalista britannico Goldwin Smith (1823-1910), era una reazione alla propaganda delle atrocità ebraiche che denunciavano pogrom estremamente violenti nell’impero russo. Questi “pogrom”, descritti in dettaglio su The Occidental Observer da Andrew Joyce, erano un panico morale di massa ideato dai media per servire gli interessi ebraici. In questo caso, ad esempio, i pogrom fungevano da pretesto per una migrazione economica di massa, e i racconti spaventosi di atrocità e sofferenze erano la valuta morale utilizzata per acquistare l’acquiescenza occidentale nei confronti dell’immigrazione di milioni di ebrei. Sebbene si siano svolte proteste di massa a favore degli ebrei e siano stati raccolti milioni di dollari in aiuti, Smith ha ricordato ai suoi ingenui contemporanei ciò che le indagini del governo britannico avevano già rivelato:

A Elizabethgrad, invece di radere al suolo intere strade, solo una capanna era stata scoperta. Pochi ebrei, se non nessuno, furono uccisi intenzionalmente, anche se alcuni morirono per le ferite riportate durante le rivolte. Gli oltraggi contro le donne, di cui, secondo i resoconti ebrei, ce n’erano stati un numero spaventoso non meno di trenta in un luogo e venticinque in un altro e per i quali l’indignazione pubblica in Inghilterra era stata ferocemente suscitata, sembrano, dopo inchieste dai consoli, siano stati ridotti in tutto a qualcosa come una mezza dozzina di casi autenticati. Ciò è tanto più notevole perché le rivolte cominciavano comunemente con il saccheggio dei negozi di vodka, che sono gestiti dagli ebrei, sicché le passioni della folla devono essere state infiammate dal bere. L’orribile accusa mossa dagli ebrei nel The Times contro le donne russe, di aver incitato gli uomini a oltraggiare le loro sorelle ebree e di aver tenuto a freno le ebree, per punirle per la loro superiorità nel vestire, si rivela del tutto infondata. Cade anche l’accusa di aver arrostito vivi i bambini. L’opuscolo ebraico ristampato dal London Times afferma che un locandiere ebreo fu rinchiuso in uno dei suoi barili e gettato nel Dnepr. Questa risulta essere una favola, il villaggio che ne fu la presunta scena si trova a dieci miglia dal Dnepr e non è vicino a nessun altro fiume importante, perciò….

Valuta morale

Come sottolineano sia Smith che Joyce, i fatti dietro la narrativa del pogrom furono più o meno soffocati dall’intensità del sentimento morale provocato dai resoconti ebraici vistosamente violenti diffusi dalla Russia, e abbiamo assistito esattamente alla stessa dinamica svolgersi nel periodo immediatamente successivo. dell’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre. Anche se questo saggio si concentrerà su alcuni dettagli e misteri che circondano i primi resoconti della propaganda delle atrocità israeliane sull’incursione di Hamas, l’aspetto più interessante in tutto è forse che gli ebrei sembrano consapevoli che la moralità è la valuta con cui acquistare l’acquiescenza, o ad un prezzo più basso. silenzio quantomeno silenzioso, da parte del pubblico occidentale. Sono profondamente consapevoli della nostra sensibilità alle argomentazioni morali.

Kevin MacDonald ha sottolineato che “l’idealismo morale è una tendenza potente nella cultura europea. … La moralità è definita non come ciò che è bene per l’individuo o il gruppo, ma come un ideale morale astratto”. Ciò contrasta con gli approcci alle questioni morali seguiti da altri popoli, che tendono ad essere molto più pragmatici, situazionali o basati sul contesto. Prendiamo, ad esempio, la massima di Deng Xiaoping: “Non importa se un gatto è bianco o nero; se prende i topi, è un buon gatto”. L’approccio pragmatico della Cina alla moralità, quando si riflette nella politica estera e nella sicurezza internazionale, è stato considerato uno dei principali motori della sua influenza globale in rapida espansione. Gli Stati Uniti, nel frattempo, sono impegnati da decenni in una demonizzazione morale dei loro oppositori (“Asse del Male”, ecc.) che rende il compromesso quasi impossibile. Scrivendo per Global Asia, Kishore Mahbubani commenta che “esiste una vena morale che influenza il pensiero della politica estera degli Stati Uniti che non può essere eliminata. E molti americani sono orgogliosi del fatto che questa dimensione morale sia un fattore cardinale. Clinton ha dichiarato in un’intervista dell’aprile 2009: ‘C’è sempre e deve esserci una dimensione morale nella nostra politica estera’”. Il fatto che gli interessi materiali siano il motore principale degli obiettivi di politica estera non toglie alla maggior parte dei politici la consapevolezza di devono tuttavia inserire i propri obiettivi materiali in una struttura morale di consumo pubblico. Gli alleati dell’America devono essere presentati come moralmente buoni, indipendentemente dalla realtà dietro l’immagine, e i suoi nemici designati devono essere presentati come moralmente cattivi, anche se il gruppo o la nazione avversari stanno semplicemente perseguendo i propri interessi.

Gli ebrei sono consapevoli di questa dimensione morale, e i sionisti in particolare dispongono di un arsenale retorico accuratamente realizzato per il pubblico occidentale, basato esclusivamente sul linguaggio dei diritti, della moralità e della giustizia, anche se tali concetti sono molto lontani dalla realtà delle azioni israeliane. atteggiamenti e comportamenti. Sebbene Israele sia uno stato chiaramente espansionista, spesso aggressivo nella forma dei suoi insediamenti in Cisgiordania, i suoi apologeti in Occidente utilizzano una serie di frasi difensive come “Israele ha il diritto di difendersi”, “Israele ha il diritto di difendersi” di esistere”, e, secondo le parole dell’Ayn Rand Institute, “Israele ha un diritto morale alla propria vita”. Un eccellente esempio di quella che potremmo chiamare “propaganda morale” è apparso sul Wall Street Journal l’11 ottobre. L’articolo, intitolato “Il dovere morale di distruggere Hamas” e scritto dai giornalisti ebrei Walter Block e Alan Futerman, sosteneva che Israele risiedeva accanto a una “cultura malvagia e depravata”. Si diceva che gli arabi fossero motivati da nient’altro che un “odio verso gli ebrei” infondato e amorfo e che avessero “massacrato uomini, donne e bambini innocenti. Queste bande li hanno violentati, mutilati e torturati mentre gridavano “Uccidete gli ebrei!””

Dal momento che non viene mai riconosciuto che gli ebrei abbiano danneggiato altri gruppi, i racconti sui loro stupri, mutilazioni e torture da parte di “odiatori degli ebrei” sono ancora più scioccanti e ripugnanti. Questa definizione e comprensione dell’antisemitismo conferisce intrinsecamente agli ebrei una sorta di valore morale, persino di superiorità, e gli ebrei hanno goduto di un’abbondanza quasi illimitata di valore morale a partire dalla seconda guerra mondiale perché quella guerra è stata ripetutamente confezionata come la quintessenza della “buona guerra”. – una guerra contro il male. Sebbene negli ultimi decenni siano stati compiuti sforzi per affrontare le scelte morali e i dilemmi etici degli Alleati, come la moralità dell’uso della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki o la decisione britannica di bombardare Amburgo riducendola in macerie, l’unico elemento intoccabile della visione popolare della Guerra Mondiale II è che gli ebrei furono le principali vittime di un regime “malvagio” nel conflitto e che la loro esperienza durante quella guerra ha lezioni morali profonde e durature per tutti i popoli occidentali.

La carta bianca ebraica

Il risultato più immediato e geopoliticamente significativo di questa impostazione della Seconda Guerra Mondiale fu la creazione dello Stato di Israele e la concessione internazionale agli ebrei di carta bianca per dominare e rimuovere centinaia di migliaia di palestinesi dalle terre desiderate. In effetti, è difficile individuare un esempio di pulizia etnica a memoria d’uomo che abbia provocato una risposta internazionale più attenuata rispetto allo sfollamento israeliano dei palestinesi. I funzionari del consolato americano in Palestina nel 1948 notarono che gli ebrei bombardavano obiettivi civili palestinesi in un modo “così completamente immotivato da collocarlo nella categoria del nichilismo”. Gli ebrei, che solo pochi decenni prima avevano diffuso false voci di stupri e saccheggi russi nel mondo, furono denunciati da un diplomatico americano nel 1948 mentre “portavano mobili, masserizie e forniture da edifici arabi e pompavano l’acqua delle cisterne in autocisterne. Le prove indicavano [un] saccheggio chiaramente sistematico [del quartiere arabo] [da parte degli ebrei]”. Ma queste osservazioni restavano proprio questo: osservazioni.

Sebbene sia forte la tentazione di dare pieno sostegno ai palestinesi, è importante ricordare che abbiamo più che sufficienti problemi nostri, anche se molti di essi sono stati causati dagli stessi sospettati. Mi associo al commento di Kevin MacDonald secondo cui “Ciò non significa che io sia una cheerleader per i palestinesi. I palestinesi sono un tipico popolo mediorientale e tutto ciò che ciò comporta in termini di forme sociali non occidentali: i clan, il collettivismo e l’Islam con la sua lunga storia di odio contro l’Europa”. Ma il conflitto israelo-palestinese è di vitale interesse per i popoli occidentali per due ragioni principali. In primo luogo, il dominio israeliano nella regione dipende totalmente dal sostegno occidentale, in particolare dagli aiuti finanziari, diplomatici e militari americani. Al netto dell’inflazione, i contribuenti americani hanno consegnato centinaia di miliardi di dollari allo Stato ebraico dal 1948. Le azioni israeliane in Medio Oriente hanno implicazioni dirette per le nazioni occidentali: consumano risorse occidentali, provocano atti di terrorismo nei paesi occidentali e sono componenti di una sorta di teatro morale manipolativo in cui gli israeliani lottano costantemente per presentarsi come eroi che combattono contro una folla di malvagi. Al centro di questo teatro c’è il racconto delle atrocità.

Beheaded Babies?

È indiscutibile che Hamas abbia commesso violenze contro i bambini durante e dopo l’incursione del 7 ottobre in territorio israeliano, ma l’affermazione particolarmente cruenta ed emotiva secondo cui Hamas avrebbe decapitato dozzine di bambini ha acquisito improvvisa e diffusa importanza nei giorni successivi al massacro. Questa importanza è in gran parte il risultato dell’amplificazione delle affermazioni iniziali di un singolo giornalista israeliano da parte di esponenti del governo statunitense e israeliano. L’affermazione è stata ampiamente ripetuta anche da politici tra cui i rappresentanti repubblicani Marjorie Taylor Greene ed Elise Stefanik, da importanti organi di informazione come CNN, Fox News e New York Post; da funzionari israeliani, compreso l’ufficio del primo ministro; dal presidente dell’ADL Jonathan Greenblatt e da numerosi attori e celebrità ebrei sui social media. L’affermazione divenne di per sé un fenomeno virale, ma col passare del tempo divenne chiaro che mancavano prove.

Sappiamo finalmente la verità: Un falso! ndt

Sarah Swann, scrivendo per PolitiFact, ha commentato:

Già la violenza confermata era abbastanza orribile. Allora perché l’affermazione, basata su fonti deboli, di circa 40 bambini decapitati viaggiava in lungo e in largo? Esperti di disinformazione e Medio Oriente hanno individuato la risposta emotiva suscitata dalla violenza contro i bambini, insieme alla mancanza di conferma da parte di fonti ufficiali. “Poiché è un’affermazione così scioccante… ha raccolto un’attenzione significativa così come tentativi di sostenerla o confutarla”, ha affermato Osamah Khalil, professore di storia della Syracuse University specializzato in Medio Oriente moderno e politica estera degli Stati Uniti.

L’affermazione secondo cui Hamas avrebbe decapitato 40 bambini può essere fatta risalire ai commenti in diretta di un giornalista israeliano. il 10 ottobre, tre giorni dopo l’attacco di Hamas al Kibbutz Kfar Aza, nel sud di Israele. Nicole Zedeck, un’ebrea americana collaboratrice di i24 News, un canale di notizie israeliano, ha affermato che i soldati dell’IDF avevano detto che i suoi bambini erano stati uccisi nell’attacco. In particolare, durante una trasmissione in lingua inglese proprio da Kfar Aza, Zedeck ha detto: “L’esercito israeliano dice ancora di non avere un numero chiaro (delle vittime), ma sto parlando con alcuni soldati, e dicono quello che hanno visto. Testimoniano che hanno camminato attraverso queste diverse case, queste diverse comunità: ovunque bambini con la testa tagliata. Questo è quello che hanno detto anche Oren Ziv di +972 Magazine e Samuel Forey del notiziario francese. Altri giornalisti sul posto quel giorno a Kfar Aza, t Le Monde, hanno negato che tali affermazioni fossero state fatte da soldati dell’IDF.

In un post su X che Ziv ha poi misteriosamente cancellato, ha detto di non aver visto alcuna prova che Hamas avesse decapitato bambini durante la visita del kibbutz quel giorno, “e nemmeno il portavoce o i comandanti dell’esercito hanno menzionato alcun incidente del genere”. Ziv ha detto che ai giornalisti di Kfar Aza è stato permesso di parlare con centinaia di soldati senza la supervisione del team di comunicazione delle Forze di Difesa Israeliane, e che non è stata menzionata alcuna scoperta così raccapricciante. Allo stesso modo, Forey ha detto in un post che è ancora visibile su X: “Nessuno mi ha parlato di decapitazioni, tanto meno di bambini decapitati, tanto meno di 40 bambini decapitati”. Forey ha detto che il personale dei servizi di emergenza con cui ha parlato non ha visto alcun corpo decapitato.

Nonostante le confutazioni di altri giornalisti presenti nello stesso tour del kibbutz, Zedeck ha poi pubblicato il giorno successivo su X che “uno dei comandanti mi ha detto di aver visto le teste dei bambini tagliate”. Trentacinque minuti dopo, ha pubblicato di nuovo, dicendo: “i soldati mi hanno detto che credono che siano stati uccisi 40 neonati/bambini”. Nel giro di 24 ore, organi di stampa negli Stati Uniti e nel Regno Unito, tra cui The Independent, The Daily Mail, CNN, Fox News e il New York Post, hanno ripetuto l’affermazione secondo cui Hamas aveva decapitato bambini, citando come fonti i media israeliani o l’ufficio del primo ministro. Quest’ultima ha guadagnato terreno perché, l’11 ottobre, un portavoce di Benjamin Netanyahu ha detto alla CNN che neonati e bambini piccoli sono stati trovati a Kfar Aza con le “teste decapitate”.

La mattina seguente, tuttavia, la CNN riferì che il governo israeliano non poteva confermare l’affermazione secondo cui Hamas avrebbe decapitato i bambini, contraddicendo la precedente dichiarazione dell’ufficio di Netanyahu. Ciò non ha impedito a Joe Biden di ripetere l’affermazione durante un incontro dell’11 ottobre con i leader ebrei, dicendo: “Non avrei mai pensato davvero che avrei visto e avuto conferma di immagini di terroristi che decapitavano bambini”. È toccato allo staff della Casa Bianca informare in seguito la CNN che Biden in realtà non aveva né visto le foto né ricevuto conferma che Hamas avesse decapitato neonati o bambini. Biden si riferiva ai commenti pubblici dei media e dei funzionari israeliani, che difficilmente equivalevano ad aver “visto e confermato” personalmente immagini di bambini decapitati da terroristi.

Netanyahu said during Secretary of State Antony Blinken and Biden’s visits to Israel on October 18 that Hamas beheaded people, but Netanyahu did not say whether the victims were infants. Netanyahu’s office then went public with photos of babies it said were “murdered and burned” by Hamas, but the provenance of these images was as obscure as the earlier claims. Sarah Swann pointed out that:

Alla domanda sull’autenticità delle immagini dei bambini morti che Netanyahu aveva condiviso, il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha dichiarato il 12 ottobre: “Non credo che il nostro compito sia dover convalidare o approvare questo tipo di immagini”. . Provengono dal primo ministro israeliano e non abbiamo motivo di dubitare della loro autenticità”.

Quindi l’informazione era autentica solo perché proveniva da Netanyahu.

La “proporzionalità” e la rinnovata carta bianca

Proprio come la propaganda delle atrocità è stata cruciale per facilitare la migrazione di massa ebraica verso l’Occidente durante il periodo degli zar, e cruciale ancora una volta nella fondazione dello Stato di Israele, così è cruciale anche per garantire agli ebrei la loro ultima carta bianca. L’invasione di Gaza da parte dell’IDF ha finora causato la morte di oltre 22.000 palestinesi, altri 7.000 dispersi o sepolti, e l’esodo di circa 1,9 milioni di persone. Più profondamente, l’amplificazione internazionale della narrativa ebraica ha aperto la strada a qualcosa precedentemente considerato impensabile: l’abolizione israeliana del sistema di governo a Gaza. Circolano ora voci secondo cui gli israeliani intendono “dividere il territorio governato da Hamas in aree governate da tribù o clan piuttosto che da un’unica entità politica. Secondo l’emittente pubblica KAN, il piano è stato ideato dall’esercito israeliano. … Stabilisce che la Striscia di Gaza sia divisa in regioni e sottoregioni, con Israele che comunichi separatamente con ciascun gruppo”. In altre parole, equivale a “divide et impera”.

A Israele è stato permesso a livello internazionale di compiere azioni che sarebbero considerate oltre ogni limite da altre nazioni a causa del controllo politico e culturale ebraico internazionale e della patina di moralità che ne nasconde la retorica. Le prime richieste di “proporzionalità” furono abilmente spazzate via da un’ondata di commentatori ebrei attentamente posizionati. Jill Goldenzeil, scrivendo per Forbes in un articolo intitolato “La proporzionalità non significa quello che pensi che significhi a Gaza”, svolge un ruolo classico nel plasmare i modi di vedere, incoraggiando i lettori ad abbandonare anche la comprensione più basata sul buon senso di una risposta proporzionata a quello che è successo il 7 ottobre, e invece sconcertante i suoi lettori con la spiegazione che “la proporzionalità è un principio difficile da comprendere, non solo a causa della semantica, ma a causa della crudele realtà della guerra”. Il Jewish News Syndicate ha pubblicato in tutta fretta un articolo su “Che cosa significa effettivamente la proporzionalità” e Steven Erlanger del New York Times ha informato senza mezzi termini i lettori che gli israeliani non sarebbero stati vincolati all’aspettativa di “un numero equilibrato di vittime”. In effetti, la vastità dello sforzo propagandistico ebraico volto a ridefinire e annullare qualsiasi aspettativa di moderazione ha portato il Centro Internazionale di Bruxelles a notare che Israele era impegnato in una “guerra alla proporzionalità”, o qualsiasi suggerimento che ci fossero limiti alla sua azione contro Gaza .

I critici dell’azione di Israele sarebbero stati salvati dalla loro apparente sorpresa con una breve lettura di Goldwin Smith. Dopotutto, quando la disputa è ebraica, e soprattutto quando sono coinvolte istanze morali e storie dell’orrore, è necessaria più cautela del solito.

Notes

[1] G. Smith, “New Light on the Jewish Question ,” The North American Review , Aug., 1891, Vol. 153, No. 417 (Aug., 1891), pp. 129- 143 (133).

6178.- Israele va in tribunale per il crimine di genocidio

The Biden Administration will lie, cheat and go to war to protect its “best friend”

Tradotto da The UNZ Review , di PHILIP GIRALDI • JANUARY 12, 2024

Sabino Paciolla: Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog l’articolo scritto da Philip Giraldi e pubblicato su Ron Paul Institute. Visitate il sito e valutate liberamente le varie opzioni offerte e le eventuali richieste.

Ecco l’articolo nella traduzione da me curata. 

Immagine bambini a Gaza sotto le bombe
Immagine bambini a Gaza sotto le bombe (screenshot)

Un mio amico, che segue da vicino gli sviluppi internazionali, ha recentemente osservato che gli Stati Uniti e Israele si sono “autogratificati” fino a essere percepiti come i due governi più malvagi del pianeta. È un giudizio con cui è difficile dissentire riguardo allo Stato ebraico, se si esaminano le numerose prove che Israele sta sistematicamente commettendo crimini di guerra contro la popolazione civile palestinese, in gran parte disarmata, nel tentativo di realizzare una pulizia etnica o addirittura un genocidio a Gaza e in Cisgiordania. Il processo comprenderebbe l’allontanamento fisico dei palestinesi e/o la loro uccisione in caso di resistenza, come sta avvenendo attualmente. Circa 10.000 bambini palestinesi morti testimoniano la brutalità e la disumanità di questo sforzo, insieme a quasi 400 medici e infermieri presi direttamente di mira e a più di 100 dipendenti delle Nazioni Unite che cercavano di portare aiuti ai civili. Quello che Israele sta facendo è mostruoso, quasi inimmaginabile. Alcuni alti funzionari israeliani hanno confermato l’opinione del loro governo, sostenuta dall’opinione pubblica, che una terra tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo ripulita dagli arabi sarebbe il risultato più desiderabile degli attuali sviluppi.

Gli Stati Uniti sono allo stesso tempo detestati insieme a Israele perché permettono il massacro da parte degli israeliani e contemporaneamente spargono la menzogna che stanno in qualche modo contenendo o addirittura rendendo più “umanitario” l’attacco di Israele. Niente di più lontano dalla verità, visto che di recente la Casa Bianca ha lavorato duramente per far fallire un importante sforzo diplomatico guidato dalle Nazioni Unite, che godeva di un sostegno globale, per arrivare a un cessate il fuoco che avrebbe permesso di introdurre nell’enclave martoriata i soccorsi di emergenza. Invece, Israele continua a bombardare Gaza ogni giorno e a controllare l’ingresso dei rifornimenti, rallentando il processo e vedendo la gente morire di carestia e di malattie, per non parlare dei colpi di artiglieria e delle bombe. E gli Stati Uniti finanziano lo sforzo bellico israeliano e forniscono le munizioni che lo rendono possibile. Ciò rende Washington complice dei crimini di guerra e di quello che la maggior parte del mondo considera un genocidio perpetrato apertamente e con dolo.

Nonostante tutto questo, e le tonnellate di prove di atrocità di ogni tipo, che includono persino l’uccisione di ostaggi ebrei da parte del “fuoco amico”, l’amministrazione di Joe Biden continua a dire che non sono in corso né crimini di guerra né genocidi. Giovedì si sono aperte le udienze della Corte internazionale di giustizia sulle prove presentate dal Sudafrica che dimostrano che il massacro dei palestinesi da parte di Israele equivale a un genocidio come definito dalla “Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio” del 1948, che sia Israele che gli Stati Uniti hanno firmato. Il giorno prima dell’apertura del processo all’Aia, il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, John Kirby, ha dichiarato in via preventiva che le accuse sono “prive di merito, controproducenti e completamente prive di qualsiasi base di fatto”. Il portavoce del Dipartimento di Stato Matt Miller ha aggiunto che gli Stati Uniti “non vedono alcun atto che costituisca un genocidio” nel bombardamento e nella distruzione fisica di Gaza da parte di Israele. Entrambi i commenti sono in contrasto con il fatto che Israele sta chiaramente creando come minimo “condizioni che non permettono la sopravvivenza della popolazione”, che è una definizione di genocidio. Tutto ciò significa che gli Stati Uniti combatteranno duramente per conto del loro figlio prediletto, facendo tutto ciò che è necessario per proteggere il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e la banda di crim…(biiip!)… contro l’umanità di cui si è circondato. Poiché non è interesse degli Stati Uniti diventare una nazione che condona l’uccisione di decine di migliaia di civili indifesi, bisogna chiedersi: “Chi è il tuo padrone Joe (Biden, ndr) e perché i tuoi alti funzionari mentono su ciò che sta accadendo?”.

Come americano, ciò che trovo più offensivo dell’attuale situazione è che il mio Paese è stato trasformato in un criminale di guerra da un gruppo di politici e funzionari controllati da un governo straniero e dalla sua lobby, la cui ignoranza è così profonda che non dovrebbero gestire un chiosco di hot dog. In particolare, è una sofferenza sentire le patetiche grida che escono da una Casa Bianca asservita ogni volta che Israele uccide un altro centinaio di bambini e donne palestinesi rannicchiati tra le rovine di un ospedale, di una chiesa o di una scuola. Ogni strillo a sostegno di una guerra più “umana” o “contenuta” è seguito da un’affermazione di Netanyahu secondo cui il gabinetto di guerra di Israele prenderà le proprie decisioni su chi uccidere e quando. Un alto funzionario, Itamar Ben-Gvir, ha persino avvertito Biden che Israele “non è più una stella sulla bandiera americana”. In effetti, non è che Israele sia ingrato, perché le bombe anti-bunker da 2.000 libbre fornite da Biden possono davvero fare un numero su quei “terroristi”. L’Amministrazione Biden ha ora accelerato due spedizioni di munizioni a Israele per un valore di circa 253 milioni di dollari, basandosi sull’affermazione di un altro furf…(biiip!)… bug…(biiip!)…, Antony Blinken, del Dipartimento di Stato, secondo cui le armi erano urgentemente necessarie alla povera “vittima” Israele per “difendersi, consentendo di aggirare l’autorità esistente del Congresso che richiede l’approvazione legislativa delle vendite di armi”. Non c’è passo così basso nell’assecondare Israele che l’Amministrazione Biden non faccia!

È come se il genocida Joe (Biden, ndr) avesse fretta di portare a termine il lavoro su quei fastidiosi palestinesi, in modo da poter tornare al lavoro serio di ingannare l’elettorato statunitense e indurlo a votare per lui una seconda volta. Ora sta andando in giro per il Paese cercando di vendere il prodotto che sta “salvando la democrazia”, che secondo lui sarebbe stata distrutta da Trump. Dato che Trump sta facendo un apparente tour di vendetta, Biden potrebbe avere più ragione del solito, ma c’è da chiedersi cosa stia succedendo alla democrazia americana con le attuali frontiere aperte e due guerre combattute de facto simultaneamente senza che sia mai stata coinvolta alcuna minaccia reale per gli Stati Uniti e senza il consenso del popolo americano. Al contrario, i sondaggi d’opinione indicano che le guerre sono molto impopolari, mentre Biden si fa strada per sostenere i combattimenti fingendo che gli Stati Uniti non siano direttamente coinvolti. Si può immaginare di mettere volontariamente la sopravvivenza della propria nazione nelle mani di una persona come Joe Biden?

Israele continua a fare il proprio gioco, dato che gli Stati Uniti gli hanno dato copertura politica per bombardare e uccidere come meglio crede. I morti civili causati dai bombardamenti sono stati 247 in una sola notte all’inizio di gennaio, ma il governo Netanyahu ha appena annunciato che passerà da movimenti di truppe su larga scala a Gaza a operazioni più “dirette” che si concentreranno sulle concentrazioni di Hamas, sulla ricerca di ostaggi e sulla distruzione dei tunnel che collegano i punti di resistenza. Il contrammiraglio Daniel Hagari, portavoce principale delle forze armate israeliane, ha descritto come la nuova fase della campagna, che si spera possa essere completata entro la fine del mese, coinvolgerà un minor numero di soldati e di attacchi aerei, sebbene Israele abbia già mentito ripetutamente sulle sue reali intenzioni. Ironicamente, la preoccupazione degli Stati Uniti sembra essere quella che la guerra si stia già espandendo al di fuori di Gaza. La violenza dei coloni armati contro i palestinesi in Cisgiordania è in aumento e gli obiettivi stranieri di Israele includono ora l’uccisione di leader di Hamas e Hezbollah in Libano, missioni di bombardamento regolari contro obiettivi in Siria, che di recente hanno ucciso una dozzina di alti funzionari iraniani vicino all’aeroporto di Damasco, assassinii in Iraq e l’attentato terroristico a Teheran, rivendicato dall’ISIS, che ha causato 103 morti. Sia Israele che gli Stati Uniti sono noti per avere rapporti di cooperazione clandestina con l’ISIS.

E ci sono diverse altre questioni che meritano di essere menzionate. La prima è che un flusso costante di falchi, per lo più repubblicani, si è recato in pellegrinaggio in Israele per esprimere il proprio incondizionato sostegno al genocidio dei palestinesi in corso da parte di Israele. Più di recente, l’ex vicepresidente Mike Pence ha fatto il viaggio ed è stato fotografato vicino al confine israeliano con il Libano mentre scriveva messaggi o forse firmava i proiettili di artiglieria di fabbricazione statunitense che stavano per essere sparati contro Hezbollah. Questa spinta al coinvolgimento diretto degli Stati Uniti in una guerra imminente che dovrebbe e potrebbe essere evitata ha avuto un impatto a Washington, dove buf.. (biiip!).. come il senatore Lindsey Graham hanno invitato l’amministrazione Biden a “… colpire l’Iran. Hanno giacimenti di petrolio all’aperto, hanno il quartier generale della Guardia Rivoluzionaria che si può vedere dallo spazio. Fallo sparire dalla mappa”. Questa pressione ha spinto Biden a promettere a coloro che nel Congresso chiedono la guerra e anche agli israeliani che non permetterà all’Iran di sviluppare un’arma nucleare e che farà tutto il necessario per fermarlo. Poiché l’intelligence statunitense ha dichiarato di ritenere che l’Iran non abbia un programma di armamento di questo tipo, le presunte informazioni che suggeriscono che l’Iran abbia un programma segreto proverranno inevitabilmente da Israele e Netanyahu, quindi indovinate un po’? Israele lavorerà duramente per produrre prove inventate che trascineranno gli Stati Uniti in un primo attacco contro l’Iran, che a sua volta colpirà le basi statunitensi in Siria, Kuwait, Qatar e Iraq. Ricorda fin troppo il complotto neocon-israeliano che trascinò uno sprovveduto George W. Bush e Condi Rice a iniziare la disastrosa guerra in Iraq nel 2003.

E l’altra questione di cui nessuno parla è l’arsenale nucleare “segreto” israeliano, composto da 200-400 armi e dai relativi sistemi di lancio, che potrebbe cambiare le carte in tavola a prescindere da ciò che accadrà a Gaza e in Cisgiordania. Israele userebbe le armi nucleari? Sicuramente sì, soprattutto se la guerra che stanno deliberatamente espandendo dovesse in qualche modo rivoltarsi contro di loro. Quando l’ex Primo Ministro israeliano Ariel Sharon è stato interrogato su come il resto del mondo avrebbe potuto rispondere al fatto che Israele avrebbe usato le sue armi nucleari per spazzare via i suoi vicini arabi, ha risposto: “Dipende da chi lo farà e da quanto velocemente accadrà. Possediamo diverse centinaia di testate atomiche e di razzi e possiamo lanciarli contro obiettivi in tutte le direzioni, forse anche contro Roma. La maggior parte delle capitali europee sono obiettivi per la nostra aviazione… Abbiamo la capacità di trascinare il mondo con noi. E posso assicurarvi che questo accadrà prima che Israele fallisca”.

Il piano del “migliore amico” e del “più stretto alleato” dell’America per bombardare il mondo ha persino un nome: “L’opzione Sansone”, che ricorda il modo in cui il forzuto biblico Sansone fece crollare il tempio dove i Filistei lo stavano deridendo, uccidendone migliaia. Forse Joe Biden dovrebbe riflettere a lungo su come e con chi sta preparando il nostro Paese ad andare in guerra. O forse è già troppo tardi!

Philip Giraldi

6070.- Nel Medio Oriente diviso su Israele, prevale la cautela saudita

Il presidente iraniano “Ibrāhīm Raisi al vertice islamico tenutosi in Arabia Saudita guida la linea oltranzista: «Armare i palestinesi fino alla vittoria». Ma gli arabi sono divisi sulle sanzioni allo Stato ebraico. Gli Accordi di Abramo con Israele hanno lasciato il segno.

Riad, lo show di Raisi al vertice islamico: “Bacio le mani ad Hamas, resiste a Israele”

“Ibrāhīm Raisi al vertice islamico: “Bacio le mani ad Hamas che resiste a Israele”

Da Affari Internazionali, di Eleonora Ardemagni, 13 Novembre 2023

Diviso, dunque impotente. Il super vertice arabo-islamico di Riyadh (Lega Araba e Organizzazione per la Cooperazione Islamica insieme) ha messo a nudo la frammentazione del Medio Oriente di fronte alla dura offensiva militare di Israele nella Striscia di Gaza. Un’offensiva seguita al 7 ottobre, ovvero all’attacco, con modalità terroristiche, di Hamas contro Israele. Dal summit d’emergenza organizzato dall’Arabia Saudita non è emersa alcuna azione concreta, né proposta nuova: soltanto un simbolico invito all’embargo sulla vendita di armi a Israele. Occorre ricordare però che le armi comprate da Israele provengono per tre quarti da Stati Uniti e Germania, dunque non da partner mediorientali. Chiedendo una risoluzione vincolante che blocchi le azioni militari israeliane, i paesi arabi e islamici ributtano poi, per mascherare le loro divisioni, la ´palla della politica` nel campo del Consiglio di Sicurezza Onu, anch’esso più che mai diviso e bloccato.

Di certo, l’offensiva israeliana su Gaza ha offuscato le divergenze arabe su Hamas, in particolare tra le monarchie del Golfo. La notizia, però, sta proprio in ciò che il vertice organizzato dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman Al Saud non ha deciso: nessuna rottura delle relazioni diplomatiche con Tel Aviv (per chi ha normalizzato i rapporti), né embarghi petroliferi. Insomma, i proclami del presidente iraniano Ebrahim Raisi, presente al summit, hanno ottenuto un palco mediatico ma nessun consenso politico sufficiente a orientare la politica delle principali istituzioni arabo-islamiche.

Per MbS, la prova di leadership regionale è riuscita solo a metà. Infatti, la linea prevalsa è quella saudita (oltreché degli Emirati Arabi) della cautela verso Israele, anche se emergono i limiti di una posizione faticosamente intermedia fra il tradizionale appoggio alla causa palestinese e le recenti aperture a Israele. Perché anche i sovrani del Golfo, al di là dei consueti richiami alla creazione di uno stato palestinese, sembrano non avere idea del ‘come fare’.

Il summit di Riyadh

Nel comunicato finale del vertice congiunto fra Lega Araba (22 paesi) e Organizzazione per la Cooperazione Islamica (57 paesi inclusi quelli arabi), svoltosi a Riyadh il 10-11 novembre, i partecipanti hanno chiesto il cessate il fuoco immediato a Gaza e al Consiglio di Sicurezza Onu di approvare una risoluzione “vincolante” per porre fine “all’aggressione israeliana”. Nel testo, in cui manca la condanna dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, si chiede a tutti gli stati di attuare un embargo sulla vendita di armi e munizioni a Israele, nonché alla Corte Penale Internazionale di indagare sui “crimini di guerra commessi da Israele ”.

La bozza precedente, della sola Lega Araba, non aveva raggiunto la maggioranza dei voti: il testo chiedeva, su iniziativa di Iran e Siria, l’interruzione completa delle relazioni diplomatiche con Israele ipotesi avversata da alcuni paesi. Anche per superare lo stallo, la presidenza saudita ha così riunito i due vertici in un’unica sessione.

MbS condanna Israele ma senza strappi

Il principe ereditario saudita ha dichiarato che “le autorità d’occupazione israeliane sono responsabili di crimini contro la popolazione palestinese” e ha invocato, durante il bilaterale con Raisi, “il rilascio degli ostaggi e dei detenuti”. Il ministro degli esteri saudita Faisal bin Farhan ha poi criticato l’inattività dell’Onu, sottolineando la “necessità di ristrutturare la struttura di sicurezza internazionale“.

Eppure, dopo oltre un mese di guerra, il ministro degli investimenti saudita Khalid Al Falih ha affermato che l’ipotesi di normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Israele è “ancora sul tavolo, seppur “dipendente da una risoluzione pacifica della questione palestinese”. Le parole di MbS verso il governo israeliano sono state fin qui dure -non aspre però come quelle di Qatar e Turchia –  ma senza strappi.

Il Bahrein, firmatario degli Accordi di Abramo nel 2020, si è spinto un passo più in là, ma anche qui senza arrivare alla rottura: la Camera bassa (Majlis al Shura, senza potere legislativo) ha approvato il ritiro dell’ambasciatore e la cessazione delle relazioni economiche con Israele. Non sono però arrivate conferme né annunci dal governo di Manama.

Anche i media del Golfo riflettono le divergenze fra governi

Le differenti vedute dei governi arabi del Golfo sulla guerra Hamas-Israele e il contesto regionale si riflettono anche sulla stampa araba. Così, la qatarina Al Jazeera sottolinea che i leader arabi e islamici “non hanno un meccanismo per spingere il cessate il fuoco ”, criticando le “parole vaghe” del comunicato finale, utili solo “per il pubblico interno”. Invece, l’emiratino The National si sofferma sulla bocciatura della bozza  in cui si chiedeva lo stop alle relazioni diplomatiche con Israele.

Il vertice invoca l’embargo alla vendita di armi a Israele: è interessante notare però che i paesi firmatari degli Accordi di Abramo sono stati i destinatari, nel 2022, del 24% dell’export di armi israeliane (era il 7% nel 2021). Secondo i dati diffusi dal ministero della difesa di Tel Aviv, i partner arabi hanno comprato da Israele soprattutto droni, ma anche missili, razzi e sistemi di difesa aerea. Ciò che nel Golfo serve, insomma, a difendersi dagli attacchi delle milizie filo-Teheran.

Il gioco dell’Iran

Il bilaterale di Riyadh fra MbS e Raisi conferma che i sauditi e le monarchie non hanno interesse all’escalation regionale.Razionalmente non ce l’ha neppure l’Iran che sa di non poter vincere una guerra convenzionale. Ma non solo per questo. Infatti, più l’offensiva di Israele a Gaza continua, più gli Accordi di Abramo rischiano di logorarsi: questo sarebbe un punto in favore di Teheran, ostile alle normalizzazioni e a un equilibrio mediorientale di cui gli Stati Uniti sono il regista.

Se però le milizie filo-iraniane aprissero altri fronti di guerra (Libano, Yemen), le monarchie del Golfo percepirebbero una minaccia diretta più forte e ciò accrescerebbe la convergenza con Israele, a discapito così degli obiettivi di Teheran. In fondo, quando si tratta degli attacchi degli houthi dallo Yemen, sauditi, emiratini e israeliani devono già difendersi, di fatto, da missili e droni provenienti dallo stesso nemico. Anche questo fattore ha un peso nella perdurante cautela saudita su Israele.

6007.- Gli Accordi di Abramo dopo l’attacco a Israele


Da Affari Internazionali, di Eleonora Alemagni, 9 Ottobre 2023

Dopo il brutale attacco di Hamas a Israele, lo schema degli Accordi di Abramo, che doveva presto culminare nella normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Israele, entra in crisi. Congelato, indebolito, posticipato da una guerra dai confini ancora imprevedibili. Tuttavia, è ancora presto per escludere che sauditi e israeliani instaurino, nel medio-lungo periodo, rapporti ufficiali: “Ogni giorno ci avviciniamo di più a un accordo” diceva in un’intervista americana, solo due settimane fa, il principe ereditario saudita. Per Mohammed bin Salman, tornare sui propri passi rispetto a Israele sarebbe infatti una sconfitta troppo grande, un segno di debolezza politica interna e regionale, poiché rimetterebbe in discussione la strategia di politica estera del regno.

Le tappe della normalizzazione

Per Riyadh, la normalizzazione con Israele era diventata una priorità, poiché legata alla leadership regionale, nonché alla ridefinizione dell’alleanza con gli USA. Insieme al riconoscimento di Israele, i sauditi stavano infatti negoziando garanzie di sicurezza con Washington nonché il supporto americano al loro programma nucleare per uso civile. E poi c’è la diversificazione economica post-oil di Vision 2030, che necessita di stabilità e interdipendenza regionale. Se Riyadh facesse retromarcia nei confronti di Israele, regalerebbe poi spazi geoeconomici agli Emirati Arabi Uniti, alleati ma competitor; basti pensare –per fare solo un esempio – al progetto del Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa lanciato al G20 di New Delhi e firmato, anche, da sauditi, israeliani ed emiratini.

E poi c’è un fattore ancora più importante, quello della reputazione. Seppur informali, i progressi tra sauditi e israeliani erano sempre più visibili, come la visita del ministro del turismo d’Israele in Arabia appena il 26 settembre scorso. Certo, Mohammed bin Salman ha mostrato più volte di essere un giocatore spregiudicato, a cominciare dal caso Khashoggi; ma nel caso di Israele, un ripiegamento di linea minerebbe la forza della sua leadership, che ne uscirebbe indebolita.

Ecco che allora, più degli Accordi di Abramo già firmati e (forse) futuri, è la tenuta delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran, datata marzo 2023, a rischiare di più con la guerra tra Hamas e Israele. Se il plausibile ruolo dell’Iran nell’organizzazione dell’attacco contro Israele venisse accertato e, soprattutto, se gli Hezbollah libanesi e/o le milizie sciite siriane dovessero unirsi alla guerra di Hamas, la distensione tra Arabia Saudita e Iran sarebbe a rischio. L’unico punto (pubblico) del documento siglato a Pechino dai rivali storici del Golfo è la non ingerenza negli affari reciproci: però, il ruolo offensivo delle milizie filo-iraniane e il loro arsenale missilistico sono –ancor prima del nucleare di Teheran- il vero spauracchio delle monarchie del Golfo, a cominciare dallo Yemen.

Proprio per comprendere in anticipo gli obiettivi che l’Arabia Saudita sta perseguendo in Medio Oriente, occorre osservare la politica estera del Bahrein, paese fortemente legato a Riyadh. Nel 2020, Manama ha firmato gli Accordi di Abramo con Israele e nel settembre 2023 ha siglato con gli Stati Uniti un’intesa che rafforza la cooperazione bilaterale, con al centro sicurezza e difesa. Questa è esattamente la direzione strategica che l’Arabia Saudita stava seguendo al momento dello scoppio della guerra Hamas-Israele.

Il Bahrein non è certo un battitore libero. Tra i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), è quello che più dipende da Riyadh per energia (uno dei due giacimenti petroliferi offshore, Abu Safah, è condiviso con i sauditi), economia (nel 2011 e nel 2018 ha ricevuto aiuti finanziari da Riyadh e dalle monarchie vicine) e difesa (il dispiegamento della Guardia Nazionale saudita fu decisivo per reprimere la rivolta dei bahreiniti, prevalentemente sciiti, nel 2011).

Il piccolo regno, in realtà un arcipelago di trentatré isole collegato all’Arabia Saudita tramite un ponte di circa venti chilometri, persegue obiettivi pressoché sovrapponibili a quelli di Riyadh, condividendo rischi di sicurezza e destino nella regione. Con la differenza che il Bahrein può muoversi, in politica estera, più agilmente del gigante saudita, poiché privo del suo peso religioso, economico e dunque geopolitico.

Ecco il motivo per cui Manama ha potuto giocare d’anticipo –d’intesa con i sauditi- rispetto alla stessa Riyadh. Tra Bahrein e Arabia Saudita, c’è qualche differenza solo a proposito dell’Iran. Ma in questo caso, la monarchia bahreinita di confessione sunnita, da sempre particolarmente guardinga nei confronti di Teheran data la maggioranza sciita della popolazione, ha assecondato fin qui la de-escalation tra sauditi e iraniani poiché Riyadh è il suo primo garante di sicurezza.

L’accordo di sicurezza tra Bahrein e Israele

Dopo gli Accordi di Abramo del 2020, il Bahrein ha siglato un’intesa di sicurezza con Israele nel 2022, fin qui l’unico patto di difesa tra un paese del Golfo e gli israeliani. L’accordo comprende la cooperazione in materia di intelligence, industria della difesa e tra forze armate (military-to-military) , incluse le esercitazioni militari congiunte. Bahrein e Israele condividono una lettura analoga degli equilibri mediorientali, poiché entrambi guardano all’Iran come a una minaccia diretta alla sicurezza. Con l’accordo, Israele trova un alleato di sicurezza che si affaccia nel Golfo, proprio di fronte all’Iran. Invece, la popolazione bahreinita (come i vicini sauditi) rimane diffusamente tiepida rispetto alla normalizzazione con Israele: il turismo verso Tel Aviv e Gerusalemme è ancora assai contenuto, così come l’interscambio commerciale, e non sono mancate proteste contro la normalizzazione, specie da parte sciita.

Il patto con gli USA verso la difesa integrata

Nel settembre 2023 il Bahrein, già sede della V Flotta USA e major non-NATO ally dal 2002, ha poi rafforzato la cooperazione bilaterale con gli Stati Uniti, firmando a Washington il Comprehensive Security Integration and Prosperity Agreement (C-SIPA). L’accordo -non un trattato, che implicherebbe invece l’approvazione del dubbioso Congresso USA- include commercio, tecnologie e investimenti, ma è centrato su sicurezza e difesa. In caso di attacco, le parti si riuniranno per “determinare le ulteriori necessità di difesa, sviluppare e applicare risposte appropriate in tema di difesa e deterrenza”, incluse quelle militari.

Con questo passaggio-chiave, il Bahrein ha ottenuto da Washington quelle garanzie di sicurezza che l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti chiedono da tempo e stanno ora negoziando. Non a caso l’accordo, che vuole sottolineare l’impegno degli USA nel Golfo ma senza stipulare un trattato, contiene un riferimento all’architettura regionale di sicurezza ed è aperto all’adesione di altri Stati. Manama e Washington si impegnano al «rafforzamento dell’integrazione dei sistemi difensivi e delle capacità di deterrenza», soprattutto nel dominio aereo e marittimo.

L’obiettivo è quindi la difesa integrata: lavorare come partner per identificare, contrastare e, se necessario, rispondere alle comuni minacce di sicurezza. Tra gli ambiti da integrare, il testo menziona difesa antimissilistica, intelligence e cybersecurity, forze speciali, comunicazione strategica.

Ferite vecchie e nuove

Il piccolo Bahrein, anch’esso impegnato nella realizzazione della propria “Vision 2030” che lo traghetti oltre la dipendenza dagli idrocarburi, è dunque al centro dei nuovi assetti di sicurezza mediorientali e internazionali. Improbabile che Manama, dopo l’attacco di Hamas a Israele, ristabilisca presto le relazioni diplomatiche con Teheran (in questo caso sarebbe dopo l’Arabia Saudita). Al momento, il Bahrein è infatti l’unico membro del CCG a non avere un ambasciatore nella Repubblica Islamica. Pesano ancora le accuse del governo bahreinita all’Iran di aver fomentato le proteste del 2011, che misero davvero a rischio la stabilità del regno, nonché di sostenere formazioni locali che si ispirano a Hezbollah .

Nonostante l’ombrello di protezione dell’Arabia Saudita, il Bahrein deve fronteggiare un contesto problematico, anche interno. L’accordo con gli Stati Uniti è stato firmato nei giorni in cui circa 800 detenuti bahreiniti, arrestati per le rivolte del 2011, terminavano uno storico sciopero della fame collettivo, durato 36 giorni, organizzato per protestare contro le condizioni di vita in carcere . Talvolta, il Bahrein paga la vicinanza politica a Riyadh. Per esempio, Il 26 settembre scorso, quattro militari bahreiniti sono morti al confine saudita-yemenita (Manama fa parte della Coalizione militare a guida saudita che interviene militarmente in Yemen dal 2015), per l’attacco di un drone attribuito agli houthi yemeniti. Un probabile messaggio degli houthi a Riyadh, scontenti dell’andamento dei colloqui bilaterali, che ha colpito l’alleato più stretto del regno. Letto con gli occhi del dopo 7 ottobre, il primo segnale che qualcosa stava rapidamente cambiando nel quadrante. Un episodio, non inedito, che dà il senso dei rischi –e non solo dei benefici- di condividere il destino dei sauditi in Medio Oriente.

5965.- Israele: Algeria, Tunisia, Qatar… sostengono Hamas. La Francia in trappola

Dopo l’Ucraina, il Mediterraneo è in guerra. Non soltanto Israele. Europa e Stati Uniti hanno sopravvalutato Israele e la guerra in corso sarà senza limiti e senza frontiere.

Da Boulevard Voltaire, Marc Baudriller, direttore aggiunto, 9 ottobre 2023

©shutterstock-2097847231.

Sembrano amici della Francia, grandi amici, cari amici. Algeria, Tunisia, Libano, Qatar, Kuwait, Oman, accompagnati da Siria, Iran e Yemen, hanno immediatamente sostenuto l’attacco di Hamas contro Israele. Un assalto che ha provocato più di 800 vittime alla data del 9 ottobre (alle 16) e 2.500 feriti. Tutti questi paesi hanno espresso molto rapidamente “la loro totale e incondizionata solidarietà al popolo palestinese”. Alcuni, come il Qatar, sembrano cambiare posizione.

Questa non è una sorpresa quando si tratta dell’Algeria. “L’Algeria ha sempre sostenuto la causa palestinese e il movimento palestinese”, ricorda Xavier Driencourt, ex ambasciatore francese in Algeria della BV. Non ha mai riconosciuto Israele, preferendo parlare regolarmente dell’entità sionista”.

La causa unificante palestinese

Questa posizione non ha impedito al presidente francese di compiere una sciropposa visita diplomatica in Algeria nell’agosto 2022, seguita in ottobre da una visita del suo primo ministro Élisabeth Borne, accompagnato per l’occasione da un’imponente delegazione di ministri e imprenditori. La posizione di lunga data dell’Algeria nei confronti di Israele non ha impedito allora i voli lirici e i proclami di amicizia dei macronie tornati dall’Algeria a mani vuote su tutte le questioni, a cominciare da quella dell’OQTF. In Nord Africa, anche la Tunisia non nasconde il suo sostegno ad Hamas durante gli eventi di questo fine settimana. Il Marocco, che ha firmato separatamente gli accordi di Abraham nel dicembre 2020 sotto l’egida degli Stati Uniti di Trump, non segue l’Algeria in questo conflitto. Ma gli accordi statali sono una cosa, l’opinione pubblica è un’altra. E “la causa palestinese è un elemento unificante in tutti questi paesi”, ricorda Xavier Driencourt. Come potrebbero alcuni dei loro connazionali in Francia non essere sensibili a questo?

Tanto più che la Francia dà il primo posto ad alcuni stati più che ambigui riguardo all’islamismo. Sostenendo Hamas, il Qatar ha da decenni un tavolo aperto in Francia. I suoi investimenti scorrono come latte e miele in Francia, con la sincera benedizione di tutti i governi. Stessa posizione, quindi, del Kuwait, dell’Oman o del Libano.

Quanti cittadini francesi partiranno per sostenere Hamas?

La Francia macroniana finora non ha utilizzato l’argomentazione morale contro i sostenitori di Hamas. Forse a causa della nostra politica di immigrazione cosiddetta “generosa”, cioè cieca, sorda e assente? Milioni di musulmani vivono in Francia con, per alcuni di loro, un odio verso gli ebrei vicino a quello che motiva i combattenti di Hamas. Parliamo di volontari francesi partiti per combattere al fianco di Israele, ma quanti lasceranno la Francia per sostenere i palestinesi? I Fratelli Musulmani, vicini ad Hamas, sono potenti nella terra delle cattedrali. Che ci piaccia o no, il conflitto israelo-palestinese tocca anche la nostra patria: Gérald Darmanin, in una conferenza stampa questo lunedì pomeriggio, 9 ottobre, ha denunciato una ventina di atti antisemiti dall’inizio delle ostilità. Per questo motivo “dieci persone sono state arrestate” in diversi dipartimenti, secondo il ministro dell’Interno. E non solo i nativi dell’Aveyron: due persone di nazionalità straniera nel sud della Francia saranno soggette a espulsione immediata. La Francia, che secondo il presidente del concistoro francese Elie Korchia ospita la terza comunità ebraica più grande del mondo, è costretta a mettere in atto misure di protezione immediate. “L’atmosfera è infiammabile”, osserva Elie Korchia. Darmanin promette: “La polizia sarà molto presente nei 400 luoghi di culto, scuole, aziende, asili nido”. La sorveglianza aumenta. Lo Stato ha ricevuto 700 segnalazioni sulla piattaforma Pharos, 44 saranno oggetto di azioni legali.

Divieto dei Fratelli Musulmani

Ancora una volta, come durante le rivolte, come con la tragedia di Lola e molte altre, la Francia si trova ad affrontare le conseguenze della sua follia migratoria. In questo caso importa i conflitti del Medio Oriente, qui alimentati da un’estrema sinistra cieca e clientelare. Éric Zemmour ha fatto il punto della sfida, chiedendo in un messaggio su X “che i paesi che sostengono il jihad smettano di beneficiare dei vantaggi sul suolo francese”. Chiede “la messa al bando dei Fratelli Musulmani da cui Hamas è emerso e lo scioglimento di tutte le associazioni ad essi collegate”, chiedendo infine “l’espulsione dei sostenitori stranieri di Hamas perché sostenitori del terrorismo, così come di tutti i gruppi S stranieri o con doppia nazionalità .

La Francia ha accolto sul suo territorio milioni di cittadini provenienti da paesi ufficialmente e radicalmente ostili a Israele mentre il paese era inebriato dalla lotta anti-Le Pen. Siamo intrappolati.

5582.- Pacificati Arabia e Iran, Yemen e Siria, la Cina si offre di facilitare i colloqui di pace israelo-palestinesi!

 Maurizio Blondet  24 Aprile 2023 

Il 10 marzo il mondo è stato sorpreso da un accordo mediato dalla Cina che ha ripristinato i legami tra Arabia Saudita e Iran.

Come conseguenza, sta tornando la pace in Yemen.

L’intervento militare dell’Arabia Saudita contro gli Houthi sciiti è iniziato nel 2015, su istigazione degli Stati Uniti che – per volontà di Israele – hanno voluto creare un nemico all’Iran. Sostenuto da un ampio supporto militare e di intelligence americano, il conflitto è arrivato a includere 25.000 raid aerei sauditi, secondo un conteggio dello Yemen Data Project. Gli anni di di guerra hanno creato una delle peggiori crisi umanitarie del mondo : hanno provocato la morte di oltre 377.000 yemeniti entro la fine del 2021 sia per la guerra che per la fame, calcolano le Nazioni Unite.

Nell’ultima settimana i sauditi e gli Houthi hanno rilasciato i prigionieri di guerra. Gli Stati Uniti hanno fatto del loro meglio per sabotare l’accordo :

 Gli Stati Uniti hanno risposto con allarme, inviando di corsa i diplomatici nella regione per insistere affinché si continuasse a esercitare pressioni sul governo Houthi nella speranza di minare l’accordo in corso. [Tim Lenderking, l’inviato degli Stati Uniti per lo Yemen,] si è precipitato a Riyadh l’11 aprile, quando è arrivata la notizia di un accordo di pace, per ricordare ai leader sauditi il ​​desiderio degli Stati Uniti di continuare a sostenerli nella guerra.

Un simile riavvicinamento sta avvenendo tra Arabia Saudita e Siria. Il 12 aprile il ministro degli Esteri siriano Faisal Mekdad ha visitato l’Arabia Saudita :

La visita è la prima di un ministro degli Esteri siriano in Arabia Saudita dal 2011, quando iniziò la guerra in Siria, scatenata da Obama che ha armato e addestrato i “ribelli democratici” (Daesh, ISIS) che, ’Arabia saudita.

Negli ultimi mesi, c’è stato un crescente impegno con al-Assad da parte dei paesi che (su istigazione USA), lo hanno isolato e trattato da paria dall’inizio della guerra siriana.

Al-Assad ha visitato gli Emirati Arabi Uniti e l’Oman quest’anno e il mese scorso l’Arabia Saudita ha dichiarato di aver avviato colloqui con Damasco sulla ripresa dei servizi consolari. Non solo: l’Arabia Saudita si è fatta promotrice di una riunione dei ministri degli Esteri regionali per discutere del ritorno della Siria nella Lega Araba, anche se il rientro nella Lega Araba non avverrà per diverso tempo poiché il Qatar, che ha sostenuto i Fratelli Musulmani ribelli contro la Siria, continua ad esserle ostile.

E adesso, ci credereste, Pechino si è offerto di facilitare i colloqui di pace israelo-palestinesi :

Il ministro degli Esteri cinese Qin Gang. Qin ha detto ai suoi omologhi israeliani e palestinesi che il suo Paese è pronto ad aiutare a facilitare i colloqui di pace tra le due parti, nel suo ultimo sforzo di mediazione nella regione, in telefonate separate ai due funzionari lunedì 17 aprile 2023. (Jade Gao/Pool Photo via AP, File)

Lunedì, in telefonate separate ai due funzionari, [il ministro degli Esteri cinese] Qin Gang ha espresso la preoccupazione della Cina per l’intensificarsi delle tensioni tra Israele e palestinesi e il suo sostegno alla ripresa dei colloqui di pace, ha affermato il ministero degli Esteri in dichiarazioni rilasciate lunedì.

Qin ha sottolineato nei suoi colloqui con il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen che l’Arabia Saudita e l’Iran hanno dato un buon esempio di superamento delle differenze attraverso il dialogo, afferma una dichiarazione su quella telefonata.

Ha detto a Cohen che Pechino incoraggia Israele e i palestinesi a mostrare coraggio politico e ad adottare misure per riprendere i colloqui di pace. “La Cina è disposta a fornire convenienza per questo”, avrebbe detto.

Il successo è tutt’altro che garantito… Israele può vivere senza uccidere? Ma comunque vada, in pochi mesi la Cina è riuscita a stagliarsi come potenza pacificatrice nell’area dove Washington si è più distinto come forza del Male e della guerra perpetua nel (supposto) interesse di Sion. Sta sloggiando gli Stati Uniti dal ruolo di arbitro malvagio e sleale nel Medio Oriente. “Può farlo perché è percepito come neutrale e non mostra alcun interesse per qualsiasi aggressione. È l’opposto di come gli Stati Uniti sono percepiti nella regione”: Aspettiamo di vedere quale sabotaggio istigazione Washington e Israele escogiteranno.