Archivio mensile:dicembre 2018

2172.- La lotta all’immigrazione incontrollata, la firma dei Global compact for Refugees e Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration, il presidente Conte, il Quirinale e la Farnesina.

_lam0020Anche la prima Conferenza Italia-Africa della Farnesina fu aperta dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e vi presenziarono Gentiloni e anche Renzi, come Conte quest’anno e, quindi, i rappresentanti dei governi africani. Si comprende come Giuseppe Conte si sia dichiarato apertamente favorevole al Global Compact for Migratione e come abbia, sicuramente, autorizzato la sottoscrizione del Global Compact for Refugees, ma sbalordisce la dichiarazione che si sia trattato di iniziative italiane, portate avanti dalla Farnesina e, certamente, in contrasto con le affermazioni e la misconoscenza del ministro degli Interni Matteo Salvini.

 

Riprendendo una lettura di “Osservatorio Strategico” su Sahel e Africa Sub-sahariana sono giunto alla Conferenza Italia-Africa, seconda edizione, che, il 25 ottobre 2018, ha riunito a Roma, alla Farnesina,  54 delegazioni di Paesi africani, i vertici dell’Unione africana e alti rappresentanti di 13 Organizzazioni Internazionali del Sistema delle Nazioni Unite e Regionali, per un totale di 350 Delegati. Un’iniziativa importante, dunque e una lettura che fa luce sulle contraddizioni del governo verso l’elettorato leghista.

Particolarmente importante questa affermazione: “Una migliore gestione della questione migratoria potrebbe prendere spunto dal Migration Compact, la proposta italiana che parte dall’assunto che vada creato un grande patto euro-africano, che coniughi insieme sviluppo e migrazione attraverso dunque un’indispensabile responsabilità comune euro-africana.” Apprendo, dunque, che si è trattato di una proposta italiana e non di Angela Merkel, come sembrava.

Ripropongo, perciò, interamente, con poche abbreviazioni, il suo resoconto.

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L’iniziativa Italia-Africa, per converso, pone in chiara luce le difficoltà che il ministro dell’Interno Matteo Salvini deve affrontare per ridurre il fenomeno immigratorio a dimensioni tollerabili e, contemporaneamente, valorizzarne le possibilità nel campo della cooperazione fra i popoli dei due continenti. Ancora, l’iniziativa Italia-Africa si propone di dare adeguato risalto alla presenza e al ruolo della comunità africana residente in Italia, e un segmento vi viene dedicato alle rimesse della diaspora, onde dimezzare i costi di trasferimenti di denaro all’estero. Un altro modo, per dare seguito al piano italiano, praticamente e ingiustamente tenuto all’oscuro del popolo italiano, è accrescere il numero e la qualità delle missioni di sistema in alcuni Stati africani, come nel caso di quella del febbraio 2017 in Camerun. Va pure sottolineato il ruolo che potrebbero svolgere i centri studi e i think-tank italiani con i loro omologhi africani in cooperazione.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha aperto i lavori, seguito dagli interventi nella sessione inaugurale del Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Enzo Moavero Milanesi e del Vice Presidente della Commissione dell’Unione Africana, Kwesi Quartey.

Nel corso della sessione plenaria, presieduta dal Vice Ministro agli Affari Esteri e alla Cooperazione Internazionale, Emanuela Del Re, e dei successivi panel tematici, intervenuti membri di Governo dei Paesi africani, nonché i rappresentanti del mondo economico, imprenditoriale, accademico e del terzo settore.

I lavori sono stati chiusi dal Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte. Un grande evento che, nelle parole del Ministro  Moavero, “rappresenta il principale momento di dialogo strutturato tra l’Italia e gli Stati del continente africano in impetuosa crescita demografica ed economica (5%). Un’occasione di rilievo peculiare, che sottolinea l’impegno italiano e l’eccellente risposta ricevuta. Da parte nostra è forte la determinazione ad affrontare, in un rapporto di genuina collaborazione e fruttuoso apporto reciproco, i temi e le opportunità che la tradizionale, antica amicizia, l’evidente geopolitica e la storia impongono. La giornata romana costituisce un significativo indicatore del comune desiderio, africano e italiano, di muoversi da attivi protagonisti sui dinamici scenari contemporanei di un mondo globalizzato e sempre più competitivo”.

A testimonianza della priorità che l’Italia attribuisce alle relazioni con l’Africa, i lavori alla Farnesina sono stati aperti dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e conclusi dal Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.

Partendo dalla consapevolezza che i destini dell’Africa e dell’Europa sono, da sempre, fra loro strettamente connessi, l’obiettivo della Conferenza è di individuare soluzioni condivise alle principali sfide in materia di pace, libertà, democrazia e sicurezza; nonché di concordare percorsi di crescita comuni, soprattutto attraverso il coinvolgimento di qualificati esponenti italiani, provenienti dal mondo dell’economia e delle aziende, dell’accademia e delle organizzazioni non governative.

La Conferenza rivolge un’attenzione particolare all’estremamente positiva evoluzione in atto nel cosiddetto Corno d’Africa, a seguito dell’accordo di pace tra Etiopia ed Eritrea, rispetto al quale l’Italia intende assicurare il massimo sostegno, come testimoniato dalla riunione di lavoro fra il Ministro Moavero e i Ministri degli Esteri etiope ed eritreo, organizzata, a inizio ottobre, a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e seguita dalla recentissima visita del Presidente del Consiglio.

Sullo sfondo più generale, colpisce lo straordinario fermento che sta vivendo il continente africano: una vera festa della democrazia tra la fine del 2018 ed il 2019, con in programma ben 31 consultazioni elettorali. Una realtà inimmaginabile solo un decennio fa. Di certo, questi elementi confortanti continuano – purtroppo – a essere affiancati da situazioni di conflitti e crisi economica che si stanno cercando di superare. Sia rispetto agli aspetti positivi, sia a quelli negativi, il Governo Italiano conferma il proprio impegno al fianco degli amici dell’Africa. Un impegno concreto, basti ricordare: la partecipazione dell’Italia alle principali missioni di pace in loco (ben 13) sotto l’egida dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite; l’intensa attività a favore del rafforzamento delle istituzioni locali; il contrasto alle sfide poste dall’estremismo violento e dai traffici illeciti; la specifica azione volta a facilitare la stabilizzazione in Libia e il processo politico in atto sulla base del piano ONU.

Pace, libertà, sicurezza ed equo sviluppo socio-economico sono essenziali diritti primordiali di tutte le persone e di tutti i popoli. L’Europa che attraverso un pluridecennale percorso di integrazione ha saputo porre fine a secoli di guerre fratricide, dev’essere al fianco dell’Africa nella sua attuale fase storica di sviluppo. I due continenti hanno sistemi economici palesemente complementari, con tante opportunità ancora da mettere a frutto; non dimentichiamoci che l’Africa cresce con tassi medi annuali elevati, intorno al 5%.

La Conferenza della Farnesina, dunque, ha analizzato con attenzione le prospettive di collaborazione economica e di investimento (l’Italia è già fra i principali investitori in Africa); inoltre, il nostro Paese e il nostro sistema universitario e di ricerca sono interessati e disponibili a individuare e approfondire utili fori di cooperazione nel campo formativo e accademico con corrispondenti istituti degli Stati africani. Non può, infine, mancare il focus sull’interscambio in ambito culturale, considerata la vocazione e la singolare esperienza italiana al riguardo e l’immensa, affascinante varietà delle millenarie culture africane, unita alla loro vivacità dei nostri giorni. Dall’insieme di queste notevoli possibilità, siamo fiduciosi che nascano soprattutto positivi stimoli per le più giovani generazioni africane e italiane, con uno sguardo lungimirante. Un simile approccio dovrebbe, peraltro, essere di giovamento nella doverosa ricerca di idonee soluzioni, vocate a un miglior governo dei flussi migratori e alla lotta contro ogni tipo di traffico illecito.

La Conferenza Italia-Africa della Farnesina, ha ricordato ancora il Ministro Moavero, “rappresenta un momento prezioso e unico per conoscersi meglio, parlarsi, ascoltare il rispettivo punto di vista e le reali esigenze di ciascuno, sui temi che ci legano e che potranno collegarci in futuro. È proprio in quest’ottica, che l’Italia considera anche indispensabile che l’Unione Europea garantisca un più intenso ed efficace impiego di risorse finanziarie nel contesto del prossimo Quadro Pluriennale del bilancio UE. Per parte italiana siamo assolutamente motivati ad agire a tal fine, nel corso del negoziato a Bruxelles, fra l’altro, sostenendo l’introduzione di nuove, genuine e autonome fonti di entrate per il bilancio dell’Unione”.

2171.-Magaldi: che delusione, l’esperienza gialloverde sta fallendo

Oggi una sondaggista autorevole ha dato il governo in discesa al 43%. Sarà l’effetto Bruxelles, ma tre settimane fa, Gioele Magaldi scriveva:

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«Diciamocelo: l’esperienza gialloverde sta fallendo. Lega e 5 Stelle rischiano grosso, di fronte alla cocente delusione degli elettori che avevano creduto nella loro scommessa». Parola di Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014), che svela la natura supermassonica del vero potere, che in Europa si nasconde dietro la tecnocrazia di Bruxelles e le cancellerie che contano, Berlino e Parigi in primis. Spettacolo penoso, la retromarcia tattica del governo Conte di fronte alle minacce dell’euro-establishment, «come se il problema fosse davvero il deficit al 2,4%», che ora peraltro il governo si sta preparando a “sacrificare”. Linea perdente, dice Magaldi: guai, a cedere al ricatto. Perché siamo di fronte a una colossale farsa: tutti sanno benissimo che Bruxelles non ha affatto a cuore il benessere del sistema-Italia. L’unico vero obiettivo dei nostri censori – Moscovici e Juncker, Macron e Merkel – è stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di rovesciare il paradigma neoliberista dell’austerity, propagandato e difeso “militarmente” a colpi di spread. Sul piano contabile non può far paura a nessuno, l’esiguo incremento del deficit inizialmente previsto dal Def per il 2019. Lo sanno Di Maio e Salvini, ma lo sanno anche i signori di Bruxelles. A inquietare gli oligarchi, semmai, è la bandiera della ribellione, sventolata dall’Italia per qualche settimana.

L’orgogliosa rivendicazione post-keynesiana del governo Conte, sottolineata dal richiamo al New Deal rooseveltiano da parte di Paolo Savona, poteva innescare un benefico contagio europeo, basato sulla richiesta di sovranità democratica. Se invece ora l’Italia fa retromarcia e dice “abbiamo scherzato”, per Lega e 5 Stelle può essere l’inizio della fine, sostiene Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Una riflessione a tutto campo, quella del presidente del metapartitico Movimento Roosevelt, nato per rigenerare la politica italiana scuotendola dal torpore conformistico dell’equivoca Seconda Repubblica, durante la quale la finta alternanza dei partiti al potere – centrodestra e centrosinistra – ha costretto l’Italia a imboccare la via del declino, tra delocalizzazioni e privatizzazioni improntate alla “teologia” neoliberale che demonizza la spesa pubblica al solo scopo di trasferire potere e ricchezza ai grandi oligopoli privati. Magaldi è stato uno sponsor del governo Conte, che ha lungamente supportato e incoraggiato – a patto però che rompesse l’incantesimo che vieta all’Italia di riappropriarsi della sua sovranità, a cominciare da quella monetaria.

L’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, invoca il ricorso a una moneta parallela. Proprio la gestione dell’euro – monopolizzata dal cartello finanziario che detiene il controllo della Bce – è uno dei punti strategici su cui farà leva il “partito che serve all’Italia”, cantiere politico roosveltiano che il prossimo 22 dicembre a Roma comincerà a costruire un’agenda concreta. Le delusione di fronte al cedimento all’Ue non impedisce a Magaldi di continuare a considerare Lega e 5 Stelle gli unici interlocutori potenzialmente credibili: certo, se si alza bandiera bianca sul deficit 2019, la partita è destinata a slittare al 2020, dopo le europee, traguardo al quale il governo intende presentarsi senza avere sulle spalle il peso dell’eventuale procedura d’infrazione per eccesso di debito. Ma così, obietta Magaldi, non si può sperare di andare lontano. Per un motivo essenziale: è perdente, sempre e comunque, piegarsi a un ricatto. E quello degli oligarchi Ue è un ricatto ipocrita, travestito da economicismo: il rigore viene spacciato per strada maestra, quando gli stessi ideologi dell’austerity sanno perfettamente che il taglio della spesa produce solo recessione e disoccupazione.

La stessa manovra gialloverde non è certo impeccabile, annota Magaldi: non c’è ancora la più pallida idea di come applicare l’eventuale reddito di cittadinanza sbandierato da Di Maio, mentre – sul fronte leghista – siamo lontani anni luce dal decisivo sgravio fiscale promesso alle elezioni. «E’ di quello che hanno bisogno come il pane gli ambienti imprenditoriali che avevano sostenuto Salvini: cosa importa, alle aziende, del “decreto sicurezza” appena approvato? Oltretutto, quel decreto – davvero pessimo – potrebbe anche configurare pesanti e inaccettabili limitazioni alle libertà personali». Neppure nella versione con il deficit al 2,4%, insiste Magaldi, la manovra mostrava sufficienti investimenti nei settori in grado di rilanciare l’economia: un impegno troppo esiguo, non certo adeguato a garantire quel “moltiplicatore economico” di cui il paese ha bisogno. Premessa: «Aumentare il deficit è doveroso, per rimettere in moto l’economia, purché però si investa nei settori che garantiscano la crescita dell’occupazione». Si corre il rischio di fare «la stessa figura di Tsipras, che ha tradito i greci per piegarsi all’Ue». Altro paragone increscioso, quello con Matteo Renzi: «Era andato a Bruxelles facendo il fanfarone, annunciando svolte epocali per uscire dall’austerity di Monti e Letta, ma poi ha ceduto su tutta la linea».

Tsipras e Renzi sappiamo che fine hanno fatto. A Salvini e Di Maio, un analogo scivolone  costerebbe l’osso del collo. Anche perché ormai l’opinione pubblica italiana ha preso le misure, ai padreterni di Bruxelles: oggi, a Mario Monti ed Elsa Fornero l’italiano medio non stenderebbe più il tappeto rosso. S’è messo in moto qualcosa di profondo, nel paese, anche grazie alla politica pre-elettorale della Lega e dei 5 Stelle, carica di aspettative. Ora, come dire, sarebbe folle rimangiarsi la parola data. Guai ad arretrare, di fronte alle minacce dei burattini di quella che resta una cupola finanziaria supermassonica, la stessa che ha insediato all’Eliseo il micro-oligarca Macron, contro il quale oggi la Francia stessa si sta sonoramente ribellando. E l’Italia che fa, resta a guardare? Si lascia intimidire da uno spaventapasseri come Juncker dopo aver promesso cataclismi epocali? Grave errore, sottolinea Magaldi, aver usato toni irridenti con l’Ue, se poi ci si prepara a genuflettersi a Bruexelles come Renzi e Gentiloni. Meglio un dialogo franco e leale, giusto per dire: cari amici, che ne direste di farla davvero, l’Europa?

Sottinteso: questo obbrobrio di Ue va cestinato, perché ha disastrato l’economia del continente seminando crisi su crisi. Da dove ripartire? Ovvio, dall’inizio: la parola chiave è antica, si chiama “democrazia”. E in questa pseudo-Europa, purtroppo, oggi è sinonimo di “rivoluzione”. Magaldi preferisce il termine “radicalismo”, ma il senso è quello: radere al suolo l’impalcatura (marcia dalle fondamenta) dell’attuale Disunione Europea, dove la Germania – come segnala l’imprenditore Fabio Zoffi – bacchetta l’Italia per il suo 130% di debito, mentre quello di Berlino (occulto) veleggia verso il 300% del Pil. Negli ultimi anni, a scuotere l’opinione pubblica hanno provveduto celebri “whistleblower” come Julian Assange (Wikileaks) e Edward Snowden (la disinvoltura della Nsa nella gestione dei Big Data, in termini di spionaggio di massa). Dal canto suo Magaldi – altro “insider”, se vogliamo, ma proveniente dal mondo delle Ur-Lodges – ha scoperchiato il vaso di Pandora delle quasi onnipotenti superlogge sovranazionali. Obiettivo: consentire al pubblico di aprire gli occhi, imparando a riconoscere la vera identità dei tanti oligarchi che si spacciano per guide illuminate.

L’Ue? Un loro prodotto. Movente: confiscare diritti, sovranità e democrazia, per organizzare il più grande trasferimento di ricchezza della storia, dal basso verso l’alto. Narrazione mainstream: è giusto tagliare lo Stato. Risultato scontato: sofferenze sociali. Parla da solo il caso italiano: 25 anni di decandenza ininterrotta, presentata come fisiologica. Una farsa colossale, abilmente inscenata da partiti “comprati” e disinformatori di corte. Poi è arrivato l’inciampo elettorale dei gialloverdi. E ora che fanno, tornano a casa con la coda tra le gambe? Sappiano, ribadisce Magadi, che non possono farlo: l’Italia non li perdonerebbe. Perché la vera sfida è solo all’inizio. E tutti i falsi dogmi del dominio – rigore, austerity, pareggio di bilancio – saranno spazzati via, il giorno che l’Europa nascerà davvero, con la sua Costituzione democratica e il suo governo federale, finalmente eletto dagli europarlamentari votati dai cittadini europei. Utopia? Non per Gioele Magaldi, intenzionato a incalzare «gli amici gialloverdi» senza fare sconti a nessuno, avendo chiaro «quello che serve davvero all’Italia». Non la diplomazia, con Bruxelles, ma il confronto (durissimo) che in tanti avevano sperato potesse essere inaugrato proprio da Salvini e Di Maio.

«Diciamocelo: l’esperienza gialloverde sta fallendo. Lega e 5 Stelle rischiano grosso, di fronte alla cocente delusione degli elettori che avevano creduto nella loro scommessa». Parola di Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014), che svela la natura supermassonica del vero potere, che in Europa si nasconde dietro la tecnocrazia di Bruxelles e le cancellerie che contano, Berlino e Parigi in primis. Spettacolo penoso, la retromarcia tattica del governo Conte di fronte alle minacce dell’euro-establishment, «come se il problema fosse davvero il deficit al 2,4%», che ora peraltro il governo si sta preparando a “sacrificare”. Linea perdente, dice Magaldi: guai, a cedere al ricatto. Perché siamo di fronte a una colossale farsa: tutti sanno benissimo che Bruxelles non ha affatto a cuore il benessere del sistema-Italia. L’unico vero obiettivo dei nostri censori – Moscovici e Juncker, Macron e Merkel – è stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di rovesciare il paradigma neoliberista dell’austerity, propagandato e difeso “militarmente” a colpi di spread. Sul piano contabile non può far paura a nessuno, l’esiguo incremento del deficit inizialmente previsto dal Def per il 2019. Lo sanno Di Maio e Salvini, ma lo sanno anche i signori di Bruxelles. A inquietare gli oligarchi, semmai, è la bandiera della ribellione, sventolata dall’Italia per qualche settimana.

L’orgogliosa rivendicazione post-keynesiana del governo Conte, sottolineata dal richiamo al New Deal rooseveltiano da parte di Paolo Savona, poteva innescare un benefico contagio europeo, basato sulla richiesta di sovranità democratica. Se invece ora

l’Italia fa retromarcia e dice “abbiamo scherzato”, per Lega e 5 Stelle può essere l’inizio della fine, sostiene Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Una riflessione a tutto campo, quella del presidente del metapartitico Movimento Roosevelt, nato per rigenerare la politica italiana scuotendola dal torpore conformistico dell’equivoca Seconda Repubblica, durante la quale la finta alternanza dei partiti al potere – centrodestra e centrosinistra – ha costretto l’Italia a imboccare la via del declino, tra delocalizzazioni e privatizzazioni improntate alla “teologia” neoliberale che demonizza la spesa pubblica al solo scopo di trasferire potere e ricchezza ai grandi oligopoli privati. Magaldi è stato uno sponsor del governo Conte, che ha lungamente supportato e incoraggiato – a patto però che rompesse l’incantesimo che vieta all’Italia di riappropriarsi della sua sovranità, a cominciare da quella monetaria.

L’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, invoca il ricorso a una moneta parallela. Proprio la gestione dell’euro – monopolizzata dal cartello finanziario che detiene il controllo della Bce – è uno dei punti strategici su cui farà leva il “partito che serve all’Italia”, cantiere politico roosveltiano che il prossimo 22 dicembre a Roma comincerà a costruire un’agenda concreta. Le delusione di fronte al cedimento all’Ue non impedisce a Magaldi di continuare a considerare Lega e 5 Stelle gli unici interlocutori potenzialmente credibili: certo, se si alza bandiera bianca sul deficit 2019, la partita è destinata a slittare al 2020, dopo le europee, traguardo al quale il governo intende presentarsi senza avere sulle spalle il peso dell’eventuale procedura d’infrazione per eccesso di debito. Ma così, obietta Magaldi, non si può sperare di andare lontano. Per un motivo essenziale: è perdente, sempre e comunque, piegarsi a un ricatto. E quello degli oligarchi Ue è un ricatto ipocrita,

travestito da economicismo: il rigore viene spacciato per strada maestra, quando gli stessi ideologi dell’austerity sanno perfettamente che il taglio della spesa produce solo recessione e disoccupazione.

La stessa manovra gialloverde non è certo impeccabile, annota Magaldi: non c’è ancora la più pallida idea di come applicare l’eventuale reddito di cittadinanza sbandierato da Di Maio, mentre – sul fronte leghista – siamo lontani anni luce dal decisivo sgravio fiscale promesso alle elezioni. «E’ di quello che hanno bisogno come il pane gli ambienti imprenditoriali che avevano sostenuto Salvini: cosa importa, alle aziende, del “decreto sicurezza” appena approvato? Oltretutto, quel decreto – davvero pessimo – potrebbe anche configurare pesanti e inaccettabili limitazioni alle libertà personali». Neppure nella versione con il deficit al 2,4%, insiste Magaldi, la manovra mostrava sufficienti investimenti nei settori in grado di rilanciare l’economia: un impegno troppo esiguo, non certo adeguato a garantire quel “moltiplicatore economico” di cui il paese ha bisogno. Premessa: «Aumentare il deficit è doveroso, per rimettere in moto l’economia, purché però si investa nei settori che garantiscano la crescita dell’occupazione». Si corre il rischio di fare «la stessa figura di Tsipras, che ha tradito i greci per piegarsi all’Ue». Altro paragone increscioso, quello con Matteo Renzi: «Era andato a Bruxelles facendo il fanfarone, annunciando svolte epocali per uscire dall’austerity di Monti e Letta, ma poi ha ceduto su tutta la linea».

Tsipras e Renzi sappiamo che fine hanno fatto. A Salvini e Di Maio, un analogo scivolone  costerebbe l’osso del collo. Anche perché ormai l’opinione pubblica italiana ha preso le misure, ai padreterni di Bruxelles: oggi, a Mario Monti ed Elsa Fornero l’italiano medio non stenderebbe più il tappeto rosso. S’è messo in moto qualcosa di profondo, nel paese, anche grazie alla politica pre-elettorale della Lega e dei 5 Stelle, carica di aspettative. Ora, come dire, sarebbe folle rimangiarsi la parola data. Guai ad arretrare, di fronte alle minacce dei burattini di quella che resta una cupola finanziaria supermassonica, la stessa che ha insediato all’Eliseo il micro-oligarca Macron, contro il quale oggi la Francia stessa si sta sonoramente ribellando. E l’Italia che fa, resta a guardare? Si lascia intimidire da uno spaventapasseri come Juncker dopo aver promesso cataclismi epocali?

Grave errore, sottolinea Magaldi, aver usato toni irridenti con l’Ue, se poi ci si prepara a genuflettersi a Bruxelles come Renzi e Gentiloni. Meglio un dialogo franco e leale, giusto per dire: cari amici, che ne direste di farla davvero, l’Europa?

Sottinteso: questo obbrobrio di Ue va cestinato, perché ha disastrato l’economia del continente seminando crisi su crisi. Da dove ripartire? Ovvio, dall’inizio: la parola chiave è antica, si chiama “democrazia”. E in questa pseudo-Europa, purtroppo, oggi è sinonimo di “rivoluzione”. Magaldi preferisce il termine “radicalismo”, ma il senso è quello: radere al suolo l’impalcatura (marcia dalle fondamenta) dell’attuale Disunione Europea, dove la Germania – come segnala l’imprenditore Fabio Zoffi – bacchetta l’Italia per il suo 130% di debito, mentre quello di Berlino (occulto) veleggia verso il 300% del Pil. Negli ultimi anni, a scuotere l’opinione pubblica hanno provveduto celebri “whistleblower” come Julian Assange (Wikileaks) e Edward Snowden (la disinvoltura della Nsa nella gestione dei Big Data, in termini di spionaggio di massa). Dal canto suo Magaldi – altro “insider”, se vogliamo, ma proveniente dal mondo delle Ur-

Lodges – ha scoperchiato il vaso di Pandora delle quasi onnipotenti superlogge sovranazionali. Obiettivo: consentire al pubblico di aprire gli occhi, imparando a riconoscere la vera identità dei tanti oligarchi che si spacciano per guide illuminate.

L’Ue? Un loro prodotto. Movente: confiscare diritti, sovranità e democrazia, per organizzare il più grande trasferimento di ricchezza della storia, dal basso verso l’alto. Narrazione mainstream: è giusto tagliare lo Stato. Risultato scontato: sofferenze sociali. Parla da solo il caso italiano: 25 anni di decadenza ininterrotta, presentata come fisiologica. Una farsa colossale, abilmente inscenata da partiti “comprati” e disinformatori di corte. Poi è arrivato l’inciampo elettorale dei gialloverdi. E ora che fanno, tornano a casa con la coda tra le gambe? Sappiano, ribadisce Magadi, che non possono farlo: l’Italia non li perdonerebbe. Perché la vera sfida è solo all’inizio. E tutti i falsi dogmi del dominio – rigore, austerity, pareggio di bilancio – saranno spazzati via, il giorno che l’Europa nascerà davvero, con la sua Costituzione democratica e il suo governo federale, finalmente eletto dagli europarlamentari votati dai cittadini europei. Utopia? Non per Gioele Magaldi, intenzionato a incalzare «gli amici gialloverdi» senza fare sconti a nessuno, avendo chiaro «quello che serve davvero all’Italia». Non la diplomazia, con Bruxelles, ma il confronto (durissimo) che in tanti avevano sperato potesse essere inaugurato proprio da Salvini e Di Maio.

Gioele-Magaldi7  Gioele Magaldi

 

2170.-Magaldi: senza paura, ecco il “partito che serve all’Italia”

 

Toh, se n’è accorta anche la televisione: il “partito che serve all’Italia” è entrato nel piccolo schermo grazie a “Coffee Break”, il talkshow mattutino condotto su La7 da Andrea Pancani. Ottima notizia, prende nota Gioele Magaldi, finora tenuto a debita distanza dalle dirette televisive. “Colpa” delle rivelazioni contenute nel suo bestseller, “Massoni”, che mette in piazza l’identità supermassonica di tanti player del massimo potere. Fatto sta che la prima riunione operativa verso il futuro partito, il 22 dicembre, è salita agli onori della cronaca nonostante fosse un incontro informale, neppure annunciato da comunicati stampa. Oltre a Magaldi, all’assise romana c’era Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, nonché Claudio Quaranta, da mesi al lavoro per far convergere su una piattaforma unitaria le tante voci dell’altra Italia, quella che non riesce a vedersi rappresentata politicamente. Con loro c’era l’economista Antonio Maria Rinaldi di “Scenari Economici”, reduce da una visita al ministro Paolo Savona. E c’era Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” e ormai volto televisivo, spesso chiamata – come Rinaldi – a fare da contraltare al pensiero unico neoliberista, quello del rigore santificato da Bruxelles come una sorta di teologia dogmatica imposta da invisibili divinità tecnocratiche. Ma nel caso la nuova formazione politica dovesse davvero sorgere, nei prossimi mesi, l’Italia sarebbe pronta a ricevere l’offerta del “partito che serve all’Italia”?

Tutto può succedere, confida Magaldi a Fabio Frabetti di “Border Nights”, in una diretta web-streaming prenatalizia su YouTube. Esponente del circuito massonico progressista internazionale, il presidente del Movimento Roosevelt ha sostenuto a lungo il governo gialloverde: per mesi è stato l’unico, in Europa, a tentare di rompere l’incantesimo dell’austerity. Poi, la prima delusione: troppo timido, il 2,4% di deficit inizialmente previsto per il Def 2019. E ora, la Caporetto del governo Conte: se già il 2,4 era troppo poco per rianimare l’economia, figurarsi il 2,04 cui l’Ue ha costretto l’esecutivo italiano, che alla fine si è piegato al diktat. Sta tutta qui, probabilmente, la tempistica del rilancio del “partito che serve all’Italia”: davanti ai signori di Bruxelles non si può piegare la testa in questo modo. Anche perché – come Magaldi si incarica spesso di spiegare – dietro alla “disciplina di bilancio” non c’è un disegno orientato al benessere europeo, ma solo il piano delle oligarchie finanziarie supermassoniche di segno reazionario, che manovrano i burattini della Commissione Europea. Il vero senso della “punizione” inflitta ai gialloverdi? Dimostrare, davanti a tutti, che nell’Ue non ci si può ribellare all’autocrazia “aliena” di una nuova “aristocrazia del denaro” ben poco nobile, quella degli eurocrati non-eletti, longa manus del potere economico che ha sottomesso la politica.

E’ il momento di essere eretici: non sta scritto da nessun parte che il deficit affossi l’economia. Al contrario: di contrazione della spesa si muore. Meno disavanzo vuol dire più tasse, meno consumi, meno lavoro. Come spiega il post-keynesiano Galloni, un investimento oculato in termini di spesa pubblica può “rendere” tre o quattro volte tanto, a partire dall’anno seguente, a patto però che non sia esiguo. Tradotto: già nella prossima primavera l’Italia avrebbe visto effetti benefici, sull’economia, se avesse avuto il coraggio di alzare il deficit almeno al 4%. Al governo Conte, ora che si è sostanzialmente arreso, vengono avanzate «critiche pretestuose e strumentali da parte delle pseudo-opposizioni», dalla Bonino al Pd, fino a Forza Italia. «Il governo Conte suscita simpatia – ammette Magaldi – se addirittura Monti lo rimprovera di essersi fatto scrivere la legge di bilancio dalla Commissione Europea». Aggiunge: «Con malafede e con ipocrisia plateale si contesta al governo Conte quello che hanno fatto tutti i governi della Seconda Repubblica, e in particolare quelli che si sono succeduti da Monti in poi». Governi che, naturalmente, «non facevano la manfrina che ha fatto il governo gialloverde». Non ci provavano neppure, a inscenare la rivolta contro il mortale rigore (ideologico) imposto da Bruxelles.

Monti e Letta, Renzi e Gentiloni: nessuno di loro «osava dire che si sarebbe preoccupato di fare l’interesse del popolo italiano, anche scontrandosi coi vertici della tecnocrazia europea». Non hanno mai neppure finto di «fare la voce grossa e assumere atteggiamenti muscolari, per poi calarsi le braghe: se le erano già calate prima». Quindi, aggiunge Magaldi, non hanno titolo, oggi, per contestare il governo Conte. «Questi cialtroni, poi, in Parlamento lamentano presunte mancanze: Emma Bonino ha parlato di esautoramento antidemocratico delle funzioni dell’Aula». Magaldi si dice sbalordito dalla leader di “+Europa”, data la stima nella “vita precedente” dell’ex dirigente radicale: «Sono esterrefatto da questa deriva risibile e ipocrita». La Emma nazionale «è tra quelli che inneggiano a un sistema in cui il Parlamento Europeo non ha i poteri che in un qualunque contesto democratico dovrebbe avere». E, inutile negarlo, «ha fatto il cane da guardia di questa Europa». Tanti sedicenti europeisti, sostiene Magaldi, in realtà sono anti-europeisti: «Nessuno di loro, la Bonino in primis, ha mosso un dito per contestare l’attuale forma di Disunione Europea, antidemocratica o post-democratica che dir si voglia».

E ora, «adusi ai meccanismi post-democratici delle istituzioni europee», i nostri finto-europeisti «vengono a fare il pianto greco, in Italia, dove il Parlamento ha comunque una sua sovranità garantita dalla Costituzione», nonostante la camicia di forza dell’Ue. Tutto ciò premesso, ribadisce Magaldi, «è chiaro che il governo Conte se le è calate, le braghe». Salvini dà segnali di malumore e fa trapelare di non essere contento? Lui e Di Maio «lanciano il sasso e nascondono la mano». Hanno preso parzialmente le distanze dallo stesso Conte: «E questo, francamente, è un modo poco dignitoso di agire», sottolinea Magaldi, «visto che Conte non era a Bruxelles per conto proprio, ma in quanto portavoce di una maggioranza parlamentare di cui Salvini e Di Maio sono i leader». Salvini diceva: «Non mi preoccupano i numeri, contano le cose che facciamo». Non è così, purtroppo: «I numeri sono le cose che fai o non fai, perché proprio da quei numeri discende la possibilità di avere risorse per fare le cose che hai promesso».

Per Magaldi, questa manovra è «gravemente insufficiente». Non produrrà l’auspicato aumento del Pil, in relazione al deficit e al debito. Non ridarà dinamismo all’economia italiana, né conforto «a tutti quelli che vorrebbero una drastica riduzione delle tasse e un massiccio piano di investimenti pubblici, tale da garantire l’assorbimento della disoccupazione». E la mancanza di lavoro «è una delle cose più gravi che una generazione può subire: siamo pieni di giovani disoccupati, male occupati o rassegnati a un impiego precario». Quindi, intile nasconderselo, «questa manovra è davvero il classico topolino partorito dalla montagna: non c’è proprio di che essere contenti, e non si può certo dire di aver corrisposto alle promesse elettorali». Voltare pagina? Senz’altro: con il “partito che serve all’Italia”. Non per rinnegare gli sforzi comunque prodotti dai gialloverdi, ma per dare risposte più chiare. Imperativo categorico: muoversi a testa alta, senza più piegarsi ai diktat dei soliti noti. Brutto spettacolo, infatti, quello degli elettori delusi. Sondaggi impietosi: Lega in calo, dopo il cedimento a Bruxelles.

Tutto cambia velocemente, ormai: Salvini aveva portato il partito al 36%, dopo averlo resuscitato partendo dal 4%. L’importante, dice Magaldi, è che i media non facciano finta di non saperlo: è un errore dare spazio solo a chi oggi ha più voti. «Più che sui numeri, sempre fluttuanti, i media dovrebbero basarsi sulle idee in campo, permettendo al pubblico di ascoltarle tutte. Cosa che invece – segnala Magaldi – continua a non avvenire, ad esempio riguardo ai contenuti di strettissima attualità da me portati all’attenzione del pubblico con il libro “Massoni”, uscito a fine 2014». Una specie di scandalo nazionale: un bestseller “silenziato”, che dopo quattro anni è ancora in testa alla classifica Ibs tra i saggi di argomento politico. «Eppure non c’è stato un cane che ne abbia parlato, in televisione», aggiunge l’autore. Sul piccolo schermo è invitata «gente che scrive libretti e libracci, peraltro poco letti». Sul suo libro, invece, «evidentemente c’è una circolare per tutte le televisioni del regno, in cui si dice: non invitate l’autore e non parlate del libro». Perché fa tanta paura, “Massoni”? Perché fa nomi e cognomi, ma senza scadere nel complottismo: offre un filo rosso, storico, per rileggere il Novecento tenendo conto dell’aspetto meno visibile del potere, quello incarnato dalle 36 superlogge sovranazionali che, di fatto, decidono i destini del pianeta. E oggi più che mai cercano di condizionare anche quello dell’Italia, nello scontro con l’Ue.

«Sappiamo che quel libro l’hanno letto in tantissimi: tutti gli addetti al lavori». Perché Magaldi non viene invitato a parlarne nei principali talkshow? «La risposta temo sia questa: anche solo pochi minuti miei, in una qualunque trasmissione di punta, avrebbero conseguenze non digeribili dal sistema. Per cui vengono invitate persone che, anche quando dissonanti, fanno meno paura». Eppure, le idee dell’area attorno al Movimento Roosevelt non passano inosservate, se è vero che La7 ha segnalato l’assemblea del 22 dicembre a Roma: i fatti, annota Magaldi, «sembrano dare ragione al conduttore David Gramiccioli, secondo cui i media mainstream – anche senza citare la fonte – affrontavano spesso i temi toccati il lunedì, con me, nella sua trasmissione radiofonica “Massoneria On Air”». Ora, però, “Coffee Break” sembra aver sdoganato, giornalisticamente, l’ambiente politico nel quale è impegnato Magaldi. Che commenta: «Accolgo con sorpresa e compiacimento questa attenzione, non richiesta, da parte de La7: forse si stanno aprendo le maglie di un certo muro di omertà? Forse qualche giornalista televisivo ritiene di poter avere la libertà di parlare anche di progetti politici legati al sottoscritto?».

Magaldi si mostra ottimista: si stanno muovendo «élite al servizio della democrazia» ma anche «molti cittadini, che dal basso vogliono rivendicare la loro sovranità». Anche i media mainstream potrebbero quindi decidersi a smettere di censurare tutto il pensiero sgradito ai padroni del vapore? Innanzitutto servono spiegazioni: se il Movimento Roosevelt è aperto a esponenti di qualsiasi partito, il “partito che serve all’Italia” vuol essere un soggetto plurale, senza protagonismi narcisistici. «Posto che in Italia c’è una crisi dei partiti e dei movimenti, ormai da tantissimi anni, e che anche Lega e 5 Stelle non appaiono più tanto convincenti, ci siamo detti che forse è il caso di perseguire anche la strada della costruzione di un partito». Ma attenzione, avverte Magaldi: non esiste ancora neppure un soggetto giuridico, c’è solo la proposta di iscriversi a una futura assemblea costituente del “partito che serve all’Italia” (nome provvisorio, in attesa che il nuovo soggetto venga poi battezzato dai suoi stessi costituenti). «In questa iniziativa sono coinvolte tante persone di pregio». Per sé, Magaldi non prenota alcun ruolo preminente: «Vogliamo contribuire a una casa comune di cittadini e rappresentati di associazioni, partiti e movimenti preesistenti, che vogliono fondersi in un nuovo progetto unitario».

Quella del 22 dicembre è stata un’ottima partenza, assicura Magaldi: molti entusiasmi e parecchia concretezza. Prossima tappa, il 10 febbraio: un altro passo verso l’assemblea costituente del futuro partito. «Sarà una riunione ancora più allargata, dove verrà messa a punto un’agenda più definita». C’è anche chi annuncia l’imminente comparsa di Gilet Gialli all’italiana: «Ottima cosa, specie se tutto fosse fatto con razionalità e sapienza, cioè senza quel caos che in passato ha caratterizzato movimenti come quello dei Forconi». In altre parole: a stimolare il governo potrebbe anche servire «una protesta pacifica, forte e ferma, ma mai violenta», proprio in nome di quella democrazia che si rivendica, lungi dalle convulsioni che, in passato, sono state cavalcate dalla strategia della tensione al servizio di poteri oscuri. Eventuali Gilet Gialli a parte, secondo Magaldi «questa Italia a cavallo tra 2018 e 2019 promette bene: credo si stiano aprendo nuovi margini di manovra, e mi fa piacere che il “partito che serve all’Italia” si vada arricchendo di entusiasmi e di sguardi incuriositi, anche da parte del mainstream». Forse, nell’attuale caos politico, le maglie si diradano.

In ogni caso, sul cambio di passo necessario, Magaldi ha le idee chiare: «Io credo che il riscatto democratico – per l’Italia, per l’Europa, per il mondo – nasce se gente la smette di rimproverare semplicemente gli altri, gli oligarchi, i cattivoni, i buratttinai che gestiscono male la globalizzazione e l’Europa, insieme alla casta politica che ammorba l’Italia, e così i ladroni e i corrotti, i banchieri». Lo stesso Magaldi ricorda che la sovranità democratica «è stata costruita, attraverso lotte sanguinose, da avanguardie massoniche alleate di fasce popolari più coraggiose e consapevoli». E dunque «è qualcosa che va sempre mantenuto, difeso, consolidato». Insiste: «Invece di lamentarsi del potere degli altri, forse sarebbe il caso di rendersi conto che la propria impotenza è figlia della propria inconsapevolezza». Ovvero: «Il popolo è molto più forte e temibile di qualunque potere oligarchico. E’ che questo popolo, appunto, “se la fa raccontare”, si illude». Quanto cambierebbe, la situazione, se si acquisisse – a livello di massa – la conoscenza dei temi trattati in libri come quello di Magaldi? «Se milioni di persone si rendessero conto di certe cose, magari acquisirebbero quell’orgoglio che permetterebbe loro di rivendicare la propria sovranità. E invece di piangere sul potere altrui eserciterebbero un potere in proprio. E’ il potere pacifico della democrazia: quello che ti fa capire cosa devi fare tutti i giorni, come singolo cittadino, per indurre chi ti rappresenta nelle istituzioni a fare di più e meglio».

Toh, se n’è accorta anche la televisione: il “partito che serve all’Italia” è entrato nel piccolo schermo grazie a “Coffee Break”, il talkshow mattutino condotto su La7 da Andrea Pancani. Ottima notizia, prende nota Gioele Magaldi, finora tenuto a debita distanza dalle dirette televisive. “Colpa” delle rivelazioni contenute nel suo bestseller, “Massoni”, che mette in piazza l’identità supermassonica di tanti player del massimo potere. Fatto sta che la prima riunione operativa verso il futuro partito, il 22 dicembre, è salita agli onori della cronaca nonostante fosse un incontro informale, neppure annunciato da comunicati stampa. Oltre a Magaldi, all’assise romana c’era Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, nonché Claudio Quaranta, da mesi al lavoro per far convergere su una piattaforma unitaria le tante voci dell’altra Italia, quella che non riesce a vedersi rappresentata politicamente. Con loro c’era l’economista Antonio Maria Rinaldi di “Scenari Economici”, reduce da una visita al ministro Paolo Savona. E c’era Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” e ormai volto televisivo, spesso chiamata – come Rinaldi – a fare da contraltare al pensiero unico neoliberista, quello del rigore santificato da Bruxelles come una sorta di teologia dogmatica imposta da invisibili divinità tecnocratiche. Ma nel caso la nuova formazione politica dovesse davvero sorgere, nei prossimi mesi, l’Italia sarebbe pronta a ricevere l’offerta del “partito che serve all’Italia”?

Tutto può succedere, confida Magaldi a Fabio Frabetti di “Border Nights”, in una diretta web-streaming prenatalizia su YouTube. Esponente del circuito massonico progressista internazionale, il presidente del Movimento Roosevelt ha sostenuto a

lungo il governo gialloverde: per mesi è stato l’unico, in Europa, a tentare di rompere l’incantesimo dell’austerity. Poi, la prima delusione: troppo timido, il 2,4% di deficit inizialmente previsto per il Def 2019. E ora, la Caporetto del governo Conte: se già il 2,4 era troppo poco per rianimare l’economia, figurarsi il 2,04 cui l’Ue ha costretto l’esecutivo italiano, che alla fine si è piegato al diktat. Sta tutta qui, probabilmente, la tempistica del rilancio del “partito che serve all’Italia”: davanti ai signori di Bruxelles non si può piegare la testa in questo modo. Anche perché – come Magaldi si incarica spesso di spiegare – dietro alla “disciplina di bilancio” non c’è un disegno orientato al benessere europeo, ma solo il piano delle oligarchie finanziarie supermassoniche di segno reazionario, che manovrano i burattini della Commissione Europea. Il vero senso della “punizione” inflitta ai gialloverdi? Dimostrare, davanti a tutti, che nell’Ue non ci si può ribellare all’autocrazia “aliena” che domina il continente: la  nuova “aristocrazia del denaro” rappresentata degli eurocrati non-eletti, longa manus del potere economico che ha sottomesso la politica.

E’ il momento di essere eretici: non sta scritto da nessun parte che il deficit affossi l’economia. Al contrario: di contrazione della spesa si muore. Meno disavanzo vuol dire più tasse, meno consumi, meno lavoro. Come spiega il post-keynesiano Galloni, un investimento oculato in termini di spesa pubblica può “rendere” tre o quattro volte tanto, a partire dall’anno seguente, a patto però che non sia esiguo. Tradotto: già nella prossima primavera l’Italia avrebbe visto effetti benefici, sull’economia, se avesse avuto il coraggio di alzare il deficit almeno al 4%. Certo, al governo Conte (ora che si è sostanzialmente arreso) vengono avanzate «critiche pretestuose e strumentali da parte delle pseudo-opposizioni», dalla Bonino al Pd, fino a Forza Italia. «Il governo Conte suscita simpatia – ammette Gioele Magaldi – se addirittura Monti lo rimprovera di essersi fatto scrivere la legge di bilancio dalla Commissione Europea». Aggiunge: «Con malafede e con ipocrisia plateale si contesta al

governo Conte quello che hanno fatto tutti i governi della Seconda Repubblica, e in particolare quelli che si sono succeduti da Monti in poi». Governi che, naturalmente, «non facevano la manfrina che ha fatto l’esecutivo gialloverde». Non ci provavano neppure, a inscenare la rivolta contro il mortale rigore (ideologico) imposto da Bruxelles.

Monti e Letta, Renzi e Gentiloni: nessuno di loro «osava dire che si sarebbe preoccupato di fare l’interesse del popolo italiano, anche scontrandosi coi vertici della tecnocrazia europea». Non hanno mai neppure finto di «fare la voce grossa e assumere atteggiamenti muscolari, per poi calarsi le braghe: se le erano già calate prima». Quindi, aggiunge Magaldi, non hanno titolo, oggi, per contestare il governo Conte. «Questi cialtroni, poi, in Parlamento lamentano presunte mancanze: Emma Bonino ha parlato di esautoramento antidemocratico delle funzioni dell’Aula». Magaldi si dice sbalordito dalla leader di “+Europa”, data la stima nella “vita precedente” dell’ex dirigente radicale: «Sono esterrefatto da questa deriva risibile e ipocrita». La Emma nazionale «è tra quelli che inneggiano a un sistema in cui il Parlamento Europeo non ha i poteri che in un qualunque contesto democratico dovrebbe avere». E, inutile negarlo, «ha fatto il cane da guardia di questa Europa». Tanti sedicenti europeisti, sostiene Magaldi, in realtà sono anti-europeisti: «Nessuno di loro, la Bonino in primis, ha mosso un dito per contestare l’attuale forma di Disunione Europea, antidemocratica o post-democratica che dir si voglia».

E ora, «adusi ai meccanismi post-democratici delle istituzioni europee», i nostri finto-europeisti «vengono a fare il pianto greco, in Italia, dove il Parlamento ha comunque una sua sovranità garantita dalla Costituzione», nonostante la camicia di forza dell’Ue. Tutto ciò premesso, ribadisce Magaldi, «è chiaro che il governo Conte se le è calate, le braghe». Salvini dà segnali di malumore e fa trapelare di non essere contento? Lui e Di Maio «lanciano il sasso e nascondono la mano». Hanno preso parzialmente le distanze dallo stesso Conte: «E questo, francamente, è un modo poco dignitoso di agire», sottolinea Magaldi, «visto che Conte non era a Bruxelles per conto proprio, ma in quanto portavoce di una maggioranza parlamentare di cui Salvini e Di Maio sono i leader». Salvini diceva: «Non mi preoccupano i numeri, contano le cose che facciamo». Non è così,

purtroppo: «I numeri sono le cose che fai o non fai, perché proprio da quei numeri discende la possibilità di avere risorse per fare le cose che hai promesso».

Per Magaldi, questa manovra è «gravemente insufficiente». Non produrrà l’auspicato aumento del Pil, in relazione al deficit e al debito. Non ridarà dinamismo all’economia italiana, né conforto «a tutti quelli che vorrebbero una drastica riduzione delle tasse e un massiccio piano di investimenti pubblici, tale da garantire l’assorbimento della disoccupazione». E la mancanza di lavoro «è una delle cose più gravi che una generazione può subire: siamo pieni di giovani disoccupati, male occupati o rassegnati a un impiego precario». Quindi, inutile nasconderselo, «questa manovra è davvero il classico topolino partorito dalla montagna: non c’è proprio di che essere contenti, e non si può certo dire di aver corrisposto alle promesse elettorali». Voltare pagina? Senz’altro: con il “partito che serve all’Italia”. Non per rinnegare gli sforzi comunque prodotti dai gialloverdi, ma per dare risposte più chiare. Imperativo categorico: muoversi a testa alta, senza più piegarsi ai diktat dei soliti noti. Brutto spettacolo, infatti, quello degli elettori delusi. Sondaggi impietosi: Lega in calo, dopo il cedimento a Bruxelles.

Tutto cambia velocemente, ormai: Salvini aveva portato il partito al 36%, dopo averlo resuscitato partendo dal 4%. L’importante, dice Magaldi, è che i media non facciano finta di non saperlo: è un errore dare spazio solo a chi oggi ha più voti. «Più che sui numeri, sempre fluttuanti, i media dovrebbero basarsi sulle idee in campo, permettendo al pubblico di ascoltarle tutte. Cosa che invece – segnala Magaldi – continua a non avvenire, ad esempio riguardo ai contenuti di strettissima attualità da me portati all’attenzione del pubblico con il libro “Massoni”, uscito a fine 2014». Una specie di scandalo nazionale: un bestseller “silenziato”, che dopo quattro anni è ancora in testa alla classifica Ibs tra i saggi di argomento politico. «Eppure non c’è stato un cane che ne abbia parlato, in televisione», aggiunge l’autore. Sul piccolo schermo è invitata «gente che scrive libretti e libracci, peraltro poco letti». Sul suo libro, invece, «evidentemente c’è una circolare per tutte le televisioni del regno, in cui si dice: non invitate l’autore e non parlate del libro». Perché fa tanta paura, “Massoni”? Perché fa nomi e cognomi, ma senza scadere nel complottismo: offre un filo rosso, storico, per rileggere il Novecento tenendo conto dell’aspetto meno visibile

del potere, quello incarnato dalle 36 superlogge sovranazionali che, di fatto, decidono i destini del pianeta. E oggi più che mai cercano di condizionare anche quello dell’Italia, nello scontro con l’Ue.

«Sappiamo che quel libro l’hanno letto in tantissimi: tutti gli addetti al lavori». Perché Magaldi non viene invitato a parlarne nei principali talkshow? «La risposta temo sia questa: anche solo pochi minuti miei, in una qualunque trasmissione di punta, avrebbero conseguenze non digeribili dal sistema. Per cui vengono invitate persone che, anche quando dissonanti, fanno meno paura». Eppure, le idee dell’area attorno al Movimento Roosevelt non passano inosservate, se è vero che La7 ha segnalato l’assemblea del 22 dicembre a Roma: i fatti, annota Magaldi, «sembrano dare ragione al conduttore David Gramiccioli, secondo cui i media mainstream – anche senza citare la fonte – affrontavano spesso i temi toccati il lunedì, con me, nella sua trasmissione radiofonica “Massoneria On Air”». Ora, però, “Coffee Break” sembra aver sdoganato, giornalisticamente, l’ambiente politico nel quale è impegnato Magaldi. Che commenta: «Accolgo con sorpresa e compiacimento questa attenzione, non richiesta, da parte de La7: forse si stanno aprendo le maglie di un certo muro di

omertà? Forse qualche giornalista televisivo ritiene di poter avere la libertà di parlare anche di progetti politici legati al sottoscritto?».

Magaldi si mostra ottimista: si stanno muovendo «élite al servizio della democrazia» ma anche «molti cittadini, che dal basso vogliono rivendicare la loro sovranità». Anche i media mainstream potrebbero quindi decidersi a smettere di censurare tutto il pensiero sgradito ai padroni del vapore? Innanzitutto servono spiegazioni: se il Movimento Roosevelt è aperto a esponenti di qualsiasi partito e propone idee per rigenerare la politica, il “partito che serve all’Italia” vuol essere un soggetto capace di scendere direttamente in campo (ma agendo al plurale, senza protagonismi narcisistici). «Posto che in Italia c’è una crisi dei partiti e dei movimenti, ormai da tantissimi anni, e che anche Lega e 5 Stelle non appaiono più tanto convincenti, ci siamo detti che forse è il caso di perseguire anche la strada della costruzione di un partito». Ma attenzione, avverte Magaldi: non esiste ancora neppure un soggetto giuridico, c’è solo la proposta di iscriversi a una futura assemblea costituente del “partito che serve all’Italia” (nome provvisorio, in attesa che il nuovo soggetto venga poi battezzato dai suoi stessi costituenti). «In questa iniziativa sono coinvolte tante persone di pregio». Per sé, Magaldi non prenota alcun ruolo preminente: «Vogliamo contribuire a una casa comune di cittadini e rappresentati di associazioni, partiti e movimenti preesistenti, che vogliono fondersi in un nuovo progetto unitario».

Quella del 22 dicembre è stata un’ottima partenza, assicura Magaldi: molti entusiasmi e parecchia concretezza. Prossima tappa, il 10 febbraio: un altro passo verso l’assemblea costituente del futuro partito. «Sarà una riunione ancora più allargata, dove verrà messa a punto un’agenda più definita». C’è anche chi annuncia l’imminente comparsa di Gilet Gialli all’italiana: «Ottima cosa, specie se tutto fosse fatto con razionalità e sapienza, cioè senza quel caos che in passato ha caratterizzato movimenti come quello dei Forconi». In altre parole: per stimolare il governo potrebbe anche servire «una protesta pacifica, forte e ferma, ma mai violenta», proprio in nome di quella democrazia che si rivendica, lungi dalle convulsioni che, in passato, sono state cavalcate dalla strategia della tensione al servizio di poteri oscuri. Eventuali Gilet Gialli a parte, secondo Magaldi

«questa Italia a cavallo tra 2018 e 2019 promette bene: credo si stiano aprendo nuovi margini di manovra, e mi fa piacere che il “partito che serve all’Italia” si vada arricchendo di entusiasmi e di sguardi incuriositi, anche da parte del mainstream». Forse, nell’attuale caos politico, le maglie si stanno progressivamente diradando?

In ogni caso, sul cambio di passo necessario, Magaldi ha le idee chiare: «Io credo che il riscatto democratico – per l’Italia, per l’Europa, per il mondo – nasce se gente la smette di rimproverare semplicemente gli altri, gli oligarchi, i cattivoni, i burattinai che gestiscono male la globalizzazione e l’Europa, insieme alla casta politica che ammorba l’Italia, e così i ladroni e i corrotti, i banchieri». Lo stesso Magaldi ricorda che la sovranità democratica «è stata costruita, attraverso lotte sanguinose, da avanguardie massoniche alleate di fasce popolari più coraggiose e consapevoli». E dunque «è qualcosa che va sempre mantenuto, difeso, consolidato». Insiste: «Invece di lamentarsi del potere degli altri, forse sarebbe il caso di rendersi conto che la propria impotenza è figlia della propria inconsapevolezza». Ovvero: «Il popolo è molto più forte e temibile di qualunque potere oligarchico. E’ che questo popolo, appunto, “se la fa raccontare”, si illude». Quanto cambierebbe, la situazione, se si acquisisse – a livello di massa – la conoscenza dei temi trattati in libri come quello di Magaldi? «Se milioni di persone si rendessero conto di certe cose, magari acquisirebbero quell’orgoglio che permetterebbe loro di rivendicare la propria sovranità. E invece di piangere sul potere altrui eserciterebbero un potere in proprio. E’ il potere pacifico della democrazia: quello che ti fa capire cosa devi fare tutti i giorni, come singolo cittadino, per indurre chi ti rappresenta nelle istituzioni.

2169.-I CONFINI SONO LE NOSTRE MURA.

Frau Merkel è la serva dei neoliberisti o dei globalisti, se preferite, al pari di Macron e degli ultimi presidenti italiani. Giunta al termine della sua carriera politica, ha detto che gli Stati europei devono rinunciare alla loro sovranità. Sembra un voto profetico di modernità e, invece, è soltanto l’ordine urlato da un kapò; certamente, non di un Fuhrer, come le piacerebbe essere. In quel “devono”, infatti, leggo una richiesta di collaborazione, un timore di non essere seguita e di non vedere realizzata la sua perversione. Ma vediamo a cosa mira e, poi, chiediamoci un perché. Anzitutto, chiedo a Voi una venia per l’astio nei suoi e nei loro confronti che lascio trasparire, ma senza vergogna.

Mi chiedo, spesso, se la democrazia sia mera utopia, dal momento che si offre alle masse incolte e, però, richiede sapienza, saggezza e civiltà del rispetto della cosa comune. Bisognerebbe avere apprezzato la differenza fra il principio dell’eguaglianza e l’eguaglianza sostanziale: Siamo tutti eguali, sulla linea di partenza, ma non significa che l’ultimo sarà eguale al primo. Siamo tutti eguali, ma liberi di crescere e lo strumento per poter salire nella scala sociale è il lavoro. Per questo, la Costituzione afferma “La Repubblica è fondata sul lavoro”. È l’affermazione del principio “lavoristico”, che vale per il cittadino e, a un tempo, è un comando che vale per chi governa. È anche una condizione, che significa che per fare i cittadini di una democrazia, cioè liberi, bisogna creare lavoro. Perché il lavoro dà dignità e la dignità dà libertà. Leggo, qui, i limiti della paccottiglia dottrinaria dei 5 Stelle, del loro reddito di cittadinanza, così come l’hanno imposto, della cultura dell’errore che ci sta governando con l’ignoranza. Ignoranza e arroganza, si sa, fanno il paio e, sicuramente perciò, siamo governati con arroganza. La nemica della democrazia, la nostra nemica è l’ignoranza contro la quale abbiamo una sola arma: la cultura. Il nostro difetto è la partecipazione scarsa alla vita politica. Colpa nostra? No, carenza della Costituzione: dei partiti, fatti strumento della nostra partecipazione, ma senza legge elettorale, senza principi costituzionalizzati, se non un inutile viatico: “con metodo democratico”. In breve, il governo è la guida, il Parlamento è il motore, i partiti dovrebbero fare da trasmissione e gli elettori da macchina. Qualcosa non va. Il presidio della democrazia è lo Stato sovrano. Uso questa dicotomia, sebbene, senza sovranità non c’è lo Stato Nazione, che è unitario, appunto, perché è formato dal popolo, dall’Ordinamento Giuridico, dal territorio con i suoi confini entro i quali e per i quali si esprime la sovranità. Il Regno d’Italia ebbe un sovrano, la Repubblica ha per sovrano il popolo. Quindi, nessuno si pone al di sopra del popolo. Già qui, Frau Merkel, i neoliberisti, i globalisti si pongono come nemici del popolo italiano. Infatti, da quando questi hanno colonizzato le Istituzioni e hanno deviato pro domo loro il sogno europeo, il popolo italiano vede i propri diritti, la propria ricchezza, materiale e spirituale, sciogliersi come neve al sole. La nostra terra e il nostro patrimonio sono tornati presto nelle mani dello straniero, ma per mano nostra: dei traditori, direte. Dico, invece, della divisività che, da sempre, ci accompagna e della presunzione e dell’arroganza di chi ci ha precipitato nella sconfitta militare, materiale, morale. Dalle prime due ci sollevammo, con il sudore; dalla sconfitta morale, mai. Il concetto di Patria è risultato demonizzato. Ecco che i presidenti della Repubblica, spergiuri, possono impunemente cedere la sovranità, cioè a dire, lo Stato ai kapò dei globalisti e che questi si presentano all’incasso. Qualche mugugno, ma, sostanzialmente, silenzio dai cittadini, deboli perché ignoranti. Inneggiano, scambiano teneri baci con chi non siederà mai da pari al loro fianco. La democrazia avrebbe dovuto far superare i limiti e la debolezza dei singoli attraverso la plurisoggettività, tradotta nella unitarietà dello Stato costituzionale. Il globalismo no, li coltiva e li sfrutta perché fa dei limiti dei singoli la condizione del suo potere, il suo strumento di profitto. Ricerca e promuove la nostra debolezza per i propri fini. Si sovrappone agli Stati Nazione per annullare i loro presidi: le Costituzioni e i confini, fino a tramutarvi da cittadini in strumenti, sostituendo il concetto di vita utile a quello di vita naturale. Il welfare non è più soltanto un costo che sottrae profitto, diventa una bestemmia. Se passerete dallo Stato sociale al mercato globale, dalla tutela della dignità della persona umana della nostra Costituzione alla competitività sui mercati mondiali, come comanda il Trattato di Lisbona, la de-costituzione europea scritta dal traditore Giuliano Amato, il Vostro diritto alla vita coinciderà con la vostra vita utile. Già capite cosa muova la progressiva negazione della sanità pubblica. Perché, alla sera, vi ritirate fra le vostre mura? I confini sono le nostre mura. Non ci impediscono di confederarci con gli altri popoli europei.

Mario Donnini

2168.-Perché la manovra ritoccata è peggiore di quella originaria. Il commento di La Malfa

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di Giorgio La Malfa

 

Si sarebbe potuta salvare nella manovra la crescita del reddito riducendo le spese correnti ed aumentando le spese di investimento. Invece, si è scelto di aumentare le tasse e di tagliare ancora gli investimenti. Il commento di Giorgio La Malfa, economista ed ex ministro delle Politiche comunitarie.

 

Per misurare la portata della disfatta del Governo nel primo confronto ravvicinato con l’Europa è sufficiente rileggere qualche punto del Documento di Economia e Finanza presentato al Parlamento il 27 settembre scorso.

«L’obiettivo primario della politica economica del Governo – si leggeva nel documento – è di promuovere una ripresa vigorosa dell’economia italiana, puntando su un incremento adeguato della produttività del sistema paese e del suo potenziale di crescita e, allo stesso tempo, di conseguire una maggiore resilienza rispetto alla congiuntura e al peggioramento del quadro economico internazionale».

In particolare il Governo si poneva «l’obiettivo di ridurre sensibilmente entro i primi due anni della legislatura il divario di crescita rispetto all’eurozona e in tal modo assicurare la diminuzione costante del rapporto debito/PIL in direzione dell’obiettivo stabilito dai trattati europei» e si spiegava che «il rilancio degli investimenti è uno strumento essenziale per perseguire obiettivi di sviluppo economico sostenibile e socialmente inclusivo».

In numeri questo si concretizzava in una previsione di crescita per il 2019 non inferiore all’1,5% rispetto all’1,1% senza la manovra e in un deficit del 2,4%.

Era una strategia possibile se fosse stata spiegata all’Europa e la si fosse sostanziata di investimenti. Invece le scorse settimane sono trascorse fra dichiarazioni bellicose dei due vicepremier contro l’Europa. Poi, con la stessa subitaneità con cui erano andati all’assalto, è venuta la capitolazione. Così si è tornati a quel 2 per cento che da settembre si sapeva la Commissione poteva accettare. Ma qui i due partiti di maggioranza hanno imposto il secondo errore.

Si sarebbe potuta salvare la crescita del reddito riducendo le spese correnti ed aumentando le spese di investimento. Invece, si è scelto di aumentare le tasse e di tagliare ancora gli investimenti. Il governo stesso riconosce che l’esito è disastroso: una crescita nel 2019 addirittura inferiore a quella che si sarebbe avuta se il governo non avesse fatto nulla. Ma i due partiti proclamano che hanno rispettato gli impegni elettorali.

In realtà anche questo bilancio è destinato ad essere rivisto perché l’Italia è avviata a una crisi di finanza pubblica. Forse ai due leader converrebbe una riflessione politica prima di procedere ulteriormente.

Giorgio La Malfa

 

 

2168.- GOVERNO LADRO!

Perché la manovra ritoccata è peggiore di quella originaria. Il commento di La Malfa

di Giorgio La Malfa

 

Si sarebbe potuta salvare nella manovra la crescita del reddito riducendo le spese correnti ed aumentando le spese di investimento. Invece, si è scelto di aumentare le tasse e di tagliare ancora gli investimenti. Il commento di Giorgio La Malfa, economista ed ex ministro delle Politiche comunitarie

 

Per misurare la portata della disfatta del Governo nel primo confronto ravvicinato con l’Europa è sufficiente rileggere qualche punto del Documento di Economia e Finanza presentato al Parlamento il 27 settembre scorso.

«L’obiettivo primario della politica economica del Governo – si leggeva nel documento – è di promuovere una ripresa vigorosa dell’economia italiana, puntando su un incremento adeguato della produttività del sistema paese e del suo potenziale di crescita e, allo stesso tempo, di conseguire una maggiore resilienza rispetto alla congiuntura e al peggioramento del quadro economico internazionale».

In particolare il Governo si poneva «l’obiettivo di ridurre sensibilmente entro i primi due anni della legislatura il divario di crescita rispetto all’eurozona e in tal modo assicurare la diminuzione costante del rapporto debito/PIL in direzione dell’obiettivo stabilito dai trattati europei» e si spiegava che «il rilancio degli investimenti è uno strumento essenziale per perseguire obiettivi di sviluppo economico sostenibile e socialmente inclusivo».

In numeri questo si concretizzava in una previsione di crescita per il 2019 non inferiore all’1,5% rispetto all’1,1% senza la manovra e in un deficit del 2,4%.

Era una strategia possibile se fosse stata spiegata all’Europa e la si fosse sostanziata di investimenti. Invece le scorse settimane sono trascorse fra dichiarazioni bellicose dei due vicepremier contro l’Europa. Poi, con la stessa subitaneità con cui erano andati all’assalto, è venuta la capitolazione. Così si è tornati a quel 2 per cento che da settembre si sapeva la Commissione poteva accettare. Ma qui i due partiti di maggioranza hanno imposto il secondo errore.

Si sarebbe potuta salvare la crescita del reddito riducendo le spese correnti ed aumentando le spese di investimento. Invece, si è scelto di aumentare le tasse e di tagliare ancora gli investimenti. Il governo stesso riconosce che l’esito è disastroso: una crescita nel 2019 addirittura inferiore a quella che si sarebbe avuta se il governo non avesse fatto nulla. Ma i due partiti proclamano che hanno rispettato gli impegni elettorali.

In realtà anche questo bilancio è destinato ad essere rivisto perché l’Italia è avviata a una crisi di finanza pubblica. Forse ai due leader converrebbe una riflessione politica prima di procedere ulteriormente.

Giorgio La Malfa

 

2167.- Il lato oscuro del Risorgimento: la strana morte di Ippolito Nievo, il poeta soldato

da Start magazine, Michele Magno

Il Bloc Notes di Michele Magno

Il 4 marzo 1861 il vascello a vapore “Ercole” salpa dal porto di Palermo diretto a Napoli. Verso l’alba del giorno seguente, durante una tempesta affonda al largo della costa di Sorrento. Nessun superstite. Tra gli scomparsi, il tesoriere dell’esercito garibaldino, Ippolito Nievo. Nella stiva erano custoditi i documenti contabili relativi alla provenienza e alla gestione dei fondi che avevano finanziato la spedizione dei Mille. La notizia del naufragio giunge a Torino solo dopo la proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861). Le opposizioni denunciano il grave ritardo con cui erano partiti i soccorsi. La magistratura non indaga. Più tardi, un’inchiesta ministeriale stabilisce che la tragedia era stata causata da un incendio dei motori del piroscafo. La versione è poco convincente e sembra fabbricata a tavolino, ma nessuno è in grado di confutarla. Poi un lungo silenzio.

Il 5 marzo 1961, esattamente un secolo dopo il presunto incidente, il noto documentarista Stanislao Nievo (1928-2006), pronipote di Ippolito, si mette all’opera per fare luce sulla morte dello zio. Setaccia archivi e biblioteche, fruga nell’epistolario dell’avo, ne ricostruisce gli affetti, le speranze, le ambizioni. Ingaggia sensitivi, paragnosti, sommozzatori e perfino il leggendario batiscafo di Jacques Piccard per localizzare i resti del battello in cui erano annegati ottanta innocenti. La ricerca dura otto anni. Finalmente il relitto viene avvistato a 240 metri di profondità nel tratto di mare compreso tra Punta Campanella e le Bocche di Capri, ma durante l’operazione di recupero si sbriciola come polvere.

Da questo viaggio in cerca della verità nasce un testo bizzarro quanto fortunato (vincerà il Premio Campiello), “Il prato in fondo al mare” (1974). Metà saggio storico e metà diario immaginario, testimonia l’amore per un passato glorioso e nebuloso, e tutta la volontà di tenerlo vivo e di diradarne le ombre: “L’amministrazione dei Mille era stata difficile. Pulita, per quanto disordinata, era ora sotto inchiesta, con calunnie di ogni genere, volte a screditare la più libera e fortunata avventura del Risorgimento. Ma Ippolito Nievo aveva la coscienza pulita: e stava per presentare i conti a chi di dovere”. Nell’introduzione al tascabile Mondadori del 1977, Cesare Garboli intravede nel libro la rappresentazione di una “sospetta strage di Stato italiana, maturata dalla Destra e decisa dal potere piemontese per liquidare la Sinistra garibaldina: ‘strage’ con la quale si sarebbe aperta la storia dell’Italia unita”.

Questa tesi viene ripresa da Umberto Eco nel romanzo “Il Cimitero di Praga” (2010). Il primo sporco affare di cui si occupa il suo protagonista, il camaleontico e abilissimo falsario Simone Simonini, è proprio la soppressione di Ippolito Nievo. Il patriota è in possesso di prove compromettenti, che dimostrano come l’esercito borbonico sia stato sconfitto grazie a una rete di complicità massoniche e di tradimenti di generali del Regno delle Due Sicilie, corrotti dall’oro britannico e dai servizi segreti sabaudi. Il vice Intendente di Garibaldi -questa era la carica di Nievo- viene allora eliminato da una bomba fatta confezionare da Simonini, che provoca l’esplosione del brigantino su cui si era imbarcato. Oltre a Eco, altri scrittori e studiosi si sono cimentati con quello che Nino Buttitta ha definito una sorta di “caso Mattei” ante litteram: da Duilio Chiarle a Rino Camilleri, da Lucio Zinna a Cesaremaria Glori. In diversa misura, tutti propensi a sposare l’ipotesi del complotto, secondo cui l’eliminazione di Nievo era stata concepita a Torino o addirittura in ambienti garibaldini, al fine di screditare l’impresa dei Mille oppure di occultare le malversazioni di cui si erano macchiati alcuni capi delle camicie rosse.

Sul “caso Nievo”, da ultimo, è tornato Lorenzo Del Boca, esponente di quel moderno revisionismo risorgimentale che si radicalizza negli anni Settanta del Novecento. Il suo principale capostipite è Carlo Alianello. La sua opera più citata, “La Conquista del Sud” (1972) è un duro atto di accusa contro la politica di Cavour e dei Savoia, rei di una unificazione del paese estranea agli interessi del Mezzogiorno e architettata in combutta con il governo britannico e le massonerie straniere. Sulla scia di questa tradizione antiagiografica e antisabauda, nel suo lavoro appena ristampato Del Boca descrive Nievo come un pignolissimo e onesto piantagrane, che rese la vita impossibile ai suoi vertici (“Risorgimento disonorato. Il lato oscuro dell’unità d’Italia”, Utet, 2013). Sappiamo così che Garibaldi gli affidò la cassa dei Mille anzitutto perché lo considerava un garibaldino integerrimo, incapace di rubare. Del resto, era chiamato ad amministrare le ingenti somme di denaro versate dalle logge massoniche scozzesi, da convertire successivamente in piastre turche, le monete utilizzate all’epoca per gli scambi commerciali nei porti del Mediterraneo.

All’origine dell’ostilità antiborbonica della Gran Bretagna c’era un veccchio contenzioso sullo sfruttamento dello zolfo siciliano, indispensabile per la produzione della polvere da sparo. Francesco II, salito al trono nel 1859, era infatti considerato inaffidabile quanto suo padre Ferdinando II, il sovrano che aveva tentato di mettere in discussione il monopolio delle grandi compagnie inglesi nell’estrazione del prezioso minerale. Alle donazioni d’oltremanica si aggiungevano, inoltre, i cospicui contributi per acquistare armi e munizioni raccolti dai giornali, dai circoli liberali, dalle associazioni tricolore, da privati cittadini. Tutto il denaro veniva quindi spedito a Genova, dove Agostino Bertani si preoccupava di farlo recapitare a Nievo. Questi, a sua volta, doveva provvedere alla sussistenza dei volontari (divise, rancio, stipendi), al funzionamento dei servizi carcerari e ospedalieri, e perfino alla retribuzione delle spie e degli informatori.

Il vice Intendente registrava scrupolosamente su un quadernetto a quadretti ogni voce in uscita. Non accettava però di essere preso in giro. Nell’esuberante quanto indisciplinato esercito garibaldino, chiunque era autorizzato a lasciare un reparto per aggregarsi a un altro. Gli ufficiali denunciavano immediatamente i nuovi arrivi, ma avevano il vizio di non segnalare le partenze, in modo da gonfiare i propri contingenti. Artificio che consentiva di riscuotere stipendi aggiuntivi non dovuti, di norma spartiti in base all’anzianità e ai galloni. Nievo si accorge del trucco e si impunta. Dovendo liquidare il soldo al battaglione del maggiore Colina, pretende di fare l’appello nominativo. Nonostante le vibranti proteste, si mette a contare nel cortile della caserma uno ad uno i soldati e scopre che erano un centinaio in meno di quelli dichiarati dal comandante. Il maggiore Colina viene arrestato, ma i ministri della Guerra Giuseppe Paternò di Spedalotto (prima) e Nicola Fabrizi (poi) non apprezzarono il suo rigore.

Niente in confronto al putiferio che scatena quando decide di razionalizzare le spese sanitarie, unificando i due ospedali di Palermo in concorrenza tra loro. Guidati da Rosario Perez, il direttore dell’istituto da cui entrambi dipendevano, medici e infermieri scendono subito in piazza, e cercano di convincere gli ammalati che il loro trattamento sarebbe drasticamente peggiorato. Il ministro Fabrizi non esita a prendere le difese di Perez (che vantava un rapporto personale con il Generalissimo) e a lamentarsi perché “gli infermi mancheranno dello alimento per ritardo” nel versamento degli acconti dell’Intendenza. Nievo però non si piega. Dopo un’ispezione accurata nei due nosocomi, scrive al ministro: “Colà si ammettono gli infermi senza che il commissario di guerra segni i biglietti di entrata. Di conseguenza non conoscesi la base di contabilità. I magazzini non mi è stato concesso di vederne né tampoco ho potuto avere uno stato degli utensili”. In realtà, il diniego era motivato dal timore che venisse scoperchiata la doppia contabilità di cui beneficiavano molti dirigenti dell’istituto.

Per sfogare la sua amarezza, a Nievo restavano soltanto le pagine del suo diario. È lì che egli annota diligentemente i piccoli e grandi ricatti subiti nello svolgimento del suo delicato ufficio, che ora lo annoiava e gli stava sempre più stretto. D’altro canto, non gli sfuggiva che il clima politico del paese stava cambiando. L’unificazione era ad un passo, e la lotta per la supremazia nel nuovo Parlamento acuiva le rivalità, i contrasti e i reciproci sospetti tra lo schieramento liberale e quello democratico. Dopo una breve licenza trascorsa a Milano, Nievo rientra precipitosamente a Napoli. La campagna scandalistica sugli sprechi e sugli ammanchi di cassa della Spedizione era ormai martellante. Giovanni Acerbi, il suo superiore, gli ingiunge di tornare in Sicilia e di recuperare tutte le carte che attestavano le spese da lui autorizzate. La sera del 5 febbraio 1861 si imbarca sul vaporetto “Elettrico”. Il suo umore era pessimo, perché “una sì bella impresa eroica” era inquinata da spregevoli macchinazioni. Tuttavia, era certo di poter dimostrare la totale correttezza del suo operato, nonostante le losche trame di Cavour, al quale assicurava “eterno odio anche se inutile per procurare pregiudizio alle rotondità del suo addome”.

Il 25 febbraio viene invitato a cena dagli Ennequin, una coppia di commercianti di vino, lui originario della Lorena e lei ginevrina. Nievo li aveva conosciuti dopo la presa di Palermo ed erano diventati amici. Frequentava volentieri la loro casa, dove durante i pasti si stappava sempre una bottiglia del suo amato Bordeaux. Dopo essersi congedato, si ritira nella sua residenza e scrive la sua ultima lettera a Cesare Cologna, un caro compagno di vacanze. Un paio di foglietti, con la solita calligrafia minuta, leggermente inclinata verso destra: “Mi conservo fanciullo. Mi muovo per muovermi, respiro per respirare, morirò per morire. E tutto sarà finito”. Tutto finirà una settimana dopo. Quando sale a bordo dell’ “Ercole” attraccato al molo dell’Arsenale, Nievo ha un pallore spettrale sul volto e le mani accartocciate sul petto che malcelavano un inquietante tremolio. Confessa di non sentirsi bene, ma è deciso a partire. Al suo seguito, una mezza dozzina di bauli pieni di documenti e quattro addetti dell’Intendenza: i maggiori Luigi Salviati e Achille Maiolini, il direttore della contabilità Servetta e lo scrivano Fontana. Il mare non era tranquillo e le previsioni annunciavano burrasca, ma era un cattivo tempo a cui i marinai erano abituati. Il giorno dopo i dodici passeggeri e gli oltre sessanta membri dell’equipaggio si erano dissolti nel nulla.

Quel giorno l’autore delle “Confessioni d’un italiano” era un giovane uomo di neanche trent’anni, “elegante, distaccato, viso morbido, dal carattere imprevedibile, ora caldo ora gelido. Freddo coi superiori, proteggeva i suoi subalterni come una gatta coi suoi piccoli […]. Romantico e razionale nell’azione […]. Coraggioso, temeva due cose, le malattie e il mare” (Stanislao Nievo). E il mare se lo sarebbe portato via, insieme a quel complotto che resta ancora soltanto una congettura.

2166.- PER QUALE UNIONE EUROPEA ANDREMO A VOTARE? CON CHI STIAMO TRATTANDO IL NOSTRO FUTURO?

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Dice Cesare Sacchetti: “L’UE continua a tacere sullo Stato di polizia che si chiama Francia”; ma – aggiungo – L’UE continua a tacere sul carnefice dell’Africa, lo Stato coloniale che si chiama sempre Francia. L’UE continua a tacere sui 500 miliardi rubati da Parigi, ogni anno, alle sue ex colonie costrette a adottare il suo Franco africano CFA (1 EUR = 655,957 CFA), con cui i francesi aggiustano i numeretti del loro deficit con Bruxelles. È qui, nelle ex colonie francesi, che nasce l’emigrazione perché le amministra ancora la dittatura della Banca di Francia, peggiore di quella di Bruxelles, ma eguale e con gli stessi identici sistemi, finanziari e militari, di quelli usati in Francia dal III° Reich: identici! Non c’è nessuna Unione possibile in Europa con una potenza coloniale e ci sarà sempre più fuga degli africani da casa loro finché alla dittatura “parassita” di Parigi non sarà imposto il rispetto degli africani, delle loro ricchezze e, anche, degli europei. Grazie all’ UE, tutti i paesi della zona euro esercitano, di fatto, il neo colonialismo nell’Africa francofona. Intanto, gli italiani pagano il mantenimento degli schiavi fuggiaschi in nome dell’Unione e dell’accoglienza. La Libia da cui partono, è stata massacrata dai francesi perché Mu’ammar Gheddafi – pace alla sua anima – voleva eliminare il colonialismo francese. Qui vedete Kemi Seba, senegalese. Non è emigrato, ma lo vedete che brucia alcune banconote CFA e, perciò, è stato arrestato! Ma con quale Unione Europea stiamo trattando il nostro futuro? E Macron e Merkel vogliono l’esercito europeo! Dove, perché e contro chi manderanno a farsi ammazzare i nostri figli?????

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L’UE REGALA IL TRE PER CENTO A MACRON

2165.- “L’AFRICA PUÒ RISORGERE” e “COME LA FRANCIA PIEGA L’AFRICA CON IL FRANCO CFA”, Mohamed Konarè.

La verità sul colonialismo francese in Africa come non l’avete mai sentita. Come Parigi controlla gli africani con il Franco CFA, con le banche centrali, con il commissariamento dei governi e con l’eliminazione fisica dei dissidenti. Un video che dovreste affrettarvi a vedere, prima che sia troppo tardi. Trasmesso il 6 novembre 2018, alle 21.15, in’esclusiva da Byoblu. Prima intervista a Mohamed Konaré, leader del movimento Panafricanista “L’AFRICA PUÒ RISORGERE”:

 

In Africa conflitti e saccheggi non hanno mai visto la fine. Mohamed Konare, Leader del nascente Movimento Panafricanista, sta guidando gli africani verso una mobilitazione mondiale che potrebbe stravolgere gli equilibri di un sistema che ci coninvolge tutti, come inconsapevoli carnefici. In questa intervista, concessa in esclusiva a Byoblu, Konare racconta della sua terra, da troppo tempo martoriata, e di popoli e tradizioni che si perdono nella notte dei tempi. Come e perchè i giovani africani si mettono in viaggio verso l’Europa? Quale è il complicato scenario politico e quali i meccanismi economici che incatenano il continente nero? Per Byoblu, l’intervista di Alpha Oumar Konaré, a cura di Eugenio Miccoli.

Alpha Oumar Konaré, scenziato e storico, è stato presidente del Mali dal 1992 al 2002. Nella seconda metà del Novecento, cessato il dominio francese, il Mali cadde vittima di una dittatura prosovietica e di tremende carestie. Nel 1991 l´allora luogotenente colonnello Touré capitanò la rivolta che abbatté la dittatura. Ma il colpo militare finì lì. Touré organizzò per l´anno dopo libere e pacifiche elezioni, senza concorrervi. E fu eletto presidente uno studioso di storia, Alpha Oumar Konaré, che rivinse le elezioni nel 1997, per poi ritirarsi dopo il secondo quinquennio, in obbiedienza al limite fissato dalla costituzione.

Uno degli ultimi gesti del presidente uscente Konaré, il 5 giugno 2002, fu d´andare a pregare, lui musulmano, nella cattedrale cattolica della capitale del Mali, Bamako, sulla tomba del venerato arcivescovo Luc Sangaré, da poco scomparso. All´atto del suo primo insediamento, nel 1992, Konaré si era recato dall´arcivescovo a chiedere “parole di saggezza per il gravoso compito che l´attendeva”, e ne aveva ricevuta la benedizione. Ora ritornava per ringraziare e per “chiedere perdono per tutto quanto non era stato capace di realizzare”. A rendere noti il gesto e le parole fu il nuovo arcivescovo Jean Zerbo, in una testimonianza resa pubblica dall´agenzia vaticana “Fides”.

 

 

2164.- L’articolo del ministro Savona: Vi dico che cosa penso della manovra modificata.

Paolo Savona: “compito dell’Italia e della UE è ripristinare la supremazia della politica”. L’imbarazzo di Savona è imbarazzante. “Scopriamo” che la realtà della politica ha fatto premio sulle esigenze del Paese, che nell’Unione europea non c’è sensibilità e che la parola crescita vi appare solo nel dato statistico. Dice:

“Non è un mistero che la divergenza tra le diverse concezioni dell’UE è nei contenuti da dare all’incompletezza da rimuovere. Perciò ho chiesto a nome del Governo di discuterne nell’ambito europeo di un Gruppo ad alto livello che analizzi la problematica; salvo eccezioni, si è finora fatto finta di non capire che l’invito rivolto era quello di interrompere la stretta relazione, indegna della convivenza democratica, tra la componente speculativa del mercato finanziario e le politiche scelte dai Governi e Parlamenti; l’Unione utilizza questa relazione per costringere i paesi membri a seguire riforme che considera “risolutive” delle divergenze, che la realtà ancor prima della logica economica non ha asseverato, come dimostra il peggioramento della distribuzione del reddito intraeuropeo che mina l’intera costruzione comunitaria.”

L’Unione europea è diretta da una banca privata e d è impostata sulla relazione fra la componente speculativa del mercato finanziario e le politiche che la sua leva finanziaria impone ai Governi e ai Parlamenti. Sappiamo bene che non è mirata a risolvere, ma ad accentuare le divergenze fra i suoi stati e che mina l’intera costruzione comunitaria. Purtroppo e grazie a un folto stuolo di miserabili concittadini, ha minato le basi della nostra economia. Il voto del 4 marzo ha significato che vogliamo essere cittadini di un’Europa libera e non sudditi di una banca. Come ha detto e bene Mike Pompeo, sicuramente per bocca di Trump, i popoli devono essere guidati da stati-nazione e non da burocrati: L’ONU, il FMI, la banca mondiale, l’Unione europea sono stati degli errori. Tradotto, significa: “Ci siamo sbagliati e, ora, vi diremo cosa fare”. Di quale Unione parla il professore?Rileggo i programmi elettorali e domando: “Dica, professore, cosa vi siete candidati a fare?”

 

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Ripristinare la supremazia della politica sulle soluzioni tecniche è il compito che ci attende in Italia e in Europa. Se si accetta l’opposto, la situazione può sfuggire di mano”. L’articolo del ministro degli Affari europei, Paolo Savona

Articolo pubblicato da Milano Finanza)

La politica si nutre di realismo e l’accordo raggiunto con la Commissione europea porta chiara questa impronta; ma una politica che non sia ispirata da una politeia, una forma condivisa di organizzazione del bene comune, non ha lunga vita. In assenza di una istituzione monetaria dotata di poteri e volontà di svolgere le funzioni di lender of last resort contro la speculazione – protezione che in questi mesi ho insistentemente cercato – (in neretto. ndr) la realtà ha fatto premio sulle esigenze del Paese, che erano e restano quelle di garantire una crescita capace di ridurre la disoccupazione e la povertà e impedire il regresso del benessere dei cittadini.

Il governo ha retto nel difendere il minimo necessario per riaprire l’offerta di lavoro, soprattutto ai giovani, e combattere la povertà, mentre l’Unione europea non ha mostrato d’essere sensibile al primo anello di questa ineludibile catena di relazioni; la parola crescita appare solo nel dato statistico che indica una diminuzione del Pil preventivato dall’1,5 all’1%, fermo sui valori del 2018. Dati i vincoli, con la trattativa nulla di più si poteva ottenere, ma già questo dato richiede che l’azione di governo si concentri sul duplice obiettivo di riavviare gli investimenti, che restano lo strumento indispensabile per ostacolare la congiuntura negativa e non aggravare i ritardi di crescita accumulati, e di definire una politeia che restituisca prospettive di crescita all’Italia e di stabilità all’Unione europea.

I due obiettivi sono complementari ed è perciò che gli investimenti aggiuntivi non possono se non essere privati, salvo raggiungere uno specifico accordo europeo che escluda quelli pubblici dai parametri fiscali o rilanci la domanda aggregata a livello comunitario, mobilitando gli ingenti surplus di bilancia estera esistenti.

Una valutazione cautelativa suggerisce che nel corso del 2019 gli investimenti in Italia non possano essere inferiori all’1% del Pil, se si vuole raggiungere la crescita reale prevista; meglio se si raggiunge il 2%, se si vuole mettere il Paese in sicurezza dagli attacchi speculativi. Infatti la crescita del primo semestre sarà prossima a zero e gli effetti provenienti dai maggiori investimenti potrebbero ragionevolmente esplicarsi solo nel secondo semestre. Così facendo il rapporto debito pubblico/Pil, quello che maggiormente preoccupa i mercati e la stessa Commissione europea, riuscirebbe a mantenersi sia pure lievemente su una linea discendente nella prima ipotesi e ridursi ancor più nella seconda; se non accadesse, il quadro di riferimento della politica economica del Governo cambierebbe, per giunta in un contesto europeo di difficoltà decisionali (dalle elezioni al rinnovo dei principali incarichi).

La riunione tenutasi a Palazzo Chigi poche settimane orsono con le principali aziende partecipate dallo Stato e le informazioni di seguito raccolte consentono di affermare che esistono programmi di investimento di importo superiore a quello indispensabile per mettere in sicurezza dalle circostanze avverse la nostra crescita e la finanza pubblica. Il nuovo vertice della Cassa Depositi e Prestiti ha annunciato che le previsioni riguardanti le sue partecipate e i suoi stessi investimenti indicano possibile raggiungere i 200 miliardi di euro per il triennio 2019-2021. Queste iniziative, tuttavia, richiedono che vengano sbloccati piccoli o grandi intoppi che si frappongono alla loro realizzazione che, per alcuni aspetti, sono comuni agli investimenti pubblici ma, per altri, presentano specificità che vanno tenute in prioritaria considerazione nelle scelte del governo e del Parlamento. A tal fine si avverte la necessità di un Commissario ad acta.

La cintura di sicurezza che l’Italia sarà in condizione di attuare con le sue forze non basterà per portare il Paese fuori dalla crisi iniziata nel 2008. L’Ue deve sbloccare i vincoli che pone all’uso degli strumenti di politica economica ampliando i contenuti della sua funzione di utilità basata sulla stabilità, assegnando un peso anche alla crescita, dotandola di strumenti adeguati. Questa esigenza non è solo frutto di una visione positiva del futuro dell’Unione, ma delle divergenze di benessere socio-economico ereditate e di quelle frutto delle sue stesse istituzioni e delle politiche seguite. La necessità di una siffatta integrazione è attualmente molto sentita, tanto da indurre leader politici e opinionisti a chiedere con sempre maggiore insistenza non solo le riforme per i paesi membri, ma per la stessa Unione. Il presidente della Bce Draghi, nel discorso pronunciato recentemente a Pisa, ha dichiarato che l’Unione Monetaria è “incompleta”.

Non è un mistero che la divergenza tra le diverse concezioni dell’UE è nei contenuti da dare all’incompletezza da rimuovere. Perciò ho chiesto a nome del Governo di discuterne nell’ambito europeo di un Gruppo ad alto livello che analizzi la problematica; salvo eccezioni, si è finora fatto finta di non capire che l’invito rivolto era quello di interrompere la stretta relazione, indegna della convivenza democratica, tra la componente speculativa del mercato finanziario e le politiche scelte dai Governi e Parlamenti; l’Unione utilizza questa relazione per costringere i paesi membri a seguire riforme che considera “risolutive” delle divergenze, che la realtà ancor prima della logica economica non ha asseverato, come dimostra il peggioramento della distribuzione del reddito intraeuropeo che mina l’intera costruzione comunitaria.

La messa in sicurezza dalla speculazione dei debiti sovrani da parte delle autorità europee rientra tra i doveri di sussidiarietà nascenti dai Trattati. Essa richiede una collaborazione con gli Stati membri che patiscono questa situazione, rinunciando tuttavia all’idea che questa sicurezza possa essere raggiunta perseguendo per decenni politiche deflazionistiche. Si possono individuare tecniche che consentono di farlo, evitando che i debiti di un Paese vengano messi a carico degli altri.

La soluzione del problema investe anche il tema continuamente invocato della protezione del risparmio che non si ottiene solo con norme adatte, ma diffondendo fiducia in chi possiede obbligazioni. A furia di insistere a livello ufficiale che esiste un problema di debito pubblico invece di indicare una soluzione – un cattivo vizio che si è molto diffuso – si è minata questa fiducia. Per chi ha investito i risparmi in titoli di Stato, questi sono ricchezza e la fondatezza di questo convincimento dipende anche dalla qualità della politica; ripristinare la supremazia della politica sulle soluzioni tecniche è il compito che ci attende in Italia e in Europa. Se si accetta l’opposto, la situazione può sfuggire di mano.

 

Alberta Sbragia, politologa di Pittsburgh, ha osservato che gli stati europei sono ormai divenuti stati membri dell’Ue, cioè entità così intrecciate le une con le altre (sul piano legislativo, economico, amministrativo, culturale, sociale), fino a svuotare nei fatti l’opzione della “separazione dall’interdipendenza”. Ciò vale ancora di più per gli stati membri dell’Eurozona. Così, la vecchia divisione (Ue: sì o no?) è stata sostituita da una nuova divisione sul cosa fare dell’Ue? Per gli italiani, la divisione è fra chi ha interesse al permanere degli attuali squilibri e chi vuole restituire agli europei una politica democratica. I primi hanno nel duo Napolitano – Mattarella i loro rappresentanti, i secondi avevano votato i partiti populisti, finora, invano.