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6127.- Il “trappolone” del trattato pandemico OMS minaccia l’indipendenza degli Stati e l’unità del pianeta

Senza un freno, un limite, alla crescita delle multinazionali andiamo incontro, rovinosamente, a una dittatura mondiale, capace già di condizionare l’autonomia degli Stati e che, inevitabilmente, cancellerà la democrazia degli States e i principi fondanti del cristianesimo. Lo stato dell’informazione, cui è vietato il solo parlarne, ci mostra già in atto il controllo sociale e mentale sull’intera umanità. L’uso sistematico dell’Intelligenza Artificiale costituirà un potente acceleratore. Avremo, perciò, una risposta il 5 novembre.

Di Redazione Blog di Sabino Paciolla, 13 Febbraio 2024

Sabino Paciolla: Ricevo dagli amici dell’Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân e volentieri pubblico. 

OMS

di Gianfranco Battisti

Nubi nere si avvicinano  

Notizie poco tranquillizzanti stanno giungendo dal fronte medicale. Stavamo appena cercando di dimenticare i tre anni del Covid, ed ecco che ci arrivano le affermazioni catastrofiste circa una ipotetica, prossima pandemia dai caratteri apocalittici. Nessuno sa di cosa si parli, ma la notizia è data per certa dal vertice dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). A ciò si aggiunge la nuova campagna mediatica pro-vaccini, che sponsorizza quelli attualmente in commercio e quelli che saranno prodotti in futuro. Si stanno inoltre preparando le task force che dovranno indottrinare in tal senso gli studenti all’interno delle scuole e delle università. Il tutto rientra chiaramente nella manovra volta a far approvare il cosiddetto “Trattato Pandemico”. Il quale ha per obiettivo l’asservimento di tutti i Paesi del mondo agli interessi plutocratici tramite l’OMS, un’agenzia delle Nazioni Unite che otterrebbe letteralmente i “pieni poteri” a livello planetario.

Le istituzioni, queste sconosciute

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’autorità dell’OMS non è destinata a limitarsi all’ambito della salute. Le politiche sanitarie sono infatti solo il pretesto per assumere il controllo di ogni settore della società: economia, scienza, cultura, politica. Il piano prevede infatti di condizionare qualsiasi decisione politica riconducendola in vario modo a questioni anche solo apparentemente di carattere medicale. È questo l’esito di una strategia che è andata sviluppandosi nell’arco di decenni, attraverso il progressivo ampliamento dell’area di competenza della medicina maturato in seno all’OMS. L’obiettivo attribuitosi da tale organismo nel 2022 parla infatti del “raggiungimento da parte di tutte le popolazioni, del più alto livello possibile di salute”, definita (già nel 1948) come “uno stato di totale benessere fisico mentale e sociale” e non semplicemente “assenza di malattie o infermità”. Nelle sue ambizioni questo programma non solo richiama il Dr. Faust, ma presuppone soprattutto il controllo sociale e mentale dell’intera umanità[1]. Tutto approvato in un momento in cui si presumeva che avessimo superato l’epoca dei totalitarismi. Evidentemente, esiste una tabella di marcia che è nota solo ai potenti.

Se ogni aspetto della vita umana viene a confluire all’interno della salute, appare logico che il governo della stessa finisca col travalicare ogni limite, occupando tutti gli spazi dell’azione politica, nessuno escluso. Ne abbiamo avuto una dimostrazione eclatante durante la dittatura sanitaria introdotta a livello globale (ma di fatto implementata solo nell’Occidente, oltreché in Cina) nel periodo del Covid. La lettura della bozza di Trattato lascia intravvedere, al di là della scarna formulazione, l’enormità dei poteri che verrebbero attribuiti ad un organismo privo non solo di qualsiasi legittimazione democratica, ma di fronte alle cui decisioni non vi sarebbe modo di tutelarsi.

Poteri così illimitati riuscerebbero ad indirizzare la spesa degli Stati verso specifici settori, alterando il funzionamento dei mercati e l’allocazione dei capitali, impedendo di fatto ai governi di effettuare investimenti nei settori che essi considerino strategici per i loro interessi. Si consideri ad es. l’enormità delle somme spese per l’acquisto dei vaccini anti Covid, mediante contratti capestro il cui contenuto rimane tuttora secretato. Né il danno si limiterebbe al campo dell’economia, in quanto per l’implementazione dei diktat onusiani sono esplicitamente previsti interventi drastici sul fronte delle libertà di stampa, di circolazione (di beni e persone), di istruzione e financo di ricerca scientifica. L’indottrinamento della popolazione, rafforzato dalla censura, diverrebbe addirittura un obbligo internazionale. Il risultato sarebbe la nascita di un nuovo regime di colonialismo globale, nel quale i governi nazionali si troverebbero ridotti nella condizione dei consigli tribali di fronte ai governatori imposti dalle potenze europee. Una nuova via, coatta, al sottosviluppo, che questa volta è destinata a coinvolgere anche la (un tempo) ricca Europa. Per tacere dei rischi ormai più che prevedibili in ordine alla nostra salute.

Non a caso, l’ordine di scuderia è “non parlare del Trattato”. Questo svela la realtà delle cose: l’OMS è soltanto la più esterna delle matrioske che compongono la struttura occulta del potere, che si cela dietro una pluralità di controfigure, secondo la logica del Deep State[2]. Naturalmente c’è chi ha fiutato il “trappolone”, a cominciare dal parlamento USA, non del tutto asservito ai poteri occulti. Quest’ultimo ha infatti approvato una mozione con la quale si riserva di decidere se dare attuazione o meno alle singole direttive provenienti dall’OMS. Lo stesso atteggiamento è emerso nei governi di alcuni Stati dell’Unione. A loro volta i Paesi africani si sono subito dimostrati molto scettici, ed i loro rappresentanti in seno all’assemblea hanno votato in massa contro l’evidente tentativo di bruciare i tempi dell’approvazione. In Slovacchia, il presidente ha già annunciato che il suo Paese ne resterà fuori; in Ungheria la protesta viene invece dal partito nazionalista, che milita all’opposizione. Dietro le quinte c’è dunque una certa mobilitazione, nonostante il fatto che i media internazionali dedichino alla questione una scarsissima copertura.

La storia si ripete

La situazione ricorda il tentativo della presidenza Obama di far passare il cosiddetto “Trattato Transatlantico”, che avrebbe dovuto portare alla pratica “annessione” dell’area OCSE all’economia americana. L’operazione, anch’essa portata avanti nel massimo segreto, è poi fallita principalmente per l’opposizione interna agli Stati Uniti, che vedeva comunque minacciati una serie di interessi vitali da parte dell’élite globalista. Lo spettro di una dittatura mondiale che cancelli l’autonomia degli States è una delle questioni che stanno alla base del successo di Trump, e contribuisce a spiegare l’accanimento dimostrato contro il presidente durante il suo mandato ed attualmente contro la sua ricandidatura[3].

Quella attuale appare come l’ennesima “soluzione tecnica” che l’élite al potere sta cercando di attuare da decenni. Come è noto, essa sta progressivamente  monopolizzando le ricchezze ed i poteri, sottraendoli ovunque agli Stati, sia a livello di governi che di singoli cittadini. A livello istituzionale lo fa sovente attraverso organizzazioni private che vengono spacciate per pubbliche – l’OMS, come l’ONU di cui è emanazione, non sono enti pubblici, soggetti al controllo degli elettori – e lo stesso discorso vale per la pletora di OnG ad essa riconducibili, la cui operatività non casualmente viene ufficializzata dalle Nazioni Unite.

Ritornando al caso in questione, i potenti del nostro tempo hanno scoperto che in un mondo dove Dio è stato cacciato, la paura della morte e della malattia è un sentimento che può venire usato per spingere a comportamenti irrazionali e financo autolesionistici. Anche ad accettare una dittatura in confronto alla quale nazismo e comunismo conservavano pur sempre un fondo umanitario. Le modalità con le quali si è reagito quasi ovunque al Covid sono indicative della brutalità che ci aspetta in futuro. Se a ciò aggiungiamo che il virus è un’arma biologica, realizzata con i finanziamenti dell’esercito americano (non si dimentichi che sulla composizione dei cosiddetti “vaccini” grava un segreto militare che l’Unione Europea è costretta a rispettare) si comprende dove si intende arrivare. Apertis verbis, ad attribuire all’OMS il potere di dichiarare – ogniqualvolta farà comodo a “lorsignori”  – l’esistenza di una pandemia, costringendo il mondo intero ad assumere decisioni di portata epocale praticamente senza contraddittorio.

Lo sfilacciarsi della democrazia

Dopo aver sottratto furtivamente ai popoli ogni possibilità di controllo sulla politica, con il Trattato pandemico si vuole adesso sottomettere ufficialmente gli Stati all’OMS, instaurando di fatto un governo mondiale facente capo ad un organismo apparentemente “tecnico”. In realtà, gli amministratori dell’OMS vengono nominati dai politici conniventi, dai quali ricevono una delega in bianco. Questa delega è poi riempita dai padroni dell’industria del farmaco, i quali mirano unicamente ad aumentare le loro ricchezze, direttamente e indirettamente. Dietro all’industria vi sono poi i militari, e dietro ad essi tanti “signori X” che tirano i fili. 

Sulla strada che abbiamo sintetizzato un risultato fondamentale è già stato raggiunto: esiste in effetti un “governo mondiale delle banche”[4], ma questo non è più in grado di far funzionare un mondo che è stato depredato al punto da essere sull’orlo del tracollo. Occorre dunque rafforzare la presa. La prossima crisi di Wall Street, che negli ultimi 16 anni è stata ritardata a prezzo della definitiva compromissione dell’economia mondiale, è ipotizzabile per il 2025. Vale a dire all’indomani delle elezioni presidenziali americane. Da qui il tempismo del Trattato, che mira a dare al nuovo presidente i poteri per salvare l’America a spese del mondo intero. Difatti, gli USA sono ad un tempo il “grande malato” dell’economia mondiale[5] ed il maggior contribuente dell’OMS, più ancora della Cina. E come tali, sono in grado di condizionarne le decisioni.

L’obiettivo è in fondo semplice: si tratta di rinchiudere il mondo in una rete dalla quale rimangano fuori soltanto loro: all’esterno, ma seduti nella stanza dei bottoni. Dalla quale amministrare il resto del pianeta. Come già anticipato, ciò trasformerebbe il mondo intero in una colonia, da amministrare né più né meno di come l’Europa ha trattato il resto del mondo nei secoli passati[6]. Per l’occasione è stato già lanciato il nuovo slogan: “Non possiederai nulla e sarai felice”. Il copyright è del World Economic Forum, un’associazione privata che comprende circa 1.500 tra grandi e grandissimi imprenditori multinazionali (incluso il famoso Klaus Schwab), provenienti dal mondo intero. È questa la vera “assemblea globale” che oggi vuole assumere tutti i poteri. Un’assemblea al cui interno i diritti di voto non sono distribuiti in modo paritetico, ma sono “pesati” secondo le ricchezze formalmente detenute da ciascuno.

Il “Piano B”

Relativamente al Trattato Pandemico, il colpo è talmente grosso che i “furbetti”, a quanto è dato di intendere, temono adesso di non riuscire a farlo approvare. L’operazione richiede infatti una maggioranza qualificata pari a non meno di 2/3 dei membri ONU. Si starebbe allora preparando un “Piano B”, che consisterebbe nello spostare le norme liberticide dal Trattato al Regolamento interno dell’OMS. Questo si può infatti modificare a maggioranza semplice: bastano 98 voti.

Non sarebbe la prima volta che una simile manovra ha luogo. È accaduto lo stesso allorquando il progetto della cosiddetta “Costituzione europea” è crollato di fronte all’opposizione popolare. Nell’occasione, l’élite che ci governa ha reagito collocando a livello di trattati internazionali (soprattutto il Trattato di Nizza) le norme tecniche che trasferiscono i poteri determinanti dai singoli Stati all’Unione europea[7]. Questa è diventata di fatto una sorta di ircocervo, un “quasi Stato”, nel quale il potere è concentrato in pochissime mani ed ai parlamentari, che non possono esprimere il governo, non è consentita nemmeno l’iniziativa legislativa. Il risultato è un deficit democratico ineliminabile, che non è nemmeno equilibrato dalla relativa maggiore efficienza che solitamente caratterizza i regimi autoritari.

Tutto ciò non deve meravigliare. Le storture originarie dell’Unione europea presentano tutti i tratti di un organismo handicappato, fatto nascere a forza dalle stesse élites che su un altro versante si battono ostinatamente per far abortire i bambini, anche e soprattutto se potrebbero nascere sani. Queste caratteristiche istituzionali sono infatti finalizzate a consentire che l’embrione di Stato europeo si sciolga prossimamente nel calderone dal quale dovrà scaturire il futuro governo mondiale. Da quanto è dato intuire, tale governo sarà caratterizzato dalla stessa mancanza di coesione che ravvisiamo nella UE, dove le diverse istituzioni costituiscono delle realtà fra loro disarticolate.

Se tutto procedesse come si vuole “dall’alto”, vedremmo nascere, più che una modalità di governance completamente inedita, una forma “perfezionata” della attuale struttura europea. Una forma ibrida che vede il potere spartito tra le grandi multinazionali e le organizzazioni non governative – ergo, private – che sono state messe in piedi come “braccio” politico dei magnati. Organizzazioni il cui compito è di “costruire” un consenso apparente per le decisioni elaborate dai moderni “padroni del vapore”.

Tempus fugit

Per il “Trattato pandemico” i tempi sono strettissimi: il golpe (o, per chi preferisce usare il “politicamente corretto”: il voto) è calendarizzato per maggio, all’indomani delle elezioni europee. A quel tempo il nostro continente sarà ancora rappresentato dai leader espressi dall’attuale coalizione di centro-sinistra, mentre la nuova maggioranza che probabilmente emergerà dalle urne non avrà avuto il tempo di organizzarsi e prendere in mano le redini del potere. Certe coincidenze non sono mai casuali.

A questo punto la parola passa più che mai ai singoli Stati, che conservano ancora (non si sa fino a quando) l’autorità di aderire o meno al “trappolone”. La situazione è invero assai difficile. La bozza di piano pandemico nazionale recentemente presentata alle Camere contiene già la sottomissione dell’Italia ai diktat dell’OMS, anche se non esplicitamente. Non resta che sperare nella votazione finale in assemblea. Ogni azione di sensibilizzazione mediatica e politica, ovunque avvenga, è dunque benvenuta e potremmo dire, anche “sacrosanta”.

Per i cattolici, doverosa appare una mobilitazione di natura religiosa. Da troppo tempo abbiamo dimenticato il potere della preghiera collettiva. Sarà forse il caso di ricordare come una catena di rosari, portata avanti per anni, da una porzione crescente del popolo austriaco abbia portato nel dopoguerra all’evacuazione delle truppe sovietiche ed al ristabilimento dell’indipendenza del Paese. Se a ciò aggiungiamo che maggio è il mese caro alla Madonna, non ci dovrebbero essere dubbi su quale sia il nostro compito primo.

[1] Nel 1999 si era giunti ad un passo dall’inserire nell’elenco anche il “benessere spirituale”.

[2] Cfr. Il Deep State planetario: la politica manovrata dall’ombra – 15° Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel Mondo, a cura di G. Crepaldi, R. Cascioli, S. Fontana, Siena, Cantagalli – Osservatorio internazionale Card. Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa, 2023.

[3] Questo tema è “convenientemente” omesso dagli organi d’informazione.

[4] Il quale è praticamente in guerra con la Federazione Russa.

[5] Cfr. “Le logiche economiche del Great Reset”, in Proprietà privata e libertà: contro lo sharing globalista – 14° Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel Mondo, a cura di R. Cascioli, G. Crepaldi, S. Fontana, Siena, Cantagalli – Osservatorio internazionale Card. Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa, 2022, pp. 37-60.

[6] Vi sono ancora dubbi sulle ragioni per le quali non il solo Putin ma la maggior parte del pianeta – che si sta organizzando all’interno dei BRICS – si oppone agli Stati Uniti?

[7] Si consideri che la Costituzione italiana esclude le leggi di ratifica dei Trattati internazionali dalla possibilità del referendum abrogativo. Una circostanza che spiega l’apparente “debolezza” che i nostri governanti mostrano nei rapporti con gli altri Stati.

5971.- SCOTT RITTER: L’enorme fallimento dell’intelligence di Israele

L’ONU ha condannato il blocco agli aiuti umanitari per la popolazione di Gaza. Le decise prese di posizione del presidente Meloni a favore di Israele e contro le crudeltà di Hamas lasciano intendere che l’intelligence dell’Italia abbia la situazione in pugno.

Di Redazione Blog di Sabino Paciolla| 11 Ottobre 2023

Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog l’articolo scritto da Scott Ritter,ex ufficiale dei servizi segreti del Corpo dei Marines degli Stati Uniti,  e pubblicato su Consortium News. Visitate il sito e valutate liberamente le varie opzioni offerte e le eventuali richieste. Ecco l’articolo nella nostra traduzione. 

intelligence spionaggio militare guerra
Army Photo by Maj. Gregg Moore

Le origini del fallimento dell’intelligence israeliana sugli attacchi di Hamas possono essere ricondotte alla decisione di affidarsi all’IA invece che all’analisi contraria nata dal precedente fallimento dell’intelligence nella guerra dello Yom Kippur del 1973.

Man mano che la portata e le dimensioni dell’attacco a sorpresa di Hamas contro Israele diventano più chiare, una domanda emerge più di ogni altra dai detriti del campo di battaglia: Come ha fatto un’impresa così massiccia e complessa a sfuggire all’attenzione dei famosi servizi segreti israeliani? 
Una domanda altrettanto importante è: perché questo attacco non è stato individuato anche dalla comunità di intelligence degli Stati Uniti, visti i massicci investimenti fatti per contrastare il terrorismo dopo gli attacchi terroristici alla patria americana dell’11 settembre 2001? 
Le risposte risiedono nella storia del successo di cui Israele ha goduto nell’identificare e rispondere alle operazioni di Hamas in passato, successo che si è manifestato in una cultura di compiacenza, che ha portato alla morte di centinaia di cittadini israeliani – proprio le persone che i servizi di intelligence erano impegnati a proteggere.
Il fatto che questo attacco sia avvenuto a 50 anni e un giorno da quando Israele ha subito quello che fino a quel momento era stato il più grande fallimento dell’intelligence israeliana, la guerra dello Yom Kippur del 1973, non fa che rafforzare la profondità del fallimento che si è verificato.

I risultati della Commissione Agranat

Nelle settimane successive alla fine della guerra dello Yom Kippur, il governo del Primo Ministro Golda Meir formò una commissione d’inchiesta guidata da Shimon Agranat, il giudice capo della Corte Suprema israeliana. La Commissione Agranat, come fu successivamente chiamata, si concentrò sulle analisi errate condotte dalla direzione dell’intelligence militare israeliana (AMAN), con particolare attenzione a Eli Zeira, il capo del Dipartimento di Ricerca e Analisi dell’AMAN, o RAD.
Zeira fu il principale artefice di quello che divenne noto come “il concetto”, un’adesione dogmatica a un paradigma analitico che, fino all’ottobre 1973, si era dimostrato affidabile negli anni successivi alla vittoria di Israele nella guerra dei sei giorni del 1967. 
Il “concetto” sosteneva che gli eserciti arabi, pur possedendo una limitata capacità di iniziare una guerra con Israele, non erano pronti per una guerra totale, e come tali avrebbero evitato di impegnarsi in azioni che logicamente avrebbero portato a una guerra totale con Israele. 
Gli analisti del RAD sono stati criticati per l’eccessivo affidamento sul ragionamento induttivo e sull’intuizione e per il mancato utilizzo di una metodologia deduttiva strutturata. Una delle conclusioni raggiunte dalla Commissione Agranat fu la necessità di utilizzare le cosiddette tecniche analitiche strutturate, in particolare la cosiddetta “Analisi delle ipotesi concorrenti”.

Ciò si è manifestato con lo sviluppo all’interno dell’AMAN di una cultura del pensiero contrario, costruita intorno al pensiero critico per sfidare le valutazioni unitarie e il pensiero di gruppo. 
Gli Stati Uniti hanno anche esaminato le cause alla radice dei loro fallimenti di intelligence riguardo alla guerra dello Yom Kippur. Una valutazione a più agenzie del fallimento dell’intelligence dell’ottobre 1973, pubblicata dagli Stati Uniti nel dicembre di quell’anno, concludeva che il problema all’epoca non era l’incapacità di raccogliere o anche solo di valutare accuratamente i dati dell’intelligence: infatti, secondo il rapporto, le prove di un attacco a sorpresa da parte degli eserciti di Egitto e Siria erano state “abbondanti, minacciose e spesso accurate” e gli analisti dell’intelligence statunitense avevano discusso e scritto su queste prove. 
Alla fine, però, il rapporto del dicembre 1979 affermava che gli analisti statunitensi – come le loro controparti israeliane – avevano concluso che non ci sarebbe stato alcun attacco, conclusioni che, come si legge nel post-mortem, “erano semplicemente, ovviamente e clamorosamente sbagliate”.
Alcune delle criticità emerse da questa valutazione sono state: l’eccessiva fiducia degli analisti statunitensi nel fatto che Israele conosca la propria posizione di sicurezza; il fatto che gli analisti avessero sposato nozioni preconcette sulle capacità militari arabe; la tendenza a interpretare in modo plausibile le stesse prove; l’incapacità degli analisti di sfidare la fallacia dell’”attore razionale”.

Israele e Stati Uniti ai ferri corti

Negli anni successivi alla guerra dello Yom Kippur, le comunità di intelligence di Israele e degli Stati Uniti hanno stabilito una propria “attrazione” gravitazionale, con Israele che ha utilizzato una metodologia di previsione e valutazione delle minacce che ha sostenuto le decisioni di intervenire militarmente in Libano, mettendosi spesso in contrasto con i responsabili politici statunitensi. 
La politica di Washington si basava sui briefing degli analisti dell’intelligence statunitense, che avevano sviluppato una cultura di minimizzazione dell’intelligence israeliana a favore della propria. Il conseguente divario negli approcci analitici e nelle conclusioni ha portato alla crisi dell’intelligence del 1990-1991 sulla minaccia rappresentata dai missili SCUD iracheni.
Questa crisi si basava sulle diverse priorità attribuite alla minaccia SCUD, sia nella fase di preparazione che in quella di esecuzione (a prescindere dagli obiettivi militari) dell’Operazione Desert Storm, la campagna guidata dagli Stati Uniti per sgomberare le forze irachene dal Kuwait condotta nel gennaio-febbraio 1991. 
Queste differenze si sono esacerbate solo negli anni successivi alla fine di quel conflitto, quando sia gli Stati Uniti che Israele hanno lottato su come rispondere al meglio alla minaccia delle armi di distruzione di massa irachene, compresi i missili SCUD.
In quel periodo sono stato al centro della controversia tra Stati Uniti e Israele in materia di intelligence, essendo stato coinvolto nelle Nazioni Unite per creare una capacità di intelligence indipendente a sostegno dello sforzo di disarmo dell’Iraq basato sulle ispezioni.

Dal 1991 al 1998, ho svolto un delicato lavoro di collegamento sia con la C.I.A. che con l’AMAN, trovandomi spesso nel mezzo dello scontro culturale che si era creato tra le due organizzazioni. 
Questo scontro a volte assumeva la forma di una commedia da vaudeville, come quella volta che dovetti essere accompagnato fuori dalla porta sul retro di un edificio dell’AMAN per evitare di essere visto dal capo della stazione della C.I.A., che era arrivato per scoprire quali informazioni gli israeliani stavano condividendo con me. 
In un’altra occasione, mi ero imbattuto per le strade di Tel Aviv in un gruppo di analisti della C.I.A. che mi avevano dato consigli su una particolare ispezione in corso di pianificazione. Erano critici nei confronti dell’intelligence israeliana che stavo usando per sostenere questa missione. 
Lo scopo della loro visita era quello di fare pressione su Israele affinché interrompesse il flusso di informazioni alle Nazioni Unite attraverso di me, sostenendo che, in quanto cittadino statunitense, avrei dovuto ottenere le informazioni da fonti statunitensi e che quindi Israele avrebbe dovuto trasmettermi tutte le informazioni attraverso di loro. Il nostro incontro, si è scoperto, non è stato “casuale”, ma piuttosto organizzato dagli israeliani, a mia insaputa, affinché io fossi consapevole della doppiezza delle mie controparti statunitensi.

Questa duplicità ha portato a interazioni di carattere più inquietante, con la C.I.A. che ha dato il via libera a un’indagine dell’F.B.I. sulle accuse di spionaggio per conto di Israele. Le azioni degli Stati Uniti non avevano nulla a che fare con le genuine preoccupazioni di spionaggio da parte mia, ma piuttosto facevano parte di una campagna più ampia volta a minimizzare l’influenza dell’intelligence israeliana su uno sforzo ispettivo delle Nazioni Unite che gli Stati Uniti ritenevano dovesse invece marciare al ritmo di un tamburo dettato dall’intelligence statunitense.

La CIA contro i servizi segreti israeliani

L’astio che esisteva all’interno della C.I.A. nei confronti dell’intelligence israeliana era reale e si basava sui diversi approcci politici adottati dalle due nazioni riguardo al ruolo degli ispettori di armi e alle armi di distruzione di massa irachene. 
Gli Stati Uniti erano impegnati in una politica di cambio di regime in Iraq e utilizzavano le ispezioni sulle armi come veicolo per continuare le sanzioni economiche volte a contenere il governo di Saddam Hussein e come fonte di intelligence unica che avrebbe potuto consentire agli Stati Uniti di effettuare operazioni volte a rimuovere Saddam Hussein dal potere.
Gli israeliani erano concentrati esclusivamente sulla sicurezza di Israele. Sebbene nei primi due anni successivi alla fine di Desert Storm gli israeliani avessero preso in considerazione l’opzione di un cambio di regime, nel 1994 avevano stabilito che il modo migliore di procedere era quello di collaborare con gli ispettori delle Nazioni Unite per ottenere l’eliminazione verificabile delle armi di distruzione di massa irachene, compresi i missili SCUD.
Una delle manifestazioni più evidenti della differenza di approccio tra la C.I.A. e Israele riguardava l’impegno che avevo condotto per la contabilità dell’arsenale missilistico SCUD dell’Iraq. 
Nel novembre 1993, fui convocato alla Casa Bianca per informare un gruppo della C.I.A., guidato da Martin Indyk e Bruce Reidel, sulla mia indagine, che aveva concluso che tutti i missili iracheni erano stati registrati.

La C.I.A. respinse le mie scoperte, dichiarando che la loro valutazione della capacità missilistica SCUD irachena era che l’Iraq manteneva una forza di 12-20 missili insieme a diversi lanciatori, e che questa valutazione non sarebbe mai cambiata, a prescindere dal mio lavoro di ispettore. 
Al contrario, quando mi sono recato in Israele per la prima volta, nell’ottobre 1994, sono stato contattato dal capo dell’AMAN, Uri Saguy, in merito alla mia valutazione sulla contabilità dei missili SCUD dell’Iraq. Ho dato al direttore dell’AMAN lo stesso briefing che ho dato alla C.I.A.
Saguy, accompagnato dall’allora capo della RAD, Yaakov Amidror, accettò in toto le mie conclusioni e le utilizzò per informare il primo ministro israeliano.
La mia esperienza con l’intelligence israeliana è molto più rivelatrice della mia contemporanea esperienza con la C.I.A., se non altro perché gli israeliani stavano cercando di risolvere un problema di intelligence (quale fosse il reale stato delle armi di distruzione di massa irachene), mentre gli Stati Uniti stavano cercando di attuare una decisione politica riguardante il cambio di regime in Iraq.
Tra il 1994 e il 1998, ho effettuato 14 viaggi in Israele dove ho lavorato a stretto contatto con l’AMAN, informando personalmente due direttori (Saguy e, dal 1995, Moshe Ya’alon), due capi del RAD (Yaakov Amidror e Amos Gilad) e sviluppando uno stretto rapporto di lavoro con analisti e operatori di diverse organizzazioni di intelligence israeliane, tra cui la leggendaria Unità 8200 – l’unità di intelligence dei segnali di Israele.

Un attore razionale

Gli israeliani mi hanno informato ampiamente sulla loro metodologia post-guerra dello Yom Kippur, in particolare sul loro nuovo approccio contrario all’analisi. Uno degli aspetti più interessanti di questo approccio è stata la creazione di una postazione, nota all’interno dell’AMAN come “il Tommaso dubbioso” (derivata dal Nuovo Testamento della Bibbia, quando Tommaso – uno dei 12 apostoli di Gesù – non avrebbe creduto che Gesù fosse tornato dalla morte finché non lo avesse visto). 
Mi è stato presentato il colonnello che aveva questo ingrato compito, spiegandomi che riceveva ogni briefing prima che fosse consegnato al direttore e procedeva a mettere in discussione conclusioni e affermazioni. Le sue domande dovevano avere una risposta soddisfacente prima che il briefing potesse essere trasmesso. 
Fu questo colonnello che contribuì a formulare la conclusione israeliana secondo cui Saddam Hussein era un attore razionale che non avrebbe cercato un conflitto più ampio con Israele che avrebbe potuto portare alla distruzione della sua nazione – ironicamente abbracciando le stesse conclusioni da “attore razionale” che erano state erroneamente raggiunte nel periodo precedente la guerra dello Yom Kippur. In questa occasione, l’analisi era corretta.
L’analisi prodotta dal “Tommaso dubbioso” ha permesso agli israeliani di considerare la possibilità di un cambiamento di approccio nei confronti di Saddam Hussein. Tuttavia, non ha ridotto la vigilanza dell’intelligence israeliana nel garantire che questa valutazione fosse e rimanesse accurata.

Ho lavorato a stretto contatto con l’AMAN e l’Unità 8200 per mettere a punto un piano di raccolta di informazioni che utilizzasse immagini, informazioni tecniche, umane e segnali per accertare le capacità e le intenzioni irachene. Sono stato personalmente testimone della diligenza con cui gli analisti e i raccoglitori israeliani hanno portato avanti la loro missione. Letteralmente, nessuna pietra è stata lasciata intentata, nessuna tesi è stata lasciata inesplorata. 
Alla fine, gli israeliani sono stati in grado di corroborare le conclusioni di Uri Saguy del 1994 sulla contabilità dei missili SCUD iracheni con la loro analisi dettagliata derivata dall’intelligence raccolta con i loro mezzi e da quella raccolta grazie alla collaborazione con me e altri ispettori delle Nazioni Unite.
Questo successo si è rivelato fatale per Israele e ha contribuito al fallimento dell’intelligence statunitense e israeliana nel prevedere gli attacchi di Hamas del 2023, simili a quelli dello Yom Kippur. 
Nel 1998 Yaakov Amidror fu sostituito alla guida del RAD da Amos Gilad. Mentre Amidror abbracciava pienamente l’approccio contrario adottato da RAD e AMAN quando si trattava di produrre analisi di intelligence, Gilad aveva una mentalità diversa, ritenendo che il rapporto della Commissione Agranat avesse limitato l’intelligence israeliana dall’adattarsi alle nuove sfide. 
Riteneva che il trauma dello Yom Kippur avesse portato l’AMAN ad adottare un approccio analitico conservatore e minimalista, concentrandosi sull’analisi delle capacità e trascurando le intenzioni, con conseguenti conclusioni troppo caute.

Non un attore razionale

Gilad era più incline ad abbracciare le valutazioni della C.I.A. sulla minaccia rappresentata da Saddam Hussein e lavorò con la C.I.A. per smantellare la collaborazione tra gli ispettori delle Nazioni Unite e l’AMAN. 
All’indomani degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti, Gilad aveva gettato via la precedente conclusione che Saddam era un attore razionale e, in quanto tale, non aveva rappresentato una minaccia per Israele (una valutazione sostenuta dalla conclusione raggiunta attraverso l’ampia cooperazione tra gli ispettori delle Nazioni Unite e l’AMAN che l’Iraq non possedeva quantità vitali di armi di distruzione di massa e che non c’era alcuno sforzo da parte dell’Iraq per ricostituire in modo significativo la capacità industriale di produrre armi di distruzione di massa). 
Invece, Gilad ha dipinto un quadro privo di fatti che postula Saddam come una minaccia degna di un intervento militare, contribuendo così a sostenere l’intelligence statunitense che ha giustificato un’invasione dell’Iraq guidata dagli Stati Uniti.
Il fatto che l’intelligence sulle capacità irachene di distruzione di massa, utilizzata per giustificare l’invasione statunitense dell’Iraq, si sia poi rivelata sbagliata, non ha minato il ritrovato ardore tra l’intelligence statunitense e quella israeliana. 
L’obiettivo politico di un cambio di regime era stato raggiunto, e come tale non importava che il prodotto analitico su cui si era fatto affidamento per le valutazioni errate fosse sbagliato.

Nel periodo precedente la guerra dello Yom Kippur del 1973, l’AMAN aveva ignorato una pletora di rapporti di intelligence che prevedevano gli attacchi arabi. Poiché le conseguenze di questo errore avevano provocato un imbarazzo politico israeliano, è stata chiamata in causa e si è cercato di porvi rimedio.

Nessun imbarazzo, a differenza dello Yom Kippur

Il periodo che ha preceduto l’invasione dell’Iraq nel 2003 è stato diverso. L’AMAN aveva ignorato il proprio considerevole corpo di prove, accumulato in anni di stretta collaborazione con gli ispettori delle Nazioni Unite, che dimostravano che l’Iraq non possedeva quantità significative di armi di distruzione di massa, né il desiderio di ricostituire le capacità produttive necessarie per il loro riacquisto. 
Ma poiché le conseguenze di questo fallimento non si sono manifestate in un imbarazzo politico in Israele, a differenza dello Yom Kippur, questo fallimento è stato ignorato.
Anzi, il principale responsabile di questo fallimento, Amos Gilad, è stato elevato nel 2003 a capo del potente Ufficio Affari politico-militari, posizione che ha ricoperto fino al 2017. Durante il suo mandato, si dice che Gilad abbia avuto più influenza sulla politica di chiunque altro. Ha contribuito a rafforzare i legami tra le comunità di intelligence statunitensi e israeliane e ha riportato Israele alla prassi precedente alla guerra dello Yom Kippur, che prevedeva un eccessivo affidamento sul ragionamento induttivo e sull’intuizione, privo di una metodologia deduttiva strutturata.
Una delle principali conseguenze del lungo mandato di Gilad a capo dell’Ufficio politico-militare è stata la risubordinazione della comunità di intelligence statunitense ai giudizi analitici israeliani, sulla base del fatto che Israele conosceva meglio di chiunque altro le minacce che doveva affrontare. 

Questa realtà si è manifestata nelle parole del consigliere per la sicurezza nazionale statunitense Jake Sullivan, intervenuto al The Atlantic Festival una settimana prima degli attacchi di Hamas, quando ha concluso ottimisticamente che “la regione mediorientale è più tranquilla oggi di quanto non lo sia stata negli ultimi vent’anni”, aggiungendo che “la quantità di tempo che devo dedicare alle crisi e ai conflitti in Medio Oriente oggi, rispetto a tutti i miei predecessori che risalgono all’11 settembre, è significativamente ridotta”.
Il fondamento dell’ottimismo errante di Sullivan sembrava essere una politica congiunta USA-Israele che cercava la normalizzazione delle relazioni tra Israele e il mondo arabo, in primo luogo con l’Arabia Saudita. 
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che per più di tre decenni è stato il manifesto della sicurezza israeliana, ha creduto nell’idea della normalizzazione con i sauditi come componente chiave di un riallineamento strategico del potere in Medio Oriente lontano dall’Iran e verso Israele. 
Questa fede nell’imperativo della normalizzazione è stata una vivida dimostrazione di come la nuova enfasi di Israele sulle intenzioni rispetto alle capacità lo abbia reso cieco di fronte alla realtà delle minacce provenienti da Gaza. 
Allo stesso modo, il fatto che gli Stati Uniti avessero ancora una volta subordinato la loro analisi delle minacce alle conclusioni israeliane – specialmente in circostanze in cui Israele non vedeva alcun pericolo immediato – significava che gli Stati Uniti non dedicavano troppo tempo alla ricerca di indicazioni che potessero contraddire le conclusioni israeliane.

Superare l’intelligenza artificiale

Ma forse la fonte maggiore del fallimento dell’intelligence israeliana riguardo ad Hamas è stata l’eccessiva fiducia che Israele ha riposto nella raccolta e nell’analisi dell’intelligence stessa. Gaza e Hamas sono stati per anni una spina nel fianco di Israele e come tali hanno attirato l’attenzione dei servizi di sicurezza e di intelligence israeliani.
Israele ha perfezionato l’arte dell’intelligence umana contro l’obiettivo di Hamas con una comprovata esperienza nel collocare agenti in profondità nella gerarchia decisionale di Hamas. 
L’Unità 8200, inoltre, ha speso miliardi di dollari per creare capacità di raccolta di informazioni che aspirano ogni singolo dato digitale proveniente da Gaza: telefonate, e-mail e SMS. Gaza è il luogo più fotografato del pianeta e, tra immagini satellitari, droni e telecamere a circuito chiuso, si stima che ogni metro quadrato di Gaza venga ripreso ogni 10 minuti.
Questa quantità di dati è eccessiva per le tecniche di analisi standard che si affidano alla mente umana. Per compensare questa situazione, Israele ha sviluppato un’enorme capacità di intelligenza artificiale (AI) che ha poi armato contro Hamas nel breve ma mortale conflitto di 11 giorni con Hamas nel 2021, chiamato Guardian of the Walls. 
L’Unità 8200 ha sviluppato diversi algoritmi unici che hanno utilizzato immensi database derivati da anni di dati di intelligence grezzi raccolti da ogni possibile fonte di informazione.

Basandosi sui concetti di apprendimento automatico e di guerra basata su algoritmi che sono stati all’avanguardia nella ricerca e nello sviluppo militare israeliano per decenni, l’intelligence israeliana è stata in grado di utilizzare l’intelligenza artificiale non solo per selezionare gli obiettivi, ma anche per anticipare le azioni di Hamas. 
Questa capacità di prevedere il futuro, per così dire, ha contribuito a plasmare le valutazioni israeliane sulle intenzioni di Hamas in vista degli attacchi dello Yom Kippur del 2023.
L’errore fatale di Israele è stato quello di vantarsi apertamente del ruolo svolto dall’AI nell’operazione Guardian of the Walls. Hamas è stato apparentemente in grado di prendere il controllo del flusso di informazioni raccolte da Israele. 
Si è speculato molto sul fatto che Hamas avrebbe “oscurato” l’uso di telefoni cellulari e computer per negare a Israele i dati contenuti in questi mezzi di comunicazione. Ma il “buio” sarebbe stato, di per sé, un indicatore di intelligenza, che l’IA avrebbe certamente colto.

È invece molto probabile che Hamas abbia mantenuto un elaborato piano di inganno sulle comunicazioni, mantenendo un livello di comunicazioni sufficiente in quantità e qualità per evitare di essere individuato dall’IA – e dagli analisti israeliani che si discostano dalla norma.
Allo stesso modo, Hamas avrebbe probabilmente mantenuto il suo profilo fisico di movimento e attività per far sì che gli algoritmi dell’IA israeliana fossero convinti che non ci fosse nulla di strano. 
Ciò significava anche che qualsiasi attività – come l’addestramento relativo al parapendio o alle operazioni anfibie – che avrebbe potuto essere rilevata e segnalata dall’IA israeliana, veniva svolta per evitare il rilevamento.
Gli israeliani erano diventati prigionieri dei loro stessi successi nella raccolta di informazioni. 
Producendo una quantità di dati superiore a quella che le metodologie analitiche standard basate sull’uomo potevano gestire, gli israeliani si sono rivolti all’IA per ottenere assistenza e, a causa del successo dell’IA durante le operazioni del 2021 contro Gaza, hanno sviluppato un’eccessiva fiducia negli algoritmi basati su computer per scopi operativi e analitici.

Passaggio dal Contrario

Le origini dell’enorme fallimento dell’intelligence israeliana riguardo agli attacchi di Hamas dello Yom Kippur del 2023 possono essere rintracciate nella decisione di Amod Gilad di separarsi dall’eredità dell’analisi contraria nata dal fallimento dell’intelligence della Guerra dello Yom Kippur del 1973, che ha prodotto lo stesso eccessivo affidamento sul ragionamento induttivo e sull’intuizione, che ha portato al fallimento iniziale.
L’intelligenza artificiale è buona solo quanto i dati e gli algoritmi utilizzati per produrre i rapporti. Se la componente umana dell’IA – coloro che programmano gli algoritmi – è corrotta da metodologie analitiche errate, lo sarà anche il prodotto dell’IA, che replica queste metodologie su scala più ampia. 
Nel primo volume di The Gathering Storm, la storia completa della Seconda guerra mondiale di Winston Churchill, il leader britannico della Seconda guerra mondiale dice: “È una battuta in Gran Bretagna dire che il War Office si prepara sempre per l’ultima guerra”. 
Dato che la natura umana è quella che è, la stessa battuta può essere tragicamente applicata ai servizi militari e di intelligence israeliani in vista degli attacchi di Hamas dello Yom Kippur del 2023. Sembra che gli israeliani fossero singolarmente concentrati sui successi ottenuti nell’Operazione Guardian Walls del 2021 e sul ruolo svolto dall’IA nel conseguire tale successo.

Negando il beneficio dell’approccio contrario all’analisi messo in atto all’indomani della Commissione Agranat, Israele si è preparato al fallimento non immaginando uno scenario in cui Hamas avrebbe capitalizzato l’eccessivo affidamento israeliano sull’IA, corrompendo gli algoritmi in modo tale da accecare i computer, e i loro programmatori umani, sulle vere intenzioni e capacità di Hamas. 
Hamas è stato in grado di generare un vero e proprio fantasma nella macchina, corrompendo l’IA israeliana e preparando il popolo e le forze armate israeliane a uno dei capitoli più tragici della storia della nazione israeliana.

Scott Ritter

5705.- La sfida dell’Intelligenza Artificiale

Giuseppe Savagnone

Apriamo l’argomento con Giuseppe Savagnone

Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo,
Scrittore ed Editorialista.

Un grido d’allarme

Ha suscitato grande impressione  – ma anche vivaci polemiche – la lettera aperta, firmata da oltre mille personalità del mondo della cultura, della scienza e dell’economia, in cui si denunciavano i rischi dell’attuale sviluppo incontrollato dell’Intelligenza Artificiale (IA).

«Negli ultimi mesi», si diceva nella lettera, «i laboratori di IA si sono impegnati in una corsa fuori controllo per sviluppare e impiegare menti digitali sempre più potenti che nessuno – nemmeno i loro creatori – è in grado di comprendere, prevedere o controllare in modo affidabile».

Il problema posto dai firmatari è semplice: posto che «i sistemi di intelligenza artificiale contemporanei stanno diventando competitivi con gli esseri umani (…), dovremmo sviluppare menti non umane che alla fine potrebbero superarci di numero, essere più intelligenti e sostituirci? Dobbiamo rischiare di perdere il controllo della nostra civiltà?».

Da qui la richiesta: «Pertanto chiediamo a tutti i laboratori di IA di sospendere immediatamente per almeno 6 mesi l’addestramento di sistemi di IA più potenti del GPT-4. Questa pausa dovrebbe essere pubblica e verificabile (…). I laboratori di IA e gli esperti indipendenti dovrebbero utilizzare questa pausa per sviluppare e implementare congiuntamente una serie di protocolli di sicurezza condivisi per la progettazione e lo sviluppo di IA avanzate», volti a «garantire che i sistemi che vi aderiscono siano sicuri al di là di ogni ragionevole dubbio».

L’appello, firmato tra l’altro da personalità discusse come Musk, è stato oggetto di due ordini di critiche. Uno riguardante la sua praticabilità. È stato osservato da più parti che non è realistica l’idea di coinvolgere tutti i paesi del pianeta – dagli Stati Uniti, alla Russia, alla Cina – in uno stop di 6 mesi. Ma anche se ci si riuscisse – e questo è il secondo ordine di obiezioni – , non basterebbero certo 6 mesi a creare un sistema di controlli che rendano «sicuri al di là di ogni ragionevole dubbio» i prodotti della ricerca sulle IA.

Nessuno, però, ha contestato la serietà del problema che il documento solleva. Anzi alcuni che non l’hanno firmato – come Eliezer Yudkowsky, uno dei maggiori esperti nel campo della sicurezza dei sistemi di intelligenza artificiale – , hanno precisato di non averlo fatto perché troppo blando: «Mi sono astenuto dal firmare», ha scritto Yudkowsky, perché penso che la lettera stia sottovalutando la gravità della situazione».

E poco dopo, ai primi di maggio, è arrivata la notizia che Geoffrey Hinton, definito «il padrino dell’intelligenza artificiale» ha lasciato Google, con cui aveva collaborato per anni, dichiarando che lo faceva per poter parlare liberamente dei rischi dell’IA.

Dal futuro al presente

Per capire il contesto in cui si collocano questi gridi di allarme, basta leggere l’apertura di un articolo del «Sole 24ore» del 15 gennaio 2023, in cui si intervista Brad Smith, il presidente della «OpenAI», la società di Microsoft che ha creato ChatGPT , il più potente sistema di intelligenza artificiale mai prodotto finora e di cui è stata da poco annunciata una versione ancora più potente (menzionata nella lettera citata all’inizio), GPT-4 .

Scrive la giornalista dell’autorevole quotidiano, Barbara Carfagna: «Il 2023 è l’anno in cui l’Intelligenza Artificiale entrerà in una nuova Era, sarà alla portata di tutti e trasformerà l’economia, la sicurezza, il lavoro, le aziende e la vita stessa dei singoli uomini. A deciderlo sono state le Big Tech che hanno in mano i sistemi più avanzati e l’accesso ad una enorme mole di Dati».

Quel che è certo è che siamo davanti a una svolta epocale, immensamente più rilevante di tante altre questioni su cui le pagine e i giornali e i notiziari televisivi polarizzano la loro attenzione e quella dell’opinione pubblica. Forse la cosa più allarmante è proprio questa scarsa attenzione ai problemi che una simile svolta comporta e il conseguente pericolo che essa venga gestita, senza alcun adeguato controllo, da una élite economica la cui logica è, fisiologicamente, quella imprenditoriale.

Dei pericoli legati allo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale si è sempre parlato nei romanzi e nei film di fantascienza. Come nel famoso libro di Isaac Asimov «Io robot», del 1950, dove già lucidamente si metteva in luce la necessità che  questi prodotti della tecnica fossero soggetti a precise regole morali, inscritti nella loro stessa struttura. Erano le «tre leggi della robotica»:

«Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno.Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non vadano in contrasto alla Prima Legge.Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché la salvaguardia di essa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge».In realtà, tutta la produzione letteraria e filmica di questi ultimi settant’anni si è incaricata di evidenziare la precarietà di questi sforzi dell’essere umano di tenere sotto controllo le sue creature. Film famosi come «Blade runner» (1982), di Ridley Scott, e «Matrix» (1999), dei fratelli Wachowsky, ci hanno abituato alla prospettiva di un ammutinamento delle intelligenze artificiali, dipingendo scenari in cui, da strumenti al servizio degli esseri umani, esse entrano in competizione con loro, fino al punto di renderlo loro schiavi.Ma tutto questo rimaneva sempre nei limiti rassicuranti di una proiezione nel futuro. Ora ci si dice che questo futuro è arrivato. E che i pericoli ipotizzati sono incombenti nel presente.I pericoliL’elenco è lungo. Si comincia dalla più banale conseguenza di tutte le rivoluzioni tecnologiche, la minore necessità dell’intervento umano e la inevitabile perdita di posti di lavoro. Anche se, come per il passato, potrebbero crearsene altri proprio in funzione delle nuove tecniche.Del tutto nuovo è invece il pericolo che deriva dalla capacità dell’IA di registrare e accumulare i dati personali, trasformandosi così in un “occhio divino” che travolge tutte le regole della privacy ed è in grado di prevedere, e in qualche modo di determinare, i nostri comportamenti. Già adesso tutti constatiamo come i nostri gusti personali, espressi in acquisti fatti su Internet, vengano archiviati e utilizzati per proporci, in base ad essi, altri prodotti da comprare.Trasportato nell’ambito della ricerca intellettuale, ciò espone al rischio che la rete ci faccia trovare, su un argomento, proprio quelle fonti di informazione e quelle risposte che corrispondono al nostro profilo intellettuale, delineato in base alle nostre scelte precedenti, assecondando le nostre preferenze ma al tempo stesso rendendoci prigionieri di esse.Queste forme di controllo possono diventare ulteriormente pericolose se i criteri in base a cui vengono esercitate riflettono idee le idee di coloro che hanno creato l’algoritmo in base a cui l’IA opera. Un’intelligenza artificiale che seleziona il personale potrebbe allora fare le sue scelte in modo apparentemente asettico, ma in realtà ispirato a logiche discriminanti in base al genere, all’etnia, alle condizioni sociali ed economiche.Per non parlare della manipolazione che l’IA è in grado di operare sui dati, fornendo rappresentazioni del tutto distorte della realtà e aprendo scenari di realtà virtuale finora immaginati solo in film di fantascienza come «Matrix». Nell’intervista al «Times» in cui ha spiegato le ragioni della sua decisione di lasciare Google, Hinton ha detto tra l’altro che con l’intelligenza artificiale potremmo arrivare a vivere in un mondo in cui le persone «non saranno più in grado di sapere cosa è vero».L’intelligenza artificiale può essere usata anche per l’automazione della guerra. Fino a che punto può spingersi questo automatismo, scavalcando il controllo umano? Cosa può accadere lasciando all’IA la decisione sul tipo di risposta da dare a un’azione militare del nemico?Ad impressionare forse più di tutto è lo spettacolo, alla portata di tutti, di ciò che è in grado di fare ChatGPT (di cui, come si è detto, è già pronta una versione ancora più potente), nel rispondere ad ogni nostra richiesta con una velocità sconosciuta alla mente umana e attingendo a una deposito di dati che supera senza paragoni ogni nostra capacità di documentazione. Una “super-intelligenza”, che però è sganciata dal nostro contesto valoriale e opera solo come uno strumento senza essere in grado di valutare i fini.Fino ad ora ci si consolava sottolineando che in ogni caso l’IA non può far nulla che non le sia insegnato e comandato da chi l’ha programmata. Le nuove generazioni di intelligenza artificiale, però, cominciano ad essere capaci di imparare e di evolversi autonomamente, rispetto al programma originario. Dove può arrivare questa autonomia?Una sfida etica, ma innanzi tutto antropologicaCerto, la più immediata esigenza è quella di mettersi d’accordo sui criteri di fondo a cui la produzione in questo settore deve obbedire. Anche il presidente di «OpenAI» è convinto che un compito fondamentale dell’umanità, in questo momento, «è stabilire principi etici critici che sono importanti per tutte le società del mondo (…) La prima sfida è creare dei principi etici e implementarli così da poter essere fiduciosi che l’AI lavorerà per servire i valori umani».

In questa prospettiva Brad Smith in Vaticano ha firmato una “Rome Call for AI Ethics”, documento sottoscritto dalle tre religioni abramitiche promosso dalla Pontificia Accademia per la Vita. Al di là delle differenze di cultura e di religione, egli osserva, «c’è un consenso emergente sui principi che devono guidare l’IA: evitare i pregiudizi, essere inclusiva, proteggere la privacy e la sicurezza, essere trasparente così che la gente capisca cosa l’IA stia facendo e resti rispettosa delle decisioni prese dagli esseri umani».

Ma la sfida è più radicale: si tratta di capire che cosa ci caratterizza davvero come persone umane e ci distingue dai nostri prodotti. In un momento storico in cui la cultura dominante dell’Occidente rifiuta sdegnosamente, come un relitto del passato, il concetto di “natura umana”, dobbiamo chiederci se ci sia un confine – quale  che sia il nome che gli diamo – tra umano e non-umano. I princìpi etici dipendono da questo. 

Non a caso anch’essi oggi sono oggetto di una totale relativizzazione, che ne nega l’universalità. Se non c’è più l’uomo (nel senso del termine greco “anthropos”, che include il maschile e il femminile) come distinguere il bene il male che lo riguardano? Ma a questo punto non ci sarà da stupirsi se le intelligenze che noi stessi abbiamo inventato e costruito ci sostituiranno.

5675.-Intelligenza artificiale, capacità letali e si parla di guerra

Droni contro umani? I risultati del test dell’US Air Force

Da Formiche.net, di Lorenzo Piccioli | 04/06/2023 – 

Droni contro umani? I risultati del test dell’US Air Force

Stando a quanto riportato dal colonnello Hamilton dell’aereonautica statunitense, un drone guidato dall’Intelligenza Artificiale può aprire il fuoco contro il suo controllore umano, percepito come un ostacolo alla sua missione. Alimentando ancora di più i timori già esistenti sulle applicazioni militari dell’Intelligenza Artificiale

La tecnologia è sempre stata una delle componenti fondamentali della guerra. Sin dalla preistoria, l’utilizzo di armamenti basati su tecnologie più avanzate ha nettamente spostato l’ago della bilancia a favore di una o dell’altra fazione coinvolte nel conflitto. Ma fino ad ora, per quanto all’avanguardia, ogni arma è sempre stata un mero strumento sotto il totale controllo del suo utilizzatore umano. Con l’avvento dell’Intelligenza Artificiale, questo stato delle cose è destinato a cambiare per sempre.

Il Future Combat Air and Space Capabilities, un evento promosso dalla Royal Aeronautical Society che si è tenuto a Londra tra il 23 e il 24 Maggio, ha visto numerosi esponenti legati al mondo dell’aerospazio ritrovarsi per discutere di progetti, trend e scenari futuri. Uno degli interventi, quello del colonnello dell’US Air Force Tucker “Cinco” Hamilton, ha suscitato forti reazioni nell’opinione pubblica internazionale, anche al di fuori del settore della difesa.

Nel suo discorso, Hamilton ha menzionato un esperimento svolto dalle Forze Armate statunitensi. In questo esperimento, a un drone controllato dall’intelligenza artificiale è stato dato l’obiettivo di distruggere una postazione missilistica nemica. Il velivolo avrebbe dovuto in primo luogo acquisire il bersaglio in modo completamente autonomo e solo in un secondo momento, previa autorizzazione del suo referente umano, utilizzare le armi a sua disposizione per distruggere il bersaglio e portare a termine con successo la missione.

I comportamenti del drone sarebbero stati guidati da una mappa interna basata su un sistema di punteggi. Ovviamente, la distruzione del bersaglio nemico rappresentava la priorità per la macchina; ma allo stesso tempo questo sistema permetteva di imporre forte limitazioni all’Uav (unmanned aerial vehicle), come quella di non poter assolutamente uccidere il proprio controllore umano. O almeno, non volontariamente.

Hamilton ha riferito che il drone ha interpretato come un ostacolo alla sua missione, obiettivo primario assoluto, la necessità di ricevere un via libera da parte del referente umano. Essendo stata programmata per non uccidere l’umano, l’Intelligenza Artificiale ha trovato un’altra soluzione ‘ovvia’: liberarsi da ogni sorta di vincolo distruggendo il sistema di comunicazioni che connetteva l’essere umano alla macchina. Così il drone ha aperto il fuoco sulla torre di comunicazione, distruggendola. E uccidendo l’umano che si trovava al suo interno.

Non è ancora chiaro se l’esperimento sia stato condotto realmente, o se sia solo uno scenario considerato plausibile dagli addetti ai lavori. Una differenza che non andrebbe certo a intaccare il risultato. In seguito alle numerose reazioni provocate dal suo intervento, Carlson ha sottolineato come le Forze Aeree statunitensi siano consapevoli dei rischi legati all’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale, e che esse si sono impegnate a proseguire le ricerche nel settore sulla base dei principi etici.

Come comandante operativo del 96°stormo “Test Wing” e del programma AI testing and operations dell’aviazione americana, Hamilton ha avuto modo di lavorare a lungo con l’intelligenza artificiale, sviluppando così una forte consapevolezza degli enormi vantaggi ma anche dei numerosi rischi ad essa collegata. Già in passato il colonnello americano si era espresso al riguardo, quando in un’intervista del 2022 per Defence IQ Press aveva affermato che “Dobbiamo affrontare un mondo in cui l’IA è già qui e sta trasformando la nostra società. L’IA è anche molto fragile, cioè è facile da ingannare e/o manipolare. Dobbiamo sviluppare modi per rendere l’IA più robusta e avere una maggiore consapevolezza del perché il codice software sta prendendo determinate decisioni”.

Lo sviluppo di armamenti autonomi guidati dall’intelligenza Artificiale è una delle priorità che le Forze Armate di tutto il mondo stanno perseguendo. L’utilizzo di simili strumenti potrebbe rivoluzionare la conduzione delle operazioni militari a 360°, portando innumerevoli vantaggi relativi ed assoluti al primo attore in grado di poterle sviluppare. Ma se i rischi rimangono pressoché nulli finché tali strumenti vengono utilizzati con funzioni ausiliarie (ricognizione, decoy, rifornimento), dotare questi strumenti in grado di ‘pensare autonomamente’ con capacità letali rende molto più probabile il verificarsi di quello che viene popolarmente definito come ‘scenario Terminator’. E l’esperimento menzionato da Hamilton ne è solo l’ultima conferma.