Archivio mensile:Maggio 2021

4042.- Un altro libico, altre promesse. Stiamo a vedere chi sarà eletto.

La Libia cerca sponda in Italia. Analisi sulla visita di Dabaiba a Roma

Di Emanuele Rossi | 31/05/2021 – Formiche.net

La Libia cerca sponda in Italia. Analisi sulla visita di Dabaiba a Roma
Il primo ministro libico a Roma dovrà consolidare la sponda italiana e usarla come ancora per le sfide politiche, economiche e di sicurezza che il suo Paese dovrà affrontare nel prossimo futuro. Il commento di Saini Fasanotti, Mezran e Varvelli.

Per il suo primo viaggio nel mondo occidentale, il primo ministro libico, Abdelhamid Dabaiba, ha scelto due tappe fondamentali: prima Roma, poi Parigi. Italia e Francia sono in fase di reset nelle relazioni/competizioni su Nordafrica e Sahel (leggasi anche Mediterraneo allargato), consapevoli che una linea comune possa essere più efficace. Tripoli, dove Dabaiba guida sotto egida Onu il Governo di unità nazionale, è un test anche per questo.

Il libico arriva a Roma in testa a una folta delegazione di ministri e uomini di sottogoverno, e incontrerà i vertici dell’esecutivo italiano, a cominciare dal presidente del Consiglio Mario Draghi. Come sottolineato dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio — che nei giorni scorsi era a Tripoli con il collega maltese e il commissario Ue per parlare soprattutto di immigrazione — molto rilievo lo avrà il Business Forum, organizzato dalla Farnesina.

I libici in effetti hanno la consapevolezza che la ripresa economico-produttiva, un rilancio tecnologico (con un pensiero necessario alla transizione energetica) la stabilizzazione delle problematiche sociali collegate, siano gli elementi  determinanti per trovare quella pace e prosperità bramata. In questo, il ruolo dell’Europa è potenzialmente indispensabile; e qui l’Italia è in prima fila.

Federica Saini Fasanotti, storica della Brookings Institution ed esperta di policy sulla Libia, ricorda il rapporto speciale tra Roma e Tripoli già dai tempi di Gheddafi; il Trattato di amicizia e partenariato del 2008 sotto il governo Berlusconi è un esempio recente spesso citato, ma ancora prima ai tempi di Craxi le relazioni era buone. “Credo in effetti che il più grande errore di Gheddafi fu mandare via in un battito d’ali una comunità italiana di ventimila persone che era fondamentale per l’economia libica e che avrebbe costituito la base per lo sviluppo del settore privato, che invece in Libia non si è mai sviluppato”.

E adesso? “La buona volontà da parte di tutti è ottima — risponde Saini Fasanotti a Formiche.net— ma continuo a vedere un cielo abbastanza plumbeo sui cieli libici. Non c’è ancora una base costituzionale per le elezioni del 24 dicembre; c’è il problema del decidere se le elezioni presidenziali debbano essere dirette o meno, e c’è un’élite radicata e con in mano il Paese da tempo che non vuole mollare sul voto diretto. A ciò si aggiunge ancora il tema della sicurezza: pilastro fondamentale che non riguarda soltanto gli attori esterni, che per certi versi forniscono una sorta di stabilità in fondo, ma parlo delle milizie interne. Come gestirle? Chi ci dà la garanzia che le elezioni saranno svolte in maniera sicura? Chi presidierà i seggi? Chi tutelerà la popolazione? Non esiste una forza di sicurezza reale, come sappiamo: e dunque, cosa succederà davanti ai risultati elettorali?”.

Problemi di cui il governo Dabaiba, impegnato ad accreditarsi all’estero in visite come quelle a Roma, Parigi, Ankara o Mosca, sta cercando di affrontare, con un’altra irrisolta questione interna: il potere — ancora forte, muscolare come dimostrato dalla recente parata militare — di cui gode a Bengasi il capo miliziano Khalifa Haftar. “Il ruolo di Dabaiba è quello di organizzare le elezioni convocate dall’Onu per il 24 dicembre, e di farlo gestendo l’ordinaria amministrazione, raccontando una quiete anche migliore della situazione reale, e magari portando in dote qualche risultato spendibile per il futuro”, commenta Karim Mezran, responsabile della North Africa Initiative dell’Atlantic Council.

Mezran concorda con Saini Fasanotti sul fatto che le elezioni siano il passaggio cruciale: “Molti dei politici più importanti, come Fathi Bashaga o Ahmed Maiteeg (rispettivamente ex ministro e vicepresidente del governo onusiano precedente, ndr) per fare due nomi, sono restati fuori dal governo attuale perché si stanno organizzando per la corsa elettorale. La situazione è ancora molto frammentata, il reale potere è in mano a entità diverse, in parte l’Onu, in parte turchi e russi, in parte gli interlocutori occidentali, o ancora le milizie”. Siamo a giugno e ancora manca l’approvazione generale del budget, necessario per far ripartire effettivamente il Paese e approvato solo per l’aliquota che riguarda il pagamento degli stipendi pubblici: più di un indizio di questa frammentazione, che rappresenta una preoccupazione se qualcosa con il voto dovesse andare storto.

La stabilità della Libia è ancora vincolata alla presenza sul campo dei mercenari russi e turco-siriani e delle milizie, e in questo momento Tripoli non riesce a imporre ritiri e dissoluzioni a certe forze. “In questo — secondo Arturo Varvelli, direttore dell’European council on foreign relations (Ecfr) di Roma — Europa e Stati Uniti devono dimostrare vicinanza alla Libia, sganciandola da certi attori che, come la Turchia, potrebbero essere in un certo senso istituzionalizzati nel quadro di una missione internazionale che accompagni il Paese verso le elezioni”.

“Un primo passo sarebbe proprio una missione internazionale di cui farebbero parte anche consiglieri militari e che avrebbe l’obiettivo di aiutare le istituzioni libiche”, propone Varvelli, ricordando che nel Paese esistono ancora sacche di resistenza come l’organizzazione haftariana in fase di “tregua strategica”. “Per la stabilità della Libia — continua Varvelli — l’Italia deve giocare le sue carte sul piano economico perché su quello della sicurezza le difficoltà sono varie e i mezzi messi in campo scarsi. Anche come Ue. Ma sul rilancio socio-economico Roma può avere un ruolo importante, con l’Eni per esempio che può essere un’arma per riattivare la macchina petrolifera libica e per lanciare il paese verso le nuove energie”.

4041.- Libia, Unione europea, ONU, missioni e migranti: oggi e domani

I presupposti di questo breve studio, come del precedente sul blocco navale verso la Libia, sono, anzitutto, che la Repubblica Italiana non ha una sua politica estera e, almeno dall’assassinio di Aldo Moro in poi, non ha nemmeno una politica interna degna del suo nome. Perciò, quanto viene detto riguardo alla Libia ha il valore di “chiacchiere”, o meglio, per non toccare la suscettibilità di nessuno, di buone intenzioni, per un motivo o per l’altro, impraticabili. Giocoforza, volgiamo lo sguardo all’Unione europea, che una politica estera non ce l’ha, non può averla, ma che, in fatto di studi e progetti, non è seconda a nessuno.

La Patria mediterranea: utopia e realtà

Abbiamo, di recente, tentato di inquadrare la proposta di un blocco navale delle acque libiche, valutandone sia le possibilità pratiche di attuazione sia gli obbiettivi sottesi di una maggior coinvolgimento dell’Unione europea, nel contrasto all’immigrazione incontrollata: un minus, se guardiamo al futuro. Andiamo, qui, a esaminare in cosa consiste attualmente l’impegno dell’Unione e quali iniziative sarebbe auspicabile si realizzassero, aderendo a una prospettiva di complementarità e di cooperazione fra i paesi rivieraschi del Mediterraneo e, più in là, dei due continenti Europa e Africa, attraverso l’istituzione di zone di libero scambio. Parole destinate a restare a livello di chiacchiere benpensanti se non si ha il coraggio di proiettarsi oltre la realtà che viviamo. Occorre immaginazione per superare i vincoli della politica occidentale, i pericoli della penetrazione coloniale cinese e occorre realismo per convincere gli attori, anche americani, che è necessario immaginare un’Africa e un’Europa complementari. Stiamo andando a parlare di massimizzare le opportunità derivanti dal libero scambio, quindi, di integrazione e il solo motore capace di realizzarla è lo sviluppo economico, sociale e culturale insieme. Non lo è, di certo, quello del falso filantropismo dei finanzieri. Nemmeno lo è quello dello scontro militare, dei conflitti in nome del potere. Nel complesso, le tendenze all’aumento dei conflitti armati presentano più di una sfida al processo di integrazione continentale africana. L’ONU e l’Unione europea devono schierare le loro missioni di imposizione della pace. L’Italia e la Libia sono entrambe su questo cammino.

Gestione delle frontiere terrestri e marittime libiche

È facile, infatti, ritenere che un blocco militare delle coste libiche (ma anche tunisine e algerine), possa essere attuato soltanto con il coinvolgimento delle unità e del personale della Guardia Costiera di Tripoli, oppure, con una missione dell’Ue, complementare della missione civile Eubam, ma che faccia uso della forza. A questo proposito e riguardo alla Libia, un blocco militare delle sue coste pone il problema della sovranità di uno stato, riconosciuto dall’ONU, a fini di prevenzione, ma che stato non è, poiché sul suo territorio e a Tripoli comandano le milizie.

L’UE sta conducendo due missioni di politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) a sostegno della Libia, la missione dell’UE di assistenza alle frontiere in Libia (EUBAM) e Irini (EUNAVFOR Med Operation Sophia si è conclusa il 31 marzo 2020 con poco successo). La missione Eubam aiuta la Libia a proteggere i suoi confini, attraverso attività di consulenza tecnica, formazione e sviluppo di capacità. Essa mira a interrompere il modello di business dei trafficanti di esseri umani e aiutano a far rispettare l’embargo sulle armi delle Nazioni Unite. Le missioni PSDC sono esterne alla delegazione dell’Ue, ma tutte collaborano strettamente per l’adempimento dei rispettivi mandati. L’operazione militare aeronavale “ Operation EURNAVFOR MED IRINI” è stata avviata per assicurare il rispetto delle risoluzioni dell’ONU contro il contrabbando d’armi verso la Libia, ma, poi che a svolgerlo è sopratutto la Turchia, non è efficace.

La missione Eubam, in Libia è proprio specifica per smantellare le reti della criminalità organizzata coinvolte nel traffico di migranti, nella tratta di esseri umani e nel terrorismo. È stata avviata dall’Ue il 22 maggio 2013, nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune, con il compito di contribuire agli sforzi impiegati dalle autorità libiche. La capomissione Natalina Cea è una funzionaria pubblica italiana e coordina e attua progetti con partner internazionali nei settori della gestione delle frontiere, dell’applicazione della legge e della giustizia penale.

La Delegazione dell’Ue in Libia è una delle 140 nel mondo e opera in coordinamento con le rappresentanze diplomatiche e con le organizzazioni multinazionali. La delegazione ospita la cellula di collegamento e pianificazione dell’Ue (EULPC) il cui obiettivo principale è supportare l’United Nations Support Mission in Libya, UNSMIL, nell’operatività degli aspetti militari e di polizia della pista di sicurezza della Libia. L’EULPC è anche il principale fornitore di analisi di sicurezza per l’Ue e per gli Stati membri in Libia.

La Libia ha bisogno di pace e lavoro. Oltre il 40% delle strutture sanitarie in Libia sono state colpite nel conflitto in corso; manca il personale medico, anche se i loro chirurghi sono di primo livello e manca l’elettricità. Ci sono problemi per la salute materna e l’aborto è pericoloso. Le nascite in casa senza un assistente al parto qualificato sono ora in aumento. Il personale sanitario è fuggito dal Paese.

Il Trust Fund creato dalla Commissione fuori dal controllo del Parlamento europeo per combattere la povertà, è costituito per il 95% da denaro per lo sviluppo, ma è servito sopratutto a blindare i confini: Obiettivo: controllare le migrazioni dall’Africa e rafforzare i governi dei Paesi di origine e transito di coloro che vorrebbero attraversare il Mediterraneo. Sono soldi presi dalle riserve europee per la cooperazione internazionale e la lotta contro la povertà. Che così si svuotano. 

Se guardiamo ai rapporti sullo stato dei diritti umani in Libia, sulla frammentarietà tribale della società e sull’immigrazione, dopo sette anni di ‘sì tale impegno nella sicurezza civile, in particolare nel settore della gestione delle frontiere e delle questioni correlate in materia di sicurezza e giustizia, i risultati sia di UNSMIL sia di EUBAM non sembra possano dirsi soddisfacenti. Perciò,una missione di blocco navale, che esegua una risoluzione dell’ONU, è di improbabile successo, come le missioni Sophia e Irini hanno insegnato. Sono soluzioni che non affrontano il problema alla radice.

Tante parole e tanti soldi

L’Unione europea è uno dei maggiori finanziatori per lo sviluppo e l’assistenza umanitaria della Libia e la delegazione gestisce un portafoglio in corso di programmi e progetti pari a circa 360 milioni di euro. Le principali fonti di finanziamento sono il Fondo fiduciario di emergenza dell’UE per l’Africa (EUTF – North Africa Window), lo strumento europeo di vicinato (ENI) e lo strumento Contribuire alla stabilità e alla pace (IcSP). C’è una infinità di indirizzi a cui fare riferimento per comprendere le strategie dell’Ue nei riguardi dell’Africa e della Libia, da qui, fino agli anni 2060 e oltre. La sola maniera possibile per orientarvisi, è affidarsi ai documenti che producono.

Il primo di questi documenti è l’Agenda 2063 dell’Unione Africana, che è il quadro strategico continentale per trasformare l’Africa in una potenza globale del futuro. Un'”Africa integrata” è menzionata come uno dei principali risultati di trasformazione dell’Agenda 2063, che si impegna a raggiungere traguardi come la libera circolazione di merci, servizi e capitali, un triplice aumento del commercio intra-africano, l’operatività di un’unione doganale africana, un mercato comune e un’unione monetaria, l’inaugurazione del primo segmento di una rete ferroviaria africana ad alta velocità e un sistema di istruzione comune che permetta ai giovani africani di studiare e lavorare, ovunque, nel continente. L’Agenda 2063 descrive le “aspirazioni” dell’Unione africana incentrate sullo sviluppo socioeconomico, la cultura, il governo democratico, la pace e la sicurezza.

Nel mondo, un nuovo nato su tre è africano

La migrazione non può soddisfare le richieste che questa crescita demografica pone in termini di risorse, istruzione, assistenza sanitaria, alloggio e lavoro. Lo sfruttamento coloniale delle risorse africane da parte della Cina aggrava questa situazione. L’Unione europea e non solo, deve pianificare una crescita economica per l’Africa e investimenti accelerati: investimenti, significano guadagni. L’Area di libero scambio continentale africana (AfCFTA) è un’area di libero scambio fondata nel 2018, con inizio degli scambi a partire dal 1° gennaio 2021. È stato creato dall’Accordo di libero scambio continentale africano tra 54 delle 55 nazioni dell’Unione africana.

Iniziative auspicabili

La zona di libero scambio Unione europea – Mediterraneo (UE-MED ALS, EMFTA), chiamata anche area di libero scambio euromediterranea o FTA Euromed, si basa sul processo di Barcellona, noto anche come Partenariato euromediterraneo e sulla politica europea di vicinato (PEV). Bisogna andare verso l’area euromediterranea di produzione e di libero scambio, ma salvaguardando la produzione agricola europea e la sua competitività rispetto a Turchia e Cina, verso i paesi importatori, come la Russia. Un abbattimento delle tariffe doganali deve aver presente che il mercato comunitario è il primo importatore mondiale di prodotti agricoli e rappresenta l’obiettivo commerciale delle grandi aree di produzione agricole.

L’Italia, al centro del Bacino Mediterraneo, deve indirizzare il suo comparto agricolo a creare sinergie produttive e commerciali con i Paesi terzi dell’area mediterranea al fine di accrescere la forza competitiva delle produzioni mediterranee nei mercati internazionali. Questo, può realizzarsi attraverso una valorizzazione delle produzioni tipiche delle sponde Nord e Sud, ipotizzando l’area Euromediterranea non solo come una zona di libero scambio, ma anche come uno “spazio unico di produzione” per le imprese orientate all’esportazione nel quale ottimizzare i punti di complementarità e ridurre i margini di concorrenza. In sintesi, la complementarità fra i due continenti deve essere vista in prospettiva futura, come opportunità di attivare accordi di filiera per la destinazione internazionale, quindi, con vantaggio anche per le nostre imprese. Questa breve nota ha voluto significare che la migrazione dall’Africa, incontrollata, non risponde a nessuna logica, se non a quella dei trafficanti e degli speculatori, loro sponsor.

Non è senza rimpianto, che viene alla mente lo sviluppo impresso dall’Italia, anche e sopratutto, durante il fascismo, alla Libia, alla Somalia, alla cara Eritrea e all’Etiopia. Con rammarico, ricordiamo i 26 (6 per gli arabi) villaggi fondati in Libia, strappando la sabbia al deserto e consegnati alle famiglie, equipaggiati di ogni bene; la teleferica trifune Asmara – Massaua, adibita al trasporto merci, con i suoi 75 km e 2.326 metri sul livello del mare, di dislivello. Nel 1938, trasportò 50.700 tono di merci. Nel 1941, dopo la battaglia di Cheren, dove 10.000 africani si immolarono per l’Italia, la teleferica venne smantellata dall’esercito britannico, che requisì i motori (in parte venduti all’asta e in parte esportati in India), i cavi d’acciaio e i vagoncini quale risarcimento di guerra: invidia! Ma siamo sempre gli stessi. In Kosovo, è stato costruito un vero aeroporto in 52 giorni.

L’Unione europea guardi avanti

Cè un’agenzia dell’Unione europea cui dobbiamo guardare e che analizza questioni di politica estera, sicurezza e difesa ed è l’Istituto dell’Unione europea per gli studi sulla sicurezza (IUESS). Com’è consuetudine, gli scopi di quest’agenzia sono a tutto campo. Vanno dalla promozione di una cultura di sicurezza comune nell’UE, alla progettazione della politica estera e di sicurezza comune (PESC) e delle relative strategie. In pratica e principalmente, fornisce analisi e organizza forum di discussione. La sfida al continente europeo non viene soltanto dall’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico, ASEAN. La Russia sta realizzando un notevole ritorno politico nell’Africa sub-sahariana attraverso un approccio “bassi costi, alti rendimenti e visibilità”. La politica degli Stati Uniti e, a seguire, dell’Unione europea, spinge la Russia verso l’ASEAN. Se anche le risorse dell’Africa cadessero nel loro dominio … !

A piccoli passi

Il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Luigi Di Maio, il 12 maggio alla Farnesina, con l’inviato speciale dell’Onu per la Libia, Jan Kubiš. 

Da questo giro d’orizzonte, dovrebbe essere chiaro che sviluppo e integrazione economica devono mettere a pro tutte le risorse disponibili del continente africano e che l’Europa deve investire le proprie nella cooperazione e nello sviluppo reciproci, non nell’assistenzialismo ipocrita, che affama gli assistiti e arricchisce pochi speculatori.

A proposito di Libia e di migranti, il 12 maggio, alla Farnesina l’inviato speciale dell’Onu per la Libia, l’ex ministro degli Esteri slovacco, Jan Kubiš ha incontrato il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Maeci, Luigi Di Maio. Nel corso dell’incontro, hanno trovato conferma il sostegno italiano all’azione Onu in Libia, l’interesse per la transizione istituzionale e per il mantenimento del calendario elettorale. Naturalmente, è stata ribadita la centralità delle Missioni Irini e Eubam. Il 28 maggio Di Maio è in Libia in missione congiunta con il Commissario UE per il Vicinato e l’Allargamento, Olivér Várhelyi, e con il Ministro degli Esteri e degli Affari Europei di Malta, Evarist Bartolo. Il 31 maggio, oggi, il primo ministro libico Dabaibaba è alla Farnesina al Forum “La nuova Libia si presenta alle imprese italiane”.

Ma di tutti questi incontri, c’è poco da sentirsi soddisfatti. De Maio, per quello che era ed è, non è a suo agio negli affari esteri, anche se è ormai un pendolare, di casa a Tripoli. I turchi hanno comprato Misurata per 99 anni e l’ospedale da campo della missione Ippocrate, a Misurata, da allora è sotto sfratto, che gli viene ripresentato ogni mese. Ora, Erdogan, cui abbiamo fornito l’ombrello aereo dei nostri missili durante la diaspora curda, deve aver puntato i piedi e i 200 militari della Sanità non possono ricevere il cambio, perché le stesse autorità libiche omaggiate e rimpinguate a Roma, non rilasciano i visti ai 200 colleghi che li devono avvicendare. Chi nasce tondo, non muore quadro!

Scacciati. Senza dignità, grazie a inetti imposti non si sa da chi.

L’inviato speciale delle Nazioni unite ha incontrato anche il ministro dell’Interno italiano, Luciana Lamorgese: sono stati valutati gli sforzi profusi in materia di migrazione, lo scenario di sicurezza attuale nel Paese nordafricano e le prospettive di lavoro con il nuovo Governo di unità nazionale guidato dal presidente Dbeibah (o Daibaba).

La responsabile del Viminale non ha fatto cenno all’eventualità di un blocco navale, ma ha confermato all’alto funzionario delle Nazioni unite l’intenso e continuo impegno del governo italiano per «consolidare la cornice di sicurezza in Libia» anche al fine di «rafforzare le capacità di gestione delle frontiere terrestri e marittime da parte delle autorità libiche» e, ricordando all’inviato dell’Onu i contenuti dei suoi recenti colloqui di Tripoli, ha sottolineato la necessità che «l’Unione europea sia maggiormente coinvolta nella gestione del fenomeno migratorio che ha radici al di fuori della Libia e la vede come Paese di transito».

Se il governo italiano è statico e i suoi incontri non producono quanto quelli del turco, non così è l’iniziativa dei privati e delle associazioni. A Venezia questo venerdì 21 maggio, la Task Force Imprese Italiane per la Libia, su iniziativa del prof. Arduino Paniccia , esperto di geopolitica e presidente dell ASCE Scuola Guerra Economica. ha avanzato le sue proposte di partecipazione alle attività di ricostruzione e sviluppo del Paese, nella certezza che, con la recente nascita del nuovo governo di transizione, la Libia riuscirà a raggiungere un sufficiente grado di sicurezza e pacificazione, che consenta all’Italia di dare il suo importante contributo.

Nessuno stop all’immigrazione

Il maggior coinvolgimento dell’Unione europea a fianco della Libia, attraverso la preziosa attività delle agenzie delle Nazioni unite, con l’Unhcr e l’Oim in prima fila, così come la ribadita centralità delle Missioni Irini e Eubam, non risolutive, stanno anche a significare che l’Italia o, quanto meno, il suo governo, non ha intenzione di occupare il posto che le spetta in Mediterraneo. Chissà perché?

4040.- La nuova Libia guarda anche all’Italia.

Tripoli ha resistito e il problema Haftar, prima o poi, finirà e finirà la lotta armata. Solo ieri parlavamo di blocco navale e di accordi con la Libia. Per ora, si parlerà di un accordo sulla transizione energetica e di un altro sulla tutela dei beni archeologici. Giusto che il nuovo premier Dabaiba guardi all’Italia e a Draghi. Guarderà anche alla Francia, ma il cammino della ricostruzione darà un nuovo volto alla competizione e restituirà ai libici quello che è loro. Non è più il tempo dei sultani. “I’ve a dream”: L’Italia potrebbe proporre l’istituzione di una zona di libero scambio, inizialmente, tra Italia, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria e, perché no? Grecia, Francia, Spagna, Marocco, Malta: un nuovo assetto del Mediterraneo, cui la Turchia dovrà guardare e una porta del Mediterraneo verso l’Africa sub-sahariana, la sua gente e le sue risorse.

Dabaiba da Draghi. Business e geopolitica libici passano da Roma

di Massimiliano Boccolini, formiche.net

Dabaiba da Draghi. Business e geopolitica libici passano da Roma
Forza Libia!

Il premier libico è atteso questa sera a Roma. Durante la visita è previsto un Business Forum per presentare “La nuova Libia” agli investitori italiani

Il premier libico, Abdulhamid Dabaiba, è atteso questa sera a Roma accompagnato da una delegazione ministeriale di alto livello, per iniziare domani mattina una visita finalizzata a discutere degli aspetti della cooperazione congiunta tra i due Paesi. Durante la visita in Italia è previsto un incontro con il premier Mario Draghi alle 15:00 e successivamente con il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, avendo Dabaiba anche gli interim di quel dicastero. In mattinata invece si terrà alla Farnesina un Forum economico “alla presenza di qualificate imprese italiane interessate a rafforzare la propria presenza in Libia”, secondo quanto ha spiegato lo stesso ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, nelle dichiarazioni alla stampa in occasione della missione congiunta in Libia che ha tenuto il 28 maggio insieme al commissario Ue per il vicinato e l’allargamento, Oliver Varhely e al responsabile della diplomazia di Malta, Evarist Bartolo.

Di Maio ha già incontrato Dabaiba a Tripoli al quale ha “tenuto a rinnovare la soddisfazione dell’Italia per l’importante missione che compirà a Roma lunedì prossimo”. Sarà infatti la sua prima visita ufficiale in Italia in qualità di primo ministro del Governo di unità nazionale accompagnato da una qualificata delegazione di ministri libici. Nell’ambito della sua permanenza in Italia, la Farnesina ospiterà quindi un Business forum alla presenza di qualificate imprese italiane interessate a rafforzare la propria presenza in Libia. Il primo ministro della Libia presenterà quindi le opportunità d’investimento del Paese nordafricano alle principali aziende italiane. Dabaiba parteciperà con Di Maio alla sessione plenaria, alla presenza del sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano, con la partecipazione delle imprese italiane che intendono valorizzare il proprio operato in Libia in vari settori. Il viaggio in Italia terminerà martedì mattina quando il primo ministro libico partirà alla volta di Parigi per una visita di due giorni in Francia.

Un membro del team economico della Conferenza di Berlino sulla Libia, Fawzi Ammar, ha spiegato a Formiche.net che “l’Italia ha sempre mantenuto un rapporto privilegiato con la Libia”, riferendosi ai progetti e alle relazioni economiche tra i due Paesi e al gasdotto di Mellita che dalla Libia arriva in Italia tramite il Mediterraneo e che copre circa il 20% del fabbisogno di gas naturale ed elettricità italiano. Il membro del team economico della Conferenza di Berlino sulla Libia ha ricordato gli “interesse dell’Italia al mercato libico”, considerando che “la Libia è una porta d’accesso ai paesi dell’Africa Sub-sahariana in quanto è il paese che rifornisce di beni e servizi la regione del Darfur e i paesi come Ciad, Niger e Mali”.

La delegazione libica che arriverà a Roma è ampia, composta, oltre che da Dabaiba, da sei ministri e un ministro di Stato. Ci saranno: il ministro degli Esteri Najla al-Mangoush, il ministro dell’Economia Ali al-Hawij, quello dei Trasporti Salem al-Shahubi,  dell’Interno Khaled Mazen, del Petrolio Mohammed Aoun e della Salute, Ali al-Zintani; poi il ministro di Stato per la presidenza del Consiglio Adel Amer, il capo di Gabinetto del premier Ahmed al-Sharkasi, i consiglieri del premier, Sufyan al-Shibani e Ali Salem Ali, il portavoce del premier, Mohammed Mahmoud Hamuda, gli altri  Consiglieri del premier, Ibrahim Ali IbrahimAhmed Mustafa Ahmed, il consigliere del ministro degli Esteri, Ahmed Seif al-Naser, il Responsabile dell’ufficio dei rapporti italo-libici, Faiq Bashir Ubud.

Sempre nell’ambito di questa visita dovrebbero essere firmati almeno due accordi: uno sulla transizione energetica e l’altro sulla tutela dei beni archeologici. È quanto ha appreso Agenzia Nova da fonti libiche a Tripoli. Al momento non risulta sul tavolo alcuna intesa invece su un accordo per trasferire i cittadini condannati di entrambi i Paesi affinché scontino la pena nei rispettivi Paesi di origine, come invece ipotizzato da alcuni media libici. Della possibile firma, in una data da definire, di un accordo in questo senso tra l’Italia e la Libia si è discusso il 26 maggio scorso in un colloquio tra l’ambasciatore della Libia in Italia, Omar al Tarhuni, e il ministro della Giustizia italiana, Marta Cartabia, presso la sede del dicastero a Roma. I colloqui tra Tarhuni e Cartabia si sono concentrati sulla preparazione della visita di Dabaiba a Roma, sulla possibilità di porre le basi per questo accordo in questa occasione e su diverse questioni relative alla cooperazione tra i due Paesi.

Prima di giungere a Roma, il premier libico ha compiuto una visita analoga in Algeria. Anche in quel paese il viaggio ha avuto un carattere economico. La visita della delegazione libica è stata preceduta dal Forum economico algerino-libico che si è aperto il 29 maggio nella capitale algerina a cui hanno preso parte il ministro libico dell’Economia e del Commercio, Mohamed al Hawij, il ministro degli Esteri algerino, Sabri Boukadoum, e il ministro del Commercio algerino, Kamel Rezig alla presenza di 400 operatori economici dei due Paesi. Il ministro dell’Economia libico al-Hawij, che farà parte anche della delegazione che accompagnerà Dabaiba a Roma, nel suo discorso di apertura durante il Forum economico algerino-libico, sabato, ha invitato gli imprenditori libici a rafforzare le relazioni nel settore privato tra i due Paesi, presentando una serie di proposte che darebbero un forte impulso alle relazioni commerciali. In particolare il ministro libico ha chiesto l’inaugurazione di una zona di libero scambio tra Libia e Algeria. Al-Hawij prevede che il volume degli scambi commerciali tra i due Paesi supererà i 3 miliardi di dollari l’anno, rispetto ai circa 65 milioni attuali, di cui 59 milioni di esportazioni algerine verso la Libia.

Sempre il 29 maggio il presidente del Consiglio di presidenza libico, Mohammed Menfi, ha compiuto una visita a Tunisi, su invito del presidente Kaies Saied. Anche quest’ultima missione ha avuto una finalità economica, se si considera che la fragile economia tunisina ha avuto bisogno di recente del sostegno della Libia per evitare il collasso. Come spiegato da Formiche.net, la Central Bank of Libya, la banca centrale libica, ha prestato moneta pregiata all’istituzione omologa tunisina – sopperendo le incertezze dell’Fmi. Il ministro tunisino degli Affari sociali, Mohamed Trabelsi, ha parlato di un deposito finanziario di un miliardo di euro della CBL presso la Banca centrale tunisina.

4039.- VACCINI COVID OBBLIGATORI: ITALIANI CAVIE MONDIALI DI GATES. Ok definitivo all’Imposizione ai Sanitari in contrasto con la Risoluzione UE

Contro il Codice di Norimberga, contro i Regolamenti europei 507/2006 e 726/2004, contro la Costituzione. “I VACCINI OBBLIGATORI SONO DEMOCRATICI”. Inquietante Sentenza della Corte Europea all’ombra di Soros

  • di Fabio Giuseppe Carlo Carisio, Gospanews,
VACCINI COVID OBBLIGATORI: ITALIANI CAVIE MONDIALI DI GATES. Ok definitivo all’Imposizione ai Sanitari in contrasto con la Risoluzione UE
Come per i 12 vaccini in età scolare
Proposti dall’asse DEM Obama-Renzi-Gentiloni 
e legittimati da Guerra, Lorenzin, Cartabia 
Ancora una volta l’Italia diventa
Progetto pilota di un esperimento sociale

di Fabio Giuseppe Carlo Carisio

Siamo ormai nel pieno marasma dei diritti indivduali creato dai Decreti Legge connessi all’emergenza pandemia che hanno suscitato reazioni della società civile contro l’obbligo di imposizione di vaccini ancora sperimentali ai sanitari, ma anche alle persone in cura per problemi psichiatrici il cui consenso informato viene espresso dalle autorità di sanità pubbliche o dai tutori, come nel caso della vergognosa vicenda della ragazza fiorentina Yaska, denunciata da Gospa News e poi dalla trasmissione Le Iene, in contrasto con la volontà delle famiglie.

Di fatto è il prologo di quanto potrebbe accadere da lunedì per i minori non appena l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) autorizzerà l’uso del siero antiCovid Pfizer a base di mRNA messaggero anche per i bambini da 12 anni in sù. Com’è noto si tratta di una terapia genica a tutti gli effetti mai usata prima nella storia dell’umanità e ritenuta assai pericolosa da alcuni esperti. La questione è diventata di scottante attualità dopo l’allarme lanciato dall’avvocato americano Robert F. Kennedy sulla morte dei primi adolescenti vaccinati negli USA e sui casi di gravi trombosi e miocarditi con rischi di danni biologici permanenti per i ragazzini.

Questa strategia del Governo del presidente del Consiglio Mario Draghi è stata sostenuta dal Ministro della Giustizia Marta Cartabia che da giudice costituzionale legittimò i 12 vaccini obbligatori in età scolare del Decreto Lorenzin spalancando le porte al business della Big Pharma GlaxoSmithKline, che oggi controlla la rete commerciale di Pfizer e pertanto lucra sul nuovo antidoto contro la malattia del virus SARS-Cov-2.

Ma ha messo a dura prova la coscienza di alcuni parlamentari che hanno dato il sostegno al DL 44/2021 con l’approvazione definitiva avvenuta alla Camera dei Deputati nei giorni scorsi (311 voti favorevoli, 47 contrari e 2 astenuti), dopo il via libera del Senato.  Il provvedimento disciplina un obbligo di vaccinazione per il personale sanitario e socio-sanitario che svolge la sua attività nelle strutture sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali pubbliche e private, nelle farmacie, para-farmacie e studi professionali. Inoltre, esso esenta i somministratori del vaccino dalla responsabilità penale per omicidio colposo o lesioni personali colpose, qualora tali eventi si producano in conseguenza della vaccinazione (articolo 3).

Una postilla che ha suscitato le puntuali contestazioni dei detrattori del provvedimento incentrate proprio sulla circostanza che questo “scudo giudiziario” si sarebbe reso necessario in relazione alla marea di reazioni avverse gravi, purtroppo in migliaia di casi anche mortali, già emerse dalle segnalazioni raccolte da EudraVigilance, la piattaforma di farmacovigilanza dell’Euopean Medicines Agency (EMA) di Amsterdam di cui abbiamo scritto in molteplici articoli.

Una criticità ingigantita da un’ulteriore enorme dubbio venuo a galla, emerso dai dati aggiornati al mese scorso, sull’effettiva efficacia degli attuali sieri antiCovid: poiché almeno 428 vaccinati sono morti nell’Unione Europea, oltre 3mila hanno contratto ugualmente il contagio e per ben 2mila di loro il decorso della malattia è ignoto: ovvero non si sa se sono guariti, restano ricoverati per gravi complicazioni o sono anch’essi deceduti!

Il Decreto Lorenzin sull’imposizione dei 12 vaccini in età scolare fu partorito da un progetto pilota della Global Health Security Agenda del presidente Barack Obama, sponsorizzato da Bill Gates, e agevolato dall’ambasciatore scientifico del governo italiano di Matteo Renzi, ovvero il dottor Ranieri Guerra, oggi direttore aggiunto all’Organizzazione Mondiale per la Sanità, ma anche indagato per false dichiarazioni ai pm di Bergamo in relazione all’emergenza pandemia.Come allora, anche oggi gli Italiani rischiano di diventare un esperimento non solo sanitario ma soprattutto sociale.

L’Assemblea del Consiglio d’Europa, lo scorso 21 Gennaio, aveva infatti approvato su proposta di Jennifer De Temmerman – deputata all’Assemblée National francese, iscritta al gruppo centrista Libertés et territoires – a larghissima maggioranza, una Risoluzione a favore del “No” all’introduzione dell’obbligo vaccinale anti-Covid, nonché il proprio parere contrario ad eventuali patentini/passaporti vaccinali. Nella Risoluzione si legge, nello specifico, che occorre assicurare «che i cittadini siano informati che la vaccinazione non è obbligatoria e che nessuno a livello politico, sociale o in altra forma può fare pressioni perché le persone si vaccinino se non lo scelgono autonomamente».

La raccomandazione è anche quella di assicurare che «nessuno venga discriminato se non vaccinato», che «si comunichi in maniera trasparente il contenuto dei contratti stipulati con i produttori» e che si individuino programmi di indennizzo per chi riporta danni alla vaccinazione. «Le misure non devono comunque violare il diritto e la libertà di ogni individuo alla propria autonomia fisica e consenso informato» e, citando la Convenzione di Oviedo, sottolinea che garantisce i diritti e la dignità «senza discriminazioni».

«L’articolo 5 afferma che un intervento nel campo della salute può essere compiuto solo dopo che la persona ha fornito un consenso informato e libero. Nel caso dell’esitazione vaccinale, ciò implica che non si può imporre con la forza». In caso di eccezioni previsti dalle singole leggi nazionali, le condizioni si devono interpretare alla luce dei criteri stabiliti dalla CEDU.

Purtroppo, proprio di recente, i giudici della Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo, tra cui operano quelli risultati coinvolti nei progetti sociali finanziati dal plutarca George Soros (come Gates speculatore sulle Big Pharma ma soprattutto megadonor del Democratic Party Usa e stretto alleato del PD italiano), hanno sancito la legittimità dell’obbligo vaccinale per i minori.

E’ inoltre ben noto che il Consiglio d’Europa non ha di fatto un grande potere politico in seno all’Unione Europea che è stata costruita in modo da garantire nelle mani di un’oligarchia di nomina politica (tramite il parlamento UE) e non elettiva, la Commissione Europea che ha già sovvertito quella risoluzione progettando il Green Pass per viaggiare tra le varie nazioni se vaccinati, guariti dal Covid-19 o con tampone negativo, che dovrebbe entrare in vigore a partire dal primo luglio prossimo. Ma di questo parleremo in un prossimo articolo.

L’obbligo vaccinale ci induce a seguire la china del FiloDiritto, un portale d’informazione giuridica che ha analizzato la situazione nel Vecchio Continente e in alcuni paesi occidentali del mondo. Benché la competenza sanitaria, a livello comunitario, sia di competenza degli Stati membri, il Consiglio Europeo – nel 2018 – ha raccomandato soluzioni rapide ed efficaci contro «la rapida diffusione della disinformazione attraverso i social media e gli antivaccinisti in pubblico» che hanno contribuito ad alimentare «pregiudizi, nonché una maggiore diffidenza e timori nei confronti di eventi collaterali non dimostrati».

In realtà sono stati invece ben dimostrati da vari studi dopo un’alluvione di segnalazioni per casi avversi gravi anche mortali tanto da far scattare l’allerta persino della stessa EMA sulle infiammazioni al cuore.

«La questione, dapprima solo mediatica, ha avuto in seguito un riflesso sul piano politico, portando alla riforma delle legislazioni nazionali in materia di vaccini, innalzando il numero di quelli obbligatori per mantenere la cd. “immunità di gregge” e sfidare il crescente scetticismo – si legge sul sito FiloDiritto – Attualmente, ben 14 Paesi dell’Unione Europea, non prevedono alcun vaccino obbligatorio, tra cui Portogallo, Spagna, Irlanda, Germania e Svezia. Va precisato, però, che le autorità sanitarie tedesche, pur non obbligando alla vaccinazione, ne raccomandano fortemente la somministrazione ai minori prima dell’iscrizione alla scuola primaria, richiedendo l’esibizione del Libretto delle Vaccinazioni».

«Tra i Paesi che prevedono le vaccinazioni, invece, rientrano la Lettonia – con ben 13 vaccini – e la Francia, che di recente ha aumentato il numero di quelli obbligatori per legge da 3 a 11 – prosegue l’articolo – In Italia, la Legge n.119/2017 (cd. Legge Lorenzin) ha reintrodotto un obbligo vaccinale mediato: non sono stati predisposti Piani di vaccinazione di massa, come negli anni ’60 del secolo scorso, ma la mancata somministrazione preclude l’iscrizione alla scuola dell’infanzia, ma non alle elementari. In quest’ultimo caso, i minori vengono segnalati all’ASL competente e i genitori possono essere passibili di sanzione amministrativa».

Ancora una volta gli Italiani rischiano di diventare quindi le cavie di un progetto pilota che nemmeno gli USA hanno imposto (infatti continua ad esserci il problema che un’alta percentuale di militari e marines rifiutano il vaccino) nonostante il presidente Joseph Biden sia stato eletto anche grazie agli igenti contributi finanziari ricevuti dalla Pfizer per la campagna elettorale.

Lo scorso 13 maggio, infatti, l’agenzia AGI ha riportato con risalto la clamorosa notizia: «I pienamente vaccinati negli Stati Uniti non dovranno più indossare le mascherine o rispettare il distanziamento sociale,all’aperto e al chiuso. Lo prevedono le nuove linee guida dei Centers for Disease and Prevention, Cdc, segnalando una svolta nella lotta contro il coronavirus. Attualmente oltre il 35% degli americani è pienamente vaccinato. “Oggi è un grande giorno per l’America nella nostra lunga battaglia contro il Covid-19, ha commentato il presidente Joe Biden parlando dal Rose Garden della Casa Bianca, dove ha lanciato un nuovo appello agli americani perché si vaccinino: “La scelta è vostra, vaccinarsi o continuare a indossare la mascherina finché non sarete immunizzati”».

Nel frattempo, però, la Pfizer ha chiesto all’organo americano di controllo sui prodotti farmaceutici, la Food and Drug Association, l’approvazione definitiva per il suo vaccino Comirnaty, al momento autorizzato solo in via sperimentale. L’ok FDA potrebbe sancire un ulteriore passo verso l’obbligo dei vaccini almeno in quei paesi come l’Italia dove il governo è in mano ad una maggioranza di larghe intese rinominata “Partito Unico del Covid”, anche se l’avvocato Alessandro Fusillo, presidente del Movimento Libertario, ha ben evidenziato in un precedente articolo i motivi di illegittimità di tale obbligo proprio come il magistrato Angelo Giorgianni, presidente dell’associazione L’Eretico, fece depositando una diffida formale contro il Ministero della Salute e le Asl di tutta Italia.

Come il Green Pass in fase di progettazione nell’UE, questa è una strategia subdola per esercitare pressioni affinché la gente scelga di vaccinarsi per uscire dall’asfissiante regime delle restrizioni di libertà di movimento e dell’uso dei dispositivi di protezione individuale.

Ma l’unico scopo politico è un altro: favorire il business delle Big Pharma che sotto la guida del nuovo imperatore mondiale dei vaccini Bill Gates, capace di formare un cartello tra le multinazionali nel settembre scorso, hanno finanziato e costruito la classe politica contemporanea, proiezione olografica del Nuovo Ordine Mondiale, in un asse tra i Democratici USA – Italia che, come dimostrato dalle 38 inchieste WuhanGates di Gospa News, insieme al Deep State del Partito Comunista Cinese, ha avuto un ruolo preponderante nel finanziare gli studi sui supervirus chimerici di SARS infettati con HIV, di cui esperti della virologia mondiale hanno trovato tracce proprio nel SARS-Cov-2.

Per conoscere tutti i retroscena nei dettagli leggi il libro WuhanGates…

Fabio Giuseppe Carlo Carisio

4038.- “Ivermectin è la nuova pennicilina?” Altri esempi di cure per il covid con medicinali semplici

1944. A Napoli, gli americani mafiosi, volutamente inseriti nell’US Army per facilitare l’invasione, si collegarono rapidamente con la malavita per contrabbandare la penicillina; ma non solo. Una notte sparì addirittura un’intera nave alla fonda nel porto … miracolo di San Gennaro! Lo racconta un ufficiale inglese nella sua magnifica storia dell’occupazione alleata: “Napoli 1944”. Non è cambiato niente. Dietro il sipario dei diritti, c’è sempre la logica finanziaria e, con lei, la corruzione. Ma non è sempre così. Da Scenari economici:

Mentre si attende che qualche ente di ricerca di paese occidentale faccia partire una grande  sperimentazione sull’Ivermectin, medicina senza papà ne mamma finanziarie, di cui nessuno ha interesse a pagare i grossi trial né ha interesse a pubblicizzare. Anzi che, in generale, tutti hanno interesse ad affondare, tranne chi deve veramente curare le persone.

Quindi non vedrete articoli che ne parlano mainstream, sino a quando il suo ruolo non sarà così evidente da non essere più negabile. Anche questo articolo verrà ignorato e sabotato dai Social media. Quanto scommettiamo che farà meno di 100 visioni su FB ? EMA dice di non usare Ivermectin al di fuori degli studi clinici, ma sarebbe interessante sapere cosa questi studi stiano dicendo.

Comunque vi riportiamo un estratto di The Desert Review dove si parla dell’esperienza con l’Ivermectin in India.

Poiché gli stati indiani che utilizzano l’ivermectina continuano a divergere in casi e decessi da quegli stati che lo vietano, l’esperimento naturale illustra in modo decisivo il potere dell’ivermectina.

I casi a Delhi, dove l’Ivermectin è stato avviato il 20 aprile, sono scesi da 28.395 a soli 2.260 il 22 maggio. Ciò rappresenta un sorprendente calo del 92%. Allo stesso modo, i casi in Uttar Pradesh sono scesi da 37.944 il 24 aprile a 5.964 il 22 maggio, con un calo dell’84%.

Delhi e Uttar Pradesh hanno seguito le linee guida dell’All India Institute of Medical Sciences (AIIMS) pubblicate il 20 aprile 2021, che richiedevano un dosaggio di 0,2 mg per kg di Ivermectina per peso corporeo per tre giorni. Ciò equivale a 15 mg al giorno per una persona di 150 libbre (77 kg) o 18 mg al giorno per un individuo di 200 libbre (90 kg).

Anche gli altri tre stati indiani che l’hanno adottata sono tutti in calo. Goa è sceso da 4.195 a 1.647, Uttarakhand è sceso da 9.624 a 2.903 e Karnataka è sceso da 50.112 a 31.183. Goa ha adottato una politica preventiva di prevenzione di massa dell’ivermectina per l’intera popolazione adulta di età superiore ai 18 anni alla dose di 12 mg al giorno per cinque giorni.

Nel frattempo, il Tamil Nadu ha annunciato il 14 maggio che stavano mettendo fuori legge Ivermectin a favore del Remdesivir politicamente corretto. Di conseguenza, i casi del Tamil Nadu sono aumentati nello stesso lasso di tempo dal 20 aprile al 22 maggio – da 10.986 a 35.873 – più del triplo.

Sebbene Big Pharma e Big Media si siano affrettati a criticare, non possono spiegare questo esperimento naturale. Come avevo previsto il 12 maggio, prima avrebbero sostenuto che “i blocchi hanno funzionato”. Il problema con questo è che il Tamil Nadu è stato in rigoroso blocco per settimane poiché i loro casi non hanno fatto altro che aumentare. Quindi il lockdown non ha funzionato.

Il loro argomento successivo è stato che “c’è stato uno spostamento dalle aree urbane altamente popolate come Delhi e Mumbai” all’entroterra, come il Tamil Nadu. Il grosso problema è che lo stato adiacente, il Karnataka, è altrettanto rurale e i suoi casi stanno calando su Ivermectin.

L’Uttar Pradesh è vicino all’Himalaya e nell’estremo nord non urbanizzato, dove i casi sono diminuiti dell’84% con l’Ivermectina. L’Uttarakhand è ancora più rurale e si trova nell’Himalaya vicino al Nepal. Le sue infezioni sono diminuite del 70% con l’ivermectina.

Il loro argomento finale non aveva alcuna prova. Era essenzialmente un tentativo di spalmare l’ivermectina attraverso l’associazione con un altro farmaco. Ha tentato di collegare ingiustamente l’idrossiclorochina (HCQ) con l’ivermectina. Mentre HCQ è diventato una battuta d’arresto da parte dei media, scienziati come il dottor George Fareed sanno che è efficace contro il COVID-19, specialmente nelle prime fasi.

Il dottor Fareed e il suo socio, il dottor Brian Tyson, hanno trattato circa 6.000 pazienti con quasi il 100% di successo utilizzando una combinazione di HCQ, ivermectina, fluvoxamina e vari nutraceutici, tra cui la vitamina D di zinco.

Ecco l’articolo:

https://www.thedesertreview.com/health/local-frontline-doctors-modify-covid-treatment-based-on-results/article_9cdded9e-962f-11eb-a59a-f3e1151e98c3.html

Local frontline doctors modify COVID treatment based on results. Apr 5, 2021 Updated Apr 7, 2021

Dr. Brian Tyson and Dr. George Fareed
Dr. Brian Tyson and Dr. George Fareed participate in a Liberty Forum of Silicon Valley speaking from experience of treating thousands of COVID-19 patients successfully.

IMPERIAL VALLEY – After more than one year of treating COVID-19 on the Imperial Valley frontlines, which included the months the County was the virus epicenter of California, two doctors — Dr. Brian Tyson and Dr. George Fareed— have added to their effective treatment. The treatment changes are based on latest results by other frontline doctors and what they have observed personally.

Sfortunatamente, niente di tutto questo è riuscito a superare la censura dei media mainstream e il pubblico non ha sentito parlare degli oltre 200 studi che riflettono l’efficacia di HCQ contro COVID-19. Resta il fatto che HCQ ha un’immeritata connotazione negativa a causa della sua connessione con Trump, che viene purtroppo utilizzata per offuscare altri farmaci salvavita riproposti, come l’Ivermectin. Ad esempio, nel recente articolo di Forbes, il giornalista Ray usa il titolo “Is Ivermectin the New Hydroxychloroquine?

https://www.forbes.com/sites/siladityaray/2021/05/19/is-ivermectin-the-new-hydroxychloroquine-online-interest-in-unproven-covid-drug-surges-as-experts-urge- attenzione/

Ray non fa un solo argomento sostanziale contro Ivermectin; tenta invece di diffamarlo, svilire o svilire ripetendo accuse infondate. Ad esempio, Ray ha citato la raccomandazione di Merck contro Ivermectin come prova di inefficacia, mentre Merck non ha utilizzato prove a sostegno della propria affermazione. Inoltre, ha citato la raccomandazione della FDA contro l’ivermectina, ma la FDA ammette di non aver esaminato i dati su cui basare questa conclusione: “La FDA non ha esaminato i dati per supportare l’uso di Ivermectin nei pazienti COVID-19 per trattare o prevenire COVID-19…”

Come tutti sappiamo, Merck è stata coinvolta nello sviluppo di un farmaco concorrente e aveva 356 milioni di ragioni per buttare sotto l’autobus il proprio Ivermectin economico e non redditizio. Inoltre, anche il governo degli Stati Uniti è stato coinvolto in un significativo conflitto di interessi finanziario con Merck.

La storia dell’ivermectina è più simile a quella della penicillina. La penicillina ha salvato quasi 200 milioni di vite. Inoltre, tre uomini hanno condiviso un premio Nobel nel 1945 per la sua scoperta.

Gli scopritori di Ivermectin hanno vinto il Premio Nobel per la Medicina 2015 e ha dimostrato di essere un farmaco salvavita nelle malattie parassitarie, specialmente in Africa. Negli ultimi quattro decenni, l’ivermectina ha salvato milioni di parassiti come la strongiloidiasi e l’oncocercosi, la cecità fluviale.

Ha già salvato decine di migliaia di persone dal COVID-19 in India in quei pochi luoghi che lo utilizzano. Ha fatto crollare i casi del Messico, della Slovacchia e dello Zimbabwe. Rimango più convinto che mai che Ivermectin porrà fine a questa pandemia man mano che si sparge la voce e più persone condividono il libro, Ivermectin for the World. Un titolo più appropriato per il pezzo di Forbes potrebbe essere: “Ivermectin è la nuova penicillina?”

Scenari economici

La Costituzione e il Codice di Norimberga dicono:

art. 32.- La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.

Vero che la collaborazione fra la sanità pubblica e quella privata è essenziale, ma che l’industria farmaceutica decida chi e come deve essere curato, significa che lo Stato non ha dignità di Stato; ma non sempre è così:

Conobbi questa democristiana, esempio di rettitudine, quando entrambi facevamo la spola in treno, fra Treviso e Roma, di notte. Tina Anselmi rinunciò a 50 milioni di dollari! Altri tempi? No, altra politica.

4037.- Il blocco navale fra le chiacchiere della politica e le bagole della Farnesina

Ultimo aggiornamento 30 maggio 2021

Un’immagine veemente di Giorgia Meloni

Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia su Facebook: “A fronte di una invasione pianificata, rientra come atto di legittima difesa e quindi consentito anche dal diritto internazionale”.

Altro che legittima difesa! La chiamerei Preghiera di Resurrezione della politica estera italiana. Sembra, così com’è, una provocazione rivolta sia verso l’Europa sia verso il Governo. Andando alle possibilità di pratica attuazione, vedremmo i comandanti delle nostre navi navigare, con i tappi di volata ai cannoni, fra tre fuochi: Il Parlamento, occupato dalla sinistra (che sinistra non è), i procuratori della magistratura di sinistra, in quanto tali, eversivi e, infine, l’alleanza fra le milizie libiche e i trafficanti di esseri umani e di organi. Sui primi due sarebbe interessante sapere quando il Quirinale intende liberarci da questa eversione rossa; a meno che il tutto non faccia capo agli autori di quell’invasione pianificata di cui parla Giorgia Meloni: ed è qui il vero messaggio, il resto, possiamo chiamarle chiacchiere.

Il coraggio delle chiacchiere della destra, per stanare il tradimento dell’Ue e la forza dei trafficanti delle Ong sulla Ue. Se dovessimo illustrare queste contrapposizioni, basterebbero un’immagine veemente di Giorgia Meloni e un’altra di Gentiloni che si china avanti a Soros. il problema dei sostenitori dell’accoglienza indiscriminata è anche il lucro che gli si muove intorno, le elargizioni di Soros, ma a questi finti politici di sinistra manca totalmente il concetto di popolo, di identità, cultura e patrimonio comune; il concetto di nazione e di casa degli obiettivi della comunità è assente. Gli manca la coerenza di un’appartenenza politica: ieri, erano i paladini dei lavoratori, della democrazia e della libertà, oggi, disperdono le risorse che dovrebbero creare lavoro, tassano, spendono e spandono senza una logica, se non quella del loro potere. Gli manca il concetto dell’appartenenza alla cittadinanza perché vedono un mondo loro, diverso, attraverso la lente deformata di una politica del potere, che crede che ogni valore sia, da loro, commerciabile. Sono questi i partiti che hanno espresso gli ultimi presidenti e hanno attuato l’eversione rossa dello Stato, tutto dissacrando: dalla autonomia e indipendenza della magistratura, alla divisione fra i poteri dello Stato, fondamenta della Repubblica, alla famiglia, alle uniformi dei difensori, delle navi militari che devono cedere il passo alle Ong, per alimentare il traffico di esseri umani, il traffico d’organi, di cui non si parla. Non è, tuttavia, un problema circoscritto all’Italia.

La conferma l’abbiamo dall’ultimo rapporto dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR), reso pubblico mercoledì 26 maggio e intitolato “Lethal Disregard” ha affermato che le politiche e le pratiche dell’Unione Europea e delle autorità libiche nel Mediterraneo centrale non sarebbero riuscite a dare la priorità alla vita umana e alla sicurezza delle persone che migrano dall’Africa.

Da alleati di Gheddafi a sostenitori di un governo dipendente da Qatar e Turchia

La dissacrazione del traffico di esseri umani vale anche per il divieto dell’ONU sul traffico d’armi. Ricordiamo le ispezioni solo con ok dei trafficanti d’armi: il paradosso del blocco navale Ue in Libia. Nata per fermare l’invio di forniture militari da parte della Turchia, la missione Irini delle marine Ue, italiana compresa, si è trovata a fare i conti con un limite burocratico non da poco: il caso della nave scortata dalla marina turca fino a Misurata che ha detto no ai controlli degli ufficiali europei“. È appena il caso di ricordare che non ci furono limiti burocratici né santi che abbiano potuto impedire alle stesse nazioni di demolire lo stato libico e il suo leader. Sia pace alla tua anima Mu’hammar Muhammad Abu Minyar ‘Abd al-Salam al-Qadhdhafi. Quando Gheddafi venne catturato e ucciso il 20 Ottobre del 2011, nessun paladino della sovranità libica alzò la sua voce in difesa del cosiddetto dittatore.

George Soros, è l’uomo che ha sbancato la Banca d’Inghilterra e la Banca d’ Italia con le sue speculazioni; è importante sponsor del Partito democratico degli Stati Uniti, fondatore dell’Open Society Foundations. Con la speculazione. finanzia le partenze e la crisi dei migranti in Italia, le Ong che li prelevano, le cause Lgbt, la legalizzazione delle droghe, l’aborto, l’eutanasia. Per quest’uomo, le frontiere nazionali sono un ostacolo. Ma di chi si serve? Per il finanziere, Giorgia Meloni è una pericolosissima sovranista che può nuocere al progetto del suo “mondo senza frontiere”.

Ispezioni solo con ok dei trafficanti d’armi: il paradosso del blocco navale Ue in Libia che ha raccontato Prestigiacomo, lo scorso anno.

Tali e tanti sono gli interessi in gioco in Libia, fra Unione europea, NATO, Russia, Francia, Turchia e paesi arabi, trafficanti sorosiani, che nessun blocco navale sarà praticabile, a meno di un’accordo fra Putin e Biden, che, però, incontrerà l’opposizione del partito democratico.

Il caso è noto: La nave cargo, Cirkin, battente bandiera della Tanzania, salpata dal porto turco di Haydarpasa in direzione della Libia, scortata da 3 (tre) fregate turche e NATO, il 7 giugno 2020, dopo tre giorni di navigazione, attraccò a Misurata, sbarcando il suo carico di armi e di altre forniture militari concesse da Ankara al governo di Tripoli. Il problema fu che, per quanto le informazioni dell’intelligence e gli indizi ci fossero tutti, la missione militare Irini varata dall’Unione europea, per far rispettare l’embargo sulle armi dell’Onu in vigore dal 2011 (e nello specifico fermare i rifornimenti turchi alla Libia), non potè verificare i sospetti, perché il comandante della Cirkin rifiutò di sottoporre la sua nave all’ispezione.

La fregata greca e NATO Hs Spetsai che partecipava alla missione Irini nel Mediterraneo e lanciò l’avviso di ispezione alla nave Cirkin.

La base turca di Misurata e le armi turche in Libia

Il 17 agosto 2020, dopo mesi di interventi militari e di accordi economic (A voi le armi e i mercenari, alla Turchia il gas), Recep Tayyip Erdogan riuscì a guadagnare il suo porto sul Mediterraneo centrale, sloggiando dall’aeroporto di Misurata l’Ospedale italiano della Missione Ippocrate, per farne una base turca. L’Ospedale italiano è tuttora lì, sotto sfratto. La concessione del porto, delle installazioni aeroportuali e di difesa aerea di al-Watya, vale per 99 anni; quando Di Maio non ci sarà più e potremo sperare.

A spiegare l’evento della nave Cirkin fu il portavoce del Servizio europeo di azione esterna, ossia il ‘ministero degli Esteri’ della Commissione Ue che si occupa dell’operazione Irini (dal nome della dea greca della pace). Stano ricordò che, “dall’inizio del suo mandato, l’operazione Irini aveva già ispezionato oltre 75 navi nell’area, con le medesime procedure.

Per quanto dal 5 giugno 2020, Irini abbia avuto l’incarico ufficiale da parte dell’Onu di indagare sul rispetto dell’embargo in Libia, le sue navi e il suo personale (messi a disposizione dai Paesi Ue, tra cui l’Italia, a cui fu affidato il comando provvisorio) possono abbordare e ispezionare le imbarcazioni sospette solo con il consenso delle stesse imbarcazioni. Un paradosso che non è l’unico nelle vicende libiche.

Perché l’ipocrita missione EunavforMed Irini

Dai dati del 21 maggio scorso, in quasi 14 mesi di attività l’Operazione Irini ha interpellato oltre 3.200 navi e ha monitorato 235 voli aerei sospetti, ha condotto 13 ispezioni e 122 visite consensuali a bordo di navi mercantili sequestrando un solo carico illegale (una fornitura di carburante per aerei diretta alle forze aeree dell’Esercito Nazionale Libico del generale Haftar a bordo di una petroliera proveniente dagli Emirati Arabi Uniti) e ha fornito 23 rapporti classificati al gruppo di esperti delle Nazioni Unite sulla Libia riguardanti violazioni o possibili violazioni dell’embargo sulle armi relativo a entrambe le parti del conflitto in Libia.

La nave ammiraglia italiana dell’operazione EunavforMed Irini è la LPD San Giorgio.

Irini è nata dopo che la Turchia ha deciso di sostenere apertamente il governo di Tripoli, l’unico riconosciuto a livello internazionale, ossia dalle stesse Nazioni Unite. Come accennato, il sostegno si è concretizzato con uno scambio: Ankara invia armi in Libia, Tripoli concede alla Turchia di agire in alcune zone strategiche del Mediterraneo per lo sfruttamento di giacimenti di gas. In sua difesa, il governo libico ha sostenuto (molto probabilmente a ragione) che il principale pericolo per la sua stabilità (ossia l’avanzata delle truppe del generale Haftar che controlla il Nord Est del Paese) venga foraggiato da potenze straniere come la Francia, l’Egitto e la Russia, con Mosca che avrebbe inviato armi e mercenari sul campo. Da qui la necessità di avere una forza di fuoco maggiore grazie alla Turchia, il cui esercito è il secondo a livello Nato. Il vuoto di potere degli Stati Uniti, che in Mediterraneo, non schierano in permanenza più la Sesta Flotta e che per un certo tempo avevano ritirato le loro truppe dalla Libia, ha favorito le manovre di Erdogan. Da alcuni mesi, sembra che Erdogan sia stato invitato a ridurre la sua partecipazione militare e abbia ritirato alcune migliaia di mercenari, ma, turchi e russi non si ritireranno dalla Libia e, per l’Italia dei cagoia, il guaio è stato fatto.

Per quanto comprensibile, resta il paradosso che il governo riconosciuto dall’Onu (e sostenuto per anni dall’Italia) sia il primo a violare l’embargo sulle armi delle stesse Nazioni Unite. Da un punto di vista geopolitico, più che i paradossi, a preoccupare l’Ue è stata l’ingerenza turca su una regione strategica già ben affollata, compresa l’ingerenza sullo sfruttamento di giacimenti di gas al largo di Cipro (e della Grecia) su cui hanno messo le mani diversi big del settore, come l’italiana Eni. Da qui nasce l’Operazione EunavforMed Irini, il cui battesimo non è stato facile: alcuni Paesi Ue, infatti, hanno sollevato il timore che mettendo delle navi europee al largo della Libia, i trafficanti di esseri umani avrebbero inviato i barconi di migranti al largo sapendo che, per il diritto internazionale, i comandanti (tanto più degli ufficiali militari) sarebbero stati costretti a salvare i barconi e a scortarli in Europa.

È questo il giudizio degli alti gradi militari. Citiamo il generale di Corpo d’Armata Claudio Graziano, ex Capo di Stato Maggiore della Difesa, oggi, presidente del Comitato di difesa dell’Unione europea e l’ammiraglio di squadra Giuseppe De Giorgi, ex Capo di Stato Maggiore della Marina e questo è il motivo per cui parliamo di chiacchiere della destra, riguardo al blocco navale delle coste libiche. Nulla vieta, però, di riconsegnare al mittente i migranti e i battelli dei trafficanti, Ong comprese, sbarcandoli in Libia, a Zuwara, da dove prendono il mare. Occorre – è vero – un accordo con il governo di Tripoli, ma anche al governo di Tripoli occorre il benestare dell’Italia per questo flusso ininterrotto e, grazie a un certo ministro, in continuo crescendo, che attraversa e si diparte dalla Libia. Senza rinnovare e aggiornare questi accordi con la Libia, con la Tunisia e con l’Algeria,  il blocco navale è una misura di guerra che non si fa con due o tre navi, occorre una forza adeguata che si assuma responsabilità gravi: fino ad affondare i battelli che provino a violare il blocco. Inoltre, un blocco potrebbe ritorcersi contro di noi. Infatti, «Il blocco potrebbe costituire un fattore di attrazione, «perché le barche dei migranti punterebbero dritto verso le nostre navi e non è che un comandante può lasciarle affondare, a prescindere dal rispetto per il diritto internazionale e per i principi umanitari.

Bando alle chiacchiere

La legge del mare dice che i presunti naufraghi devono essere raccolti e sbarcati nel porto più vicino e, delle due, l’una: O la Libia è un paese sovrano che controlla il suo territorio e le sue coste o non lo è e deve sottoscrivere l’accordo; altrimenti, rappresenta un pericolo per la stabilità di tutti i paesi mediterranei, caso in cui non serve alcun accordo né per lo sbarco né per il blocco navale. La Guardia Costiera libica,  finanziata anche dall’Italia, ha recuperato in mare, solo quest’anno, già 5.500 persone, che sono state riportate in Libia.

A questo proposito, l’ammiraglio Fabio Agostini comandante di Irini, ha affrontato così la questione migranti in una lunga intervista: «Posso assicurare che i marinai della guardia costiera libica addestrati dalle missioni europee a partire dal 2017 non hanno commesso violazioni dei diritti umani a danni dei migranti. Certo non hanno mai sparato. Larga parte dell’addestramento verte proprio sul rispetto dei diritti umani, contro le violenze di genere e a protezione dei minori”. Le Ong sostengono, ovviamente, il contrario; ma, prosegue l’ammiraglio, ” va ricordato che lungo le coste libiche operano tante forze diverse, che spesso sono confuse con la guardia costiera del governo di Tripoli. E di queste forze non possiamo affatto garantire”. Difficile, tuttavia, considerare stato la Libia governata da Tripoli. Uno dei trafficanti di esseri umani sembrerebbe essere proprio un ufficiale libico, tale Bija che, anche se scarcerato dalla procura di Trapani per mancanza di prove, secondo gli ispettori dell’Onu sarebbe da considerare come una delle teste di tali traffici.

Evitare i migranti

L’Unione europea non vuole farsi carico del problema migranti perché non ha una visione della complementarità fra Europa e Africa. Figuriamoci se si presterebbe a imporre con la forza un blocco navale alle forze libiche. La soluzione trovata per Irini, dopo mesi di trattative, in piena pandemia è illuminante. Le navi di Irini si sarebbero occupate di pattugliare solo il mare a Est della Libia, passaggio obbligato delle navi che dalla Turchia intendono raggiungere i porti controllati da Tripoli. Qui, i barconi difficilmente arrivano e anche se arrivassero, l’accordo tra i Paesi Ue è che se ne faccia carico la Grecia (interessata all’operazione Irini per via dei giacimenti di cui sopra e delle tensioni storiche con Ankara). A Ovest della Libia, invece, dove insistono le rotte dei migranti che portano all’Italia e a Malta, l’incarico di fermare i trafficanti viene svolto dalla Guardia costiera libica, che viene finanziata dall’Italia e dall’Ue tra non poche polemiche e che fa capo al governo di Tripoli (lo stesso per cui Bruxelles ha dovuto dispiegare un’operazione militare per evitare che si foraggiasse di armi turche).

Le Ong e la speculazione finanziaria che le finanzia trovano facili appoggi nella corruzione della politica italiana.

Questo terzo paradosso sarebbe l’ultimo della vicenda, se non fosse che proprio pochi giorni prima che la nave con le armi di Ankara raggiungesse la Libia, a pochi chilometri di distanza, in Tunisia, un barcone di migranti partito alla volta dell’Europa naufragava, uccidendo diverse persone. A quanto pare, negli ultimi mesi, il blocco navale nei confronti dei trafficanti libici ha spinto le reti dei trafficanti di esseri umani a spostarsi sempre più in Tunisia per proseguire gli affari. Lo schema Ue, nato per evitare fenomeni di pull factor nel nome della sicurezza dei migranti, ha solo spostato di qualche miglia la tragedia. Mentre le armi continuano ad arrivare industurbate in Libia e i migranti in Italia. 

L’esempio greco

Ricordiamo che, il 28 marzo 1997, all’epoca della fuga di migranti dall’Albania all’Italia, il comandante della corvetta Sibilla non riuscì ad evitare la manovra spericolata della nave albanese Katër i Radës, che affondò insieme a 108 dei 120 migranti e alla carriera del nostro comandante. In quello stesso tempo, gli albanesi avevano aperto anche la via per la Grecia. Questa non si fece scrupoli. Un mattino, due cannoniere greche si presentarono davanti a Valona, dove non rimase a galla un natante. Così si fa, ma non si può.

La soluzione possibile

La soluzione, come abbiamo cennato, può venire dall’accordo fra Unione europea, Libia, Tunisia, Algeria e Marocco, ma non solo. L’Unione europea deve prendere atto che i due continenti, Europa e Africa sono complementari fra loro, non solamente in campo economico e la cooperazione fra i loro stati deve guardare al futuro di entrambi. Senza questa politica di sviluppo, non predatorio, l’Africa sarà definitivamente spogliata delle sue ricchezze dalle potenze finanziarie asiatiche e occidentali e l’Europa diventerà un campo profughi, come già sta diventando l’Italia. Verrebbe da dire che l’Occidente, da una parte, con l’Africa, dall’altra, con la Russia, sta sbagliando le sue strategie nei confronti dell’Asia Orientale.

Se guardiamo alla provenienza dei migranti che attraversano la Libia e la Tunisia, troviamo gente che viene, sopratutto, da Mali, Camerun, Costa d’Avorio, Guinea, Senegal, Sierra Leone, Nigeria e Benin, oltre che da Siria, Pakistan e Bangladesh.

L’Unione europea è una anomalia istituzionale che non sarà mai in grado di affrontare il problema migratorio. Figuriamoci un blocco navale. Può, però, stabilire rapporti di cooperazione con quegli stati, non foraggiando le loro élite, come ora accade, ma stabilendovi proprie iniziative, offrendo un futuro a quelle genti e a sé stessa.

La Farnesina deve uscire dalle politiche di compromesso, dalle richieste di supporto all’Ue e dalla visione soltanto umanitaria del problema migrazione. Il governo italiano deve far valere le sue ragioni, anche con rimedi estremi, se necessario, ma i fondi cospicui che elargiamo devono essere dati in nome di una cooperazione euro-africana che guardi al futuro dei due continenti, in una logica di investimenti per uno sviluppo reciproco.

Le bagole

L’Italia ha continuato a discutere del dossier immigrazione anche con il nuovo governo di unità nazionale libico ad interim. A tal proposito, nel corso della visita a Roma del 12 maggio, l’inviato speciale delle Nazioni Unite in Libia, Jàn Kubis, ha incontrato, tra gli altri, il ministro dell’Interno italiano, Luciana Lamorgese. In tale occasione, sono stati discussi gli sforzi profusi in materia di migrazione, e l’inviato ha accolto con favore l’iniziativa di Roma di aprire un corridoio umanitario, oltre all’intenzione dell’Italia di rafforzare la cooperazione con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, al fine di trasferire e reinsediare i migranti libici nel pieno rispetto dei diritti umani.

4036.- Bassetti vs Speranza. Quale dei due è serio? Ci vorrebbe un ministro medico

Da Il Secolo d’Italia, una serie di lanci del dott. infettivologo Matteo Bassetti contro una Sanità, dal 5 settembre 2019, incomprensibilmente, in mano a un parvenue, che dà alimento ai catastrofisti e non ci darà mai sicurezza. Troppo spesso questo ministro fa sì che faziosità e ideologia prevalgano sulla scienza.

Valga l’esempio della negata applicazione al prof. Ippolito, CTS e della secretazione del PIANO NAZIONALE DI PREPARAZIONE E RISPOSTA AD UNA PANDEMIA INFLUENZALE 2006, imposte entrambe da Speranza, che abbiamo commentato e andiamo citando da marzo 2020. Un fatto incomprensibile che nella prima fase della pandemia ha contribuito a moltiplicare il numero delle vittime del Covid. 

Con nostra meritata soddisfazione – meglio tardi che mai -, il Piano è stato ora “scoperto” dal bravo deputato Galeazzo Bignami di Fratelli d’Italia e dalle Iene, ma è inutile chiedere a una magistratura politicizzata di attribuire le sue responsabilità al ministro dottore in Scienze Politiche Roberto Speranza: “Il fatto non sussiste”. Non è senza rammarico che citiamo ancora l’eversione portata dal mancato scioglimento del Consiglio Superiore della Magistratura, politicizzato, appunto.

Bassetti a muso duro contro Speranza: «Non è stato fatto nulla per convincere gli scettici»

giovedì 27 Maggio 14:08 – di Giorgia Castelli

Bassetti

«Purtroppo sta venendo fuori che c’è in Italia ancora un 10-15% della popolazione scettica sul vaccino. Su questo il ministero della Salute e il ministro Speranza hanno fatto poco per una adeguata campagna per convincerli». Lo sottolinea all’Adnkronos Salute Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova e componente dell’Unità di crisi Covid-19 della Liguria.

Bassetti: «Il ministero ha perso un’occasione»

«Doveva essere la più grande campagna di comunicazione della storia sulla sanità – rimarca il medico – con un bombardamento continuo sui social e sui media per spiegare l’importanza dei vaccini. Invece non è stato fatto nulla e il ministero ha perso un’occasione buona per aiutare a capire l’importanza dei vaccini anti-Covid». Per poi affermare: «Si è dimenticato troppo presto quello che è accaduto con la legge Lorenzin sull’obbligo vaccinale per l’iscrizione a scuola».

«Seguire la scelta dell’Alto Adige»

Bassetti poi interviene in merito alla decisione dell’Alto Adige di aprire alle vaccinazioni senza limitazioni per fasce d’età. «È una strategia molto intelligente e verso cui ci dobbiamo muovere, una volta finite le fasce protette e più fragili». A quel punto «non ha infatti senso andare avanti con la suddivisione anagrafica, ed è giusto che si apra e che si velocizzi».

Bassetti, il post su Facebook

Ieri Bassetti ha anche pubblicato un post su Facebook. «Siamo ad un mese dalla riaperture del 26 aprile. Non mi pare che si sia assistito alla quarta ondata, all’aumento dell’Rt, all’aumento dei contagi, all’aumento dei ricoveri in terapia intensiva e a 500-600 morti al giorno». E poi ancora. «Chi aveva fatto queste previsioni? Ci sono molti esperti, politici e giornalisti che hanno declinato la pandemia con molta faziosità e ideologia e pochissima scienza. Purtroppo molti li hanno ascoltati e li ascoltano ancora”. Invece, ci sono «sempre meno pazienti con Covid e sempre più malati con altre malattie, anche infettive, che finalmente tornano a popolare i nostri ospedali. Ieri a livello nazionale è stato toccato il tasso di positività sui tamponi più basso da 7 mesi (1,2%), il 26 aprile era del 5,8%. Gli ospedali dal 26 aprile hanno il 52% in meno di ricoverati e le terapie intensive hanno ridotto del 73% il numero dei malati».

L’ira di Bassetti: “In Italia vincono i catastrofisti. Speranza? Ci vorrebbe un ministro medico”

giovedì 29 Aprile 11:10 – di Marta Lima

L’infettivologo Matteo Bassetti parla al Corriere della Sera

Matteo Bassetti si difende dalle accuse di “ottimismo” e propone un cambio al ministero della Salute, un medico al posto del politico Speranza. “Controcorrente io? No, è che in Italia parlano soprattutto i catastrofisti. Il famoso rubinetto che portava malati nei Pronto soccorso si è quasi prosciugato. Il resto sono discorsi da bar”. L’infettivologo Matteo Bassetti parla al Corriere della Seradopo avere confessato in un’intervista a ‘Chi’ che “la telecamera è una droga”. Malato di narcisismo? “Tutti quelli che vanno in tv lo sono – risponde il direttore della Clinica di Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova – Se dicono di non esserlo, mentono. Io non ci trovo nulla di male”.

“Io sto in ospedale, altri non so…”

Ma professori e medici non dovrebbero stare in ospedali e università? “Io sto in ospedale dalle 7.40 alle 20.30 – precisa – Faccio qualche collegamento con Skype. E’ parte del nostro lavoro comunicare. I docenti hanno un terzo del tempo per parlare alla gente”. Non è che a volte si sfiora l’esibizionismo? “Siamo libri aperti – replica l’esperto – Ormai siamo personaggi pubblici. Il nostro ruolo è aiutare la gente a capire“, anche se a volte fra scienziati manca un accordo. Con l’infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano Massimo Galli, per esempio, sono volate parole grosse (c’è il video): “Ha parlato di nani e ballerine – dice Bassetti – Lo trovo gravissimo, rasenta la querela. Ormai non lo ascolto più, lo trovo poco interessante. Anche quando dice qualcosa di giusto, lo dice male”.

Bassetti e il ministro Speranza

E su chi lo ritiene vicino al leader della Lega, Matteo Salvini, l’infettivologo genovese puntualizza: “Io sono poco ideologico, sono un liberale. Ho posizioni da medico, non da politico. Certo, Salvini lo conosco e lo sento, come altri, e lo trovo una persona di buon senso”. E il ministro Speranza? Fa anche lui parte dei catastrofisti? “Sì. Forse ci vorrebbe un ministro medico“, osserva Bassetti secondo il quale il sottosegretario Pierpaolo Sileri “sarebbe una bellissima figura, dal grande spessore culturale e scientifico. Sono di sicuro più vicino a Sileri che a Speranza”. Tornando alle dichiarazioni mediatiche, qualche volta “tutti abbiamo sbagliato. Io ho detto che non sarebbe arrivata la seconda ondata – ricorda l’infettivologo – Ma poi ho avvertito che la terza sarebbe arrivata a febbraio, dolorosa come la seconda. Oggi è finita”.

Bassetti boccia Speranza: «Nel suo ministero scelte ideologiche in danno del merito»

Fosse dipeso da lui, il ministro Speranza sarebbe già stato sfiduciato da tempo. E con una motivazione ben precisa: eccesso di «ideologia» a scapito della «meritocrazia» nella scelta dei consulenti scientifici. A sostenerlo non è un esponente di Fratelli d’Italia, ma un infettivologo del calibro di Matteo Bassetti. Un giudizio, il suo, assolutamente non dettato da ragioni politiche. È il motivo per cui si astenne dal commentare la mozione di sfiducia presentata da FdI. Equilibrio e prudenza, caratterizzano Bassetti anche nella valutazione della gestione del ministerodella Salute dal punto di vista tecnico. «È evidenze – spiega infatti all’Adnkronos – che sono state fatte delle cose bene e altre male».

Bassetti: «Sul coprifuoco occorre buonsenso»

Stroncatura netta, al contrario, nella prevalenza della politica – anzi dell’ideologia – su scelte di  natura esclusivamente tecnica. Il tema dell’ora in meno di coprifuoco tiene banco anche tra gli esperti e non solo in Parlamento. È il motivo per cui Bassetti invoca soprattutto «buonsenso», dal momento che – spiega – «siamo in molti a sostenere che dal punto di vista scientifico non c’è un razionale forte». Tanto più, aggiunge, che «il muro contro muro non aiuta in un momento come questo». Tutto dipende dai dati del contagio.

«Misura illiberale»

Ma Bassetti fa comprendere chiaramente che lui considera la misura del coprifuoco strettamente connessa all’emergenza. «È una misura profondamente illiberale che dura da sei mesi e non deve diventare la nostra quotidianità», ricorda. In effetti, la sua posizione è perfettamente sovrapponibile a quella che il centrodestraGiorgia Meloni in particolare, da tempo ripetono. È l’approccio ideologico al tema che va combattuto. «Si può pensare ad un meccanismo a step – suggerisce Bassetti -. Se le cose vanno bene il buon senso dovrebbe farlo portare alle 23, poi si arriverà alle 24 e poi via del tutto con il caldo e l’estate. È troppo limitante anche per il turismo».

4035.- Nascita della questione arabo-israeliana: storia degli ebrei, sionismo e nazionalismo

Torniamo sulla questione arabo-israeliana perché è focale per lo sviluppo, non solo dell’Asia occidentale, ma del Mediterraneo e per la cooperazione euro-africana. È dal 587 a.c. che gli ebrei fuggono e, ad oggi, la maggioranza vive negli Stati Uniti d’America. La popolazione di Israele è composta per l’80% da ebrei e per quasi il 20% da arabi palestinesi e vi troviamo musulmani, drusi e cristiani.

Gerardo Ferrara offre una ricostruzione storica degli eventi che conducono alla nascita della questione arabo-israeliana con un focus sulla storia degli ebrei dalla diaspora fino alla fine dell’ottocento, sulle origini e le diversi correnti del sionismo, sulle prime emigrazioni degli ebrei in Palestina che hanno come conseguenza la diffusione del Nazionalismo panarabo e panislamico.

27 Maggio 2021, tratto da Fatti per la storia.

Gli ebrei americani con la loro identità bivalente hanno dato un vero contributo al nazionalismo ebraico.

Scrivere un articolo sull’ormai quasi secolare conflitto tra arabi ed ebrei in Palestina significa addentrarsi in un territorio ostile. Troppe sono le ferite, infatti; troppi gli interessi, da entrambe le parti e a livello mondiale; troppe le promesse, i sogni, i sacrifici di ambedue i popoli; troppa è, anche, l’ideologia che ruota attorno alla questione.

Basti pensare che, pur dedicandosi da più di vent’anni allo studio del tema, chi scrive ha potuto raramente trovare delle fonti obiettive per documentarsi o discutere con persone che avessero a cuore le sorti di ebrei e arabi insieme, non solo degli uni o degli altri. E basti pensare altresì che uno dei libri più esaustivi sulla questione, dal quale abbiamo preso in prestito il titolo di questo articolo e che citiamo in bibliografia, è comunque contaminato dal materialismo storico e dall’ideologia marxista che vedono nel ritorno degli ebrei in Palestina unicamente una conseguenza dell’Olocausto e di interessi politici ed economici, escludendo a priori l’attesa bimillenaria degli ebrei nel mondo.

Non pretendiamo, ovviamente, con il nostro semplice e modesto contributo, di porci al di sopra di storici che vantano ben più alte credenziali delle nostre. Tuttavia scriviamo quanto segue nella speranza che chi leggerà voglia avvicinarsi alla questione in modo non ideologico e approssimativo, quasi stesse partecipando a una partita di calcio e vi fosse una gara tra tifoserie a chi urla di più, bensì in maniera costruttiva e, soprattutto, paterna, ove per paterna s’intende l’atteggiamento di un padre che ama entrambi i figli coinvolti in una lite e che sa che tutti e due hanno delle ragioni e delle colpe – e che i crimini commessi a vicenda dall’uno contro l’altro sono esecrabili – ma desidera fortemente e s’impegna per la soluzione del conflitto tenendo in considerazione l’interesse di entrambi.

Israele e Palestina

Israele. Palestina. Ha-Aretz (in ebraico: la Terra tout court, che è come gli ebrei definiscono il Paese promesso loro da Dio, da Dan, al nord, a Beersheba a sud). Filastìn (in arabo: Palestina). Yerushalayim (nome ebraico di Gerusalemme, ovvero “altura della pace” e, per estensione, città della pace). Al-Quds (la Santa: nome arabo di Gerusalemme).

In questo fazzoletto di terra le cose spesso hanno due o più nomi e le definizioni dei luoghi di questa minuscola regione a cavallo tra Africa e Asia sono altisonanti, danno un senso di assoluto, di divino, quasi tutti gli sguardi del mondo, tutte le attese, gli aneliti e i desideri di miliardi di uomini nella storia confluissero qui e, di fatto, Gerusalemme è la città che conta, dopo Washington, il più alto numero di corrispondenti dall’estero che si occupano di riportarne le cronache ai lettori e ai telespettatori di tutti i Paesi, i quali, quotidianamente e da quasi ottant’anni, attendono novità e sperano di ricevere, prima o poi, qualche buona notizia di pace e di riconciliazione.

Prima di addentrarci più in profondità nella questione arabo-israeliana, è dunque necessario chiarire a chi e a che cosa ci stiamo riferendo. Per essere ancor più precisi, occorrerebbe addirittura parlare prima di tutto di una questione ebraica, che poi diviene ebraico-ottomana e allo stesso tempo ebraico-araba o ebraico-palestinese e, infine, solo dal 1948 arabo-israeliana o israelo-palestinese.

Ebrei o israeliani?

Partiamo da uno di quei presupposti che ogni orientalista alle prime armi deve conoscere. Così come s’impara, durante le prime lezioni all’università, che non tutti gli arabi sono musulmani e che non tutti i musulmani sono arabi, è necessario precisare che non tutti gli ebrei sono israeliani e non tutti gli israeliani sono ebrei.

Chi sono, dunque, gli israeliani? Sono i cittadini dello Stato d’Israele, un Paese dell’Asia occidentale che conta circa 9 milioni di abitanti di cui intorno ai 7 milioni sono ebrei, con una considerevole minoranza (circa 2 milioni) di arabi, in stragrande maggioranza musulmani sunniti ma con una piccola minoranza di cristiani e drusi. Gli israeliani, quindi, sono sia ebrei sia arabi (o palestinesi: sull’utilizzo di quest’ultimo termine rimandiamo alle righe successive) e sia ebrei sia musulmani, drusi, cristiani, ecc.

Gli ebrei (termine che è sinonimo, in italiano, di “israeliti” e non di “israeliani”), invece, sono un gruppo etno-religioso che conta dai 17 ai 20 milioni di persone, la maggior parte delle quali (circa 10 milioni) risiede negli Stati Uniti; ve ne sono, poi, sui 7 milioni in Israele. Ve n’è poi una presenza alquanto consistente anche in Francia (se ne contavano 700 mila all’inizio di questo secolo, ma sono in costante diminuzione), Regno Unito, Russia e altri Paesi. In Italia vi sono circa 45 mila ebrei.

Si definiscono “gruppo etnoreligioso”, e non semplici fedeli di una religione, perché il concetto di etnia e quello di fede religiosa, nell’ebraismo, sono strettamente correlati. Prima della Shoah, o Olocausto, il genocidio che ha sterminato gran parte delle comunità ebraiche d’Europa, era il Vecchio continente la culla di più della metà degli ebrei di tutto il mondo.

Ebrei ashkenazita e sefarditi

Gli ebrei, sia quelli che vivono in Israele, sia quelli sparsi in tutto il mondo, sono, generalmente, suddivisi in due grandi gruppi, in base a differenti fattori che sono, in primo luogo, tutti gli aspetti culturali che li contraddistinguono, come la lingua, le tradizioni, gli usi e i costumi, inoltre le vicissitudini storiche attraverso le quali sono passati, nonché l’ubicazione geografica della comunità alla quale essi appartengono.

Questi due gruppi vengono chiamati “ashkenazita” e “sefardita[1]. In generale, sono detti sefarditi quegli israeliti che, dopo essere stati espulsi dalla Spagna nel 1492, dopo la Reconquistadefinitiva del Paese ai Mori da parte di Ferdinando, re d’Aragona, e Isabella, regina di Castiglia, hanno trovato rifugio in Africa settentrionale, nell’Impero Ottomano, in Egitto, nel Vicino Oriente[2]. Tuttavia, al giorno d’oggi, sono definite sefardite anche le comunità ebraiche dello Yemen, dell’Iraq, della Palestina e di altri Paesi dell’Asia e dell’Africa che poco o nulla hanno a che vedere con i profughi espulsi nel XV secolo dalla Penisola iberica.

Ciò avviene perché, nel XVI secolo, uno studioso e mistico di origine andalusa, Yossef Caro (1488-1575), redasse un codice, chiamato Shulhan Arukh, che raccoglieva tutte le tradizioni, gli usi, i costumi, le regole di liceità e di illiceità, i riti delle comunità ispaniche. Per tutta risposta, un dotto ebreo polacco, Moshé Isserles, conosciuto anche come Haremà, commentò il codice di Caro, sentenziando che alcune delle regole ivi contenute non erano conformi alla tradizione ashkenazita. In questa maniera, si è creata la distinzione fra ashkenaziti e sefarditi[3], che molti definiscono pure, rispettivamente, ebrei europei ed ebrei orientali.

Quanto abbiamo appena espresso non è che una generalizzazione delle tante e tante differenze tra gli ebrei di tutto il mondo, i quali, nonostante tutto, hanno sempre e comunque preservato le radici comuni, il culto e, soprattutto, il nostalgico anelito del ritorno alla Terra promessa, accompagnato dal dolore per l’esilio (componenti, queste ultime, onnipresenti in gesti e parole della vita quotidiana e delle celebrazioni più importanti).

Storia degli ebrei

La diaspora, ossia la dispersione degli israeliti (termine che è sinonimo di “ebreo” e non di “israeliano”) ai quattro angoli del globo era iniziata già tra il 597 e il 587 a.C., con la cosiddetta “Cattività babilonese”, cioè la deportazione degli abitanti dei Regni d’Israele e di Giuda in Assiria e a Babilonia, e con la distruzione del tempio edificato da Salomone, da parte del re Nabucodonosor.

ebrei verso Babilonia
Cattività Babilonese

Nel 538, con l’Editto di Ciro, re dei persiani, una parte dei giudei aveva potuto, una volta rientrata in patria, riedificare il tempio, benché numerosi ebrei fossero rimasti a Babilonia o si fossero recati a vivere in altre regioni, processo che continuò in epoca ellenistica[4] e romana.

Fu proprio Roma, tuttavia, a porre fine – e per quasi duemila anni – alle aspirazioni nazionali e territoriali del popolo ebraico, con le sanguinosissime tre Guerre giudaiche. La prima di queste (66-73 d.C.), avviata da una serie di rivolte contro l’autorità romana da parte della popolazione locale, culminò con la distruzione di Gerusalemme e del Tempio[5], oltre che di altre città e roccaforti militari quali Masada, e la morte, secondo lo storico dell’epoca Giuseppe Flavio, di più di un milione di ebrei e di ventimila romani.

La seconda (115-117) ebbe luogo nelle città romane della diaspora e provocò anch’essa migliaia di vittime. Nella terza (132-135), anche nota come Rivolta di Bar-Kokhba[6], la macchina da guerra romana passò come un rullo compressore su tutto ciò che incontrava, radendo al suolo circa 50 città (compreso ciò che restava di Gerusalemme) e 1000 villaggi.

Non solo i rivoltosi, ma quasi tutta la popolazione ebraica sopravvissuta alla prima Guerra giudaica fu cancellata (vi furono all’incirca 600 mila morti), insieme all’idea stessa di presenza ebraica nella regione, che fu romanizzata persino nella topografia. Il nome di Palestina, infatti, e più precisamente di Syria Palæstina, fu attribuito dall’imperatore Adriano all’ex provincia della Giudea nel 135 d.C., dopo la fine della terza Guerra giudaica[7].

Lo stesso imperatore fece ricostruire Gerusalemme come città pagana, con il nome di Aelia Capitolina, collocando templi alle divinità greco-romane proprio sopra i luoghi santi ebraici e cristiani (ebrei e cristiani erano allora assimilati), e vi impedì l’ingresso a ogni ebreo, sebbene, almeno per i primi secoli dell’era cristiana, una minoranza ebraica sia sopravvissuta nelle campagne della Giudea e soprattutto nelle città sante di Safed e Tiberiade, in Galilea, tanto da risultare nelle cronache dell’epoca che la minoranza israelitica prese parte a massacri di cristiani, d’accordo con i persiani sassanidi[8], nel corso della conquista di questi ultimi all’inizio del VII secolo d.C. e addirittura governò Gerusalemme per 15 anni, prima di finire quasi del tutto massacrata a sua volta e di favorire l’avanzata e la conquista delle truppe arabo-islamiche nel 637.

Ci si domanda, ad ogni modo, come mai non vi sia stata, prima del 1880, data che segna tradizionalmente l’inizio della questione arabo-israeliana – in quest’epoca sarebbe più corretto definirla ancora ebraico-palestinese – un’immigrazione massiccia degli ebrei nella regione, passata, nel frattempo, di mano in mano: romani, persiani, bizantini, arabi, crociati, turchi ottomani.

Certamente per motivi economici (le comunità ebraiche, ormai fortemente urbanizzate e dedite al commercio, si erano insediate stabilmente in molti centri importanti dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa mediterranee e avevano intessuto una fitta rete commerciale), ma probabilmente anche religiosi: il Talmud babilonese, infatti (trattato Ketubot, 111a), stabilisce che agli israeliti Dio avrebbe impedito di rivoltarsi contro le nazioni creando un proprio Stato; di immigrare in massa in Terra Santa; di affrettare la venuta del messia.

Queste proibizioni sono alla base della dottrina, rigidamente antisionista e antisraeliana, dei Neturei Karta[9] (Guardiani della città), un movimento ebraico ortodosso che rifiuta di riconoscere l’autorità e la stessa esistenza dello Stato d’Israele.

Ad ogni modo, alla fine del XIX secolo la Palestina era parte della più grande provincia (vilayet) di Siria e la sua popolazione era quasi esclusivamente di lingua araba e di religione islamica (sebbene fossero presenti delle cospicue minoranze cristiane specie in città come Nazareth, Betlemme e la stessa Gerusalemme, dove a volte i cristiani rappresentavano la maggioranza relativa).

Gli ebrei erano solamente 24 mila, cioè il 4,8 per cento della popolazione. Come sudditi ottomani, erano stati considerati (al pari dei cristiani) cittadini di seconda categoria, cioè ḏhimmī, ed erano soggetti al pagamento di un’imposta di capitolazione, detta jizya, e di un tributo sulle terre possedute, Kḫarāj, fino al 1839, quando, in seguito all’Editto (Hatti sherif) di Gülhane, seguito dall’Editto (HattiHümayun (1856) e dall’Islahat Fermani, il sultano Abdülmecit I concedeva piena uguaglianza giuridica con i musulmani a tutti i sudditi non islamici della Sublime Porta, nell’ambito delle famose Tanzimat, riforme liberali ispirate proprio dall’Europa.

Paradossalmente, i germi della questione arabo-israeliana vengono alla luce proprio nel momento in cui, all’epoca delle rivoluzioni liberali e dell’apertura dei ghetti in Europa e delle Tanzimat nell’Impero Ottomano, continuano a verificarsi violenti pogrom e più sottili atti ed episodi di antisemitismo, specialmente in Europa e in Russia, ma anche in Siria e in altre zone del mondo occidentale e orientale.

È allora che nasce e si sviluppa, nell’ambito dei nazionalismi europei e, altresì, come conseguenza della Haskalah, l’Illuminismo ebraico (che vide una rinascita delle lettere e della cultura ebraico-europea), quell’ideologia che è alla base dell’odierno Stato di Israele: il sionismo.

Il sionismo: origine, diffusione e correnti principali

Il termine sionismo[10] è apparso per la prima volta nel 1890, all’interno della rivista “Selbstemanzipation” (“Autoemancipazione”), coniato da Nathan Birnbaum. Si tratta di un termine piuttosto generico, in quanto, nelle sue diverse sfaccettature e nelle visioni dei suoi tanti esponenti, il progetto, o l’ideologia sionista ha sì l’obiettivo appunto l’emancipazione del popolo ebraico, in vista dell’impossibilità della sua assimilazione e integrazione nel Vecchio continente, e tuttavia tale emancipazione può essere su base nazionale e territoriale o anche solo spirituale e culturale.

I suoi primi esponenti, non molto celebri in ambienti non specialistici, sono Yehuda Alkalai (1798-1878), Zvi Hirsch Kalischer (1795-1874) e Moses Hess (1812-1875), autore di Roma e Gerusalemme, e Yehuda Leib (Leon) Pinsker (1821-1892), fondatore e leader del movimento Hovevei Zion. Costoro sognavano una sorta di redenzione degli ebrei, specialmente delle masse sottoproletarie dell’Europa orientale, attraverso un processo che avrebbe condotto a un’esistenza più libera e consapevole in un insediamento palestinese, sebbene sotto la sovranità del sultano ottomano. Si trattava, quindi, di progetti e di aspirazioni a un’emancipazione economica, sociale e culturale, più che nazionale e territoriale.

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Theodor Herzl

Sionista per eccellenza, tuttavia, è considerato il famoso Theodor Herzl (1860-1904). Nativo di Budapest, Herzl era un ebreo completamente assimilato e iniziò a occuparsi della cosiddetta “questione ebraica” solo a partire dal 1894, quando, caporedattore del giornale Neue Freie Presse, si trovava a Parigi come corrispondente.

In quell’anno, proprio a Parigi, scoppiò l’affaire Dreyfuss che, per il carattere antisemita della questione, scosse talmente tanto colui che è considerato il padre fondatore dello Stato di Israele (ove è stato addirittura dato il suo nome a una città fondata nel 1924, Herzliya) da indurlo a riflettere sulla questione ebraica (che non pare aver destato i suoi interessi prima di allora) e a scrivere un libretto intitolato Der Judenstaadt (Lo Stato degli ebrei), in cui immagina, fin nei minimi dettagli, come possa essere fondato e costruito uno Stato completamente ebraico.

Per lui, infatti, quella ebraica non è più solamente una questione religiosa, culturale o sociale, bensì nazionale: gli ebrei sono un popolo e devono avere un territorio tutto loro per sfuggire al millenario antisemitismo che li perseguita. Così, fondò, nel 1897, in occasione del primo Congresso sionista di Basilea, l’Organizzazione Sionista Mondiale (World Zionist Organization), i cui scopi rispecchiavano le linee programmatiche adottate all’interno del medesimo congresso, ovvero il “Programma di Basilea”. Tale programma si prefiggeva la creazione di uno Stato ebraico in Palestina, legalmente riconosciuto a livello internazionale.

C’è da dire che la Palestina non era l’unico territorio preso in considerazione. Anche l’Argentina, in quanto ricca e scarsamente popolata, era stata suggerita da Herzl quale rifugio sicuro per il popolo ebraico, oltre a Cipro o all’Africa del Sud. Dopo aver poi proposto al sultano Abdülhamid di risanare i debiti dell’Impero Ottomano in cambio della Palestina ed essersi visto rifiutare la proposta, Herzl si rivolse alla Gran Bretagna, optando, quali possibili territori per un futuro Stato ebraico, per la penisola del Sinai (la costa di Al-Arish) o l’Uganda, tutti progetti andati in fumo dopo la sua morte nel 1904.

Scrivevamo più sopra che il sionismo non costituisce affatto un blocco monolitico o un progetto per il quale sussiste un’identità di vedute da parte di tutti i suoi esponenti.

Tra le sue correnti principali, citiamo le seguenti:

  • Sionismo territorialista (o neoterritorialista): i suoi sostenitori, guidati dallo scrittore e drammaturgo ebreo inglese Israel Zangwill (1864-1926), respingevano l’idea di un legame storico tra gli ebrei e la Palestina, così come tra lo stesso sionismo e la Palestina e, tramite la Jewish Territorial Organization, fondata dal medesimo Zangwill, si erano messi alla ricerca di un territorio adeguato da assegnare al popolo ebraico in vista di un insediamento stabile. Tra le possibilità di colonizzazione si ipotizzavano: Angola, Tripolitania, Texas, Messico, Australia. Ovviamente, il territorialismo e il neo-territorialismo non sopravvissero alla creazione dello Stato d’Israele.
  • Sionismo spirituale: il principale esponente di tale corrente è stato Asher Hirsch Ginzberg(1856-1927), noto come Ahad Ha-Am (in ebraico: uno del popolo). Studioso della Torah e del Talmud, abbandonò definitivamente la fede e si dedicò con passione allo studio di una soluzione per la questione ebraica. Egli era, tuttavia, convinto che la Palestina non rappresentasse la soluzione ideale poiché, in primo luogo, non era in grado di accogliere tutta la popolazione ebraica mondiale e, in secondo luogo (e fu tra i pochi a dichiararlo) quella regione era già occupata da un altro popolo semita, gli arabi, per il quale nutriva rispetto e ammirazione, tanto da scrivere, dopo l’uccisione di un ragazzo arabo da parte di alcuni ebrei: “Ebrei e sangue: esistono due termini più antitetici di questi? […] Oggi si sta diffondendo nel popolo ebraico una tendenza a sacrificare, sull’altare del ‘ritorno’, i suoi profeti, i grandi principi morali per i quali il nostro popolo ha vissuto e sofferto e per i quali solamente ha ritenuto valesse la pena di operare per divenire di nuovo un popolo della terra dei suoi padri”[11]. E ancora, dopo essere emigrato in Palestina e aver contribuito alla promulgazione della Dichiarazione Balfour (1917), aderendo ai principi del sionismo binazionale: “Il diritto storico del popolo ebraico non annulla il diritto degli altri abitanti del Paese, i quali hanno un diritto reale al Paese dovuto a generazioni di residenza e di lavoro in esso. […] La sede nazionale del popolo ebraico deve costruirsi […] senza distruggere con ciò la sede nazionale degli altri abitanti”[12].
  • Sionismo binazionale, i cui principali esponenti sono stati Judah Leon Magnes (1877-1948) e il famoso Martin Buber (1878-1965). Buber, in particolare, sosteneva che sionismo e nazionalismo non hanno nulla a che vedere, anzi, che il sionismo dovesse essere una “potenza dello spirito” che s’irraggiasse da un centro che era individuato a Gerusalemme e da cui si effondesse in tutto il mondo a vantaggio dell’umanità intera. Pertanto, non era pensabile che fosse fondato uno Stato nazionale a base esclusivamente ebraica. Ebrei e arabi avrebbero dovuto, invece, convivere pacificamente in uno Stato binazionale in cui entrambi vedessero realizzate le legittime aspirazioni. Anche dopo la creazione dello Stato d’Israele, Buber si oppose energicamente alle politiche adottate dai governi del suo nuovo Paese nei confronti della minoranza araba.
  • Sionismo socialista, la cui finalità era quella di liberare definitivamente il popolo ebraico dalla sua secolare sottomissione attraverso non solamente l’emigrazione in massa in Palestina, ma la costruzione di uno Stato proletario e socialista. Dov Ber Borochov (1881-1917), principale rappresentante di tale corrente, insisté particolarmente su un punto: la Palestina era abitata da un popolo poco numeroso e sparso in esigue aree abitate, del tutto inconsapevole di essere un popolo. Attraverso un’azione di stampo marxista, andava imposta, da una popolazione più “avanzata” – e che conservasse una posizione dominante – a un’altra, più duttile e retrograda, l’assimilazione economica e culturale.
  • Sionismo armato (revisionista), il cui massimo teorico e fautore è stato l’ebreo russo Vladimir Ze’ev Jabotinsky (1880-1940). Costui creò nel 1920 la Legione ebraica e nel 1925 un partito di estrema destra, l’Unione mondiale dei sionisti revisionisti (Zohar) da cui derivarono organizzazioni terroristiche quali l’Irgun Zevai Leumi (Organizzazione militare nazionale) e il Lehi (Lohamei Herut Israel), più noto come Banda Stern. Questa forma di sionismo vedeva nella lotta armata l’unica forma per garantire agli ebrei l’ottenimento di uno Stato; una lotta armata che doveva essere sia contro la potenza mandataria (la Gran Bretagna) sia contro la popolazione araba. Tra le altre cose, i revisionisti respingevano categoricamente ogni forma di socialismo e marxismo. Molti hanno visto in questa forma di sionismo quella che ha finito per prevalere sulle altre e che ha permeato diverse strutture dello Stato d’Israele, in particolare la dottrina di partiti e movimenti politici quali il Likud, partito di Menahem Begin, Ariel Sharon e Benjamin Netanyahu.

Provando a tracciare un primo bilancio rispetto al sionismo, possiamo affermare che, almeno fino al 1918, esso non ebbe molta presa tra gli ebrei del mondo. Le cifre dei flussi migratori in Palestina tra il 1880 ed il 1918 attestano l’arrivo di 65 mila-70 mila ebreitra il 1919 ed il 1948 ne arrivarono 483 mila. Solo tra il 1948 ed il 1951, invece, immigrarono nel neonato Stato ebraico 687 mila persone.

Nel complesso, tra il 1948 e il 1991 sono giunte in Israele ben 2 milioni 200 mila anime, anche se, dopo il 1951, i flussi si sono fortemente attenuati, ma solo fino alla fine degli anni ‘80, periodo della grande immigrazione dall’ex Unione Sovietica. In particolare, numeri alla mano, si evince un dato fondamentale: solo a partire dalla fine della Seconda Guerra mondiale, e quindi dalla fondazione dello Stato d’Israele, si è registrato un impressionante aumento dei flussi migratori, il che fa pensare che, a convincere gli ebrei del mondo del rischio di continuare a vivere nella diaspora, non sia stata tanto l’ideologia sionista, quando una delle maggiori catastrofi della storia: l’Olocausto. Se così non è stato, di certo la Shoah ha rappresentato il colpo finale alle speranze di assimilazione di molti ebrei europei.

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Ebrei in viaggio verso la Palestina

Eretz Israel: emigrazioni verso la Palestina

La prima emigrazione importante di ebrei europei verso la Palestina ebbe luogo a partire dal 1881.  È curioso notare come l’idea di lasciare il proprio Paese per andare a vivere in Palestina – dopo il 1948, Stato d’Israele – corrisponda, per un ebreo, al concetto di ritorno e, ancor più, a un’esperienza religiosa paragonabile a un pellegrinaggio.

E in effetti, in ebraico, “immigrazione in Israele” e “pellegrinaggio” sono omonimi: per definirli si usa il termine ‘aliyah (עלייה), che significa “ascesa”, “ascensione”. Gli ebrei che compiono questa immigrazione e questa ascesa si definiscono ‘olìm (עולים – dalla stessa radice “על”, “‘al”), cioè “coloro che salgono”. Addirittura, il nome della compagnia di bandiera israeliana El Al (אל על), vuol dire “verso l’alto” (e con un doppio senso: “alto” è il cielo, ma “alta”, rispetto a tutto il resto del mondo, è anche la Terra d’Israele, verso cui gli aerei della El Al conducono i passeggeri).

L’anno d’inizio di tale fenomeno coincide con una serie di pogrom contro gli ebrei russi, seguiti all’assassinio a San Pietroburgo, il 1° marzo 1881, dello zar Alessandro Romanov da parte di membri dell’organizzazione rivoluzionaria Narodnaja Volja. Tale gesto, benché uno solo tra i membri dell’organizzazione stessa fosse ebreo, scatenò ira e vendette su tutti gli israeliti dell’Impero Russo, costringendo un milione di persone a fuggire, in gran parte negli Stati Uniti, ma anche in altre regioni del mondo tra cui, in minima parte, la Palestina.

Alcuni di questi profughi fondarono un’organizzazione chiamata Bilu (dalle iniziali di un versetto di Isaia: “Beth Yaakov, lekhù ve nelkhà”, che significa “Casa di Giacobbe, venite, camminiamo!”), i cui componenti furono chiamati biluìm e che rappresenta il primo nucleo sostanziale di ‘olìm. Essi poterono insediarsi grazie all’aiuto di ricchi filantropi come il barone de Rothschild o di organizzazioni sioniste quali la russa Hovevei Zion oppure la Jewish Colonization Association.

La seconda ‘aliyah, invece, si verificò a partire dal 1905, dopo il fallimento della prima Rivoluzione russa e la pubblicazione dell’opuscolo Protocolli dei Savi di Sion, da parte della polizia segreta zarista, un falso documentale attribuito a una presunta organizzazione ebraica e massonica per diffondere l’idea di un complotto ordito dagli ebrei per impadronirsi del mondo.

Questa seconda ‘aliyah, i cui membri avevano idee più marcatamente socialiste rispetto a quelli della prima, andò a incrementare la presenza ebraica in Palestina, grazie anche all’acquisto di larghe estensioni di terreni agricoli, ottenute grazie all’aiuto delle già citate organizzazioni internazionali, le quali in molti casi pagavano generose tangenti ai funzionari ottomani e ai latifondisti locali cui, in teoria, era vietato vendere terreni agli stranieri occidentali. Gli stessi terreni, peraltro, erano già abitati o in uso ai fellah, i contadini arabi che da generazioni vi vivevano, pur senza averne mai rivendicato legalmente la proprietà, come vedremo più avanti.

È di quest’epoca la fondazione di città come Tel Aviv (1909) e di villaggi agricoli di due distinte tipologie:

  • Kibbùtz (dalla radice ebraica קבץ, kavatz, “raccogliere”, “raggruppare”), un tipo di azienda agricola (in alcuni casi anche ittica, industriale o artigianale) i cui membri si associano volontariamente e decidono di sottoporsi a rigide regole egualitarie, la più nota delle quali è il concetto di proprietà collettiva. All’interno del kibbùtz i profitti derivanti dal lavoro agricolo (o di altra tipologia) vengono reinvestiti nell’insediamento dopo che ai membri sono stati forniti cibo, vestiario, alloggio e servizi sociali e medici. Gli adulti hanno alloggi privati, ma i bambini sono generalmente alloggiati e accuditi in gruppo. I pasti sono sempre in comune e i kibbùtz (il primo è stato fondato a Deganya nel 1909) sono generalmente stabiliti su terreni affittati dal Jewish National Fund, che detiene la proprietà di molta della terra dell’attuale Stato d’Israele. I membri convocano riunioni collettive settimanali in cui si determinano le politiche generali e si eleggono gli amministratori.
  • Moshàv (dalla radice ebraica שוב, shuv, “insediarsi”), anch’esso, proprio come il kibbùtz, un tipo di insediamento agricolo cooperativo. A differenza di quest’ultimo, tuttavia, nel moshàv vige il principio della proprietà privata dei singoli appezzamenti di terra che costituiscono l’azienda. Anche il moshàv è costruito su terreni appartenenti al Jewish National Fund o allo Stato. Le famiglie vivono in maniera autonoma.

All’interno dei nuovi insediamenti agricoli e urbani, gli ‘olìm, ancora sudditi dell’Impero Ottomano, dovevano imparare a vivere in modo nuovo. Vi era anzitutto il problema della diversa provenienza geografica e culturale: la comunità ebraica di più antico insediamento, quella palestinese sefardita, poi arricchitasi di alcuni primi gruppi giunti dallo Yemen, dall’Iraq, dal Marocco e dalla Georgia si trovava ora a fronteggiare l’arrivo di europei, in gran parte ashkenaziti, con cui poco o nulla aveva in comune.

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Eliezer Ben Yehuda

Occorreva, dunque, una lingua per comunicare, e si cominciò a utilizzare quella ebraica biblica. Pioniere del progetto di rinascita di tale idioma fu Eliezer Ben Yehuda (1858-1922), ebreo di origine russa e immigrato in Palestina, il cui figlio divenne il primo bambino di lingua madre ebraica dopo migliaia di anni.

La rinascita di una lingua vecchia di tremila anni e ormai in disuso da due millenni fu una delle avventure più incredibili della storia, anche per via della necessità di adattare un idioma il cui lessico, povero e basato più che altro sulle Sacre Scritture e sulle liriche antiche, aveva bisogno di essere completamente reinventato e adattato a una pronuncia moderna che risultò essere un compromesso tra quelle adottate dalle varie comunità disperse intorno al mondo.

Si creava, quindi, la base di un uomo nuovo, del futuro israeliano[13], che spesso cambiava nome, adottandone uno più “semitico”, rifiutava di tornare a parlare la lingua europea che aveva parlato fino a quel momento e doveva essere diverso rispetto al tradizionale ebreo sottomesso dei ghetti europei o delle mellah marocchine: un uomo forte, abituato al lavoro nei campi, la cui pelle chiara e delicata doveva essere rosolata dai roventi raggi del sole mediorientale e le cui membra andavano temprate dalla fatica di strappare terra e acqua al deserto. Non a caso, ancora oggi i nativi dello Stato d’Israele si chiamano tzabra (“fico d’India”, in ebraico) e si caratterizzano per i modi spicci rispetto alle affettate maniere degli antenati dei ghetti.

Occorreva, tra l’altro, vista la crescente resistenza non tanto degli ottomani, quanto della popolazione araba già residente in Palestina, qualcuno che custodisse e vigilasse sulla sicurezza dei coloni. Così, sempre nel 1909 nacque lo Ha-Shomer (Corporazione dei guardiani), per sorvegliare gli insediamenti in cambio di un salario, poi confluito, nel 1920, nella celebre Haganah, la quale si formò in seguito ai moti arabi di quello stesso anno.

Arabi o palestinesi?

Come scrivevamo a proposito del significato dei termini “ebreo” e “israeliano”, è bene fare un’analoga distinzione tra la parola “arabo” e la parola “palestinese”. La prima indica, in primo luogo, un abitante della Penisola arabica e, per estensione, è passato a designare chiunque, al giorno d’oggi, parli la lingua araba, benché, a questo proposito, sarebbe più corretto utilizzare l’aggettivo sostantivato “arabofono”.

In effetti, molte delle persone che oggigiorno usano l’arabo come prima lingua non sono arabe in senso stretto, bensì “arabizzate”. Gli abitanti del Nord Africa, ad esempio, sono per lo più di origine berbera (camitica); gli egiziani sono in gran parte di origine copta (discendenti, appunto, degli antichi egizi, una popolazione che parlava anch’essa una lingua camito-semitica); gli abitanti del Vicino Oriente arabo, poi, parlavano, prima della conquista da parte dei seguaci del profeta dell’islam, una serie di lingue semitiche quasi tutte estinte, tra cui la più celebre e diffusa era l’aramaico. Le popolazioni che vivevano negli attuali Paesi arabi, inoltre, erano, prima della conquista islamica, per la stragrande maggioranza cristiane.

Maometto
Maometto in miniatura di manoscritto del XVI secolo

Al momento dell’arrivo dei seguaci del profeta Maometto, dunque, anche la regione siro-palestinese, soggetta all’Impero bizantino ma messa a dura prova dalla precedente incursione sassanide (che tra l’altro si era accanita con particolare livore contro i luoghi santi cristiani) era cristiana. In un nostro precedente articolo abbiamo analizzato alcune ragioni per cui, nelle terre sottomesse all’islam, gran parte della popolazione cristiana (e, in questo caso, anche ebraica) decise di sottomettersi alla fede del conquistatore[14].

La regione, come abbiamo visto, fu occupata e ceduta varie volte nella storia, facendo parte prima del califfato omayyade, poi di quello abbaside e poi ancora di quello dei fatimidi d’Egitto; in seguito, dopo essere stata dominata da diversi regni crociati e aver visto le gesta di Saladino, che riconquistò Gerusalemme nel 1187, tornò definitivamente nelle mani dei musulmani con i turchi selgiuchidi, e successivamente, degli ottomani. Nel 1540, sotto il regno di Solimano il Magnifico, furono costruite le mura della città vecchia di Gerusalemme che ammiriamo ancora oggi.

Alla fine del XIX secolo l’area faceva quindi parte dell’Impero ottomano (vilayet di Siria) ed era divisa in tre sangiaccati. Il nome “Palestina” era usato in maniera approssimativa per definire sia quella che oggi conosciamo come area israelo-palestinese sia parte della Transgiordania e del Libano e gli abitanti della zona, i quali, come abbiamo visto, erano quasi totalmente di lingua araba e di religione islamica sunnita, erano concentrati soprattutto a Gerusalemme e dintorni e in alcune città della Giudea (oggi Cisgiordania) e della Galilea.

Sebbene la stragrande maggioranza (poco meno dell’80%) della popolazione fosse musulmana, vi era una considerevole minoranza cristiana (16% circa, prevalentemente a Betlemme, Gerusalemme, Nazaret), una piccola minoranza ebraica (4,8%) e un’ancor più piccola presenza drusa.

Gli abitanti si consideravano allora come parte dell’Impero ottomano e il nazionalismo arabo, e solo dopo palestinese, non era che un germe nelle menti di pochi esponenti delle classi abbienti. Vero è che l’acredine nei confronti della Porta e del suo sempre più esoso sistema di tassazione cresceva, anche e soprattutto in seguito alla riforma fondiaria del 1858 (Arazi Kanunnamesi), varata nell’ambito delle Tanzimat.

Tale decreto aveva lo scopo di far recuperare all’autorità centrale il controllo sulle terre che, nel corso dei secoli, erano sfuggite alla sua longa manus e si trovavano nelle mani di privati o di contadini non in grado di rivendicarne il diritto legale.

Questa riforma, tuttavia, non fece che accrescere il potere di grandi proprietari latifondisti, i quali poterono esibire falsi certificati di proprietà per ingrandire ulteriormente i propri latifondi, favoriti, tra l’altro, dagli stessi piccoli proprietari terrieri, dalle tribù e dalle collettività di contadini (in arabo: fellah), che, sebbene insediati da secoli su determinate estensioni di terreni, temevano un’ancor più esosa tassazione, qualora ne fossero divenuti i proprietari legittimi, oltre che la coscrizione. Da qui la facilità, per le ricche fondazioni ebraiche internazionali, di acquisire grandi estensioni di terreno presso i latifondisti locali.

Il risveglio nazionale arabo e islamico

Curiosamente, il risveglio nazionale arabo, coincise quindi con quello ebraico, in un primo momento per fattori diversi, ma poi per uno scontro diretto tra i due, e proprio in Palestina, data la crescente presenza nella regione di ebrei che andavano a insediarsi in terre precedentemente occupate da contadini arabi. Fino al XIX secolo, infatti, ovvero prima delle Tanzimat, gli arabi musulmani erano considerati, alla stregua dei turchi, cittadini di prima categoria di un Impero che non si ergeva su base etnica, bensì religiosa.

Vi sono, dunque, tre fattori fondamentali alla base della nascita del fenomeno nazionalista arabo:

  1.  Le riforme chiamate Tanzimat avevano provocato una reviviscenza del nazionalismo turco (anche chiamato “panturanismo”) che sarebbe sfociato nei genocidi armeno, assiro e greco (da notare: non in quello arabo, dato che il criterio adottato per i massacri di popolazioni minoritarie all’interno di determinate aree dell’Anatolia non fu meramente etnico, per come in occidente s’intende questo concetto, bensì soprattutto religioso. Furono risparmiati, infatti, coloro che erano musulmani o si convertivano all’islam, benché di lingua diversa da quella turca).
  2. L’afflusso di migliaia di ebrei in Palestina, dal 1880 in poi, e della facilità con cui questi ultimi divenivano proprietari di latifondi della zona.
  3. Il colonialismo europeo, che spinse intellettuali e scrittori islamici come Jamal al-Din Al-Afghani (ca. 1838-1897) e Muhammad Abduh (1849-1905) a divenire fautori del progetto conosciuto come Nahdha, o risveglio culturale e spirituale del mondo arabo islamico, attraverso una maggiore consapevolezza del proprio patrimonio letterario, religioso e culturale ma anche mediante un ritorno alle origini, una riscoperta dell’epoca d’oro in cui gli arabi non erano oppressi (concetto, questo, alla base del pensiero salafita).

Il Nazionalismo panarabo e panislamico

La maggior presa di consapevolezza degli arabi in generale, e di quelli di Palestina in particolare, condusse alla formazione di due correnti di pensiero contrapposte:

  1. Nazionalismo panarabo, o panarabismo: più o meno coetaneo del sionismo e la cui nascita è localizzata tra il Libano e la Siria. Tale ideologia è fondata sulla necessità di un’indipendenza di tutti i popoli arabi uniti (fattore unificante è la lingua) e in cui tutte le religioni abbiano pari dignità di fronte allo Stato. È, quindi, una forma di nazionalismo laico e, in ciò, molto simile ai nazionalismi europei, tanto che tra i suoi fondatori vi è Negib Azoury (1873-1916), un arabo cristiano maronita che aveva studiato a Parigi, presso l’École de Sciences Politiques. Ne saranno esponenti, successivamente, pensatori e politici quali: George Habib Antonius (1891-1942), cristiano; George Habash (1926-2008), cristiano, fondatore del Movimento Nazionalista Arabo e del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, poi confluita nell’OLP; Michel Aflaq(1910-1989), cristiano, fondatore, insieme al musulmano sunnita Salah al-Din al-Bitar, del partito Baath (quello, per intenderci di Saddam Hussein e del presidente siriano Bashar al-Asad); e lo stesso Gamal Abd Al-Nasser (1918-1970).
  2. Nazionalismo panislamico, o panislamismo: anch’esso nato nello stesso periodo, abbiamo visto da pensatori quali Jamal al-Din Al-Afghani e Muhammad Abduh, ma che si propone di unificare tutti i popoli islamici (non solo arabi) sotto l’insegna della fede comune e in cui, ovviamente, l’islam ha un ruolo preponderante, una dignità più elevata e un completo diritto di cittadinanza, a discapito delle altre religioni. Ne saranno esponenti, tra gli altri: Hasan al-Banna (1906-1949), fondatore dei Fratelli Musulmani, che pare sia stato fatto giustiziare proprio dai servizi segreti egiziani di Nasser; il famigerato sceicco Amin Al-Husseini (1897-1974), anch’egli membro dei Fratelli musulmani e uno tra i precursori del fondamentalismo islamico, che espresse attraverso i suoi proclami antiebraici e la sua vicinanza ad Adolf Hitler.

Il nazionalismo sia panarabo che panislamico iniziò a diventare “locale”, o meglio, a identificare un problema palestinese in contrapposizione alla crescente presenza ebraica in Palestina, con Rashid Rida (1865-1935), musulmano siriano che, conquistato dalle idee di Al-Afghani e Abduh, si convinse della necessità di un’indipendenza araba, pur identificando l’arabismo con l’islam, elementi, a suo avviso, legati indissolubilmente.

Fondatore del periodico Al-Manar, fu autore del primo articolo antisionista, in cui accusò di immobilismo i propri compatrioti affermando che “gli squattrinati del più debole dei popoli, che tutti i governi hanno espulso”, hanno preso possesso del Paese “per crearvi colonie e ridurre i suoi padroni a lavoratori salariati[15]. Proprio a partire da Rashid Rida germogliò una specifica coscienza nazionale palestinese all’interno del nazionalismo panarabo e panislamico. Di Rida, tra l’altro, fu allievo al Cairo lo sceicco Al-Husseini.

È importante citare le due correnti di pensiero scaturite dal risveglio nazionale arabo prima e palestinese poi, poiché della prima è praticamente figlia l’OLP, con il movimento Fatah (quello di cui è stato leader Yasser Arafat e di cui è membro l’attuale presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmud Abbas, più noto come Abu Mazen); della seconda, invece, è diretta discendente Hamas. Le due correnti sono al giorno d’oggi aspramente in lotta fra loro e ognuna rivendica di essere la legittima rappresentante del popolo palestinese e delle sue aspirazioni.

Le troppe promesse e la Prima guerra mondiale

La presenza delle potenze occidentali all’interno dei territori governati dall’Impero ottomano non risale certo alla fine del XIX secolo. Già dal XV secolo, infatti, diversi Stati europei stipularono dei trattati con la Porta al fine di garantirsi dei privilegi. È il caso della Repubblica di Genova (1453, subito dopo la conquista ottomana di Costantinopoli), seguita da Venezia (1454) e da altri Stati italiani.

Fu poi la volta della Francia, che strinse vari accordi con l’Impero Ottomano, il più importante dei quali nel 1604. Tutti questi patti bilaterali siglati tra la Sublime Porta e gli Stati europei presero il nome di Capitolazioni e prevedevano che, in materia religiosa e civile, i sudditi stranieri presenti all’interno dei territori ottomani, facessero riferimento ai codici dei Paesi di cui erano cittadini, imitando il modello conosciuto come millet[16].

Poiché, tradizionalmente, la Chiesa cattolica latina non era molto presente all’interno dei territori ottomani, le Capitolazioni, specie gli accordi con la Francia, favorirono l’afflusso di missionari cattolici. Altre potenze – tra cui in particolare l’Impero austro-ungarico ma più avanti soprattutto la Germania, storica alleata di Costantinopoli anche nella Prima guerra mondiale – iniziarono a rivaleggiare fra loro nel campo della protezione delle minoranze non musulmane dell’Impero, ed è in tale gioco che si inserisce, all’inizio del XX secolo, la Gran Bretagna, rimasta fino a quel momento a bocca quasi asciutta perché non aveva trovato minoranze da proteggere.

Se la politica internazionale europea aveva cercato, fino a quel momento, di tenere in vita quel “grande malato” che era l’Impero ottomano, l’entrata in guerra di Costantinopoli a fianco dell’Impero germanico e contro le potenze dell’Intesa (Gran Bretagna, Russia e Francia) spinse queste ultime ad accordarsi sulla spartizione della “carcassa del turco”.

È qui che cominciò la grande partita delle nazioni proprio sul futuro dei popoli che erano stati soggetti alla Sublime Porta. Citiamo, in particolare, una serie di accordi e dichiarazioni che riguardano più da vicino la zona mediorientale di nostro interesse:

  • Accordo Hussein-McMahon (1915-1916): la sostanza di tale accordo, contratto tra lo sceriffo Hussein della Mecca (antenato dell’attuale re di Giordania Abdallah) e sir Arthur Henry McMahon, Alto commissario britannico in Egitto, era che la Gran Bretagna, in cambio di supporto nel conflitto contro i turchi e di concessioni economiche importanti, si sarebbe impegnata a garantire, dopo la fine della guerra, l’indipendenza di un regno arabo che si estendesse dal Mar Rosso al Golfo Persico e dalla Siria centro-meridionale (quella settentrionale rientrava negli interessi francesi) allo Yemen, con a capo proprio lo sceriffo della Mecca.
  • Accordo Sykes-Picot. Tale accordo veniva stipulato tra la Gran Bretagna, nella persona di sir Mark Sykes, e la Francia, rappresentata da Georges Picot, parallelamente alle trattative con lo sceriffo della Mecca Hussein, a testimoniare quanto la politica ambigua e cieca degli Stati europei nella zona, seguiti successivamente dagli Stati Uniti, abbia provocato, nel corso del tempo, danni devastanti. I patti prevedevano che l’ex Impero ottomano (nella parte orientale, ossia parte della Cilicia e dell’Anatolia, insieme con le attuali Palestina/Israele, Libano, Siria e Mesopotamia) sarebbe stato diviso in Stati arabi sotto la sovranità di un capo locale, ma con una sorta di diritto di prelazione, in materia politica ed economica, alle potenze protettrici, che sarebbero state: la Francia per la zona interna della Siria, con i distretti di Damasco, Hama, Homs, Aleppo fino a Mosul; la Gran Bretagna per la parte interna della Mesopotamia, per la Transgiordania e il Negev. Per altre zone si prevedeva un tipo di amministrazione diretta da parte delle due potenze (Francia in Libano, nelle zone costiere di Siria e di parti della Cilicia e dell’Anatolia orientale; Gran Bretagna per i distretti di Baghad e Bassora). La Palestina, invece, sarebbe ricaduta sotto l’amministrazione di un regime internazionale concordato con la Russia, gli altri alleati e lo sceriffo della Mecca.
  •  Dichiarazione Balfour (promulgata nel 1917 ma le cui trattative risalivano già al 1914). Con tale dichiarazione la Gran Bretagna affermava di vedere con favore la creazione di una “sede nazionale” (national home), definizione volutamente vaga, in Palestina, per il popolo ebraico. I britannici, tuttavia, erano ben consapevoli del fatto che 500 mila arabi non avrebbero mai accettato di lasciarsi governare da neppure 100 mila ebrei. Si riservava quindi, l’opzione di annettere la Palestina all’Impero britannico, favorendovi l’immigrazione ebraica, e solo successivamente dare la possibilità di autogoverno agli ebrei.

Sappiamo bene che il generale britannico Edmund Allenby entrò vittorioso a Gerusalemme, liberandola dagli ottomani e che, dopo la Grande guerra, la Gran Bretagna, che pur aveva promesso la Palestina a mezzo mondo, la tenne per sé. Ma questa è un’altra storia.

(ndr, per approfondire gli eventi successivi al 1918 consigliamo la lettura dell’articolo dedicato alla questione palestinese dal 1920 al 1948).

Note:

[1] Da Ashkenaz e Sefarad, che, in ebraico medioevale, vogliono dire, rispettivamente, Germania e Spagna.

[2] Le stime sugli ebrei che dovettero lasciare la Spagna variano da 50 mila a un milione, tuttavia quelle più attendibili, secondo documenti lasciati da don Isaac Abravanel, ebreo e ministro delle finanze del Regno fino all’espulsione, parlano di una cifra compresa fra le 200 mila e le 300 mila unità. Inoltre, va tenuto anche in considerazione il fatto che molti sefarditi, per non abbandonare il Paese, si convertirono, mentre altri morirono ancor prima di partire alla volta, principalmente, del Portogallo, del Regno di Napoli, della Navarra, dell’Africa del Nord, dell’Anatolia e dei Balcani.

[3] In generale, le differenze tra ashkenaziti e sefarditi riguardano l’importanza che gli uni e gli altri danno alla formazione della legge ebraica, la halakha, ed al contributo della tradizione e dei costumi ancestrali nella formazione di quest’ultima. Inoltre, se gli ashkenaziti sono molto più rigorosi dei sefarditi nel rispetto delle regole di liceità ed illiceità dei cibi da consumare, questi ultimi, invece, sono molto più rigidi riguardo al modo di relazionarsi con i gentili rispetto ai loro confratelli dell’Europa orientale. Per quanto riguarda il culto, invece, vi sono importanti differenze nei riti. Una considerevole diversità fra i due rami principali dell’ebraismo è costituita anche dalla lingua usata quotidianamente che, in generale, per l’ebreo sefardita era il giudeo-spagnolo e per l’orientale il giudeo-arabo, il giudeo-persiano, ecc., mentre per l’ashkenazita lo yiddish, lingua derivata dal tedesco ma con influenze ebraiche e slave.

[4] La Bibbia dei Settanta, del III secolo a.C., è una traduzione, realizzata da 72 saggi ad Alessandria d’Egitto, dell’Antico Testamento dall’ebraico e dall’aramaico al greco, proprio per rendere il testo sacro comprensibile alle diverse comunità israelitiche sparse per il Mediterraneo e che ormai non comprendevano più la lingua d’origine, ormai utilizzata quasi soltanto in ambito liturgico persino da molti ebrei residenti nella regione palestinese, che l’avevano rimpiazzata con l’aramaico, lingua franca dell’epoca.

[5] Fatidicamente avvenuta nella stessa data della distruzione del primo tempio, quello di Salomone, da parte del re di Babilonia Nabucodonosor: il nove del mese di Av (nel calendario lunare ebraico, che corrisponde a luglio-agosto nel nostro calendario), giorno luttuoso tuttora commemorato dagli ebrei di tutto il mondo con il nome di Tisha be-Av.

[6] Da Shimon Bar-Kokhba, il mitico condottiero a capo dei ribelli ebrei, proclamato persino messia – in un primo momento – dai notabili religiosi e dal popolo, che speravano avrebbe liberato definitivamente Israele, o quello che ne era rimasto, dal dominio dei romani)

[7] La Palestina vera e propria era, fino a quel momento, una sottile striscia di terra, corrispondente più o meno all’odierna Striscia di Gaza, in cui si trovava l’antica Pentapoli filistea, un gruppo di cinque città-Stato abitate da una popolazione di lingua indoeuropea storicamente ostile agli ebrei: i filistei.

[8]  Nel 613, la rivolta degli ebrei contro l’imperatore bizantino Eraclio culminò nella conquista di Gerusalemme nel 614 ad opera di persiani ed ebrei, il massacro di 90 mila abitanti cristiani della città, la distruzione di alcuni luoghi santi, tra cui il Santo Sepolcro, e lo stabilimento di un’autonomia ebraica. La rivolta terminò con la partenza dei persiani e un massacro finale degli ebrei nel 629 ad opera dei bizantini. Fu la fine di 15 anni di autonomia ebraica. In seguito alla conquista musulmana di Gerusalemme, agli Ebrei fu di nuovo consentito di praticare la propria religione con maggiore libertà a Gerusalemme, 8 anni dopo aver subito la repressione bizantina e circa 500 anni dopo la loro espulsione dalla Giudea ad opera dell’Impero romano.

[9] Questo gruppo ebraico oltranzista vive oggigiorno prevalentemente in due quartieri di Gerusalemme, Me’ah She’arim e Ge’ula. Di recente, una famosa piattaforma televisiva digitale ha prodotto e trasmesso una serie di successo i cui protagonisti erano appunto membri di tale setta.

[10] Da “Sion”, nome di uno dei colli su cui è costruita Gerusalemme e, per estensione, dai Salmi in poi, dell’intera città santa e della terra d’Israele.

[11] Massara, M., La terra troppo promessaSionismo e nazionalismo arabo in Palestina, Teti e C. Editore, 1979, Milano, p. 71.

[12] Ivi, p. 72.

[13] Allo scopo, oltre che per favorire l’istruzione e la formazione professionale degli ebrei di tutto il mondo e per combattere l’antisemitismo con le sue devastanti conseguenze, era stata creata nel 1860 l’Alliance Israélite Universelle, una società internazionale di cultura ebraica che operò altresì per preparare i futuri‘olìm all’integrazione nella società israeliana.

[14] https://www.fattiperlastoria.it/corano/

[15] Massara, M., op. cit., p. 117.

[16] Tale modello legislativo prevedeva che ogni comunità religiosa non musulmana era riconosciuta come una “nazione” (dall’arabo millah, in turco millet) ed era governata dal proprio capo religioso di quella comunità, il quale era rivestito di funzioni religiose e civili insieme. La massima autorità religiosa di una comunità o nazione cristiana (come potevano essere gli armeni), ad esempio, era il patriarca.

4034.- La vaccinazione mRNA: una bomba a tempo che ticchetta?

Quanto si rischia in cambio di una breve immunità? E perché?

Dodici aziende farmaceutiche stanno attualmente lavorando allo sviluppo di un vaccino mRNA contro il coronavirus. Per portare il vaccino sul mercato il più rapidamente possibile, la fase di test del vaccino è stata notevolmente abbreviata. Se il vaccino sarà davvero d’aiuto è ancora nelle stelle. Può essere una nuova causa di danno da vaccino.

In sintesi:

  1. Tutto il mondo è in attesa di una vaccinazione contro i virus corona. L’arma segreta è la vaccinazione contro l’mRNA – un errore fatale?
  2. Ora, le vaccinazioni mRNA non utilizzano più parti di virus uccisi o attenuati, ma bensì specifiche con un codice genetico per la costruzione di anticorpi
  3. Nonostante tutte le notizie incoraggianti: l’effetto della vaccinazione contro l’mRNA è difficile da valutare, in quanto non è mai stata approvata.
  4. Ci sono indicazioni che smorzano la speranza di una vaccinazione: apparentemente l’immunità ottenuta con essa dura solo per un breve periodo di tempo.
  5. L’introduzione di mRNA nelle cellule umane contiene un pericolo incalcolabile: l’inserimento di geni nel materiale genetico umano – con conseguenze sconosciute.

Vaccinazione mRNA: Chissà cosa ci aspetta?

Le malattie causate dai vaccini mRNA non possono più essere trattate perché i loro fattori scatenanti sono poi saldamente ancorati al genoma umano

Su Internet circola una lettera di avvertimento urgente contro i vaccini mRNA attualmente in fase di sviluppo contro il coronavirus. Come la manipolazione genetica, essi apporterebbero cambiamenti nel genoma umano le cui potenziali conseguenze sulla salute non sono sufficientemente conosciute e studiate.

Ma le malattie causate dai vaccini mRNA non potevano più essere trattate perché i loro fattori scatenanti sono poi saldamente ancorati al genoma umano. E non si saprebbe minimamente quali altri geni umani sono attivati o bloccati da una vaccinazione contro l’mRNA. È vero?

Per dare una risposta nello stile di Radio Yerevan: “In linea di principio sì, ma non è tutto”. Potrebbe essere anche peggio. Ma quello che sta davvero arrivando, nessuno può dirlo oggi.

Come funziona la vaccinazione

Mentre i vaccini classici convenzionali trasmettono parti innocue di virus o virus uccisi per far credere al sistema immunitario che si sta verificando un’infezione, contro la quale formano e posizionano gli anticorpii vaccini mRNA funzionano secondo un principio completamente diverso, completamente nuovo.1 Qui, l’RNA messaggero viene utilizzato per introdurre informazioni nelle cellule del corpo. Queste informazioni si trovano sotto forma di codice genetico su un acido ribonucleico a filamento singolo.

Ulteriori informazioni

Non un singolo vaccino mRNA è stato ancora approvato in tutto il mondo

Per confronto: il materiale genetico umano del DNA si basa su acido desossiribonucleico a doppio filamento. Ciò che entrambe le forme hanno in comune è che contengono informazioni genetiche che vengono lette nella cellula. L’mRNA utilizzato per la vaccinazione contro il coronavirus contiene le istruzioni di costruzione di una proteina tipica che si trova nell’involucro del virus ma non può causare l’infezione nella forma di vaccinazione.

Questa proteina viene prodotta nelle cellule secondo le specifiche dell’mRNA ed è quindi un modello per il sistema immunitario per la produzione di anticorpi. Gli anticorpi attaccano quindi tutte le strutture dell’organismo che contengono questa proteina – cioè il virus corona. Questa è la teoria, se mai si dovesse sviluppare un vaccino mRNA funzionale e sicuro.

Non un singolo vaccino mRNA è stato ancora approvato in tutto il mondo, anche se la ricerca è in corso da molti anni sui vaccini mRNA contro varie malattie, tra cui l’influenza, zika, chikungunya, citomegalia, rabbia e cancro. Le aziende farmaceutiche stanno attualmente lavorando allo sviluppo di dodici diversi vaccini contro il coronavirus, e i primi vaccini sono già in fase di test.

Mentre lo sviluppo di vaccini richiede di solito anni o addirittura decenni per testare la loro efficacia e soprattutto la loro sicurezza, questa volta deve essere fatto rapidamente. Da un lato, per arginare la diffusione del coronavirus il più presto possibile. D’altra parte, ci sono immensi vantaggi finanziari per un’azienda farmaceutica quando porta sul mercato il primo vaccino – è quasi come una licenza mondiale per stampare denaro. Ma comporta anche il rischio che le persone non guardino così da vicino quando si tratta di sicurezza.

I vaccini mRNA sono difficili da valutare

Il più grande vantaggio dei potenziali vaccini mRNA è che possono essere prodotti rapidamente e facilmente

vantaggi dei potenziali vaccini mRNA:

  • possono essere prodotti rapidamente e facilmente.
  • non contengono agenti patogeni attenuati, dove c’è sempre il rischio che la reversione (mutazione posteriore)2 possa portare alla comparsa di nuovi agenti patogeni infettivi, come è successo anni fa con la vaccinazione contro la poliomielite. Gli agenti patogeni attenuati si risvegliano improvvisamente a nuova vita e causano proprio la malattia contro la quale la vaccinazione è effettivamente destinata ad essere efficace.

Ma i vaccini mRNA hanno una serie di incertezze che rendono difficile valutare il loro effetto:

Vaccini genetici contro COVID-19: speranza o rischio?

I risultati degli esperimenti sugli animali, come richiesto per i test di sicurezza nello sviluppo di vaccini, non possono necessariamente essere trasferiti all’uomo. Gli esperimenti con i vaccini mRNA contro l’influenza e la rabbia in topi, scimmie e maiali, per esempio, hanno prodotto un’eccellente risposta immunitaria. I test con gli stessi vaccini nell’uomo hanno generato una risposta immunitaria molto debole, quasi insignificante.3

Anche il tipo di vaccinazione sembra giocare un ruolo importante. Mentre in uno studio su un vaccino antirabbico contro l’mRNA solo il 2% delle persone sottoposte al test ha sviluppato una risposta vaccinale dopo la vaccinazione con siringa e ago, questo è stato completamente diverso dopo la vaccinazione senza ago attraverso la pelle con un applicatore speciale. In questo caso, circa il 90% delle persone sottoposte al test ha sviluppato una risposta vaccinale.4

Anche se viene sempre sottolineato come i vaccini mRNA dovrebbero essere innocui e privi di effetti collaterali, anche queste affermazioni dovrebbero essere trattate con cautela. Ad esempio, nello studio più completo finora condotto su un vaccino antirabbico contro l’mRNA che ha coinvolto 101 volontari, ben il 78% ha mostrato effetti collaterali come brividi e febbre. Un volontario ha sofferto di paralisi del nervo facciale.5

Ulteriori studi hanno anche mostrato effetti collaterali da moderati a gravi come disturbi della formazione del sangue, aumento del rischio di trombosi, edema, infiammazione grave e persino lo sviluppo di malattie autoimmuni.

Un prezzo elevato per una breve immunità

La concentrazione dei corpi immuni nel sangue di pazienti che sono sopravvissuti a una malattia COVID-19 è diminuita dopo solo poche settimane

Mentre i pazienti che sono sopravvissuti a una malattia infantile spesso sviluppano un’immunità per tutta la vita contro l’agente patogeno che l’ha scatenata, il virus corona sembra prendere un percorso molto diverso.6 Nuovi studi su pazienti che sono sopravvissuti a una malattia COVID-19 qualche tempo fa hanno dimostrato che la concentrazione dei corpi immuni nel sangue è diminuita dopo solo poche settimane. Tuttavia, se questo abbia un’influenza sull’immunità al virus corona è ancora completamente incerto. Potrebbe essere che questi pazienti possano contrarre una nuova infezione da virus corona. È anche possibile che siano protetti da ulteriori infezioni perché il loro organismo ha sviluppato meccanismi di difesa precedentemente sconosciuti che gli conferiscono una lunga immunità.

Maggiori informazioni

Quanto può durare l’effetto della vaccinazione?

  • In ogni caso, la diminuzione della concentrazione di anticorpi smorza chiaramente le speranze associate ad una futura vaccinazione. Ad esempio, uno studio con un vaccino antirabbico contro l’mRNA ha dimostrato che dopo solo un anno gli anticorpi non erano più rilevabili in quasi tutte le persone sottoposte al test. L’effetto della vaccinazione era svanito.
  • Se gli anticorpi del coronavirus prodotti naturalmente diventano meno numerosi dopo poche settimane, per quanto tempo rimarranno presenti dopo una vaccinazione contro l’mRNA? Questa è una grande domanda al momento! Per una buona protezione vaccinale è addirittura necessario ripetere la vaccinazione più volte all’anno? E correre il rischio di possibili danni da vaccinazione a causa del breve tempo di test?

A proposito effetti complicazioni ed effetti collaterali:

  • Ci sono molti esempi in cui – anche se si trattava di vaccinazioni convenzionali – le complicazioni sono diventate evidenti solo anni dopo una vaccinazione. Nel 2018, ad esempio, è stato approvato un vaccino contro l’herpes zoster per il quale, dopo molto tempo, si sono verificate gravi malattie della pelle solo come effetto collaterale. Solo ora, nell’aprile 2020, la Drug Commission dell’Ordine dei medici tedeschi ne è venuta a conoscenza e ha avviato le relative indagini.7
  • Con il vaccino contro l’influenza suina, considerato sicuro e approvato nel 2009 con una procedura accelerata, sono stati vaccinati circa 30 milioni di cittadini dell’UE. All’inizio tutto sembrava buono e promettente. Tuttavia, anni dopo, entro il 2018, si è scoperto che più di 5.000 persone vaccinate hanno avuto gravi effetti collaterali, tra cui un incurabile disturbo del ciclo sonno-veglia.
  • Nelle vaccinazioni è nota anche una reazione nota come antibody-dependent-enhancement. Ciò significa che gli anticorpi formatisi dopo una vaccinazione non sono diretti contro il virus da combattere, ma in realtà ne aumentano gli effetti. Anche se questa reazione si verifica solo raramente, c’è sempre il pericolo.

Manipolazione genetica mediante vaccinazione con mRNA corona

Oggi nessuno può dire quali errori o danni possano derivare da questa manipolazione genetica

Anche se l’incorporazione della sequenza genica dell’mRNA del vaccino corona nel DNA umano è estremamente improbabile, questa possibilità esiste e non può essere scartata.8 Tuttavia, diversi fattori rari dovrebbero poi coincidere per caso. Per esempio, un enzima speciale, la trascrittasi inversa, dovrebbe essere presente nelle cellule del corpo in cui è presente il vaccino mRNA corona. Questo enzima non è naturalmente presente nelle cellule del corpo umano. Tuttavia, alcuni altri virus, come i retrovirus, lo portano con sé quando sono infetti. La trascrittasi inversa può leggere il codice genetico dell’mRNA e convertirlo in una forma che permette di incorporarlo nel DNA umano.

Oggi nessuno può dire quali errori o danni possano derivare da questa manipolazione genetica. Tuttavia, è concepibile che gli oncogeni che sono stati dormienti per anni possano essere improvvisamente attivati e che la precedente vaccinazione contro l’mRNA possa portare all’improvviso allo sviluppo di un cancro. O che i geni onco-protettivi, che hanno funzionato molto bene per decenni, potrebbero essere improvvisamente disattivati e quindi portare al cancro.

Non ci sono limiti all’immaginazione. Non solo il cancro, ma anche molte altre malattie possono scoppiare a causa dei geni inseriti nel DNA. Tutto questo, tuttavia, non può essere determinato a causa della procedura di approvazione notevolmente abbreviata, in quanto non sono necessarie osservazioni a lungo termine.

FONTI E ULTERIORI INFORMAZIONI

  1. “Quanto sono giustificate le speranze per i vaccini contro la SARS-CoV-2? Science Media Center, scheda informativa, 27 aprile 2020.
  2. Wikipedia: “Vaccino RNA”.
  3. Pardi N, Hogan MJ, Weissmann D: “Current Opinion in Immunology”, Science Direct Elsevier, Volume 65, agosto 2020, Pagine 14-20, doi.org/10.1016/j.coi.2020.01.008.
  4. Pardi N, Hogan M, Porter F et al: “vaccini mRNA – una nuova era in vaccinologia”. Nat Rev Drug Discovery 17, 261-279 (2018). doi.org/10.1038/nrd.2017.243.
  5. Alberer M, Gnad-Vogt U, Hong HS et al: “Safety and immunogenicity of a mRNA rabia vaccine in healthy adults: an open-label, non-randomised, prospective, first-in-human phase 1 clinical trial”, Lancet, 2017 Sep 23;390(10101):1511-1520. doi: 10.1016/S0140-6736(17)31665-3
  6. Dpa Newskanal: “L’infezione probabilmente non significa automaticamente immunità”, dpa-infocom, 08.07.2020, dpa:200708-99-713267/4
  7. Paul-Ehrlich-Institut: “Invito a partecipare – Studio del Paul-Ehrlich-Institut su casi sospetti di herpes zoster e gravi reazioni cutanee dopo la vaccinazione con il vaccino anti herpes zoster Shingrix”.
  8. Haug C: “Le vaccinazioni contro l’mRNA possono causare la mutazione?”, mdr-Wissen, 13.07.2020.

articolo a cura di Werner Meidinger, pubblicato in tedesco su https://www.naturstoff-medizin.de/artikel/mrna-impfung-eine-tickende-zeitbombe/

4033.- Libertà di scelta per il vaccino. No al Green Pass o passaporto vaccinale.

È solo un dubbio, ma … Vuoi vedere che la dittatura era proprio la forma di governo desiderata dagli italiani? O, più modestamente: Contano meglio i soldi delle Big Pharma che i principi della Parte Prima della Costituzione?

Da Change.org.

Cristina Gementi ha lanciato questa petizione e l’ha diretta alla Corte Costituzionale e a 4 altri/altre

TESTO PETIZIONE/REFERENDUM

Obiettivi:
1 Libertà di scelta per il vaccino
2 NO al Green Pass o passaporto
vaccinale
3 Libertà di scelta sui tamponi

Considerato l’articolo 3 della Costituzione

Considerato l’articolo 13 della Costituzione

Considerato l’articolo 32 della Costituzione

Considerato l’articolo 120 della Costituzione

Considerato gli articoli 2, 5, 10/1, 21 della Convenzione di Oviedo

Considerato il Trattato di Norimberga

Considerato la legge n° 5 del 22/04/2001 Consiglio d’Europa e Parlamento Italiano

Considerato l’articolo 187 del Regolamento T.U.L.P.S. (R.D. 6.5.1940. n° 635)

Considerato l’articolo 9 della legge 194 del 1978

Considerato l’articolo 610 del Codice Penale

La petizione richiama le autorità a riconoscere come esistenti i diritti di libertà reclamati.
In mancanza, a definitivo chiarimento si proporrà questo testo di legge.

Articolo 1 La legge garantisce che ogni cittadino mantenga in ogni condizione  la libera scelta nel sottoporsi o meno al vaccino, ovvero farmaco, ovvero trattamento sanitario, ovvero terapia genica attivi contro il Covid 19 e nuove forme virali che dovessero  presentarsi nella società. Ivi comprese anche nuove forme di tipo malarico.
Articolo 2 La legge proibisce ogni forma di discriminazione o limitazione nei confronti dei cittadini che non si si siano sottoposti  al vaccino, ovvero farmaco, ovvero trattamento sanitario, ovvero terapia genica attivi contro il Covid 19 e nuove forme virali che dovessero  presentarsi nella società. Ivi comprese anche nuove forme di tipo malarico.
La legge dunque non consente la creazione di patenti, passaporti vaccinali o simili.

Articolo 3 La legge vieta, anche a livello di amministrazioni regionali o locali, enti, associazioni, organizzazioni, aziende pubblici o privati di creare Green Pass o passaporti vaccinali finalizzati ad identificare i cittadini che si siano volontariamente sottoposti, ovvero non sottoposti, al vaccino, ovvero farmaco, ovvero trattamento sanitario, ovvero terapia genica attivi contro il Covid 19 e nuove forme virali che dovessero  presentarsi nella società.
Ivi comprese anche nuove forme di tipo malarico.

Articolo 4 E’ proibita ogni forma di discriminazione o limitazione nei confronti dei cittadini che non abbiano accettato di sottoporsi  al vaccino, ovvero farmaco, ovvero trattamento sanitario, ovvero terapia genica attivi contro il Covid 19 e nuove forme virali che dovessero  presentarsi nella società,  comprese anche nuove forme di tipo malarico, in ambito:
-lavorativo
-sociale
-ricreativo
-sportivo
-di accesso a servizi pubblici
-di accesso ai servizi sanitari 
-di trasporti pubblici e/o privati
-di accesso ai servizi di ristorazione e/o di tipo turistico o alberghiero anche a scopo lavorativo
ed ogni in altra forma di aggregazione sociale

Articolo 5 E’ proibita ogni imposizione di sottoporre persone sane al tampone di rilievo al COVID 19 e nuove forme virali, ivi comprese anche nuove forme di tipo malarico, che dovessero  presentarsi nella società.
In caso di patologia riscontrata la persona potrà scegliere la modalità con cui certificare la propria guarigione ovvero optare per la quarantena di 21 giorni come previsto dai protocolli in vigore.
Pertanto il rifiuto di sottoporsi al tampone stesso non potrà generare discriminazione o limitazione nei confronti dei cittadini che non abbiano accettato di effettuarlo in ambito:

-lavorativo
-sociale
-ricreativo
-sportivo
-di accesso a servizi pubblici
-di accesso ai servizi sanitari 
-di trasporti pubblici e/o privati
-di accesso ai servizi di ristorazione e/o di tipo turistico o alberghiero anche a scopo lavorativo
ed ogni in altra forma di aggregazione sociale

Fasi del progetto:

1 Petizione on-line su piattaforma da identificare da inoltrare sia a livello governativo che ai tribunali che alla Corte Costituzionale

nel caso la forma on line non bastasse si passa a:

2 Petizione cartacea da inoltrare ai soggetti indicati: Corte Costituzionale, Senato della Repubblica, Parlamento, tribunale Internazionale dell’Aia, Presidente della Repubblica

nel caso anche questo passaggio non bloccasse la deriva legislativa verso obbligo o patente vaccinale :

3 Deposito del testo di legge in linea con gli obiettivi che dovrebbe, grazie ai richiami a tutte le normative costituzionali ed internazionali, bloccare il tutto e ottenere l’approvazione del Parlamento.

In mancanza la proposta si trasformerà automaticamente in un Referendum propositivo (se in vigore il nuovo articolo 97 della Costituzione) o abrogativo se nel frattempo sarà stata approvata una legge contraria anche ad uno solo degli obiettivi indicati in questa Petizione.
Anche in questo caso si ritiene che la Corte Costituzionale grazie ai richiami a tutte le normative costituzionali ed internazionali dovrebbe  bloccare il tutto ritenendolo inutile in quanto già le norme esistenti prevedono queste tutele.
Viceversa si andrà al voto.