Archivio mensile:aprile 2016

574.-ERA LADRO GIA’ IL CONTE DI CAVOUR.

Ho sempre letto con ammirazione il MOTU PROPRIO undici febbraio milleottocentoquarantotto del Granduca di Toscana Leopoldo II degli Asburgo Lorena per la Grazia di Dio PRINCIPE IMPERIALE D’AUSTRIA, PRINCIPE REALE D’UNGHERIA E DI BOEMIA, ARCIDUCA D’AUSTRIA, che guarda la mia scrivania. Con piacere, perciò, Vi propongo questo saggio dell’amico Maurizio Blondet, pubblicato ieri 28 aprile 2016 sul suo blog, che narra della partenza del Granduca da Firenze, il 27 Aprile 1859, data epocale nella storia della Toscana che segnò la fine di 122 anni di governo della dinastia degli Asburgo Lorena, in cui i massoni fiorentini aprirono la strada ai predatori piemontesi.

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“ Dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene, e di vili contro i generosi. Quando due o più birbanti si trovano insieme la prima volta, facilmente e come per segni si conoscono tra loro per quello che sono, subito si accordano; o se i loro interessi non patiscono questo, certamente provano inclinazione l’uno per l’altro, e si hanno gran rispetto…” (Giacomo Leopardi, Pensieri)

E’ noto che Giacomo Leopardi non era propriamente quello che si chiama un uomo di mondo, ma nonostante ciò, nella sua breve vita, aveva capito molto dell’animo umano. Qualche decennio più tardi, alla fine dell’Ottocento, un altro signore di nome Gaetano Mosca scriveva: “una minoranza ben organizzata avrà sempre ragione di una maggioranza disorganizzata”.

Che la storia sia scritta dai vincitori è cosa nota. Oggi si esporta democrazia, anche a chi non la vuole, 150 anni fa una minoranza ben organizzata, ovvero quella élite nobiliare-massonico-affarista che rappresentava uno zero virgola della penisola italiana trovò il nome Risorgimento per coprire i propri fini, la conquista del potere.

Una volta conquistato il potere occorreva gettare sulle dinastie degli stati che avevano appena abbattuto il maggior discredito possibile, facendoli passare per biechi reazionari che tenevano i propri sudditi in condizioni miserevoli di orrendo malgoverno.

Prendiamo la Toscana, ad esempio. Il 27 Aprile 1859 rimane una data epocale nella storia della Toscana segnando di fatto la fine di 122 anni di governo della dinastia degli Asburgo Lorena, che arrivò a Firenze dopo la morte dell’ultimo Granduca di casa Medici nel 1737.

La storiografia ufficiale ci ha tramandato la favoletta del tiranno costretto alla fuga dal popolo inferocito, il 27 Aprile 1859, evento ancor oggi ricordato da una via nella zona di San Marco, a Firenze. Ma le cose non andarono proprio così.

Nel tardo pomeriggio di quel mercoledì dopo Pasqua il Granduca Leopoldo II scelse volontariamente di abbandonare Firenze insieme alla sua famiglia con i soli abiti che aveva addosso invece di “assecondare la folla plaudente alla guerra contro l’Austria”.

Uomo pacifico, Leopoldo era completamente disinteressato alle cose militari tanto da far sì che il Granducato spendesse cifre irrisorie rispetto a quelle enormi stanziate dal Regno di Sardegna per il proprio esercito, così che le finanze dello stato erano non solo in ordine, ma godevano anche di un notevole surplus di bilancio.

Il Regno Sabaudo invece al 1859 risulta essere lo stato più indebitato d’Europa.

Così indebitato che non aveva altra scelta che attaccare gli altri stati italiani e trasferire al nascente Regno d’Italia il proprio deficit di bilancio ormai cronico, nonostante avesse il regime fiscale più gravoso ed esoso degli altri stati italiani, stati che avevano invece tutti il bilancio in attivo.

Ecco, in due parole, la nascita del debito pubblico italiano. Anche perchè i creditori del Regno di Sardegna non erano propriamente enti di beneficenza, ma i Loyds inglesi e il ramo francese dei banchieri Rothschild, ca va sans dire.

A Firenze, quel 27 Aprile, il Piemonte aveva le sue pedine pronte, vari e ben noti esponenti della elite di cui si diceva prima, opportunamente affiancati da alcune centinaia di Carabinieri piemontesi giunti in città nei giorni precedenti e travestiti da civili che avevano il compito di aizzare le folle contro il Granduca, presenti in città da vari giorni.

L’obiettivo sperato era quello di far sì che il Granduca si barricasse in Palazzo Pitti e cominciasse a far sparare sulla folla radunata per (improbabili) “tumulti di piazza”, una specie di Piazza Maidan ante litteram.

Vana illusione, tant’è che anche l’ambasciatore d’Austria a Firenze scriverà in seguito in un rapporto segreto a Vienna sullo svolgimento dei fatti del 27 Aprile che il Granduca si era deciso di passare in rassegna, ed era per la prima volta, le proprie truppe solo alla metà di Aprile, e senza grande entusiasmo.

In realtà tutto ciò che accadde quel giorno fu una abile quanto semplice operazione di propaganda, ovvero l’esposizione dalla mattinata del tricolore italico alle finestre di qualche edificio già predisposto in precedenza da chi aveva organizzato la cosa, in modo di far credere al povero Leopoldo che la città era tutta dalla parte del Piemonte.

Che l’occulto macchinatore dietro le quinte fosse il Camillo Benso di Cavour attraverso il proprio ambasciatore a Firenze, il conte Boncompagni, era cosa nota a tutti, fino al punto che un fedele ufficiale superiore dell’esercito granducale si offerse di far arrestare tutti, ambasciatore e i vari nobili fiorentini

(Ricasoli in primis) che già si erano spartite le varie posizioni di potere una volta tolto di mezzo il Granduca, e trasferirli tutti nella fortezza di Volterra.

Ma il mite quanto indeciso Leopoldo non ebbe il coraggio di un rimedio tanto drastico per stroncare il golpe ormai alle porte e il resto è storia.

La “civilissima rivoluzione fiorentina” si concluse così senza che fosse sparato un solo colpo di fucile e i fiorentini si levarono il cappello al passare del convoglio di quattro carrozze granducali che imboccava la via Bolognese alla volta di Vienna. Anche il destino della Toscana, grazie ad una minoranza ben organizzata, era ormai segnato, e così per il resto d’Italia.

La minoranza ben organizzata continuerà la farsa con i plebisciti dell’anno seguente per l’unione al Regno Sabaudo, con percentuali bulgare di voti del SI all’Unione. Dopo aver opportunamente svuotato, in poche mesi, le casse dell’erario del Granducato.

573.-Se la Germania avesse vinto la guerra.

L’Euro è lo strumento già inventato dai nazisti per sottomettere l’Europa intera all’egemonia tedesca, realizzando il “pangermanesimo” che non si riuscì a realizzare con due guerre mondiali. Fuori dall’Euro significa liberarsi dall’euro nazismo dello scellerato “piano Funk”.

Scrive Antonio Maria Rinaldi dei contenuti del “Piano Funk”:

La Germania arbitra dei destini dell’Europa, avrebbe monopolizzato e condizionato ogni attività e iniziativa in questa aggregazione forzata e la popolazione sarebbe stata anche classificata con parametri culturali e sociali considerati tipici del popolo tedesco, nella ferrea convinzione-presunzione, che i propri metodi proposti, se adottati, si sarebbero rivelati di grande vantaggio anche per le altre nazioni.
Particolarmente interessanti i passaggi del discorso in cui Funk rivelava le specifiche del suo Piano riguardo alla questione della creazione di una nuova moneta (siamo nel 1940!), all’interno della quale prefigurava nella grande area economica che si sarebbe realizzata, un ruolo predominante del marco come conseguenza della potenza del Reich, con l’istituzione di una area valutaria che avrebbe portato a una “moneta generale” (testualmente così definita) a supporto di un graduale livellamento delle normative infra-nazionali a favore dello sviluppo dovuto all’espansione economica.
Tale “moneta generale” non sarebbe stata ancorata all’oro con un sistema analogo al gold-standard, ma sostenuta da un sistema di compensazione europeo fra l’import-export dei paesi partecipanti, dove naturalmente alla Germania sarebbe spettata l’assoluta determinazione dei relativi flussi attraverso l’imposizione della sua politica economica supportata dal predominio militare conquistato e consolidato.
Da evidenziare che il concetto di “moneta generale” espresso da Funk, si sposa perfettamente con l’idea della creazione di una area valutaria da imporre al Continente con funzione aggregatrice per effetto della forza delle regole poste a suo supporto.
Il ministro dell’economia nazista poneva le basi per una totale e assoluta forma di controllo e di condizionamento da parte della Reichbank mediante l’adeguamento delle politiche economiche di tutti gli altri Paesi a quelle dettate dalla Germania, autodefinitasi unica depositaria di superiori dogmi in grado di governare e guidare l’Europa.

Come ci spiega il prof. Paolo Savona, Funk prevedeva che la Germania divenisse il “paese d’ordine” in Europa, che il suo sviluppo fosse prevalentemente industriale, con qualche concessione per l’alleato storico, la Francia, e che gli altri paesi europei si concentrassero nella produzione agricola e svolgessero funzioni di serbatoio di lavoro; infine che le monete europee confluissero nell’area del marco, per seguirne le regole.

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Mi piace nel seguito ripubblicare, con il permesso dell’autore, un articolo dell’avv. Valerio Donato apparso in data odierna sul settimanale locale Il Canavese. Si tratta di una riflessione sul 25 aprile, la festa di liberazione da un progetto tedesco e da una sudditanza italiana con cui oggi torniamo a fare i conti, in un ripetersi inquietante di quelle circostanze. Celebrare il sacrificio dei partigiani e, al tempo stesso, ciò contro cui i partigiani hanno combattuto è l’indice di un ribaltamento ideologico dove l’automatismo dei simboli prevale sulla storia, condannandoci a riviverla.

***

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Il 25 aprile 1945 finiva l’occupazione tedesca iniziata con l’armistizio dell’8 settembre 1943. Per tutti questo giorno è l’occasione per ricordare le atrocità commesse durante i due anni di guerra di civile. Io invece voglio provare ad immaginare come sarebbe stata l’Europa qualora Hitler avesse vinto la sua guerra.

La Germania (ancora oggi stato federale, unificato dal cancelliere prussiano Otto Von Bismark che, sconfitte Austria – con l’aiuto dell’Italia – e Francia, fece incoronare nel 1871 Guglielmo I imperatore) ha storicamente sempre avuto mire di egemonia sull’Europa continentale (il Sacro Romano Impero o Reich). Il 21 gennaio 1904 fu creata a Berlino la Mitteleuropäischer Wirtschaftsverein, finalizzata all’integrazione economica degli imperi Tedesco e Austro-Ungarico con Svizzera, Belgio e Lussemburgo. Nel 1915 il saggio “Mitteleuropa” di Naumann indicò la necessità di stabilire al termine della guerra, una grande area economica Centro-Europea. Persa la grande guerra le aspirazioni di pangermanesimo vennero resuscitate dai nazisti e affidate al ministro plenipotenziario dell’economia, governatore della banca centrale e consigliere della pianificazione del III Reich, Walther Funk.

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Il governatore della banca centrale e consigliere della pianificazione del III Reich, Walther Funk. Funk venne portato davanti alla corte di Norimberga, ed accusato di cospirazione contro la pace; la pianificazione di guerra di aggressione, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.Walter Funk è stato uno dei più importanti promotori dell’idea di una Comunità Economica Europea e dell’Unione europea, in seguito sostenuto dagli americani attraverso il Piano Marshall e da Helmut Kohl e François Mitterrand nel 1993 (Trattato di Maastricht).ndr.

Il Piano Funk prevedeva una grande area economica, un graduale livellamento delle normative infranazionali e un’unica moneta comune, basata sulla compensazione fra import-export dei paesi membri, dove la Germania avrebbe imposto i relativi flussi (avrebbe quindi svolto la funzione di banca centrale).

Il Neuordnung Europas, Nuovo Ordine dell’Europa, avrebbe portato la subordinazione dell’apparato produttivo di tutto il continente europeo in funzione della supremazia della Germania.

In particolare l’industria, soprattutto quella pesante, si sarebbe concentrata in Germania e in parte nel nord est della Francia (l’Alsazia e la Lorena storiche regioni a forte presenza tedesca), mentre il resto d’Europa avrebbe dovuto fornire prodotti agricoli e forza lavoro.

In un tale contesto è facile immaginare che i paesi esterni avrebbero iniziato ad importare i prodotti ad alto valore aggiunto dell’industria tedesca accumulando forti deficit nella bilancia dei pagamenti, solo in parte compensati dalle esportazioni di materie prime, dei prodotti dell’agricoltura e dalle rimesse degli emigrati. In Germania, pertanto, si sarebbero accumulatati enormi surplus commerciali i cui proventi sarebbero stati reinvestiti nei paesi periferici proprio per finanziarie le cospicue importazioni di questi ultimi.

Le banche dei paesi perdenti avrebbero di conseguenze accumulato forti passività con l’unità di compensazione centrale tedesca (la banca centrale di tutto il sistema) portando ad una situazione altamente instabile ed esplosiva.

Un’eventuale shock esterno (che potremmo ipotizzare in una serie di fallimenti di un’area esterna all’unione – ad esempio gli USA con i quali a guerra finita si sarebbero ripresi normali rapporti commerciali) avrebbe potuto fare da detonatore, portando i creditori tedeschi ad esigere i loro crediti dai paesi periferici, nei quali si sarebbero dovute intraprendere politiche atte a limitare le importazioni (che potremmo chiamare riforme strutturali per guadagnare competitività) basate su una forte tassazione dei privati e un cospicuo taglio della spesa pubblica (riducendo il reddito disponibile si vanno a ridurre i consumi e quindi anche le importazioni).

Per fortuna Hitler perse e Funk, processato a Norimberga, fu condannato all’ergastolo, altrimenti oggi magari vivremmo sotto un’unica bandiera con tante croci uncinate a rappresentare gli stati soggiogati e una generalizzata deflazione con conseguente disoccupazione, calo dei redditi e distruzione di risparmi.

Ogni riferimento ad Unioni attuali, realizzate con trattati internazionali invece che con carri armati, ovviamente è puramente casuale.

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E’ facile rilevare una corrispondenza fra il piano nazista e i padri dell’Unione europea. Alcide De Gasperi è annoverato fra i fondatori dell’Unione europea.

Alcide De Gasperi è stato un protagonista della ricostruzione politica ed economica dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale e leader dei governi di centro formatisi a partire dal 1947.

Dato che alla sua nascita il territorio trentino apparteneva ancora all’Impero austro-ungarico (anche se di lingua italiana), è proprio nella vita politica austriaca che il giovane De Gasperi inizia a muovere i primi passi di quella che fu una lunga e fortunata carriera politica.

Nei primi giorni del Regime Mussolini in Italia, l’allora giornalista De Gasperi apparteneva al mondo cattolico del Vaticano, che ha sempre collaborato e mantenuto uno stretto contatto con il Regime e con Mussolini. Il giorno che Mussolini salì al potere, camion carichi di suore sfilarono per le vie di Roma, dando il saluto fascista, che indicava l’atteggiamento del Vaticano in cui De Gasperi ha lavorato. Nel 1930, De Gasperi era bibliotecario in Vaticano, che diventò il primo stato a riconoscere il regime nazista e a firmare il suo famigerato Concordato con la Germania di Hitler nel 1934.

Anche durante l’occupazione nazista, De Gasperi fu coinvolto in intrighi contro parti della Resistenza, al fine di rompere i legami fra la sinistra cattolica e i partigiani comunisti. Nel 1943 le sorti della guerra si volsero contro le potenze fasciste; De Gasperi cercò di reinventarsi con la fondazione del Partito della Democrazia Cristiana italiano.

Dopo la caduta del Regime Mussolini, ricoprì la carica di ministro degli Esteri dal dicembre 1944 al dicembre 1945, quando formò un nuovo gabinetto.

In qualità di presidente del consiglio, carica che manterrà fino al luglio del 1953, De Gasperi favorì e guidò una serie di coalizioni di governo, composte dal suo partito e da altre forze moderate del centro. De Gasperi si adoperò per la fine dei procedimenti penali contro i sostenitori del Partito Nazionale Fascista di Mussolini. Contribuì all’uscita dell’Italia dall’isolamento internazionale, favorendo l’adesione al Patto Atlantico (NATO) e partecipando alle prime consultazioni che avrebbero condotto all’unificazione economica dell’Europa. Nel 1952 fu insignito del Premio Carlo Magno nazi-fondato, il premio principale per coloro che hanno contribuito alla costruzione dell’Unione europea.

572.- AL SISI FORSE HA RAGIONE SUL GIOVANE REGENI

Abbiamo parlato ampiamente della tragica fine di Giulio Regeni e della difficoltà di attribuirgli una ragione definita, sia pure commentando negativamente l’attività poco studentesca del giovane e  nel posto sbagliato. Condivido molto di questo scritto di Giorgio Rapanelli, pubblicato dall’amico Maurizio Blondet e lo ripropongo.

Maurizio Blondet 14 aprile 2016

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Al di là delle poco verosimili giustificazioni delle autorità egiziane, la terribile vicenda di Giulio Regeni è ancora avvolta dalla nebbia. La sua tragica fine “karmica” è impregnata di un odio psicotico, che non fa parte dei comportamenti dei “servizi” normali nei confronti di un “agente nemico”, soprattutto se costui ha la nazionalità di uno Stato in pace e in collaborazione con il Governo da cui dipendono i “servizi” stessi. Nel caso, si imprigiona ufficialmente e si torchia l’”agente nemico” privandolo del sonno, del vitto e dell’acqua, per avere informazioni pure con iniezioni di Pentothal; poi lo si espelle con grande risalto sugli organi di informazione. Magari scambiandolo con un altro “agente” in mano ai “servizi” dello Stato di cui l’espulso ha la cittadinanza.

Quelle operate sul corpo del giovane sono sevizie colme di perfido godimento nel procurarle e volte infine ad uccidere. Siamo in presenza di uno sgarro, di un tradimento, o di un pericoloso doppio gioco del Regeni, che metteva in pericolo la sopravvivenza del gruppo di cui faceva parte? Oppure, di un tradimento sentimentale con motivazioni sessuali? E’ stato vittima di un rituale sacrificale per soddisfare spietate entità che si nutrono delle emanazioni del dolore e del sangue delle vittime? I responsabili della morte sono proprio negli ambienti frequentati dal giovane idealista italiano per i suoi studi e le sue ricerche, che lo hanno “venduto”, o “indicato” quale pericolosa spia al regime egiziano?

Infatti, il giovane Regeni frequentava ambienti di opposizione attiva al Regime: un covo di serpenti pullulanti di spie, quinte colonne e agenti provocatori del Regime stesso e di chissà di quali altre “agenzie”. Come normalmente avviene dappertutto.

Forse egli si era “esposto” troppo, coinvolgendosi in un gioco non di sua competenza. Di sicuro, non aveva ambienti amici e “sicuri” che lo coprivano…

Io stesso mi misi in quelle condizioni alla fine degli anni ’60 nel curare gli interessi politici in Italia del Southern Sudan Liberation Front. Così, nel 1970, rischiai la vita in occasione di un mio safari tra i guerriglieri sud sudanesi, durante il quale fui da essi accusato di essere “spia e mercenario” del Nord Sudan. Come seppi poi, a danneggiarmi era stata la delazione di un universitario sud sudanese del nostro gruppo romano, diventato per denaro informatore dell’ambasciata sudanese. Fu seguendo “la pista del denaro” (follow the money trail) che un controspionaggio mediorientale lo scoprì (impossibile che un universitario sud sudanese spendesse troppo in abiti, auto e bella vita) e informò i dirigenti occulti del gruppo. Mi salvai da una “scomparsa” tra i coccodrilli del fiume Nimur ai confini con l’Uganda, grazie alle foto che mi ritraevano con uno dei capi prestigiosi del Fronte, il defunto maggiore Ferdinand Goi Ukelo, e grazie alla presenza in zona di una missione militare israeliana. Tornato in Uganda, fui “coperto” da ambienti “amici” e nascosto in un appartamento dell’ambasciata francese per non essere arrestato dalla polizia ugandese, che mi cercava e che mi avrebbe consegnato ai “servizi” sudanesi – come avvenne in seguito col mercenario Rolf Steiner. Sarei stato massacrato di botte, processato, giudicato, condannato alla prigione da un tribunale del Sudan e dopo qualche anno rispedito in Italia. Ma MAI “giustiziato” dai nord sudanesi…

A commettere l’assassinio del giovane Regeni potrebbero essere stati “servizi deviati”, autonomi da quelli ufficiali – tipo Banda Koch. Però, in questo caso, mai si sarebbe fatto ritrovare un cadavere in quelle condizioni. Come normalmente avviene per eliminare spie e rompiscatole, basta una revolverata alla nuca, o da una moto in corsa. Invece, un cadavere così seviziato lo si fa “sparire”, riducendolo in cenere o in pezzi, da disperdere in zone desertiche.

Facendo ritrovare quel corpo seviziato, è stato come se si fosse voluto mettere in difficoltà il regime del presidente Abdel Fatah al Sisi nei confronti di un Paese “amico” come l’Italia e a livello internazionale. E’ stato un gioco “interno” degli oppositori al regime, infiltrati nei “servizi”? E’ stata la volontà di “agenzie” esterne con l’obiettivo di minare i rapporti dell’Egitto con l’Italia per via dello sfruttamento di giacimenti di idrocarburi? Comunque sia, Al Sisi ha probabilmente nemici molto vicini a lui. Oltre a quelli “grossi” esterni.

L’Egitto – per la sua credibilità politica internazionale e per evitare che il mondo sia costretto a vedere la foto di come è stato ridotto il giovane italiano – farebbe bene a trovare – e li troverà – i responsabili veri e a punirli, pure qualora facessero parte dei propri “servizi”. Che magari verrebbero fatti scomparire o tacere per sempre (to eliminate surviving witnesses) con gli usuali sistemi dell’”agente morto”. Buona norma sarebbe seguire anche una eventuale “pista del denaro”: quello probabilmente pagato per l’assassinio di Regeni (a criminali comuni, come a volte avviene).

Da parte italiana, si deve prudentemente tenere conto dell’importanza strategica e politica dell’Egitto (del Canale di Suez, di Israele e di Tobruk), ossia delle frontiere mediterranee “sicure” per la nostra sopravvivenza e per quella dell’Europa. I ricatti e le smargiassate politiche nei confronti dell’Egitto ci danneggerebbero… A meno che, con essere, non si stiano facendo interessi di potentati esteri. Altri argomenti di ordine morale e umano non rappresentano una priorità per chi ha responsabilità politica di governo. Però, Giulio Regeni chiede all’Egitto verità e giustizia, insieme ai suoi straziati genitori e a tutte le persone comuni, che, nel mondo, non possono accettare che una “ragion di Stato” copra una mostruosità simile. Ancora la politica non svela Ustica, la strage di Bologna, il rapimento di Moro. Il “caso Regeni” non dovrebbe nascondere risvolti “inconfessabili” come quelli… Comunque, conviene all’Egitto perdere completamente la faccia per non sacrificare alcuni apprendisti stregoni interni?

Giorgio Rapanelli

Giorgio Rapanelli, classe 1937, ha passato decenni in Africa prima come documentarista, e poi – visti gli orrori, il caos e le violenze seguiti alla de-colonizzazione – come combattente. In Congo, negli anni 1964-66, ha visto la rivolta dei “Simba” (leoni in swaili), giovanissimi guerriglieri fanatizzati dai loro stregoni, che si abbandonavano ad ad inenarrabili orrori, eccidi, stupri ed atti di cannibalismo. E’ stato parte del 5 Commando, un corpo di contractors – militari veri – inquadrati nella Armée Nationale Congolaise, che debellò l’orrore dei Simba.

571.-RIFORMA COSTITUZIONALE ed €URO – L’intervento di Giuseppe PALMA

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Convegno sul rapporto tra Costituzione e Trattati europei e sulla riforma costituzionale. Conferenza ” Analisi giuridica della genesi di una dittatura europea” Relatori avv. Giuseppe Palma ed il collega Marco Mori.

Ecco il VIDEO del mio intervento nel quale, dopo una breve presentazione su cos’è e come funziona l’€uro, spiego con un linguaggio semplicissimo alcuni aspetti di CRITICITA’ della RIFORMA COSTITUZIONALE.

Ascoltate e divulgate:

avv. Giuseppe Palma

570.-Pansa: tutte le falsità sulla Resistenza

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Gli anniversari dovrebbero essere aboliti. Soprattutto quando celebrano un evento politico che si presta a una giostra di opinioni non condivise. Accade così per il settantesimo del 25 aprile 1945, la festa della Liberazione. Una cerimonia che suscita ancora contrasti, giudizi incattiviti e tanta retorica. A volte un mare di retorica, uno tsunami strapieno anche di bugie e di omissioni dettate dall’ opportunismo politico. Per rendersene conto basta sfogliare i quotidiani e i settimanali di questa fine di aprile. È da decenni che studio e scrivo della nostra guerra civile. Ma non avevo mai visto il serraglio di oggi. Una fiera dove tutto si confonde. Dove imperano le menzogne, le reticenze, le pagliacciate, le caricature. È vero che siamo una nazione in declino e che ha perso la dignità di se stessa. Però il troppo è troppo.

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Per non essere soffocato dalla cianfrusaglia, adesso proverò a rammentare qualche verità impossibile da scordare. La prima è che la guerra civile conclusa nel 1945, ma con molte code sanguinose sino al 1948, fu un conflitto fra due minoranze. Erano pochi i giovani che scelsero di fare i partigiani e i giovani che decisero di combattere l’ ultima battaglia di Mussolini. Il «popolo in lotta» tanto vantato da Luigi Longo, leader delle Garibaldi, non è mai esistito. A perdere furono i ragazzi di Salò, i figli dell’ Aquila repubblicana. Ma a vincere non furono quelli che avevano preso la strada opposta. L’ Italia non venne liberata da loro. Se il fascismo fu sconfitto lo dobbiamo ad altri giovani che non sapevano quasi nulla di un Paese che dal 1922 aveva obbedito al Duce e l’ aveva seguito in una guerra sbagliata, combattuta su troppi fronti. La vittoria e la libertà ci vennero donate dalle migliaia di ragazzi americani, inglesi, francesi, canadesi, australiani, brasiliani, neozelandesi, persino indiani, caduti sul fronte italiano. E dai militari della Brigata Ebraica, che oggi una sinistra ottusa vorrebbe escludere dalla festa del 25 aprile.

Gli stranieri e gli italiani si trovarono alle prese con una guerra civile segnata da una ferocia senza limiti. Qualcuno ha scritto che la guerra civile è una malattia mentale che obbliga a combattere contro se stessi. E svela l’ animo bestiale degli esseri umani. Tutti gli attori di quella tragedia potevano cadere in un abisso infernale. Molti lo hanno evitato. Molti no. Eccidi, torture, violenze indicibili non sono stati compiuti soltanto dai nazisti e dai fascisti. Anche i partigiani si sono rivelati diavoli in terra.

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In un libro di memorie scritto da un comandante garibaldino e pubblicato dall’ Istituto per la storia della Resistenza di Vercelli, ho trovato la descrizione di un delitto da film horror. Una banda comunista, stanziata in Valsesia, aveva catturato due ragazze fasciste, forse ausiliarie. E le giustiziò infilando nella loro vagina due bombe a mano, poi fatte esplodere.
La ferocia insita nell’ animo umano era accentuata dalla faziosità ideologica. La grande maggioranza delle bande partigiane apparteneva alle Garibaldi, la struttura creata dal Pci e comandata da Longo e da Pietro Secchia. È una verità consolidata che tra le opzioni del partito di Palmiro Togliatti ci fosse anche quella della svolta rivoluzionaria. Dopo la Liberazione sarebbe iniziata un’ altra guerra. Con l’ obiettivo di fare dell’ Italia l’ Ungheria del Mediterraneo, un Paese satellite dell’ Unione Sovietica.

I comunisti potevano essere più carogne dei fascisti e dei nazisti? No, perché chi imbraccia un’ arma per affermare un progetto totalitario, nero o rosso che sia, è sempre pronto a tutto. Ma esiste un fatto difficile da smentire: le stragi interne alla Resistenza, partigiani che uccidono altri partigiani, sono tutte opera di mandanti ed esecutori legati al Pci.
La strage più nota è quella di Porzûs, sul confine orientale, a 18 chilometri da Udine. Nel pomeriggio del 7 febbraio 1945, un centinaio di garibaldini assalgono il comando della Osoppo, una formazione di militari, cattolici, monarchici, uomini legati al Partito d’ Azione e ragazzi apolitici. Quattro partigiani e una ragazza vengono soppressi subito. Altri sedici sono catturati e tutti, tranne due che passano con la Garibaldi, saranno ammazzati dall’ 8 al 14 febbraio. Un assassinio al rallentatore che diventa una forma di tortura.
In totale, 19 vittime.

La strage ha un responsabile: Mario Toffanin, detto “Giacca”, 32 anni, già operaio nei cantieri navali di Monfalcone, un guerrigliero brutale e un comunista di marmo. Ha due idoli: Stalin e il maresciallo Tito. Considera la guerriglia spietata il primo passo della rivoluzione proletaria. Ma l’ assalto e la strage gli erano stati suggeriti da un dirigente della Federazione del Pci di Udine. Di lui si conosce il nome e l’ estremismo da ultrà che gioca con le vite degli altri.

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È quasi inutile rievocare le imprese di Franco Moranino, “Gemisto”, il ras comunista del Biellese. Un sanguinario che arrivò a uccidere i membri di una missione alleata. E poi fece sopprimere le mogli di due di loro, poiché sospettavano che i mariti non fossero mai giunti in Svizzera, come sosteneva “Gemisto”. Il Pci di Togliatti difese sempre Moranino e lo portò per due volte a Montecitorio e una al Senato. Anche lui come “Giacca” morì nel suo letto.

Tra le imprese criminali dei partigiani rossi è famoso il campo di concentramento di Bogli, una frazione di Ottone, in provincia di Piacenza, a mille metri di altezza sull’ Appennino. Dipendeva dal comando della Sesta Zona ligure ed era stato affidato a un garibaldino che oggi definiremmo un serial killer. Tra l’ estate e l’ autunno del 1944 qui vennero torturati e uccisi molti prigionieri fascisti. Le donne venivano stuprate e poi ammazzate. Soltanto qualcuno sfuggì alla morte e dopo la fine della guerra raccontò i sadismi sofferti.
A volte erano dirigenti rossi di prima fila a decidere delitti eccellenti. Le vittime avevano comandato formazioni garibaldine, ma si rifiutavano di obbedire ai commissari politici comunisti. Di solito questi crimini venivano mascherati da eventi banali o da episodi di guerriglia.

Uno di questi comandanti, Franco Anselmi, “Marco”, il pioniere della Resistenza sull’ Appennino tortonese, dopo una serie di traversie dovute ai contrasti con esponenti del Pci, fu costretto ad andarsene nell’ Oltrepò pavese.

Morì l’ ultimo giorno di guerra, il 26 aprile 1945, a Casteggio per una raffica sparata non si seppe mai da chi.
Negli anni Sessanta, andai a lavorare al Giorno, diretto da Italo Pietra che era stato il comandante partigiano dell’ Oltrepò. Sapeva tutto del Pci combattente, della sua doppiezza, dei suoi misteri.

Quando gli chiesi della fine di Anselmi, mi regalò un’ occhiata ironica. E disse: «Vuoi un consiglio? Non domandarti nulla. Anselmi è morto da vent’ anni. Lasciamolo riposare in pace».

Un’ altra fine carica di mistero fu quella di Aldo Gastaldi, “Bisagno”, il numero uno dei partigiani in Liguria. Era stato uno dei primi a darsi alla macchia nell’ ottobre 1943, a 22 anni. Cattolico, sembrava un ragazzo dell’ oratorio con il mitragliatore a tracolla, coraggioso e altruista. Divenne il comandante della III Divisione Garibaldi Cichero, la più forte nella regione. Era sempre guardato a vista dalla rete dei commissari comunisti della sua zona.

Nel febbraio 1945, il Pci cercò di togliergli il comando della Cichero, ma non ci riuscì. Alla fine di marzo Bisagno chiese al comando generale del Corpo volontari della libertà di abolire la figura del commissario politico. E quando Genova venne liberata, cercò di opporsi alle mattanze indiscriminate dei fascisti.

Non trascorse neppure un mese e il 21 maggio 1945 Bisagno morì in un incidente stradale dai tanti lati oscuri. In settembre avrebbe compiuto 24 anni. Ancora oggi a Genova molti ritengono che sia stato vittima di un delitto. Sulla sua fine esiste una sola certezza.

Con lui spariva l’ unico comandante partigiano in grado di fermare in Liguria un’ insurrezione comunista diretta a conquistare il potere. Scommetto mille euro che nessuno dei due verrà ricordato nelle cerimonie previste un po’ dovunque. Al loro posto si farà un gran parlare delle cosiddette Repubbliche partigiane. Erano territori conquistati per un tempo breve dai partigiani e presto perduti sotto l’ offensiva dei tedeschi. Le più note sono quelle di Montefiorino, dell’ Ossola e di Alba.

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Nel 1944, Montefiorino, in provincia di Modena, contava novemila abitanti. Con i quattro comuni confinanti si arrivava a trentamila persone. L’ area venne abbandonata dai tedeschi e i partigiani delle Garibaldi vi entrarono il 17 giugno. La repubblica durò sino al 31 luglio, appena 45 giorni. Fu un trionfo di bandiere rosse, con decine di scritte murali che inneggiavano a Stalin e all’ Unione Sovietica.

Vi dominava l’ indisciplina più totale. Al vertice c’ era il Commissariato politico, composto soltanto da comunisti. Il caos ebbe anche un lato oscuro: le carceri per i fascisti, le torture, le esecuzioni di militari repubblicani e di civili.

Ma nessuno si preoccupava di difendere la repubblica. Infatti i tedeschi la riconquistarono con facilità.

La repubblica dell’ Ossola nacque e morì nel giro di 33 giorni, fra il settembre e l’ ottobre del 1944. Era una zona bianca, presidiata da partigiani autonomi o cattolici. E incontrò subito l’ ostilità delle formazioni rosse. Cino Moscatelli, il più famoso dei comandanti comunisti, scrisse beffardo: «A Domodossola c’ è un sacco di brava gente appena arrivata dalla Svizzera che ora vuole creare per forza un governino pur di essere loro stessi dei ministrini».

La repubblica di Alba venne descritta così dal grande Beppe Fenoglio, partigiano autonomo: «Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre 1944». Durata dell’ esperimento: 23 giorni, conclusi da una fuga generale. Sentiamo ancora Fenoglio: «Fu la più selvaggia parata della storia moderna: soltanto di divise ce n’ era per cento carnevali. Fece impressione quel partigiano semplice che passò rivestito dell’ uniforme di gala di colonnello d’ artiglieria, con intorno alla vita il cinturone rossonero dei pompieri…».
In realtà la guerra civile fu di sangue e di fuoco. Con migliaia di morti da una parte e dall’ altra. Dopo il 25 aprile ebbe inizio un’ altra epoca altrettanto feroce. L’ ho descritta nel libro che mi rende più orgoglioso fra i tanti che ho pubblicato: Il sangue dei vinti. Stampato da un editore senza paura: la Sperling e Kupfer di Tiziano Barbieri. Un buon lavoro professionale. Dal 2003 a oggi, nessuna smentita, nessuna querela, ventimila lettere di consenso, una diffusione record. Ma le tante sinistre andarono in tilt. E diedero fuori di matto.

Più lettori conquistavo, più venivo linciato sulla carta stampata, alla radio, in tivù. Mi piace ricordare l’ accusa più ridicola: l’ aver scritto quel libro per compiacere Silvio Berlusconi e ottenere dal Cavaliere la direzione del Corriere della Sera. Potrei mettere insieme un altro libro per raccontare quello che mi successe. Qui preferisco ricordare i più accaniti tra i miei detrattori: Giorgio Bocca, Sandro Curzi, Angelo d’ Orsi, Sergio Luzzatto, Giovanni De Luna, Furio Colombo, qualche firma dell’ Unità, varie eccellenze dell’ Anpi, del Pci e di Rifondazione comunista.

Tutti erano mossi dalle ragioni più diverse. Se ci ripenso sorrido.

La meno grottesca riguarda l’ ambiente legato al vecchio Pci. Dopo la caduta del Muro di Berlino e la svolta di Achille Occhetto nel 1989, gli restava poco da mordere.
Si sono aggrappati alla Resistenza.

E hanno inventato uno slogan. Dice: la Resistenza è stata comunista, dunque chi offende il Pci offende la Resistenza. Oppure: chi offende la Resistenza offende il Pci e gli eredi delle Botteghe oscure.

Ecco un’ altra delle menzogne spacciate ogni 25 aprile. Insieme alla bugia delle bugie, quella che dice: le grandi città dell’ Italia del nord insorsero contro i tedeschi e li sconfissero anche nell’ ultima battaglia. Non è vero. La Wehrmacht se ne andò da sola, tentando di arrivare in Germania. In casa nostra non ci fu nessuna Varsavia, la capitale polacca che si ribellò a Hitler tra l’ agosto e il settembre 1944. E divenne un cumulo di macerie. In Italia le uniche macerie furono quelle causate dai bombardamenti degli aerei alleati.
Che cosa resta di tutto questo?

Di certo il rispetto per i caduti su entrambe le parti. Ma anche qualcos’ altro. Quando viaggio in auto per l’ Italia, rimango sempre stupito dalla solitaria immensità del paesaggio. Anche nel 2015 presenta grandi spazi vuoti, territori intatti, mai violati dal cemento.

È allora che ripenso ai pochi partigiani veri e ai figli dell’ Aquila fascista. E mi domando se avrei avuto il loro stesso coraggio se fossi stato un giovane di vent’ anni e non un bambino. Si gettavano alle spalle tutto, la famiglia, gli studi, l’ amore di una ragazza, per entrare in un mondo alieno, feroce e sconosciuto. Erano formiche senza paura e pronte a morire. L’ Italia di oggi merita ancora quei figli, rossi, neri, bianchi? Ritengo di no.

di Giampaolo Pansa

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Il maggiore pilota, pluridecorato, nonché asso dell’aviazione italiana, Adriano Visconti, assassinato il 29 aprile del 1945 insieme al suo aiutante, il sottotenente Valerio Stefanini, dal guardiaspalle di Aldo Aniasi, nella Caserma del Savoia Cavalleria, a Milano, dove si erano consegnati a Aniasi capo della piazzaforte di Milano come componente del CLNI e della famigerata Brigata Garibaldi, poi sindaco di Milano e presidente della Federazione Italiana Associazioni Partigiane, fino alla morte, Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.
Visconti e Stefanini, rispondendo a un invito del Comando Alleato, avevano offerto la consegna del Reparto ad Aniasi. Mentre si allontanavano, furono falciati da due raffiche di mitra alla schiena: il sottotenente Stefanini istintivamente tentò di coprire Visconti col suo corpo, ottenendo solo di farlo ferire gravemente. Il maggiore fu poi finito con due colpi di pistola alla testa. Visconti non condusse mai rastrellamenti né azioni offensive contro altri italiani, ma, con il suo Gruppo Caccia, si limitò, eroicamente, a contrastare i bombardamenti su obiettivi civili che gli alleati anglo-americano effettuavano sulle nostre città del nord. Non a caso, Visconti è titolare di quattro medaglie d’argento e due di bronzo al valor militare. Il mio padrino, capitano pilota Mario Scaroni, fece la stessa fine mentre attendeva ai preparativi per il matrimonio e, per lui, mi chiamo Mario. Non c’è proprio nulla da celebrare.

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Aldo Aniasi

 

 

569.-L’AFRICA EMIGRA, SI SPOPOLA, MA IN AUSTRIA TRIONFA L’IDENTITA’ EUROPEA, E VOI?

l’invasione è anche l’ennesima razzia della finanza maledetta occidentale ai danni del continente nero.3289-1

 
Un governo di impostori, di traditori della Costituzione sbarca dalle nostre navi migliaia di africani al giorno. Gente senza un futuro, che inganniamo senza ritegno. E’ l’invasione; ma è anche l’ennesima razzia della finanza maledetta occidentale ai danni del continente nero. A dispetto delle guerre civili, religiose, dei dittatori, della corruzione e della disoccupazione e, quindi, della fame e della povertà, l’Africa è un continente in cui investire. L’esperienza dell’imprenditoria italiana nelle grandi opere e nelle costruzioni civili, il fascino del “Made in Italy” soprattutto nel campo artigianale, alimentare, ma anche in settori strategici come: la sicurezza, il trasporto aereo, il turismo, consentono di affrontare la concorrenza delle imprese cinesi, brasiliane, sud coreane ed essere pronti a cogliere l’esplosione di un annunciato boom economico del continente.
Oggi, più di ieri, è necessario che un tale obiettivo sia affrontato con il sostegno della politica estera, italiana ed europea e sia affiancato, se non addirittura preceduto, dall’impegno degli istituti di credito; che, non solo, sostengano e forniscano all’impresa il loro supporto professionale in loco, ma siano rapidi nel cogliere e propagandare ogni possibile sviluppo connesso con l’operazione e opportuno. Il quadro delineato presuppone la definizione di un codice etico che escluda gli avventurieri e gli imprenditori senza scrupoli e sia in grado di isolare quelle persone del luogo che hanno costruito intorno alla corruzione la loro attività. Ma abbiamo accennato all’importanza della politica estera e dell’Europa, non per abbracciare una politica, ma perché la situazione dei conflitti in atto a livello mondiale richiede una visione panoramica e consapevole della sua evoluzione, di nazione in nazione. Sarebbe deprecabile sotto tutti i punti di vista che si iniziasse una start up, per, poi, doverla concludere precipitosamente dopo pochi mesi.”….

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Scrivevo queste note, a margine di una cena con amici rotariani, quando mi son giunte le accuse di xenofobia e razzismo lanciate al candidato dell’estrema destra alle presidenziali austriache Norbert Hofer, non meno che a Donald Trump e a Matteo Salvini per i contenuti del loro incontro a Filadelfia sul problema dei migranti. L’FPO di Hofer è il partito dell’euroscetticismo e anti-immigrazione e gli incidenti che si stanno verificando al Brennero soffiano in suo favore. Hofer ha minacciato, se eletto, di sfiduciare il governo se non adotterà misure più restrittive sui migranti. Bisogna viaggiare in Austria, nell’ordine e nella civiltà, per comprendere il senso di queste affermazioni e di questo successo elettorale. Bisogna inchinarsi dinanzi a questa religiosa custodia della propria identità del popolo austriaco e parliamo di poco più di sei milioni di persone, unite nella tradizione, nella legalità, che noi possiamo solo invidiare. Me ne frego delle accuse di xenofobia di quattro sciaghettate e sciaghettati che ripetono a pappagallo l’imbeccata del partito, per riceverne i favori.

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Apprezzo, speranzoso, il commento entusiasta di Matteo Salvini: “Provo immensa gioia per il grande risultato che si sta delineando in Austria per il nostro storico alleato Fpoe”, ha detto. “Quel che mi sconcerta – ha aggiunto – è il pressapochismo con cui vengono definiti destra xenofoba e razzista dai media”. Subito dopo è arrivata anche l’esultanza del leader dell’estrema destra olandese, Geert Wilders. E’ difficile mantenere una posizione apolitica, sia pure senza prendere partito. Oggi, più che mai, avverto la difficoltà di seminare consapevolezza nei compagni di vita. La politica europea e dei nostri governi crea imbarazzo. Essa ha implicitamente creato e alimenta questo clima di insicurezza, con la sua linea subalterna a un disegno più grande e mondiale; tanto grande da far apparire visionario chi lo legge, ma sempre più evidente, giorno dopo giorno. Altro che parlare di accoglienza e integrazione. Dovremo difenderci dai nostri stessi compatrioti. Sbarrare le porte di casa non basta più. E’ tardi. Ma chiudo questa riflessione con un moto di coraggio. Guardiamo avanti e cerchiamo di seminare più consapevolezza della nostra identità e più lavoro. La sola finanza non basta a ricompattare lo zoccolo su cui posa una nazione e conduce al disordine sociale e alla miseria. Se è questo proprio ciò che vogliono, ebbene ribelliamoci. Facciamo ordine e pulizia intorno a noi, abbandonando tutti quelli che bramano dalla politica e dalla cosa comune il loro tornaconto e ripartiamo da ciò che ci ha generato e ci unisce: fraternamente..

568._ DOCUMENTO SULLA RIFORMA COSTITUZIONALE.

Ringrazio Giuliana Beltrame che ci ha girato il documento dei costituzionalisti sulla riforma costituzionale, annunciato sulla stampa, oggi, 25 Aprile 2016. La celebrazione della liberazione, oggi, presenta aspetti di contraddittorietà perché è in atto un rigurgito di autoritarismo,che questa riforma incarna; perché soggiacciamo a una nuova dittatura, questa volta finanziaria e, anche, perché possiamo dire di essere occupati militarmente, , in nome di un Trattato non più difensivo, da truppe straniere agli ordini, anch’esse, della finanza mondiale.Torneremo a parlarne e a integrare i nostri modesti commenti che leggete in corsivo.
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Di fronte alla prospettiva che la legge costituzionale di riforma della Costituzione sia sottoposta a referendum nel prossimo autunno, i sottoscritti, docenti, studiosi e studiose di diritto costituzionale, ritengono doveroso esprimere alcune valutazioni critiche. Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo. Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto infine, per i contenuti ad esso dati e per le modalità del suo esame e della sua approvazione parlamentare, nonché della sua presentazione al pubblico in vista del voto popolare, in una potenziale fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione.

1. Siamo anzitutto preoccupati per il fatto che il testo della riforma – ascritto ad una iniziativa del Governo (il principio della divisione dei poteri incardina la repubblica democratica e il potere legislativo non spetta al potere esecutivo.ndr)  – si presenti ora come risultato raggiunto da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare (“abbiamo i numeri”) anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche; e che ora addirittura la sua approvazione referendaria sia presentata agli elettori come decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica di un Governo (la democrazia è dialogo e le minoranze hanno pari dignità della maggioranza, altrimenti, devo contestare i compilatori di questo documento, quando affermano che la riforma non introduce un nuovo pernicioso autoritarismo; per non parlare del ricorso sistematico ai decreti legge e al voto di fiducia delle camere e dell’illegittimità dichiarata di questo Parlamento, mantenuto in carica abusando il principio della continuità dei poteri la cui base normativa è nell’art. 61, comma 2, Cost. e malgrado le limitazioni che, a parere di molti, il regime di prorogatio comporta. ndr).

La Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre. La Costituzione non è una legge qualsiasi, che persegue obiettivi politici contingenti, legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica. E’ indubbiamente un prodotto “politico”, ma non della politica contingente, basata sullo scontro senza quartiere fra maggioranza e opposizioni del momento. Ecco perché anche il modo in cui si giunge ad una riforma investe la stessa “credibilità” della Carta costituzionale e quindi la sua efficacia. Già nel 2001 la riforma del titolo V, approvata in Parlamento con una ristretta maggioranza, e pur avallata dal successivo referendum (l’istituto del referendum fu strumentalizzato.ndr), è stato un errore da molte parti riconosciuto, e si è dimostrata più fonte di conflitti che di reale miglioramento delle istituzioni. 2.

2. Nel merito, riteniamo che l’obiettivo, pur largamente condiviso e condivisibile, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa principale delle disfunzioni osservate nel nostro sistema istituzionale), e dell’attribuzione alla sola Camera dei deputati del compito di dare o revocare la fiducia al Governo, sia stato perseguito in modo incoerente e sbagliato. Invece di dare vita ad una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero dialogo e confronto fra rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo: esso non avrebbe infatti poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni. In esso non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche (alcuni consiglieri regionali eletti – con modalità rinviate peraltro in parte alla legge ordinaria – anche come senatori, che sommerebbero i due ruoli, e in Senato voterebbero ciascuno secondo scelte individuali). Ciò peraltro senza nemmeno riequilibrare dal punto di vista numerico le componenti del Parlamento in seduta comune, che è chiamato ad eleggere organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e una parte dell’organo di governo della magistratura: così che queste delicate scelte rischierebbero di ricadere (diciamo pure che ricadranno.ndr) anch’esse nella sfera di influenza dominante del Governo attraverso il controllo della propria maggioranza, specie se il sistema di elezione della Camera fosse improntato (come lo è secondo la legge da poco approvata) a un forte effetto maggioritario.

3. Ulteriore effetto secondario negativo di questa riforma del bicameralismo appare la configurazione di una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato (leggi bicamerali, leggi monocamerali ma con possibilità di emendamenti da parte del Senato, differenziate a seconda che tali emendamenti possano essere respinti dalla Camera a maggioranza semplice o a maggioranza assoluta), con rischi di incertezze e conflitti.

4. L’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il dichiarato intento di ridurre il contenzioso fra Stato e Regioni viene contraddetto perché non si è preso atto che le radici del contenzioso medesimo non si trovano nei criteri di ripartizione delle competenze per materia – che non possono mai essere separate con un taglio netto – ma piuttosto nella mancanza di una coerente legislazione statale di attuazione: senza dire che il progetto da un lato pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una competenza “esclusiva” dello Stato riferita però, ambiguamente, alle sole “disposizioni generali e comuni”. Si è rinunciato a costruire strumenti efficienti di cooperazione fra centro e periferia. Invece di limitarsi a correggere alcuni specifici errori della riforma del 2001, promuovendone una migliore attuazione, il nuovo progetto tende sostanzialmente, a soli quindici anni di distanza, a rovesciarne l’impostazione, assumendo obiettivi non solo diversi ma opposti a quelli allora perseguiti di rafforzamento del sistema delle autonomie.

5. Il progetto è mosso anche dal dichiarato intento (espresso addirittura nel titolo della legge) di contenere i costi di funzionamento delle istituzioni. Ma il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche (costi sui quali invece è giusto intervenire, come solo in parte si è fatto finora, attraverso la legislazione ordinaria), bensì di equilibrio fra organi diversi, e di potenziamento, non di indebolimento, delle rappresentanze elettive. Limitare il numero di senatori a meno di un sesto di quello dei deputati; sopprimere tutte le Province, anche nelle Regioni più grandi, e costruire le Città metropolitane come enti eletti in secondo grado, anziché rivedere e razionalizzare le dimensioni territoriali di tutti gli enti in cui si articola la Repubblica; non prevedere i modi in cui garantire sedi di necessario confronto fra istituzioni politiche e rappresentanze sociali dopo la soppressione del CNEL: questi non sono modi adeguati per garantire la ricchezza e la vitalità del tessuto democratico del paese, e sembrano invece un modo per strizzare l’occhio alle posizioni tese a sfiduciare le forme della politica intesa come luogo di partecipazione dei cittadini all’esercizio dei poteri.

6. Sarebbe ingiusto disconoscere che nel progetto vi siano anche previsioni normative che meritano di essere guardate con favore: tali la restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge, e la contestuale previsione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico; la previsione (che peraltro in alcuni di noi suscita perplessità) della possibilità di sottoporre in via preventiva alla Corte costituzionale le leggi elettorali, così che non si rischi di andare a votare (come è successo nel 2008 e nel 2013) sulla base di una legge incostituzionale; la promessa di una nuova legge costituzionale (rinviata peraltro ad un indeterminato futuro) che preveda referendum propositivi e di indirizzo e altre forme di consultazione popolare.

7. Tuttavia questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici di cui si è detto. Inoltre, se il referendum fosse indetto – come oggi si prevede – su un unico quesito, di approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore sarebbe costretto ad un voto unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro, ragioni “politiche” estranee al merito della legge (il difetto di pluralismo dell’informazione, aggravato dall’aver posto la RAI, già politicizzata, alle dipendenze del Governo, non offre sufficienti garanzie a ché gli elettori giungano al voto referendario in modo consapevole.ndr) . Diversamente avverrebbe se si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati (così come se si fosse scomposta la riforma in più progetti, approvati dal Parlamento separatamente). Per tutti i motivi esposti, pur essendo noi convinti dell’opportunità di interventi riformatori che investano l’attuale bicameralismo e i rapporti fra Stato e Regioni, l’orientamento che esprimiamo è contrario, nel merito, a questo testo di riforma.

Francesco AMIRANTE Magistrato, Vittorio ANGIOLINI Università di Milano Statale, Luca ANTONINI Università di Padova, Antonio BALDASSARRE Università LUISS di Roma, Sergio BARTOLE Università di Trieste, Ernesto BETTINELLI Università di Pavia, Franco BILE Magistrato, Paolo CARETTI Università di Firenze, Lorenza CARLASSARE Università di Padova, Francesco Paolo CASAVOLA Università di Napoli Federico II, Enzo CHELI Università di Firenze, Riccardo CHIEPPA Magistrato, Cecilia CORSI Università di Firenze, Antonio D’ANDREA Università di Brescia, Ugo DE SIERVO Università di Firenze, Mario DOGLIANI Università di Torino, Gianmaria FLICK Università LUISS di Roma, Franco GALLO Università LUISS di Roma, Silvio GAMBINO Università della Calabria, Mario GORLANI Università di Brescia, Stefano GRASSI Università di Firenze, Enrico GROSSO Università di Torino, Riccardo GUASTINI Università di Genova, Giovanni GUIGLIA Università di Verona, Fulco LANCHESTER Università di Roma La Sapienza, Sergio LARICCIA Università di Roma La Sapienza, Donatella LOPRIENO Università della Calabria, Joerg LUTHER Università Piemonte orientale, Paolo MADDALENA Magistrato, Maurizio MALO Università di Padova, Andrea MANZELLA Università LUISS di Roma, Anna MARZANATI Università di Milano, Bicocca Luigi MAZZELLA Avvocato dello Stato, Alessandro MAZZITELLI Università della Calabria, Stefano MERLINI Università di Firenze, Costantino MURGIA Università di Cagliari, Guido NEPPI MODONA Università di Torino, Walter NOCITO Università della Calabria, Valerio ONIDA Università di Milano Statale, Saulle PANIZZA Università di Pisa, Maurizio PEDRAZZA GORLERO Università di Verona, Barbara PEZZINI Università di Bergamo, Alfonso QUARANTA Magistrato, Saverio REGASTO Università di Brescia, Giancarlo ROLLA Università di Genova, Roberto ROMBOLI Università di Pisa, Claudio ROSSANO Università di Roma La Sapienza, Fernando SANTOSUOSSO Magistrato, Giovanni TARLI BARBIERI Università di Firenze, Roberto TONIATTI Università di Trento, Romano VACCARELLA Università di Roma La Sapienza, Filippo VARI Università Europea di Roma, Luigi VENTURA Università di Catanzaro, Maria Paola VIVIANI SCHLEIN Università dell’Insubria, Roberto ZACCARIA Università di Firenze, Gustavo ZAGREBELSKY Università di Torino.

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567.-IL DRAMMA INFINITO IN CUI GLI “ALLEATI” HANNO GETTATO LA LIBIA.

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C’è anche sangue italiano in questa Libia distrutta dai predoni occidentali. Il nostro alleato e paladino del continente africano Muhammad Gheddafi era riuscito a dare stabilità e benessere a questa regione immensa. Immensa perché il territorio libico è due volte quello di Francia e Germania, dell’Olanda e della Gran Bretagna. Quello che rimane basterebbe per altri due Stati almeno. La sua costa mediterranea si estende per 1600 km e questa vasta area è abitata da sei milioni di persone, due dei quali si trovano ora in Tunisia insieme ad altri milioni di iracheni e siriani, in attesa delle condizioni ritornare alle loro case e alla normalità.

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Un’area di 1,8 milioni di chilometri quadrati con la costa più lunga del Mediterraneo, la Libia è il sedicesimo paese del mondo per dimensioni e occupa il decimo posto a livello mondiale tra i produttori di petrolio. Per altro, il petrolio libico è di qualità superiore e a prezzi inferiori in termini di estrazione e trasporto per la vicina Europa. È su questo vasto terreno, ricco di ogni tipo di risorse naturali, che combattono i libici, sei milioni di persone e un reddito pro-capite stimato di 14 mila dollari, uno dei più alti tra i paesi del mondo arabo.

Tutta la regione del Nord Africa è interessata da crescenti sfide, economiche, sociali e di sicurezza, e la Libia è oggi bersaglio di un intervento militare occidentale con il pretesto di contrastare Daesh (ISIS) e l’aumento dei gruppi militanti.

Naturalmente un intervento di questo tipo influirà negativamente su tutti i paesi della regione: la Tunisia sarà bruscamente condizionata da tale circostanza, così come il Marocco, che pure ha fatto grandi sforzi per promuovere la soluzione politica, e ha ospitato a Skhirat la maggior parte dei negoziati tra le fazioni libiche. Infatti, la Tunisia soffre già della mancanza di sicurezza nella vicina Libia: un intervento militare distruggerà i tentativi di Tunisi di consolidare il suo modello di democrazia e danneggerà la sua già fragile economia e il turismo già compromesso dagli attacchi terroristici degli ultimi anni. Tunisi ha rifiutato ogni intervento militare e non parteciperà in alcun modo alla coalizione internazionale, com’è stato confermato dal ministro della Difesa. Il Marocco ha, a sua volta, espresso il proprio rifiuto di ogni intervento esterno, e il ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione ha riaffermato la necessità di dare priorità alla soluzione politica.

L’intervento militare occidentale non è una soluzione in grado di restituire stabilità al paese e portare ai suoi abitanti sicurezza e speranza, come dimostrano gli interventi americani in Iraq e in Somalia, che non hanno fatto che aumentare le divisioni, o quelli di Russia e Iran in Siria, che hanno portato ulteriore distruzione. Qualsiasi attacco militare in Libia avrà conseguenze disastrose per l’intera regione poiché provocherà i terroristi e fornirà occasione agli estremisti per giustificare la loro violenza e guadagnare consenso.

Invece, tutti coloro che seguono la questione libica ritengono necessario proseguire e incoraggiare la soluzione politica, e che tutti i tentativi di dividere il paese siano il primo passo verso la distruzione della stabilità dell’intera regione. Ma è stato trovato un accordo sul governo o sul parlamento, sull’esercito o sulle forme di Stato, i suoi ambasciatori e le relazioni con uno dei paesi vicini del Magreb o l’Egitto? I libici devono voler qualcosa ma fino ad ora è un segreto che non sa nessuno. Il governo di unità libico è ora in sospeso, e il paese annaspa tra problemi di ogni tipo. Resterebbe la possibilità che quei paesi della regione capaci di influire sulla realizzazione di una soluzione politica prevalessero: tali paesi sono consapevoli di essere in pericolo, nella loro identità, stabilità e sicurezza, e che la minaccia di un intervento straniero non è meno grave del dilagare delle cellule terroristiche. Ma la teoria che l’accordo politico sia la base per stabilire una nuova legittimità ha bisogno di maggiore intesa tra le varie parti in causa nella crisi. La Libia è ora incapace di realizzare una stabilità in assenza di un’autorità che possa imporre l’ordine e controllare i confini, mantenere il controllo sulla circolazione di armi e sull’intervento delle molteplici autorità esterne (e i loro interessi), il proliferare dei gruppi terroristici e lo sviluppo del pensiero estremista. Mentre l’ISIS approfitta della situazione e si rafforza, il paese fatica a trovare l’accordo sull’unità. Noi dirimpettai italiani dobbiamo (dovremmo) contrastare gli interessi dell’Occidente che si frappongono a una pacificazione e aiutare tutti i paesi del Maghreb arabo a intensificare gli sforzi per realizzare una riconciliazione interna completa, senza esclusione o coercizione.

Sembra che il governo italiano sia consapevole che la situazione nella Libia occidentale richiede la nostra partecipazione diplomatica attiva. Lasciare aperta la porta all’eventualità di un intervento militare straniero o lasciare che si estenda l’estremismo costituirebbe un duplice pericolo per la regione del Maghreb nel suo insieme, ma anche per noi.

Ora, Sarraj ha a disposizione un periodo di tempo piuttosto breve per risolvere le questioni politiche del suo popolo, con l’obiettivo di non perdere il reale senso della sua presenza, ossia quello di costituire un governo unico, non l’ennesima fazione tra quelle che continuano a moltiplicarsi dal febbraio del 2011.

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Scrive l’analista Theodore Karasik: “Mentre il governo di accordo nazionale libico tenta di stabilirsi a Tripoli, la Libia continua a vacillare tra una crisi e l’altra. Dopo il fallimentare duplice governo costituito dal Consiglio generale nazionale (GNC) a Tripoli (Tripolitania) e dalla Casa dei rappresentanti a Tobruk (Cirenaica), si tenta la transizione ad un unico governo, ma nel frattempo Daesh in Libia si rafforza, e nel Paese manca sufficiente unanimità riguardo l’unità. Il GNA sta collaborando con una parte del GNC, il quale si è distaccato dal GNA nonostante l’accordo politico del dicembre 2015. Si noti però che i 73 membri del GNC che supportano Serraj, primo ministro del GNA, sono in realtà sostenitori dell’ex brigata Lybia Dawn, composta da Fratelli Musulmani ed ex combattenti di gruppi islamici o di Al-Qaeda! Come Serraj, essi vogliono solo una cosa: il congelamento dei beni libici all’estero. A Tripoli e a Misurata graffiti e striscioni anti-GNC stanno iniziando a comparire, eppure Serraj ha bisogno del supporto delle milizie in Tripolitania, soprattutto quelle di Misurata e di Zintan. Misurata sembra sostenerlo; potrebbe poi essere una buona notizia per il GNA lo scambio di prigionieri che la milizia ha compiuto con Zintan. Fuori da Tripoli, l’Unione dei comuni del sud, con sede a Jufrah, sta sostenendo Serraj per ora.

Tuttavia, l’ingresso del GNA, spinto dalle Nazioni Unite, sta aizzando varie tribù, fazioni e gruppi di interesse contro Serraj. La fazione cirenaica ha tre opzioni: continuare la campagna contro Daesh, optare per un confronto che molti temono violento a Tripoli, o attendere che il GNA cominci a spaccarsi a causa delle forze centrifughe, e approfittare del caos. Il tempo ci darà la risposta, ma intanto in Libia Daesh è sempre più forte. Ha raggiunto quasi 10 000 combattenti e occupando parte della costa può importare più combattenti dal Levante e arricchirsi con il contrabbando. Gli attacchi alle infrastrutture energetiche, alle piste di atterraggio, alla sicurezza e alla polizia, aiutano a costruire il potere di Daesh.

Sebbene l’occidente ritenga che il GNA possa affrontare Daesh, le faglie a livello politico sono dannose; Daesh ne è consapevole e cerca di approfittare del vuoto. Qui sta il dilemma: mentre l’Occidente cerca l’approvazione del GNA per un intervento aperto dopo che Serraj e le Nazioni Unite avranno terminato il loro esperimento di stabilire un governo unico, i libici anti-GNA sono contrari ad un intervento internazionale palese, preferiscono che proseguano il supporto “segreto” del Regno Unito e delle forze speciali statunitensi e l’arrivo delle armi egiziane. Per il dispiacere di alcuni libici, i droni e gli aerei europei e statunitensi stanno prendendo di mira Daesh nel nord del Paese, dove si trova la storia culturale libica. Dal punto di vista degli estremisti, più si distrugge meglio è. Molti libici non ritengono che il GNA possa costituire una risposta per fermare Daesh, ma non ritengono un’idea migliore nemmeno un conclamato intervento internazionale. Dal punto di vista della Libia, l’Europa meridionale si concentra solo sui migranti, l’energia, e il terrorismo, e non guarda alla situazione dei libici che potrebbero finire per soffrire proprio come le altre vittime della guerra nel Levante, mentre la spaccatura del paese si allarga.”

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(Theodore Karasik scrive per Al-Arabiya ed è analista di geopolitica, esperto in Medio Oriente, Russia, Caucaso. La traduzione e la sintesi sono di Irene Capiferri)

 

 

 

566.-GLI UOMINI SENZA ONORE DI IERI, COME QUELLI DI OGGI CHE CI TRADISCONO.

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La politica è dialogo, la democrazia è dialogo, libertà; ma la feccia non dialoga. Distrugge. La feccia di un popolo viene a galla nei momenti peggiori, quando l’ordine e la legge sono disattesi. Accade in guerra, è accaduto nella guerra civile, da entrambe le parti; accade in questa guerra combattuta dai terroristi al soldo della finanza mondiale, accadrà ancora. L’Italia si è (si è, o si era?) risollevata dalle distruzioni della Guerra Mondiale materialmente e militarmente, ma non moralmente. La libertà fu riacquistata con il tradimento. Fu un male necessario, ma un male. Non fu censurato mai come tale e il tradimento può essere giustificato, ma mai legittimato e celebrato; e la libertà fu riacquistata solo apparentemente perché restammo un Paese occupato e la politica estera ci era preclusa, imposta dai vincitori per 99 anni e, senza politica estera, è difficile che si possa maturare una politica interna frutto di coesione e di spirito identitario. Perciò, mentre assisto al tradimento della Costituzione costruita intorno alla persona umana e ai lavoratori, nata dalla Resistenza e tradita da parte delle istituzioni che dovrebbero garantirla; mentre le regole dei mercanti del denaro, del mercato libero sopraffanno la trama dei principi costituzionali, voglio onorare quei morti di ieri, uccisi, come i principi della Costituzione e come la Repubblica da uomini senza onore. Onoriamo tutti i nostri morti. La lettura del mattino si è fermata su questa strage di ragazzi, ma potevano essere altri e non importa di che parte fossero, se bianchi, neri o rossi.

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Nella strage di Rovetta vi è tutto ciò che la resistenza rappresentò: malvagità allo stato puro

La grande farsa della liberazione, la strage di Rovetta…la resistenza fu solo odio, vendetta e immotivata ferocia da parte di uomini senza onore. Quarantatre legionari che si erano arresi, alcuni giovanissimi di appena 15 anni, quarantatre soldati protetti dalle leggi di guerra vennero trucidati…

“Avete mai pensato a quei giovani legionari… Avete mai ascoltato i loro cuori… E vi fregiate di medaglie bagnate dal sangue di uomini veri”…

(Informare) – Con l’avvicinarsi della primavera, il 28 aprile di ogni anno, sull’ imbrunire, dalla strada che scende dal Passo della Presolana, raffiche di vento strisciano tra le case poste sotto la montagna, rumoreggiando sulle pietre della via come un passo chiodato; sembra un passo cadenzato: è il marciare dei Ragazzi della Tagliamento, quando di pattuglia, scendevano a valle cantando“… per voi ragazze belle della via che avete il volto della primavera, per voi che siete tutta poesia e sorridete alla camicia nera…”
Si… è il cantare dei Legionari trucidati a Rovetta, che tornati in quella vallata, risalgono sulla Presolana, dove ogni notte sono di pattuglia… cantano, marciano e, mentre attendono giustizia, si chiedono e chiedono… PERCHE’ ?

C’era un brusio sbigottito tra i paesani in quei giorni di fine guerra.

In quel piccolo paese bergamasco, Rovetta, così come i tutti i piccoli centri, ogni notizia importante passava di bocca in bocca e, quel 28 Aprile 1945, preannunciava una tragedia che stava avvicinandosi minacciosa.
Peraltro la gravità della situazione si era già delineata fin dalla mattina presto: quei camion carichi di partigiani armati fino ai denti che venivano da Clusone o forse da Lovere, quelle espressioni dure e la palese intenzione da parte dei nuovi arrivati di fare giustizia sommaria dei legionari prigionieri, non lasciava presagire nulla di buono.
La guerra era finita da tre giorni ed il paese aveva già vissuto la tragedia bellica con la dolorosa separazione da numerosi suoi figli avviati verso i vari fronti, ma ora avrebbe dovuto essere tutto finito e, gradualmente, doveva tornare tutto alla normalità. Ma così non sembrava.
Se la guerra aveva sostanzialmente sfiorato il paese con gli oscuramenti ed i controlli, ora il via vai di militari, tedeschi, russi e italiani erano terminati; poi il fronte vero era lontano.
Adesso, invece, la bruttura della guerra era lì, con le armi brandite minacciosamente sulle porte di casa, e ciò dimostrava che anche il peggio può peggiorare e le minacce attuarsi.
Ed il “tam tam” preannunciava una uccisione in massa dei soldati che si erano arresi un paio di giorni prima.
I militari avevano trattato la loro resa con un improvvisato Comitato di Liberazione Nazionale, il quale avrebbe dovuto garantire un ordinato passaggio di poteri da una amministrazione militarizzata sconfitta ad una costituenda amministrazione civile dai caratteri assolutamente imprecisati.
Il comitato di Liberazione , in acronimo CLN, avrebbe dovuto essere il braccio politico del movimento partigiano armato, gerarchicamente superiore alle brigate in armi; ma erano tempi in cui la confusione era una costante, per cui la forza bruta collegata alla sete di vendetta annullò una subordinazione che, nei fatti, si rivelò una pura e disattesa formalità; e vedremo purtroppo con quali conseguenze. Il capo dei soldati prigionieri era un ragazzo ventiduenne, con gli occhiali, quasi timido che, per quanto privo di esperienze del genere aveva voluto la stesura concordata di un atto ufficiale di resa contenente garanzie per i militari sconfitti.
E sconfitti non in combattimento! Da giorni ogni comunicazione col loro comando era venuto meno e lo sfaldamento del loro apparato militare era sotto i loro occhi; così le blandizie di un CLN che offriva garanzie senza essere in grado di garantirle ne carpì l’ingenua buona fede.
Le controparti nella stesura del documento erano stati un militare di carriera, in borghese, ed un sacerdote. Quali più qualificati garanti avrebbero potuto sottoscrivere quell’atto?
Non sapeva, il ragazzo, che mai un militare in divisa si deve arrendere a civili che non abbiano superiori diretti a cui rendere conto.
La parola data può essere ripresa, riconsiderata a posteriori; i patti possono improvvisamente diventare privi di valore e, sui piatti della bilancia, finisce per pesare di più la spada di Brenno delle buone intenzioni.
E la loro sentenza era già stata emessa, e non a Rovetta, ed il ventiduenne poco più che ragazzo con incarichi più grandi della sua età, quando fu brutalmente informato dai nuovi arrivati dei camion del crudele destino che sarebbe toccato a lui ed ai suoi soldati adolescenti protestò, ma inutilmente.
Ricevette uno schiaffo da un partigiano, una fiamma verde, che gli fece cadere gli occhiali. Poi esibì inutilmente la copia dell’atto di resa, che fu fatto a pezzi. Chiese ancora che fosse lui e lui solo a pagare, e sollecitò per i suoi soldati un trattamento equo così come previsto dai patti sottoscritti, ma tutto fu inutile.
Dovette così raccogliere dignitosamente gli occhiali e avviarsi al suo crudele destino; fu fatto poi seguire, divisi a piccoli gruppetti, dai suoi soldati.
Nel frattempo il militare di carriera era scomparso, ed il prete protestò energicamente solo quando i partigiani gli dissero che avrebbero fucilato i militari contro il muro della chiesa, dicendo che glielo avrebbero sporcato, e per il resto subì e fu parzialmente acquiescente. Anche lui si rimangiò la parola: l’importante, per lui, era l’aver scongiurato una futura sconsacrazione della parrocchiale, e tanto gli bastava in quel momento.
Disonorò sostanzialmente il proprio abito, collocandosi a metà strada tra Don Abbondio e Ponzio Pilato e con l’aggravante di una buona deriva di avidità, pur pentendosi mentre erano in corso le ultime esecuzioni.
In quel momento mise però molto zelo nel farsi consegnare dai morituri portafogli e valori che mai raggiunsero le famiglie di origine. E dovette scorrere un fiume di sangue prima che la sua coscienza, accecata forse dal risentimento per una motocicletta rubata che i soldati gli avevano trovata tempo prima nascosta in canonica, tornasse a valori ecclesiali, riuscendo a strappare alla morte tre quattordicenni, gli ultimi della lunga staffetta di assassinandi.
Anche questo fu però grazie alla cooperazione congiunta coi pochi partigiani la cui sopportazione per la carneficina aveva già oltrepassato il livello di guardia.
Va anche ricordato che un ufficiale partigiano aveva rifiutato di fornire uomini per le esecuzioni… ma “vox clamans in desertum”… non potè fare nulla di più.
Il prete, invece, tenne poi nascosto il solo fuggitivo dal luogo dell’incarcerazione, che aveva preso il largo grazie alla passiva complicità di uno dei pochi umanissimi carcerieri.
Questi guardiani improvvisati erano emanazione del pure improvvisato CLN, in cui i personaggi principali erano sempre il prete e l’ufficiale in borghese già citato, e non sapevano delle esecuzioni. E le due autoproclamatosi autorità non si posero neppure lontanamente il problema sul come avrebbero potuto onorare le garanzie offerte.
Così i carcerieri che facevano riferimento al CLN intuirono che le esecuzioni erano in corso solo quando dovettero consegnare i prigionieri a piccoli gruppi e sentirono poi gli spari.
Nemmeno i prigionieri sapevano del destino che li attendeva; da quasi 2 giorni venivano vessati da continue minacce di morte e ciò aveva creato in loro, usi più ad agire che a subire, uno stato di confusionale passività e di fatalismo.
Ma ora lo scenario era mutato, ed andava percepita la nuova variante dato che le minacce di morte erano state proferite da gente diversa . Inoltre i nuovi arrivati della mattina si erano già fatti aprire la porta dell’improvvisata cella con la forza ed avevano percosso violentemente i prigionieri umiliandoli, e costringendoli a strapparsi le mostrine di cui andavano fieri. Sempre i nuovi, non fidandosi del CLN, avevano anche rinforzato il corpo di guardia con loro uomini. Solo uno dei prigionieri intuì istintivamente tutti questi cambiamenti.
Già un carceriere gli aveva persino detto a bassa voce proibendogli di andare in bagno… “dove vuoi andare che tra tre minuti sei morto”…
Capì che, dopo tante minacce di morte, quella potesse davvero essere la tragica “volta buona” nel senso di cattiva e agì: reiterò la richiesta del bagno e, quando come ultimo desiderio espresso da un condannato vi ci fu portato, fece in modo di chiudere solo parzialmente la porta, e si calò dalla finestra; e la fortuna volle che il “Santo” guardiano gli fosse un poco anche angelo custode in quanto, volgendo il suo sguardo altrove aveva scelto una “amnesia da allarme”…
Ma questo il ragazzo non poteva saperlo; al momento non poteva che essere solo preoccupato di far funzionare al meglio le ali ai piedi, ma li ritroveremo dopo…
Così il fuggitivo si rifugiò nella canonica che era prospiciente al luogo dell’incarcerazione e si impossessò di una pistola lì nascosta; era quella che il suo ufficiale aveva consegnato all’atto della resa ma, nuovamente armato, fu sorpreso dalla perpetua impaurita che gli chiese se fosse uno dei prigionieri. La risposta era quanto mai ovvia e, per evitare possibili urla della donna gli consegnò l’arma e si nascose in soffitta armandosi solo di un pesante pezzo di ferro. Dal nascondiglio in soffitta intravide un certo movimento di armati ai piani bassi, ma nessuno lo cercò.
E quando il prete tornò dalle esecuzioni (dove oltre ad aver raccolto i portafogli degli uccisi aveva anche officiato frettolosamente le funzioni di “routine” e lo sapeva ormai disarmato dalla sua “truppa”) salì di sopra; lì, di fronte allo scampato, pianse. Gli disse che mai, in 20 anni di fascismo, aveva visto simili fatti e che lui poteva trattenersi in casa sua quanto voleva, e se lo tenne per 3 mesi.
Cominciava forse tardivamente a pentirsi per la sua accidia…
E, come responsabile del CLN, aveva dovuto constatare che il primo frutto di una libertà giacobina appena conquistata era stata una mostruosità.

AI 43 MILITI DELLA LEGIONE TAGLIAMENTO TRUCIDATI INERMI IN ROVETTA IL 28 APRILE 1945

ANDRISANO Fernando, anni 22
AVERSA Antonio, anni 19
BALSAMO Vincenzo, anni 17
BANCI Carlo, anni 15
BETTINESCHI Fiorino, anni 18
BULGARELLI Alfredo, anni 18
CARSANIGA Bartolomeo Valerio, anni 21
CAVAGNA Carlo, anni 19
CRISTINI Fernando anni 21
DELL’ARMI Silvano, anni 16
DILSENI Bruno, anni 20
FERLAN Romano, anni 18
FONTANA Antonio, anni 20
FONTANA Vincenzo, anni 18
FORESTI Giuseppe, anni 18
FRAIA Bruno, anni 19
GALLOZZI Ferruccio, anni 19
GAROFALO Francesco, anni 19
GERRA Giovanni, anni 18
GIORGI Mario, anni 16
GRIPPAUDO Balilla, anni 20
LAGNA Franco, anni 17
MARINO Enrico, anni 20
MANCINI Giuseppe, anni 20
MARTINELLI Giovanni, anni 20
PANZANELLI Roberto, anni 22
PENNACCHIO Stefano, anni 18
PIELUCCI Mario, anni 17
PIO VATICCI Guido, anni 17
PIZZITUTTI Alfredo, anni 17
PORCARELLI Alvaro, anni 20
RAMPINI Vittorio, anni 19
RANDI Giuseppe, anni 18
RANDI Mario, anni 16
RASI Sergio, anni 17
SOLARI Ettore, anni 20
TAFFORELLI Bruno, anni 21
TERRANERA Italo, anni 19
UCCELLINI Pietro, anni 19
UMENA Luigi, anni 20
VILLA Carlo, anni 19
ZARELLI Aldo, anni 21

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565.-LA POTENZA MILITARE USA PERDE IL PASSO.

 

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La superiorità militare degli Stati Uniti rispetto agli altri paesi sarà presto solo un ricordo, in quanto la potente flotta di portaerei che rappresentava il loro principale punto di forza, ha perso la sua precedente supremazia. Questo, secondo il Washington Post. Devo ricordare che, già nel 2000, l’US Navy aveva previsto il sorpasso cinese nel 2025 e aveva chiesto agli alleati di mettere in mare un maggior numero di navi per tentare di ritardare quel momento. Così, spieghiamo anche l’imponenza dell’attuale Programma Navale italiano: dieci fregate e due navi con ponte di volo.

Secondo il rapporto pubblicato lunedì dal Center for a New American Security, le operazioni degli USA all’estero sono ad un punto cruciale. Se prima non c’era nulla che si poteva paragonare alle portaerei degli Stati Uniti, ora la situazione è radicalmente cambiata. L’importante ammodernamento degli armamenti condotto negli ultimi anni da paesi come la Cina, l’Iran e la Russia, ha eliminato il vantaggio militare degli USA» sottolinea la pubblicazione.

Nel Mar Baltico la Russia ha creato un complesso sistema di difesa aerea e costiera. Nel perimetro siriano, Mosca, con i caccia Sukoi di ultima generazione Su-34M (ma è già in linea il Sukoi Su-50) e con i missili avanzati terra-aria S-300, S-400, ma, soprattutto, con i nuovi radar e con i sistemi per la guerra magneto-elettronica, ha raggiunto una capacità inedita di controllo del teatro di battaglia, riconosciuta all’unanimità dagli esperti. Il comando della NATO, sempre attento a seguire il ritiro dei potentissimi missili MIRV intercontinentali SS-18 Satan del Trattato NEW START (2010), ha avvertito il pericolo ulteriore dei missili balistici ipersonici russi e di quelli contraerei e ha compreso di non avere il dominio dello spazio aereo siriano. I primi segnali per noi osservatori, sono stati l’immediato ritiro dal Mediterraneo delle portaerei d’attacco della VIa Flotta USA e il passaggio di Suez da parte del Gruppo di combattimento della portaerei cinese Liaoning, schieratasi avanti alla base siriana di Latakia.

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La portaerei cinese Liaoning

La Cina, appunto, a sua volta, ha creato un sistema di difesa integrato, che comprende anche i nuovi missili terra-aria russi, missili cruise anti-nave, sottomarini, incrociatori e aerei. A Sud, nel Mar Giallo, ha creato un complesso di isole artificiali attrezzate contro la minaccia aerea e dal mare, in grado di tenere il nemico ad una distanza sufficiente dai territori strategicamente importanti, estendendo le sue acque territoriali.

Oggi accade che, mentre gli altri paesi si concentrano sulla creazione di sistemi complessi e sulle nuove tecnologie, come i drone, i missili avanzati e i caccia di nuova generazione, gli Stati Uniti agiscono per inerzia e commettono un grosso errore. L’America ha perso il suo principale vantaggio: la capacità di controllare senza ostacoli grandi spazi. Il motto dello Strategic Air Command “Pronti sempre, per dovunque” non ha ancora perso il suo potere deterrente, ma deve fare meglio i suoi calcoli. Se il prossimo anno il Pentagono non riconsidererà la propria strategia, le forze armate americane rischieranno di non tenere il passo con le ultime armi della Russia e della Cina, e di cedere per sempre la loro superiorità militare. Con queste premesse, chiunque sarà il vincitore della competizione elettorale per la Casa Bianca, la prossima presidenza USA sarà molto diversa da questa di Obama. A Putin, invece, era stato subito chiaro che l’avvicinamento progressivo della NATO ai suoi confini, con il pretesto di guardarsi dalla presunta minaccia iraniana, non era sufficiente a giustificare il superamento degli accordi presi e la dislocazione di sistemi antimissile a ridosso della Russia. In un’intervista a una pubblicazione danese, Mikhail Vaeli, ambasciatore russo a Copenaghen, ha detto che tutti i Paesi che entreranno a far parte del sistema di difesa missilistica degli Stati Uniti in Europa, diverranno automaticamente bersaglio dei missili balistici russi. Gli Stati membri della NATO che hanno accolto sul proprio territorio elementi del sistema ABM degli USA sono Turchia (radar d’allerta AN/TPY-2), Spagna (ospitando presso la base navale di Rota tre cacciatorpediniere AEGIS degli USA), Polonia e Romania (sistemi missilistici balistici). In apparenza la rabbia del russo sembrava ingiustificata dato che, secondo le dichiarazioni dei funzionari statunitensi, i sistemi antimissile balistico statunitensi in Europa avrebbero scopo difensivo. Sergej Rjabkov, Viceministro degli Esteri russo, è stato di diverso avviso sostenendo che i sistemi antimissile che verranno installati in Romania e Polonia violano il trattato sulle Intermediate Nuclear Forces (INF). Il trattato firmato da Stati Uniti e Unione Sovietica nel 1987 portò all’eliminazione dei missili balistici a corto e medio raggio (500-5000 km). Sergej Rjabkov ha ragione.

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Lo scudo ABM degli Stati Uniti in Romania

Così, mentre l’esercito americano combatteva in Afghanistan ed in Iraq, la Russia ha condotto con successo questo piano ambizioso di modernizzazione delle sue Forze Armate. La politica degli armamenti degli USA e della NATO, in questo tempo, è stata guidata dalle Corporations, che hanno mirato al maggior profitto possibile, privilegiando sistemi d’arma fallimentari o estremamente costosi come il programma F-35, di capacità operative tutte ancora da dimostrare. Non per nulla, l’USAF chiede di ammodernare tutta l’attuale linea di volo, non proprio giovane e di riaprire le catene di montaggio degli F-22 della Lockheed Martin, con una versione F-22B. Considerando l’entrata in servizio, avvenuta nel 2005, l’Air Force si è ritrovata costretta a richiedere un ulteriore finanziamento di 1,5 miliardi di dollari per standardizzare software e hardware di tutti i 123 (su 186) Raptor operativi. Parte dell’elettronica progettata per il Raptor, infatti, non esiste più, per cui il Raptor-B dovrà essere riprogettato da zero in ogni caso. In pratica, 194 nuovi F-22 con l’avionica dell’F-35. Ad oggi, è confermato lo studio sulle implicazioni di bilancio per un riavvio della linea F-22.


“Se l’F-35 non dovesse funzionare, saremo in un guaio”. E’ quanto ha dichiarato il 26/04/16 il direttore del Dipartimento della Difesa per la valutazione operativa dei sistemi, Michael Gilmore, durante un’audizione alla Armed Services Committee del Senato con oggetto l’F-35. Lo sviluppo dell’F-35 è uno scandalo, ha tuonato il presidente della commissione, il senatore John McCain. “L’F-35 è un investimento a lungo termine – ha risposto il generale Christopher Bogdan, program manager dell’F-35 – tra 30 anni potremmo avere una piattaforma unica che ci garantirà la nostra leadership nel mondo. L’F-35 è ancora in fase di sviluppo” (Fra 30 anni, la portaerei Cavour sarà in demolizione.ndr).

L’Air Force dovrà anche mantenere un minimo di 171 A-10 operativi, almeno fino a quando non si concluderanno i test comparativi con l’F-35 e in attesa del programma AX.

Per esemplificare ulteriormente, il radar navale in banda X, sviluppato e progettato dal Pentagono e che doveva o dovrebbe divenire l’elemento centrale del sistema di difesa missilistica degli Stati Uniti, si rivela inefficace secondo il Los Angeles Times. “Se la Corea democratica lanciasse un attacco a sorpresa, il Sea-Based X-Band Radar, SBX in breve, dovrebbe individuare i missili, inseguirli e guidare i missili-intercettori degli Stati Uniti per distruggerli“, secondo il giornale.

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In realtà, il gigantesco radar galleggiante è un flop da 2,2 miliardi di dollari, secondo un’indagine del Los Angeles Times. Anche se può rilevare oggetti lontani, il suo campo visivo è così stretto che sarebbe di scarsa utilità contro ciò che gli esperti considerano l’attacco più probabile: una serie di missili intervallati da esche”, afferma l’articolo. “SBX avrebbe dovuto essere operativo dal 2005. Al contrario, è stato quasi sempre sotto naftalina a Pearl Harbor, nelle Hawaii” secondo il Los Angeles Times. Tuttavia, “non solo il progetto è uno spreco di denaro dei contribuenti, ma ha creato un vuoto nella difesa della nazione“, osserva il giornale. Continuando questa disamina che non ci lascia per niente tranquilli con 128 testate nucleari USA sul nostro territorio, la Missile Defense Agency statunitense ha speso circa 10 miliardi di dollari per programmi inefficaci, negli ultimi anni. Almeno altri tre progetti si sono rivelati inutili come il laser aeroportato per distruggere missili nemici subito dopo il lancio (progetto chiuso nel 2012 e costato 5,3 miliardi dollari), l’Intercettore a energia cinetica (chiuso nel 2009 dopo sei anni di lavori costati 1,7 miliardi dollari) e il Multiple Kill Vehicle (programma accantonato dopo quattro anni di lavori costati 700 milioni di dollari).

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L’US NAVY ha stimato che le nuove unità missilistiche russe dislocano un decimo di una delle sue pari unità. Due corvette russe armate con missili ipersonici superficie-superficie sono intervenuta in Siria dal Mar Caspio, più rapidamente di una portaerei d’attacco e con vantaggio di costi. L’arma ipersonica è stata progettata per superare la protezione dei sistemi di difesa aerea, che stanno diventando sempre più sofisticati. I missili ipersonici potranno essere utilizzati per attacchi rapidi da lunghe distanze. Perciò, lo sviluppo di queste armi ipersoniche preoccupa i vertici militari statunitensi più di ogni altro, tanto più che precedentemente avevano ricevuto informazioni secondo cui la Russia avrebbe dotato di missili ipersonici i più moderni aerei e sottomarini.

Se Mark Schneider, ex analista del Pentagono, ha detto che il programma ipersonico statunitense non sta al passo con quello russo per caratteristiche, dimensioni e tecnologia, Mike Rogers, presidente del sottogruppo sulle azioni strategiche della commissione delle Forze Armate degli Stati Uniti, ha detto al quotidiano “Washington Times”:

“Sono preoccupato per il fatto che la Russia e la Cina si trovino davanti gli Stati Uniti per lo sviluppo delle opportunità di un attacco veloce globale”.

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Anche l’esercito americano è stato colto di sorpresa dalla modernizzazione repentina e efficace delle forze armate russe. I carri armati russi T-90 sembrano resistere ai missili USA TOW forniti ai terroristi attraverso Turchia e Arabia Saudita. Ora i vertici militari americani parlano della necessità di sviluppare con urgenza un piano per affrontare il rilancio del potenziale militare della Russia. Se prima i compiti delle forze armate statunitensi erano di carattere globale, come l’uso spregiudicato del terrorismo in Afghanistan e in Iraq da parte della CIA e il suo finto contrasto da parte del Pentagono, da ora l’obiettivo è per loro più specifico: “E’ Mosca”, scrive la rivista “Politico” e lo ha affermato anche il generale Herbert Raymond McMaster, che è considerato, come scrive, appunto, “Politico”, uno dei principali strateghi dell’esercito americano. Proprio lui è l’autore della concezione militare degli Stati Uniti in Medio Oriente. Ora è anche uno dei militari che stanno cercando di sviluppare una strategia di opposizione a Mosca.

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generale Herbert Raymond McMaster

I funzionari militari e di intelligence degli Stati Uniti temono che Mosca abbia attualmente vantaggi in settori chiave. I veicoli blindati americani sono estremamente vulnerabili rispetto ai mezzi russi, sostengono i militari. Se i carri armati russi T-90, che per molto tempo venivano considerati obsoleti, tuttora, con le nuove protezioni reattive, possono giocare un ruolo decisivo nelle battaglie, il nuovissimo carro armato, l’unico al mondo di terza generazione, T-14 Armata: è “Un carro armato assolutamente innovativo che certamente nessun esercito del mondo può vantare”. Il carro armato tedesco Leopard-2 fu sviluppato 35 anni fa, proprio come lo statunitense M1 Abrams. La Russia intende sostituire il 70 per cento dei suoi corazzati con i modelli basati sull’Armata, circa 2.300 unità, con un ritmo di produzione di 500 esemplari all’anno. Il carro armato vanta sospensioni adattive a terreno e velocità, sistemi di puntamento e di caricamento delle munizioni completamente automatizzati ed informatizzati. Ma è il sistema di difesa attiva del T-14 che merita particolare attenzione. È un sistema di difesa individuale, che spara ai proiettili, ai missili e agli aerei e che potrebbe intercettare e distruggere qualsiasi tipo di munizione o un missile anticarro che viaggia a 3.000 km/h.

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Tornando all’articolo, si legge: “E’ ora giunto il momento di ripensare e forse di modificare la struttura dell’esercito degli Stati Uniti in caso di confronto aperto con la Russia ai confini dell’Europa orientale. E’ ovvio che cruciale sarà l’aspetto dell’esercito USA nei prossimi anni, quali armi saranno acquistate e in che modo saranno organizzate le esercitazioni”.