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6127.- Il Niger “caccia” la UE, disfatta europea nel Sahel

Con l’Ue, strada in salita per il Nuovo Piano Mattei e si fa avanti la Russia. Per nostra scelta o no, da 108 anni, stiamo sempre con l’alleato o contro il nemico sbagliato; ma, da soli, dove andiamo? L’aver rotto i rapporti degli Stati europei con la Federazione Russa avrà soddisfatto gli interessi americani, ma non i nostri. Abbiamo visto sventolare le bandiere russe nel Niger. La politica della solidarietà attiva nel Magreb, nel Sahel e in Libia può confrontarsi con le ambizioni di Mosca e di Ankara? Certamente, direi.

Mali, Burkina Faso e Niger hanno dato vita all’”Alleanza degli Stati del Sahel”, la NATO africana. Fino a che le basi USA e italiana in Niger resteranno, sarà importante chiarire i nostri obiettivi nel Sahel. Vedremmo bene un summit a Roma con il leader della giunta nigerina, il generale Abdourahamane Tian, con il leader del Burkina Faso, Capitano Ibrahim Traoré, con il presidente del Mali, colonnello Assimi Goita e sarebbe utile la presenza dei leader della Mauritania, generale Mohamed Ould Ghazouani e del Ciad, presidente Mahamat Idriss Déby Itno. Dopodiché la parola dovrebbe passare agli imprenditori e agli istituti finanziari.

Di seguito, da La Nuova Bussola Quotidiana, l’articolo di Gianandrea Gaiani di oggi 11 dicembre 2023

Dopo aver cacciato le truppe francesi, la giunta militare di Niamey chiude le due missioni militari europee e segue l’esempio di Burkina Faso e Mali. E il posto dell’Europa viene preso dalla Russia.

Sostenitori della giunta golpista in Niger issano una bandiera russa dopo il golpe

Il Sahel continua a staccarsi progressivamente dall’Europa. Dopo aver cacciato le truppe francesi, il 5 dicembre la giunta militare – al potere in Niger dallo scorso luglio – ha annunciato la fine delle due missioni dell’Unione Europea per la sicurezza e la difesa. Il ministero degli Esteri nigerino ha infatti denunciato l’accordo siglato da Niamey con l’Ue riguardante la missione EUCAP Sahel Niger, attiva dal 2012 e ha ritirato «il consenso concesso per il dispiegamento di una missione di partenariato militare dell’Ue in Niger (EUMPM)», varata nel febbraio scorso dal governo guidato dal presidente Mohamed Bazoum deposto dai militari.
Entrambe le missioni avevano il compito di sostenere le forze militari e di sicurezza nigerine nella lotta contro l’insurrezione jihadista.

Il Niger, come anche Burkina Faso e Mali, continua così il processo di emancipazione dall’Occidente anche in termini di difesa e sicurezza avviato con la cacciata dell’ambasciatore e delle forze militari francesi che dovrebbe completarsi nelle prime settimane del 2024 ma, ad aggiungere al danno la beffa, l’annuncio della cacciata delle missioni europee è stato reso noto lo stesso giorno in cui a Niamey è giunta in visita una delegazione russa, guidata dal vice ministro della Difesa, Yunus-Bek Yevkurov.

Uno “schiaffo” all’Europa anche perché si tratta della prima visita ufficiale di un esponente del governo russo in Niger dal golpe del 26 luglio scorso e Mosca non ha neppure un’ambasciata a Niamey. Il vice ministro della Difesa russo è stato ricevuto dal leader della giunta, il generale Abdourahamane Tian e al termine dell’incontro le due parti hanno firmato dei documenti «nell’ambito del rafforzamento» della cooperazione militare, stando a quanto riferito dalle autorità nigerine.

A completare la debacle francese ed europea nel Sahel, il 2 dicembre Niger e Burkina Faso hanno proclamato il ritiro anche dalla forza congiunta G5 Sahel, creata nel 2014 per migliorare il coordinamento tra le diverse nazioni della regione nella lotta contro il terrorismo e finanziata dall’Ue, da cui si era già ritirato il Mali.
Gli altri due membri del G5 Sahel, Mauritania e Ciad, hanno preso atto della situazione decretando lo scioglimento dell’organizzazione G5 Sahel che avrebbe dovuto rafforzare il ruolo europeo nella regione destabilizzata nel 2011 dalla disastrosa guerra dell’Occidente contro la Libia di Muammar Gheddafi.

L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell,ha espresso rammarico per la decisione presa dalla giunta militare del Niger, sebbene l’Unione europea aveva immediatamente sospeso ogni cooperazione in materia di sicurezza e difesa col Niger in seguito al colpo di Stato di luglio. Una decisione che ha posto le basi per la cacciata dalla nazione africana, con i francesi, anche della Ue che non è riuscita negli ultimi quattro mesi ad aprire negoziati concreti con la giunta nigerina per impedire l’uscita di Niamey dagli accordi di cooperazione, compromettendo così il ruolo dell’Europa in questa regione strategica per i nostri interessi. L’intransigenza di Bruxelles nei confronti della giunta militare aveva già visto in novembre il Niger revocare gli inasprimenti di pena approvati nel 2015 per punire il traffico di esseri umani i cui flussi sono diretti in Libia e poi in Italia.

Il disastroso insuccesso europeo coincide con l’ennesimo successo russo in Africa. L’accordo di cooperazione militare firmato in Niger è quindi anche una diretta conseguenza delle iniziative europee e va inserito negli accordi di cooperazione militare ed economica che Mosca ha già stretto con le giunte di Mali e Burkina Faso (nazioni alleate del Niger nell’Alleanza degli Stati del Sahel). Le truppe e soprattutto i contractors russi (della PMC Wagner o di altre compagnie militari private) stanno fornendo un solido contributo alle forze del Mali nella riconquista dei territori caduti in mano ai ribelli Tuareg e alle milizie jihadiste.

Yevkurov è giunto a Niamey nell’ambito della ennesima missione in Africa, inclusa la Cirenaica libica (dove il 2 dicembre ha messo a punto il rinnovo degli accordi di cooperazione militare con il feldmaresciallo Khalifa Haftar), cosa che  evidenzia la meticolosa attenzione con cui Mosca rimarca il suo crescente impegno in Africa, politico, militare ed economico.
Si è trattato del terzo incontro in pochi mesi tra il vice ministro russo e Haftar. A fine settembre Haftar era poi stato a Mosca, dove era stato ricevuto dal presidente russo Vladimir Putin e dal ministro della Difesa, Sergei Shoigu. Stando a quento riferito dal comando delle forze di Haftar, sabato scorso i colloqui sono stati incentrati sulle «modalità di cooperazione congiunta tra Libia e Russia».

Dopo Bengasi, la delegazione russa è volata a Bamako, dove è stata ricevuta dal presidente del governo di transizione maliano, il colonnello Assimi Goita, per colloqui «sulle opportunità per rafforzare la cooperazione». Al termine dell’incontro, il ministro dell’Economia e delle Finanze del Mali, Alousseni Sanou, ha precisato che le discussioni hanno riguardato non solo il settore della sicurezza, ma anche quelli dell’energia e delle infrastrutture.
In un video diffuso dalla presidenza, Sanou ha riferito di colloqui sulla costruzione di una rete ferroviaria e per la creazione di una compagnia aerea regionale oltre a uno stabilimento per la lavorazione dell’oro estratto dalle miniere maliane e un memorandum per realizzare una centrale nucleare
Dopo il Mali, il vice ministro russo si è recato in Burkina Faso, paese con cui sono in valutazione investimenti non solo di tipo militare ma anche economico che comprendono anche a Ouagadougou il progetto di realizzare una centrale nucleare.

La disfatta franco-europea nel Sahel appare quindi senza precedenti anche se restano incognite circa il futuro della presenza militare di USA (1.100 militari in  due basi a Niamey e Agadez) e Italia (250 militari a Niamey) che la giunta non ha finora annunciato di voler espellere.

Tenendo conto delle difficoltà con cui l’Italia è riuscita e schierare una missione di consulenza e addestramento militare in Niger vincendo la resistenza francese e alla luce degli interessi di Roma a cooperare con una nazione di rilevante peso nei flussi migratori illegali, Roma avrebbe tutto l’interesse a dare concretezza proprio in Niger alle tante parole spese sul “Piano Mattei” negoziando con la giunta di Niamey un accordo che permetta la continuazione della missione MISIN.
Gli interessi nazionali impongono oggi all’Italia di affermare un proprio ruolo in Africa e nel Mediterraneo smarcandosi da partner ingombranti ormai detestati in Africa e da un’Unione Europea le cui politiche si sono rivelate anche in Africa velleitarie, fallimentari e inaffidabili.

5892.- Come fare la guerra all’Europa col culo degli altri.

É accertato che, dal 2005 ad oggi, gli Stati Uniti hanno addestrato circa 50 mila militari africani. Leggete e capite perché il Nuovo Piano Mattei deve passare per Washington.

Il Comando Operazioni Speciali degli Stati Uniti in Africa condurrà la sua operazione annuale di addestramento militare, denominata Flintlock 2023 in Ghana e Costa d’Avorio dal 1° al 15 marzo 2023.

Flintlock, è rivolta alle truppe dei paesi africani. L’obiettivo è quello del contenimento della crescente minaccia jihadista nel Sahel e in altre aree del continente e, naturalmente, il rafforzamento del parternariato degli Stati aderenti con il governo di Washington. I militari coinvolti nelle operazioni di addestramento in Ghana e Costa d’Avorio sono circa 1.300 e provengono da 29 paesi. Flintlock rafforzerà la capacità dei principali paesi partner della regione di contrastare le organizzazioni estremiste violente, collaborare oltre confine e garantire sicurezza alla propria popolazione, rispettando i diritti umani e costruendo la fiducia con le popolazioni civili. La forte partecipazione dei partner africani e internazionali riflette un impegno reciproco nel contrastare le attività maligne e l’estremismo violento in tutta la regione del Sahel e dell’Africa occidentale.

Le forze statunitensi hanno storicamente collaborato con il Ghana e la Costa d’Avorio attraverso molteplici scambi di affari militari e civili. L’anno scorso, la Costa d’Avorio ha ospitato Flintlock 2022, con più di 400 partecipanti provenienti da dieci nazioni. L’iterazione di quest’anno mira a continuare a rafforzare la capacità collettiva delle nazioni alleate e partner di affrontare le principali sfide alla sicurezza.

Flintlock – la principale e più grande esercitazione annuale di operazioni speciali dell’U.S. Africa Command – si svolge ogni anno dal 2005 nella regione africana del Sahel tra le nazioni che partecipano al partenariato antiterrorismo trans-sahariano e è pianificata dalle forze per le operazioni speciali dei paesi partner africani, dalle forze speciali Operations Command – Africa e il Dipartimento di Stato americano per sviluppare la capacità e la collaborazione tra le forze di sicurezza africane per proteggere le popolazioni civili.

U.S. Africa Command è uno degli undici comandi combattenti unificati controllati dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ed è responsabile per le relazioni e le operazioni militari statunitensi che si svolgono in tutto il continente africano, ad esclusione del solo Egitto, che è di competenza del Central Command.

Ma quale Wagner? Molti militari golpisti africani sono legati agli Stati Uniti che li hanno addestrati.

Da Analisi Difesa, di Giampaolo Cadalanu, 9 Settembre 2023. Foto: truppe africane addestrate da militari statunitensi – US Africa Command

La sequenza di colpi di Stato tentati o portati a termine in questi anni nei paesi dell’Africa subsahariana sembra una conferma dei luoghi comuni sull’instabilità quasi fisiologica del continente. Solo gli analisti più acuti azzardano un’ipotesi meno superficiale: la “fine dei sogni dell’indipendenza” per gli stati post coloniali creati su modello europeo con tanto di welfare. Oggi questi paesi sono del tutto impoveriti, fra interessi privati, pressioni clientelari e privatizzazioni richieste dalle istituzioni finanziarie internazionali e cavalcate senza scrupolo dalle aziende multinazionali già negli anni ’90. Da qui lo spazio per il modello di “ordine” populista proposto dai generali e naturalmente corredato dei sempre efficaci richiami nazionalisti.

Ma al di là del quadro generale, nelle ultime settimane sono spuntati fuori elementi nuovi, con sfumature inquietanti. Forse la narrazione che vede i rivolgimenti politici nati, cresciuti e messi in pratica in modo del tutto spontaneo deve essere rivista. Per aprire la strada al dubbio basta mettere in fila le notizie sul ruolo di altri paesi nell’addestramento dei militari coinvolti, o nella presenza di forze straniere clandestine. Mentre della compagnia militare privata russa Wagner e della sua influenza in Africa si è parlato molto, solo ora filtrano rivelazioni sul coinvolgimento di militari addestrati in Occidente.

Secondo un’indagine di Responsible Statecraft, almeno 15 gli ufficiali addestrati negli Stati Uniti e con stretti rapporti con Washington sono coinvolti nei 12 colpi di Stato in Africa occidentale e nel Sahel dall’inizio dell’intervento statunitense in Africa per combattere le milizie jihadiste nel 2002. Oltre al golpe abortito del Gambia nel 2014, ci sono state quattro diverse occasioni nel Burkina Faso (2014, 2015 e due volte nel 2022), in Ciad (nel 2022), in Guinea Bissau (2021), tre occasioni in Mali (2012, 2020 e 2021), in Mauritania (nel 2008) e nel luglio di quest’anno in Niger. Quest’ultimo rivolgimento ha portato al potere una giunta militare di cui fanno parte almeno cinque ufficiali addestrati negli Stati Uniti. Lo stesso leader dei golpisti Abdourahmane Tchiani ha frequentato la National Defense University dal 2009 al 2010, e così pure il generale Moussa Salaou Barmou, ex comandante delle Forze speciali e ora responsabile della Difesa.

L’ultimo golpe africano, in ordine di tempo, è arrivato a fine agosto in Gabon, dove Ali Bongo Ondimba è stato esautorato da un gruppo di militari guidati da Brice Oligui Nguema. Per ora di questo generale si sa solo che ha frequentato scuole militari in Marocco e Senegal, e i suoi collegamenti con l’Occidente si limitano, secondo la stampa locale, all’acquisto in contanti di proprietà immobiliari per almeno un milione di dollari a Hyattsville e Silver Spring, in Maryland (USA).

La storia dei rapporti fra militari golpisti e Occidente è lunga. Appena nel 2016 una corte del Minnesota ha condannato a lievi pene detentive quattro cittadini americani che due anni prima avevano partecipato al tentativo – fallito – di rovesciare il governo del Gambia. Volevano deporre il presidente Yahya Jammeh per mettere al suo posto Cherno Momodou Njie, un imprenditore immobiliare nato nel paese africano ma emigrato a 25 anni nel Texas. La legge americana denominata Neutrality Act vieta le azioni armate di privati in altri paesi, ma per dirla con il legale che ha difeso gli imputati “se il golpe avesse avuto successo, il governo statunitense li avrebbe considerati eroi”.

L’altra faccia delle guerre. I Neutrality Act furono una serie di leggi approvate dal Congresso degli Stati Uniti negli anni trenta (specificatamente nel 1935, nel 1936, nel 1937 e nel 1939) in risposta alla crescente minaccia e alle guerre che alla fine portarono alla seconda guerra mondiale. Esse vennero stimolate dalla crescita nell’isolazionismo e nel non interventismo negli Stati Uniti successivo alla costosa partecipazione nella prima guerra mondiale e cercarono di assicurare che gli Stati Uniti non si sarebbero di nuovo invischiati in conflitti stranieri.

Ciò non impedì a circa 150 imprese, cooperazioni americane di prendere parte al riarmo tedesco (Henry Ford, GM, Prescott Bush, Fritz Tyssen, Du Pont, ITT, IBM, Standard Oil, alcune delle quali erano società di copertura MEFO istituite dallo stato tedesco) tramite joint venture, accordi di cooperazione e proprietà incrociate con società tedesche e le loro sussidiarie) fornendo alle aziende tedesche di tutto, dalle materie prime alla tecnologia e alla conoscenza dei brevetti. Ad esempio, la DuPont possedeva azioni della IG Farben e della Degussa AG, che controllavano la Degesch, il produttore dello Zyklon B (agente tossico usato nelle camere a gas) e Irénée du Pont, direttrice ed ex presidente di DuPont, era una sostenitrice della teoria razziale nazista e sostenitrice dell’eugenetica. Così, gli USA contribuirono al piano di Hjamar Schacht, l’economista di Hitler, per finanziare il riarmo del Terzo Reich, motorizzando la Wermacht, già allora, in chiave anti sovietica.

A capo dei rivoltosi c’era il tenente colonnello Lamin Sanneh, rimasto ucciso nello scontro: Sanneh aveva ricevuto un addestramento militare nel Regno Unito, all’accademia di Sandhurst, e negli USA, alla National Defense University del Pentagono, per diventare comandante della guardia presidenziale e aver poi lasciato il Gambia per chiedere asilo negli USA e coordinare da lontano l’opposizione a Jammeh. Ad aggiungere spunti di riflessione è il fatto che anche quest’ultimo, l’ “uomo forte” del Gambia, arrivato al potere con un colpo di Stato nel 1994, era stato addestrato negli Stati Uniti.

Il Dipartimento di Stato statunitense nega ogni coinvolgimento nelle azioni dei golpisti e anzi sostiene – per la verità in modo poco convincente – di non essere in grado di seguire all’estero i militari che hanno frequentato scuole e corsi d’addestramento negli USA. Al sito di giornalismo investigativo The Intercept che chiedeva informazioni sul Niger, un portavoce del Dipartimento di Stato ha dichiarato che il governo americano “non addestra la guardia presidenziale” ma secondo lo stesso sito questa dichiarazione è smentita dagli stessi documenti interni sull’addestramento del personale straniero.

Secondo The Intercept gli Stati Uniti affidano a una vasta costellazione di agenzie, enti e società l’addestramento del personale militare straniero, che accoglie ogni anno oltre 200 mila fra militari e forze dell’ordine di paesi considerati alleati o non ostili. Il training si svolge in almeno 471 sedi di 120 paesi, in tutti i continenti tranne l’Antartide e coinvolge almeno 150 fra agenzie della Difesa, agenzie civili, scuole militari, compagnie militari private (PMC), organizzazioni non governative, oltre alla Guardia nazionale di cinque Stati.

La tentazione di individuare in questo denominatore comune dei diversi golpe una strategia complessiva americana è probabilmente azzardata. Washington vuole coltivare gli ovvi collegamenti con l’élite militare dei paesi coinvolti, affiancata sempre dal “soft power”, cioè da un potere culturale pervasivo. Ed è senz’altro soddisfatta di vedere che i golpe nell’Africa francofona stanno indebolendo l’influenza europea.

Il progressivo tramonto del vecchio continente, lo sfilacciarsi dei legami con le ex colonie e probabilmente anche i problemi per Emmanuel Macron, voce spesso critica sulla conduzione unilaterale della NATO, sono uno scenario sicuramente non sgradito e anche direttamente ricercato dai diversi governi USA. Ma il tramonto dell’egemonia europea sta lasciando sempre più spazio ad altri attori, Russia (anche attraverso la Wagner) e Cina in primis.

A confermare che con tutta probabilità il ruolo americano nell’instabilità africana è legato più alla confusione fra i diversi attori e alla mancanza di una visione geopolitica chiara che a una raffinata regia da remoto basta un severo articolo del New York Times, in prima pagina nell’edizione del 7 settembre, che racconta le difficoltà all’interno del governo Biden nel trattare il colpo di Stato in Niger. L’amministrazione democratica sta facendo i salti mortali per non chiamare “golpe” (coup) la presa di potere da parte dei militari a Niamey con l’estromissione e l’incarcerazione del presidente eletto Mohamed Bazoum. Gli scrupoli formali ricordano quelli di Bill Clinton, che decise di chiamare “atti di genocidio” e non “genocidio” tout court il massacro dei tutsi in Ruanda nel 1994 per evitare l’obbligo di intervenire.

Chiamare un colpo di Stato con il suo nome vorrebbe dire per la Casa Bianca dover interrompere ogni aiuto economico e militare con il paese coinvolto, con conseguenze geopolitiche sgradite, dallo spazio offerto a russi e cinesi alla minor presenza in chiave anti-jihadisti. Ma difficilmente il governo Biden potrà mantenere un atteggiamento di distacco diplomatico, tanto più dopo lo schiaffo subito da Victoria Nuland a Niamey. La sottosegretaria di Stato è arrivata d’urgenza nella capitale nigerina, ma nonostante le insistenze non ha avuto la possibilità di incontrare il capo della giunta militare Tchiani, né il presidente deposto e relegato nella sua residenza Bazoum.

Questa ambiguità nel negare a parole e poi concedere nei fatti l’assistenza ai paesi con un esecutivo golpista è stata segnalata dalla stessa stampa americana per il Mali, governato da Assimi Goïta, militare addestrato in Florida con le Forze Speciali statunitensi, protagonista di due putsch successivi. E vale anche per il Burkina Faso, stravolto da due colpi di Stato nel gennaio e settembre 2022. Nel primo, a prendere il potere fu il tenente colonnello Paul-Henri Damiba, addestrato negli Stati Uniti secondo i portavoce dello US Africa Command (AFRICOM). Gli stessi portavoce hanno preferito ricorrere al silenzio, senza confermare né smentire, sul protagonista del secondo golpe, Ibrahim Traoré, che in passato aveva fatto parte dei peacekeeper dell’ONU nella missione MINUSMA in Mali.

BREAKING: The leader of U.S. military’s Africa Command states our government shares “core values” with military coup leaders. 

These SAME coup leaders were trained by our own Armed Forces! pic.twitter.com/boGYfQ6csb

— Rep. Matt Gaetz (@RepMattGaetz) March 23, 2023

Nel complesso, l’approccio americano verso i militari africani potrebbe essere sintetizzato dalle dichiarazioni del generale Mike Langley, comandante di AFRICOM (a questo link l’audizione completa) che ha rivelato davanti alla Commissione Forze armate della Camera che gli Stati Uniti hanno addestrato circa 50 mila militari africani ammettendo, incalzato dal deputato repubblicano Matt Gaetz (a questo link), la “condivisione di valori fondamentali” con leader golpisti addestrati negli Stati Uniti.

5560.- Sahel, anche il Ciad si avvia alla “russificazione” come Mali e Burkina Faso

La nostra nota: Se la Russia fosse nel campo occidentale, non parleremo di “russificazione”, ma di “eurafrica”. Una volta di più si dimostra necessaria una politica europea per l’Africa e può nascere a Roma.

  • Difesa e Sicurezza, 12 Aprile 2023, di Francesco Bussoletti. Note di Mario Donnini.

Anche il Ciad si avvia alla “russificazione” come Mali e Burkina Faso. N’Djamea caccia per motivi pretestuosi l’ambasciatore tedesco. Intanto, spunta l’associazione di amicizia con Mosca

Il Ciad potrebbe presto diventare un nuovo Paese nell’area del Sahel sotto l’influenza della Russia, dopo Mali e Burkina Faso. La causa è una postura di N’Djamena sempre più anti-europeista e occidentale, come conferma l’espulsione dell’ambasciatore tedesco nella Nazione africana, Gordon Kricke, avvenuta la settimana scorsa per motivi pretestuosi. Il diplomatico è stato accusato di comportamento scorretto per aver criticato i continui ritardi nell’organizzazione delle elezioni presidenziali e una legge promulgata l’anno scorso, che consente all’attuale leader militare ad interim, Mahamat Idriss Debry, di correre per la conferma dell’incarico. Inoltre, sui media locali si moltiplicano negli ultimi tempi articoli critici verso la Francia, l’Europa e l’Occidente in generale. Peraltro, non è sfuggito agli analisti che il 13 gennaio 2023 è stata ufficialmente lanciata l’”Association pour la coopération et le développement avec la Russie (Ascoder), presentata presso la Maison des médias du Tchad.

NOTA D.R.

Gen. Mahamat Idriss Debry, figlio del presidente del Ciad Idriss Déby, è stato il secondo in comando delle forze armate per l’Intervento del Ciad nel Nord del Mali (FATIM).

A seguito della morte del padre in battaglia, è diventato il Presidente del Consiglio militare di transizione del Ciadde facto il presidente ad interim del Ciad.

La sua nomina è stata oggetto di critiche poiché non era prevista dalla costituzione ciadiana, che stabilisce che in caso di morte del capo dello Stato a subentrargli sia il presidente del parlamento (Haroun Kabadi).

L’ambasciatore tedesco nella Nazione africana, Gordon Kricke, espulso per le sue critiche nei confronti dei leader militari di transizione, ritenuti responsabili di una stretta autoritaria e di episodi di cruenta repressione dei manifestanti contrari al loro governo: fra questi il più sanguinoso fu quello del 20 ottobre del 2021, quando le forze di sicurezza spararono su una folla indifesa provocando ufficialmente la morte di 73 persone, oltre cento secondo le opposizioni.

Gordon Kricke è stato accusato di aver tenuto un “atteggiamento maleducato” e di aver “mancato di rispetto per le usanze diplomatiche”. Sicuramente, si è dimostrato un “politico sfortunato”. Il ministero degli Esteri della Germania ha reagito dichiarando “persona non grata” l’ambasciatrice del Ciad, Mariam Ali Moussa.

 Così, non andiamo da nessuna parte. Il Ministro degli affari esteri della Russia Sergej Viktorovič Lavrov ringrazia. Il Governo Meloni, lanciato verso la cooperazione euroafricana deve fare i conti con l’arroganza e con i passi falsi dell’Unione europea … e ha bisogno dell’Unione europea.

Jan-Christian Gordon Kricke, il diplomatico tedesco espulso dal Ciad, è stato capo della squadra del Sahel presso il Ministero degli esteri federale e ambasciatore tedesco nella Repubblica del Ciad dal 2021 fino alla sua espulsione. Qui, l’ambasciatrice del Ciad, Mariam Ali Moussa. Ndr.

Inoltre, nel Paese africano si moltiplica la propaganda anti-Francia, UE e Occidente. E’ un copione ben noto nell’area e solo il Niger ne fa eccezione

Quanto sta accadendo in Mali ricalca fedelmente i passaggi già avvenuti in Mali e Burkina Faso con campagne d’odio verso Francia, UE e Occidente, veicolate tramite fake news e proteste organizzate ad hoc da presunte associazioni locali, nonché con posture istituzionali sempre più vicine alla Russia. Ciò conferma che la strategia di “russificazione” del Sahel sta avendo successo, ad eccezione del Niger che continua – nonostante i ripetuti tentativi degli agenti pro-Mosca – ad essere amico dell’Europa e degli Stati Uniti. Non è un caso se Antony Blinken, primo segretario di Stato americano a visitare il Niger, si sia impegnato a fornire al Paese un maxi-pacchetto di aiuti per combattere il terrorismo nella Regione. La russificazione del Sahel, infatti, ha determinato una recrudescenza delle attività del JNIM (al Qaeda) e di ISGS, che hanno meno ostacoli per espandere la loro influenza, in quanto i nuovi partner dei governi locali hanno agende diverse rispetto ai precedenti.

4047.- Dal Mali al Ciad alla Libia. Perché Macron è in difficoltà

Italia, Francia e Germania devono schierarsi a difesa in questi paesi, per loro e per noi, perché sono il vero fianco Sud dell’Europa.

Di Emanuele Rossi | 02/06/2021 – Formiche.net

Dal Mali al Ciad alla Libia. Perché Macron è in difficoltà

La sfera africana è il naturale trampolino per l’ambita proiezione globale francese, ma le cose non stanno funzionando al meglio. Emanuele Rossi spiega perché

“Abbiamo vinto questa guerra; abbiamo cacciato i terroristi; abbiamo messo al sicuro il nord”, diceva l’ex presidente francese François Hollande nel 2013 a proposito del Mali. A distanza di otto anni, Emmanuel Macron intervistato dal Journal du Dimanchdice, in un pezzo uscito domenica 30 maggio, che la Francia sta valutando l’idea di uscire dallo stato africano in cui è militarmente presente. La corte costituzionale del Mali ha dichiarato due giorni fa nuovo presidente ad interim Assimi Goita, il colonnello che ha guidato un colpo di stato militare la scorsa settimana mentre era vicepresidente. Dall’agosto 2020 a oggi la Françafrique ha subito tre colpi durissimi. La sfera d’influenza che Parigi considera come cortile casalingo ha visto succedersi due colpi di stato proprio in Mali e uno in Ciad.

Vale la pena spiegarne il peso. Il Paese che ha fatto da gancio per l’intervento militare francese di stabilizzazione del Sahel è finito prima in mano ai militari, e poi quegli stessi militari hanno arrestato e costretto alle dimissioni il presidente e il primo ministro — civili — che loro stessi avevano accettato come autorità di transizione. Da agosto 2020 a maggio 2021. Il governo francese decise di schierare un dispositivo militare in pianta stabile nel Sahel (ora si chiama operazione “Barkhane”) proprio per ristabilire l’ordine davanti a una ribellione Tuareg all’occupazione jihadista del Nord del Mali. Era il 2012.

In Ciad poi, l’operazione Barkhane (ormai espansa) trovava il suo principale alleato: il paese guidato da Idriss Déby era il partner dell’impegno di Parigi nella regione. Ma ad aprile Déby è rimasto vittima di un’imboscata: ucciso da un attacco compiuto dai ribelli del Front pour l’Alternance et la Concorde au Tchad (FACT). Il gruppo si è mosso dal Sud della Libia, dove si rifugia, e ha compiuto nuove e numerose incursioni nelle ultime settimane. Ironia della sorte, quei miliziani che da anni combattono l’egemonia di Déby (presidente autoritario dal 1990 alla faccia di Montesquie) hanno ricevuto training in Cirenaica. Là sostenevano i ribelli guidati da Khalifa Haftar che come obiettivo avevano (e in parte ancora conservano) quello di rovesciare il governo onusiano di Tripoli: un lato del conflitto con cui Parigi ha a lungo flirtato.

Nell’organizzazione dell’intervento pensato dalla Francia l’obiettivo era portare stabilità e trarne vantaggi/influenza in una regione in cui la penetrazione e la presenza è stata storicamente attiva. All’opposto, due paesi in crisi istituzionale (in Ciad il ruolo di Déby è stato preso da una giunta militare guidata dal figli: non proprio un regolare processo democratico) rappresentano una crepa in questa strategia. Che per altro prevedeva di appoggiare clandestinamente le velleità di un signore della guerra libico che ambiva a diventare il nuovo rais e che attualmente è stato bloccato dalla risposta militare della Tripolitania (col sostegno cruciale turco) e dalle attività politico-diplomatiche della Comunità internazionale. Nelle prossime ore il primo ministro libico Abdelhamid Dabaiba ripartirà da Roma per andare in Francia: Macron gli parlerà con la consapevolezza che in Libia e nella regione soffre.

Per il presidente francese il problema è tanto africano quanto internazionale. La situazione si porta dietro un colpo di immagine per Parigi. La sfera africana è il naturale trampolino per l’ambita proiezione globale francese, ma le cose non stanno funzionando al meglio. La missione Barkhane dura da otto anni, è costata uomini e mezzi e soldi dei contribuenti; Macron ha coinvolto nell’impegno diversi alleati (il dispositivo “Takuba”, integrato nell’operazione, ha spostato diversi paesi europei, tra cui anche l’Italia, nel Sahel); i risultati non arrivano.

L’impegno nella regione che si estende dal Nordafrica all’area Subsahariana è importante per la Francia e per l’Europa. Le ragioni sono diverse — dal controllo del terrorismo a quello delle rotte migratorie, fino all’aiuto allo sviluppo a quei paesi che compongono il vicinato allargato e alla creazione di sfere di dialogo (in un’area in cui potenze rivali competono). Il punto per Parigi è questo: la realtà va ben oltre la narrativa, l’instabilità aumenta anche perché i governi locali amici sono deboli (e l’impegno per rafforzarli elevato).

Il logorio della flotta di elicotteri eè pesante ed è aggravato dalla catena logistica troppo lenta e lunga. Ci sono macchine in attesa di un ricambio, ferme per settimane. Gli italiani ne schiereranno 8, al più presto.

Il racconto pensato da Macron di una Francia in grado di promuovere e proiettare sovranità strategica ne esce indebolito. Il reset con l’Italia — vista dai francesi come un competitor da sorpassare in quella regione — uscito dall’ultimo Consiglio europeo diventa un’ammissione di difficoltà davanti un attore che ha valutato con più ponderazione le varie situazioni? La risposta è almeno in parte nell’analisi per Formiche.net di Leonardo Bellodi, il quale suggerisce che Roma può mettere in campo diverse capacità, tra cui l’approccio socio-economico-securitario nel contrasto alle organizzazioni criminali che prosperano laddove lo stato manca come i i gruppi armati nel Sahel — “La strada militare ha mostrato tutta la sua debolezza”, scrive.

2191.- IL GOVERNO CONTE TENTA DI CAVALCARE L’ONDA CONTRARIA AL CFA.

L’Italia prosegue nella sua politica di rafforzamento della sua presenza in Africa.

 

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A Niamey Conte ha in programma un incontro con il presidente nigerino, Mahamadou Issoufou, e il premier Brigi Rafini, mentre a N’Djamena incontrerà il presidente Idriss Deby.

Conte in Niger e Ciad: per dimuire le partenze dei migranti

All’atterraggio a Niamey Giuseppe Conte è stato accolto dai nigeriani con una fantasia.

Visita in Niger e Ciad, oggi e domani, per il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, primo capo di un governo italiano che visita le due ex, ma non tanto ex, colonie francesi, fondamentali, insieme al Mali, per gli equilibri politici e la lotta al terrorismo nel Sahel. Le tappe a Niamey e Ndjamena stanno a significare che la lotta all’immigrazione incontrollata, dopo la chiusura dei porti, inizia a prendere piede dai Paesi africani da cui ha inizio il loro cammino. Il percorso di rafforzamento della partnership con  i paesi dell’area del  Franco Cefa o CFA, avviato dal governo con la missione in Niger, precisamente, per il controllo di quella rotta dei mercanti di uomini, ci porta al confronto con la Francia, che ha ostacolato, a lungo, la nostra missione, al punto che i nostri soldati hanno vissuto all’interno di una base americana.

Siamo a parlare dei paesi a Sud della Libia, dove la Francia attinge l’uranio per le sue centrali nucleari, oro e petrolio e dove 4.500 francesi e, ora, anche 1.000 tedeschi si confrontano con l’Isis nel Mali. Questo nostro approccio, autonomo, è fondamentale e colma un vuoto che l’Unione europea ha difficoltà ad  affrontare tanto nel campo dello sviluppo della cooperazione, quanto nel campo della lotta al terrorismo e all’emigrazione, prima ancora che ai flussi dei migranti e, ciò, principalmente per non voler affrontare il problema morale e finanziario rappresentato dalla Francia colonialista, partecipe di due aree monetarie: l’eurozona e la zona del franco “africano” o CFA, di cui abbiamo parlato ampiamente. Conte, nei mesi scorsi, ha visitato l’Etiopia e l’Eritrea. Oggi, è in Niger, dove due anni fa, nella capitale Niamey, e stata aperta un’ambasciata italiana, retta dall’ambasciatore Marco Principe. Il Niger, dunque, è la base diplomatica italiana nel Sahel.

Giusto, un anno fa, il Parlamento aveva approvato l’operazione Misin in Niger, per l’addestramento delle forze nigeriane: forze armate, gendarmeria nazionale, guardia nazionale e forze speciali della Repubblica del Niger. Obiettivo: «arginare la tratta di esseri umani e il traffico di migranti che attraversano il Paese, per poi dirigersi verso la Libia e in definitiva imbarcarsi verso le nostre coste”. Per otto mesi, gli uomini dell’Esercito, dell’Aeronautica e dei Carabinieri avevano potuto contemplare, dalla Base 101 degli USA, i sassi del deserto, indesiderati dalla Francia, perché l’indipendenza concessa alle sue colonie somiglia a mala pena a una modesta autonomia. Parlare di lotta all’immigrazione e di stabilizzazione della Libia, va contro i progetti di destabilizzazione e di divisione della Libia da parte di Macron. L’ostilità francese si è sviluppata, naturalmente, attraverso lo stesso governo locale che, oggi, ha accolto Giuseppe Conte e, in particolare, attraverso il ministro dell’Interno. Le autorità nigerine contestavano che l’accordo già raggiunto dal governo Gentiloni non prevedeva la presenza dei militari italiani nel suo territorio. Questo, quando in Niger erano  già sbarcati 42 militari italiani. La resa recente di Parigi ha reso possibile l’avvio dell’Operazione. Da settembre, la missione italiana conta 92 uomini, che hanno già provveduto a istruire 260 militari nigerini. Leggo da Facebook che il ministro della Difesa Elisabetta Trenta aveva esultato: «Ce l’abbiamo fatta: dopo 8 mesi di impasse abbiamo sbloccato la missione in Niger per il controllo dei flussi migratori!»

Questo, per quanto attiene alla sicurezza; ma, per affrontare alla radice la povertà  dell’economia, prima causa della migrazione, è stato determinante anche l’avere offerto la nostra collaborazione per lo sviluppo della società nigerina, con programmi di cooperazione a sostegno delle donne, dell’imprenditoria giovanile e dell’agricoltura, che sono stati finanziati già con circa 80 milioni di euro. L’Italia in Africa è il terzo Paese per investimenti effettuati nel continente e viene dopo Cina ed Emirati Arabi Uniti. Proprio tornando col pensiero alla conferenza Italia – Africa dello scorso 25 ottobre, si può vedere in questa missione di Giuseppe Conte la linea di continuità della politica italiana verso l’Africa. Una continuità illuminata per chi, come noi, auspicava e auspica un Occidente strettamente legato all’Africa (se gli africani non se ne vanno).

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“Nel 2016 l’Europol ha creato un Centro europeo per la lotta al traffico di migranti (Emsc) con il compito di sostenere, con scambi di informazioni e coordinamento operativo, gli Stati membri nello smantellamento del network criminale, che agisce a livello locale anche nel Vecchio continente aiutando i migranti a superare clandestinamente i confini europei, e che è affiancato da un altro odioso business parallelo che, entro i nostri confini, lucra sulla gestione dell’accoglienza. Ma l’Emsc è solo uno strumento, la cui efficacia dipenderà dalla costruzione di una lungimirante politica comune.” Queste parole di Luciana Scarcia non potevano ancora affrontare l’orrore del centro di espianti di organi di caste Volturno, di cui si sta occupando l’FBI.

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I programmi di cooperazione e la visita di Conte a Niamey vogliono essere anche un riconoscimento del grande impegno dimostrato dal presidente Mahamadou Issoufou e dal suo governo nella lotta al terrorismo e ai flussi migratori irregolari in direzione della Libia. La riduzione dei flussi negli ultimi due anni è intorno all’80% e questo, non solamente per la politica dei porti chiusi adottata dall’Italia, ma anche grazie all’adozione di una legge in Niger che ha portato allo smantellamento delle rete di trafficanti criminali. Infatti, il Niger è paese sia di transito e sia di partenza dei migranti e applica da due anni una legge severa contro i trafficanti, arrestandoli se sospettati e sequestrandone le vetture. Per converso, per sfuggire a questa legge con percorsi più difficili, spesso notturni, sono aumentati i rischi, i costi e i prezzi dei viaggi. Cito, infine, il contributo dato dagli ingenti aiuti arrivati dall’Unione Europea e dall’Italia, con la fornitura di automezzi ed equipaggiamenti per il controllo dei confini. Anche con i fondi per programmi di sviluppo per la popolazione, alternativi ai business illegali, ma dobbiamo avere presente che il regime coloniale mantenuto dalla Francia si regge su una amministrazione diversamente efficiente.

“Il Niger, dopo il collasso dello Stato libico, è di fatto diventato la frontiera meridionale dell’Europa. E la sua relativa stabilità, rispetto ad altri Paesi della regione, come il Ciad o il Burkina Faso, ne fa un argine contro i flussi migratori, un interlocutore privilegiato fra i paesi del G5 Sahel, in una regione difficile, esposta sempre più al terrorismo e, da sempre, alle bande dei nomadi sahariani.

Domani, nella visita a Ndjamena – dove i rapporti diplomatici sono curati dalla Ambasciata d’Italia di Yaoundé, in Camerun – i temi verteranno ancora sul contrasto ai flussi migratori, sul sostegno allo sviluppo sostenibile ed inclusivo e sulla cooperazione in materia di difesa, su cui già l’allora ministro della Difesa, Roberta Pinotti, e il ministro delegato per la Difesa Nazionale del Ciad, Gen. Bichara Issa Djadallah, hanno firmato, a Roma, un accordo di cooperazione due anni fa. Niger e Ciad sono entrambi fondamentali per il controllo delle frontiere con la Libia e le forze del generale Khalifa Haftar vi combattono i terroristi ciadiani di matrice islamica affiliati ad al Qaeda.

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Vista di Yaoundé

2100.-LA RILEVANZA DEL SUMMIT DI PALERMO. COSA DOVEVA ESSERE E COSA NON È STATO. E, ADESSO, A ROMA.

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Torniamo sull’argomento, discusso, del summit di Palermo, per rimarcare quelle che erano le aspettative dichiarate del Governo Conte e che non si sono realizzate, a mio parere, per la defezione dei grandi dal summit. Contano i perché, Abbiamo visto ritirarsi, infatti, prima, Donald Trump, inizialmente sostenitore dell’iniziativa e, poi, il suo Segretario di Stato Mike Pompeo. Conseguentemente, assenti, prima, Vladimir Putin e, poi, il suo ministro degli Esteri Sergey Lavrov. Forfait anche da Angela Merkel, per quel che avrebbe potuto contare. Assenze che hanno pesato due volte perché, fino agli ultimi giorni, hanno tenuto in bilico e lasciato che si esponesse il nostro Presidente del Consiglio. Naturale conseguenza della defezione è stata l’incertezza sulla partecipazione del generale Haftar, risolta, a tempo quasi scaduto, dall’intervento di Alberto Manenti (Aise) a Mosca, doveva si trovava e, certamente, da Putin. Haftar è il generale con esercito, mentre Al-Serraj non ha un esercito ed è supportato da noi e dall’ONU; ma non basta l’ONU a mettere d’accordo sia i due capi libici sia, ancora di più, le non poche bande armate, che, come sperimentato nel ventennio, capiscono solo il linguaggio della forza e del denaro. Diciamo chiaro che i grandi non ci hanno riconosciuto la patente di interlocutore privilegiato sulla Libia, perché l’hanno distrutta per fare i loro interessi contro i nostri e hanno, probabilmente, fatto i loro affari a Parigi, alla celebrazione della vittoria: la cosiddetta “vittoria mutilata”, per marcare una costante di poco rispetto per ciò che diamo. La debolezza della nostra politica estera non ha potuto superare questi gap e la timidezza della nostra presenza nell’Unione europea ha fatto sì che il direttorio Parigi – Berlino facesse la sua parte a Bruxelles. Quali effetti, ancora, produrranno queste defezioni? Il presidente della Tunisia Beji Caid Essebsi,  i capi di Stato di Ciad e Niger, Idriss Deby Itno e Mahamadou Issoufou, il primo ministro algerino Ahmed Ouyahia, e gli inviati di Qatar e Turchia, che ha sbattuto la porta; ma anche il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, ricorderanno questo sgarbo all’Italia. Altro che nuovo paladino del Mediterraneo! vero Donald?

Quali erano gli obbiettivi?

  1. neutralizzare i piani alternativi, ostili della Francia e puntare sul processo politico, sostenuto dalle Nazioni Unite, per ristabilire la pace, l’ordine istituzionale e civile in Libia;
  2. far sedere insieme, attorno a un tavolo, se non tutti i capi dei dieci partiti politici (offesissimi, riporta il quotidiano “Libya Herald”), delle tribù e delle bande armate, almeno il presidente del governo di Accordo Nazionale, Fayez Al-Serraj, il feldmaresciallo Khalifa Haftar, capo indiscusso della Cirenaica, il presidente del parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, e il capo dell’Alto Consiglio di Stato di Tripoli, Khalid Al Meshri, cioè, i maggiori responsabili del perdurante stallo del processo politico;
  3. un accordo verbale e non un documento finale, come già a Parigi, che condividesse la linea tracciata dall’ONU, qui rappresentato da Salamé;
  4. stabilire la necessità di eleggere un’assemblea del popolo libico per approvare la Costituzione, condividere una legge elettorale e indire le elezioni a primavera.

Cominciamo a tirare le somme. Brutti e sparpagliati, eternamente divisi, contiamo, comunque, abbastanza in Mediterraneo, in Europa, nella NATO e per la Russia di Putin. Si tratta, allora, di saper giocare le nostre carte; e si chiama Politica. Vale nei confronti degli Stati Uniti, con le loro 113 basi e le 138 testate nucleari in Italia, con la base dell’US NAVY e dei drone a Sigonella e con le parabole e il reticolato di antenne a microonde del MUOS in Sicilia e, naturalmente, vale nei confronti della NATO, nella prospettiva di un esercito europeo franco-tedesco. Vale anche nei confronti dell’Unione europea, che questo Governo rinunciò a mettere fuori gioco, ritengo, con giovanile fiducia, salvo condizionamenti e vale, perciò, nei confronti di Parigi e Berlino, che fanno i grandi con il sudore degli italiani. Inutile dire che vale anche per la Russia, radicatasi nel Mediterraneo Orientale e alla quale ci legano importanti prospettive commerciali – spero io – sulla Nuova Via della Seta.

Con queste premesse, le assenze al summit erano, se non sicure, molto probabili e mi sovviene l’immagine di una ragazzina chiamata Italia, che ciabatta con le scarpe della madre. Khalifa Haftar si è comportato da generale, gentile, obbediente all’invito, ma determinato a non confondersi con chi ha meno potere di lui e con chi, come il Qatar, sostiene la Fratellanza Musulmana. Pure decretando l’irrilevanza del summit, sia evitando di partecipare alla seduta plenaria sia lasciandolo anticipatamente, ha colto l’occasione per mettere l’accento sul pericolo rappresentato dal progettato trasferimento in Libia dei reduci dell’ISIS dalla Siria. E, qui, mi sovviene Israele e rivolgerei una domanda a Trump. Ecco che la politica estera abbisogna di ben altri presupposti e, forse, di rappresentanti, oppure, in assenza, di commisurare le sue iniziative alle effettive possibilità.

Siamo un popolo facilmente influenzabile. Ieri, buona parte degli italiani sbavava per quel traffichino di Renzi: “lasciatelo provare”, dicevano, guadagnandosi l’occupazione delle istituzioni da parte di un partito ladrone; oggi, il 30% dei voti è andato a un partito di apprendisti stregoni: “lasciateci provare”. Attraverso le campagne denigratorie, è stato demonizzato Berlusconi, che aveva e ha i numeri per la politica estera. Ah, ma le donnine! Stranamente, nessuna campagna, invece, contro i festini omosessuali a Palazzo Chigi sotto l’egida di Maria Elena Boschi e di quell’altra. Risultato? Allo stato dei fatti, possiamo partecipare onorevolmente ai summit, ma non sembrano esserci le condizioni per indirli.

6609161-1Ma l’Italia non demorde. A fine mese, il 22 e 23 novembre, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, con il ministro Enzo Moavero Milanesi incontreranno a Roma il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov. Il ministro Lavrov interverrà alla conferenza “MED-Rome Mediterranean Dialogues” e parteciperà a una serie di incontri bilaterali ai margini di questo forum”, ha detto il portavoce. Quindi, si parlerà di Libia, e non solo.