Archivi categoria: Piano Mattei

6168.- Perché c’è l’Iran dietro la mossa anti-Usa del Niger

L’Occidente tutto deve sostenere l’Italia nel Piano Mattei. In Niger abbiamo di fronte non solo la Russia ma anche l’Iran. Quanto conta la patria per la giunta golpista di Niamey? Biden ha capito la posta in gioco e tenta di tenere la Base 201. La parola è ai dollari.

Da Formiche.net, di Emanuele Rossi, 19/03/2024

Il Niger nel mirino dell’Iran. Un accordo sull’uranio che guardi a Teheran è dietro alla rottura dei rapporti tra Washington e Niamey, e questo significa che oltre che dalla Russia (e dalla Cina) l’Africa sta iniziando a essere penetrata con consistenza da un altro attore ostile all’Occidente.

Il Wall Street Journal ha questa notizia: la decisione del Niger di porre fine alla sua alleanza antiterrorismo con Washington è arrivata dopo che alti funzionari statunitensi hanno accusato la giunta golpista del Paese di esplorare segretamente un accordo per consentire all’Iran l’accesso alle sue riserve di uranio. Mentre per ora il Pentagono non ha emesso alcun ordine di ritiro alle truppe, poiché l’amministrazione Biden spererebbe di negoziare ulteriori accordi con i leader della giunta, l’inclusione dell’Iran nella vicenda è un elemento nuovo che aumenta le complessità. Perché in effetti si temeva che alla rottura dell’intesa con gli Usa potesse seguire un accordo con la Russia, ma che Teheran potesse in qualche modo far parte di questo quadro è ancora più problematico dal punto di vista tattico e strategico.

A quanto pare, i colloqui tra le due parti sarebbero progrediti fino a una fase avanzata, con un accordo preliminare già firmato, dicono le fonti al WSJ, anche se non finalizzato. Sarebbe allora stata Molly Phee, assistente segretario di Stato per gli affari africani e a capo della delegazione che ha viaggiato a Niamey nei giorni scorsi, a sollevare preoccupazioni per il presunto patto con Teheran, sottolineando la necessità per il Niger di tornare alla governance democratica ed esprimendo contemporaneamente preoccupazioni per il rafforzamento dei legami con la Russia. In risposta, Phee avrebbe ricevuto un respingimento delle accuse e poi l’innesco della miccia che ha portato alla dichiarazione sulla fine della cooperazione — che con ogni probabilità era stata già pensata da tempo, con la giunta che attendeva solo il momento opportuno o l’occasione per comunicarlo.

Il Niger, il settimo produttore di uranio al mondo, esporta la maggior parte del suo uranio in Francia. Il golpe dello scorso luglio ha complicato anche questo commercio. L’ingresso di Teheran potrebbe essere utile per Niamey, dunque, mentre la questione riapre l’enorme faldone del nucleare iraniano, messo in secondo piano da una serie di avvenimenti internazionali più stringenti, ma comunque ancora tra i grandi dossier di livello internazionale — che gli americani hanno comunque continuato a gestire, come raccontano le informazioni sui recenti contatti indiretti avuti nel tentativo di fermare gli Houthi e là destabilizzazione del Mar Rosso.

Come le giunte militari nei vicini Mali e Burkina Faso, il Niger ha già iniziato il rafforzamento dei legami militari con la Russia. Funzionari della difesa russa di alto livello, tra cui Yunus-bek Yevkurov, vice ministro della Difesa e supervisore dell’Africa Corps (la struttura paramilitare collegata all’intelligence che sta prendendo il posto del Wagner Group), hanno visitato il Paese e incontrato il leader della giunta. Il primo ministro della giunta al potere, Ali Mahamane Lamine Zeine, ha inoltre visitato l’Iran a gennaio durante una tour internazionale che prima lo aveva portato in Russia e poi anche in Serbia. Zeine guidava una delegazione composta da mezzo governo (ministri della Difesa, del Petrolio e del gas, dell’Agricoltura, del Commercio, della Gioventù e dello Sport).

Parlando con il presidente Ebrahim Raisi, l’uomo scelto dai militari nigerini per guidare il governo aveva ottenuto il via libera per la costruzione delle relazioni (obiettivo del viaggio), anche attraverso accordi bilaterali che l’iraniano diceva avrebbero aiutato la giunta a schivare gli effetti delle sanzioni; attività su cui Teheran ha un’expertise storica, sfuggendo da anni a parte di quelle connesse all’iniziativa sul nucleare (che per altro, per alimentarsi ha bisogno anche dell’uranio appunto). La Repubblica islamica vende le proprie esperienze a certi Paesi come vettore per costruire relazioni. L’Iran è stato soggetto a pesanti sanzioni occidentali per anni, mentre la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, nota come Ecowas, ha imposto sanzioni al Niger in seguito al colpo di stato. Yunus-bek Yevkurov

L’interesse è reciproco, perché con l’apertura di rapporti anche commerciali con Paesi non raggiungibili dalle sanzioni occidentali, riesce a sua volta a schivarle quelle contro di sé. Le informazioni sul coinvolgimento iraniano sono preoccupanti perché dimostrano sia l’intenzione della Repubblica islamica di allungare le mire fino all’Africa, si la capacità della coppia alleata e ostile all’Occidente – Russia, Iran – di agire in qualche modo a sistema (sebbene non è chiaro quanto ci siano pianificazioni condivise oppure sovrapposizioni anche competitive). Lo scenario di penetrazione di attori velenosi anti-americani e in generale anti-occidentali si sta espandendo. Dopo la diffusione in tutto il Medio Oriente del network di milizie regionali collegate ai Pasdaran, noto come Asse della Resistenza, ora l’Africa è tra i nuovi target iraniani. Un elemento da non sottovalutare per i progetti di cooperazione come il Piano Mattei.

6167.- Cosa significa la fine della cooperazione Usa-Niger scelta dai golpisti di Niamey

Via anche gli USA dal Niger e la Russia sta avanzando nel Sahel e avanzerà ancora. Anni di indiscussa supremazia e la mancanza di una gamba europea della Nato hanno indebolito gli Stati Uniti. La decisione di Washington di non accogliere la Federazione Russa nella Nato sta avendo un costo per l’Europa. Finirà che il Piano Mattei, con la sua cooperazione e la solidarietà attiva sarà l’ultima spiaggia per i Paesi del Sahel e per gli europei.

Da Formiche.net, di Emanuele Rossi, 18 marzo 2024

Decollo dalla Air Base 201, cinque chilometri fuori della città di Agadez.

La decisione di Niamey arriva appena dopo un incontro della giunta golpista con una delegazione statunitense. Gli Usa (e l’Ue) perdono uno dei centri delle attività counter-terrorism in Africa centro-settentrionale, col rischio che la sicurezza del Niger venga presa in mano dalla Russia (come già succede altrove nel Sahel)

“Il governo del Niger, tenendo conto delle aspirazioni e degli interessi del suo popolo, decide con piena responsabilità di rinunciare con effetto immediato all’accordo relativo allo status del personale militare degli Stati Uniti e dei dipendenti civili del dipartimento della Difesa americano nel territorio della Repubblica del Niger”, ha detto il colonnello che fa da portavoce della giunta militare del Niger, in una dichiarazione alla televisione nazionale che annuncia un cambiamento profondo e indice dei tempi.

La giunta golpista che a fine luglio scorso ha preso il controllo di Niamey ha deciso di concludere un accordo con gli Stati Uniti – in piedi sin dal 2012 – il quale ha permesso al personale militare e civile del Dipartimento della Difesa di operare da una base militare (si chiama Air Base 201) posizionata cinque chilometri fuori la città di Agadez, nell’area centro-occidentale del Paese. Operazioni che si muovono tra il territorio del Sahel, infestato dai terroristi di varie sigle internazionali (affiliati allo Stato islamico o ad Al Qaeda e collusi con traffici di ogni tipo, compreso quelli di esseri umani provenienti dall’area o da aree più meridionali dell’Africa che poi prendono la rotta mediterranea) fino alla Somalia, dove l’attività del gruppo combattente jihadista Al Shaabab non rallenta, o in Nigeria e più a nord verso il Nordafrica.

Nel wording della dichiarazione, scelto di certo non casualmente, quello che conta è il passaggio in cui si indica che la decisione dei golpisti guidati da Abdourahamane Tchiani è conseguenza delle “aspirazioni e degli interessi del suo popolo”. Lo stesso che già nei giorni convulsi dell’estate scorsa, in cui era stato estromesso dal potere il presidente Mohamed Bazoum, aveva accettato senza eccessive manifestazioni di scontento il regime change interno. Bazoum e il suo Paese erano considerati negli Stati Uniti e in Unione Europea come dei riferimenti di democraticità in Africa, e le collaborazioni con le forze armate nigerine erano al centro delle attività del counter-terrorism occidentale nel continente. 

Tra l’altro, anche l’Italia è presente con un contingente attivo nel Paese, secondo una missione autorizzata – Misin, Missione Italia di Supporto in Niger – per formazione e assistenza medico-sanitaria. In precedenza c’era una presenza fissa anche francese, come altrove nel Sahel, dove Parigi si era fatta promotrice di interventi di carattere securitario per combattere la dilatazione terroristica. Interventi che non hanno funzionato al punto che la Francia ha dovuto abbandonare quasi tutte le postazioni nella regione. Resta in Niger una base logistica tedesca.

Quanto succede a Niamey ricalca uno schema già visto altrove nel Sahel, dove nel corso degli anni sono venuti giù una serie di governi a opera di golpe militari che hanno un comune denominatore: ufficiali che si ergono a baluardi della sicurezza delle collettività, mentre i governi regolari non riescono a combattere l’insorgenza terroristica. La generale percezione di insicurezza è condivisa dalle cittadinanze, che accusano non solo gli esecutivi locali, ma anche le loro cooperazioni con l’Occidente – spesso semplificate nella presenza sul campo dilimitate unità europee (per esempio, la missione italiana è composta da un contingente medio annuale di 500 militari, 100 mezzi terrestri e 6 aerei) e americane.

Sotto la narrazione alterata che racconta questa presenza militare occidentale come forma di colonialismo, i governi in carica sono stati descritti come corrotti e collusi, per questo avrebbero ceduto aliquote di sovranità, e inefficaci nel garantire sicurezza e prosperità ai propri cittadini. La rincorsa dei golpisti è stata agevolata da questo substrato – basato in parte su una realtà: il terrorismo dilaga, la sicurezza erosa – e spinta da forme di disinformazione agevolate anche da campagne russe. Mosca ha guadagnato dalla situazione infatti, sostituendosi in molti casi – attraverso l’ex Wagner, ora Africa Corps – ai contingenti occidentali. È successo in Mali e sta succedendo in Burkina Faso (e altrove nel continente). Sostituzione che non solo ha portato i russi a gestire la sicurezza della giunte, ma ha creato forme di penetrazione economico-industriale a vantaggio del sistemi di oligarchi connessi ai contractor e al Cremlino (che nega questi link). Qualcosa del genere potrebbe succedere in Niger?

A gennaio, in un’intervista a Jeune Afrique a margine del suo tour in Africa, il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, aveva annunciato che Washington sarebbe stata pronta a rimuovere le sanzioni con cui aveva punito Niamey (e limitato le attività di cooperazione anche militare) se il Paese fosse tornato “entro due anni” lungo il solco democratico. Il capo della diplomazia dell’amministrazione Biden si augurava che l’Ecowas avesse aiutato le giunte golpiste in quel percorso. Cinque giorni dopo la pubblicazione dell’intervista, le giunte golpiste di Mali, Burkina Faso e Niger hanno annunciato di essersi raggruppate in una nuova entità di cooperazione, per altro sfilandosi dal meccanismo della Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, nota con l’acronimo inglese Ecowas.

Una scelta simbolica, che sembra aprire a forme di collaborazione alternative, considerando che in due di quei due Paesi la Russia è presente. Quest’estate, Ecowas aveva minacciato con fermezza l’intervento armato contro la giunta in Niger, salvo poi rinviare tutto per l’inconsistenza dell’offerta militare e lo scontento suscitato tra i cittadini dei Paesi membri per un’azione di guerra – mentre Mali e Burkina avevano annunciato l’intenzione di difendere i colleghi golpisti di Niamey.

Due settimane fa, dopo aver tracciato movimenti di armi russe attraverso la logistica libica, su Formiche.net avevamo segnalato un rafforzamento della “nuova Wagner” – gli Expeditionary Corps sotto il controllo dell’intelligence militare Gru, noti nel continente come “Africa Corps” – verso il sud saheliano. Ora emerge la volontà nigerina, per altro resa pubblica pochi giorni dopo che Tchiani aveva tenuto colloqui di alto livello con funzionari diplomatici e militari statunitensi (nel tentativo di salvare il salvabile). Secondo la dichiarazione di chiusura dell’intesa tra i due Paesi, l’accordo era stato imposto al Niger ed era stato in violazione delle “regole costituzionali e democratiche” della sovranità della nazione dell’Africa occidentale. 

Nelle stesse dichiarazioni, viene sottolineato che la delegazione americana – guidata dall’assistente del segretario di Stato per gli Affari africani, Molly Phee, e dal capo di AfriCom, il generale Michael Langley – è stata ricevuta “per cortesia”, anche se aveva “violato i protocolli diplomatici non annunciando tempi della visita e composizione della missione”. Da mesi, il Pentagono sta valutando come il cambiamento di potere in Niger avrebbe avuto un impatto sugli effettivi statunitensi di stanza nel Paese. Lo stesso stanno facendo altre nazioni occidentali. In una lettera inviata al Congresso nel dicembre 2023, il presidente Joe Biden ha osservato che circa 648 militari statunitensi sarebbero rimasti schierati in Niger. La permanenza nel Paese viene in generale considerata importante, sia per ragioni operative sia perché potrebbe essere rimpiazzata da forze ostili – come quelle russe o anche iraniane.

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6151.- Il Piano Mattei si chiamerà Mustafà Kemal Ataturk.

Mentre a Bruxelles e a Parigi qualche cerebroleso blatera di guerra, mentre gli italiani si stracciano le vesti per i poveracci di Gaza e la politica estera italiana si spende per l’Ucraina, per metà già acquistata dalle multinazionali USA, l’unico vero statista occidentale, Recep Tayyip Erdoğan, sta creando in Africa e nei Balcani un’area di influenza che gli consentirà di farci marciare dietro alla sua fanfara.

La Turchia allunga i suoi tentacoli sul Corno d’Africa

Da Pagine esteri, di Marco Santopadre, 23 Feb 2024

La Turchia allunga i suoi tentacoli sul Corno d’Africa

Pagine Esteri, 23 febbraio 2024 – Non sono soltanto gli Stati Uniti ad aver in parte approfittato dello scompiglio e dall’allarme suscitati nel Corno d’Africa dallarichiesta etiope di uno sbocco al mare, perso all’inizio degli anni ’90 con l’indipendenza dell’Eritrea.

Anche la Turchia, uno dei paesi più influenti nel continente africano, sta rafforzando la sua presenza militare nel Corno d’Africa offrendosi come alleato militare e garante dei confini e dello status della Somalia e di Gibuti.

L’accordo tra Etiopia e Somaliland genera allarme 
I due paesi hanno reagito con estrema preoccupazione all’intesa siglata a gennaio tra il governo di Addis Abeba e quello del Somaliland, uno stato somalo che da decenni è di fatto indipendente da Mogadiscio, che consente lo sfruttamento di un porto e di una base militare sulle coste del Golfo di Aden.

In base all’accordo, all’Etiopia verranno concessi 20 km di costa del Somaliland per almeno 50 anni e la costruzione di una base militare, in cambio della concessione ad Hargheisa di una quota della compagnia di bandiera etiope Ethiopian Airlines e del riconoscimento, da parte di Addis Abeba, dell’indipendenza del Somaliland.

Con Gibuti e Somalia, negli ultimi giorni, Ankara ha siglato due importanti accordi di cooperazione militare, schierandosi esplicitamente contro le rivendicazioni etiopi e ottenendo così un ruolo di maggiore spicco nel controllo del Mar Rosso.

Anche l’Egitto si è immediatamente schierato al fianco della Somalia, considerando nullo l’accordo tra Somaliland ed Etiopia (paese con cui il Cairo ha un contenzioso sullo sfruttamento delle acque del Nilo) e respingendo ogni «ingerenza negli affari interni della Somalia» e qualsiasi tentativo «di minare la sua integrità territoriale».

Truppe somale addestrate in Turchia

La Turchia sfrutta la debolezza della Somalia
Nei giorni scorsi, quasi all’unanimità, il parlamento federale della Somalia ha ratificato un accordo di difesa e sicurezza sottoscritto dal governo di Mogadiscio con la Turchia l’8 febbraio. Formalmente il documento mira a «rafforzare le relazioni bilaterali e la stabilità della regione, nonché a combattere il terrorismo e la pesca illegale». «La Somalia avrà ora un vero alleato, un amico e un fratello sulla scena internazionale» ha commentato con toni trionfalistici il primo ministro somalo Hamza Abdi Barre.

In base all’accordo, che avrà una durata di dieci anni, la Turchia fornirà addestramento e attrezzature alla Marina somala – al momento quasi inesistente – per consentire a Mogadiscio di proteggere le sue risorse marine e le acque territoriali da minacce come il terrorismo, la pirateria e le “interferenze straniere”. In cambio la Turchia riceverà il 30% delle entrate provenienti dalla Zona economica esclusiva somala, nota per le sue abbondanti risorse marine, e Ankara avrà un’autorità completa sulla gestione e sulla difesa delle acque della Somalia.

Già nel 2016 Somalia e Turchia avevano firmato un memorandum d’intesa sulla cooperazione energetica e mineraria poco dopo l’autorizzazione concessa da Mogadiscio alle compagnie turche ad effettuare operazioni di perforazione ed esplorazione petrolifera al largo delle sue coste. Nel 2017, poi, la Turchia ha aperto un’importante struttura militare di addestramento a Mogadiscio, Camp Turksom, dove ogni anno 200 consiglieri militari turchi addestrano ogni anno centinaia di soldati somali impegnati nel contrasto alle milizie jihadiste.

Il nuovo accordo consentirà ora alla Turchia, la cui la marina già pattuglia da quattordici anni il Golfo di Aden, di schierare le proprie navi da guerra in uno dei quadranti geopolitici più importanti del pianeta.

Gibuti non vuol perdere il monopolio del commercio etiope
E ora, dopo la Somalia, anche il piccolo ma strategico stato di Gibuti ha deciso di serrare i ranghi della cooperazione militare con la Turchia. Nel corso di una cerimonia che si è svolta lunedì ad Ankara, il ministro della Difesa turco, Yasar Guler, e l’omologo gibutino Hassan Omar Mohamed hanno firmato tre accordi relativi all’addestramento militare e alla cooperazione finanziaria. All’incontro ha partecipato anche il comandante delle forze terrestri turche, generale Selcuk Bayraktaroglu.

Nel giugno del 2022, il governo di Erdogan ha già consegnato a Gibuti droni armati Bayraktar TB2. Con una popolazione di meno di un milione di abitanti, il piccolo Paese del Corno d’Africa è un partner strategico per Ankara nel Corno d’Africa, grazie alla sua posizione lungo il Golfo di Aden e il Mar Rosso, vitali per il commercio e la sicurezza globali.

Finora dai porti di Gibuti passa l’85% dell’import/export dell’Etiopia, ma se Addis Abeba ottenesse effettivamente uno sbocco sul mare le merci provenienti o dirette in Etiopia passerebbero dal porto di Barbera, in Somaliland, causando un forte danno economico al piccolo stato. Pagine Esteri

6140.- La sicurezza condiziona il Piano Mattei

meloni migranti

Migranti, Meloni ai ministri: “Serve un modello Caivano per l’Africa: tutti dobbiamo andare”

Da Il Secolo d’Italia del 5 Feb 2024 19:05 – di Sveva Ferri

Un “modello Caivano” per dare seguito agli intenti del Piano Mattei e chiudere spazio ai trafficanti nelle nuove rotte che hanno identificato, dopo gli interventi positivi che hanno frenato gli arrivi di migranti dalla Tunisia: è quello che il premier Giorgia Meloni ha presentato al governo, nel corso della sua informativa in Consiglio dei ministri sul tema dell’immigrazione.

La centralità del Piano Mattei e “il diritto a non emigrare”

“Prima con la Conferenza Internazionale su Sviluppo e Migrazioni, poi con la conferenza Italia-Africa si è avviato il percorso del Piano Mattei. Il tratto che nessuno deve dimenticare è che non abbiamo in mente un modello di cooperazione predatorio con le Nazioni africane bensì collaborativo, e rivendichiamo tra i tanti diritti da tutelare anche il diritto a non emigrare”, ha ribadito Meloni ai ministri.

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La cooperazione condivisa con i Paesi africani anche per colpire i trafficanti

“Dobbiamo insistere con le Nazioni della regione del Mediterraneo allargato e dell’Africa Sub-Sahariana, per un metodo di lavoro condiviso -ha aggiunto Meloni – che faccia contrastare insieme gli sbarchi di migranti sulle nostre coste, cooperando per colpire la rete dei trafficanti e aiutando le economie più fragili per rimuovere le cause che spingono a migrare”. “Crediamo in questo metodo e ci sentiamo confortati da piccoli segnali di speranza. Pensiamo – ha spiegato il presidente del Consiglio – al consistente calo degli sbarchi negli ultimi 4 mesi: comparando le settimane di inizio anno rispetto all’analogo periodo del 2023 siamo al – 41%”.

Sugli sbarchi di migranti “segnali di speranza”, ma nessuna facile illusione

I risultati conseguiti, però, ha di fatto avvertito Meloni, non devono far dimenticare la difficoltà della sfida. “È tuttavia una rincorsa continua”, ha avvertito il premier, ricordando che “contenere gli arrivi lungo una rotta porta all’attivazione o riattivazione di un’altra direttrice”. Così, “se 5 mesi fa la nostra prima preoccupazione erano gli arrivi dalla Tunisia, oggi lo è divenuta la costa della Tripolitania, che sta facendo registrare un incremento di partenze”. Meloni ha ricordato che “fra le nuove fonti di pressione vi sono anche gli arrivi dal Sudan, a seguito del conflitto iniziato nell’aprile 2023: i profughi sudanesi non si fermano più in Egitto, ma giungono in Libia, e da lì vengono da noi; e la decisione della giunta golpista in Niger di decriminalizzare in traffico di migranti, con conseguente aumento dei movimenti migratori da quell’area”.

Il “modello Caivano” per l’Africa, a partire da Libia e Tunisia: tutti i ministri devono andare

Dunque, “dobbiamo tenere alta l’attenzione. E per questo – ha chiarito il premier – ho bisogno di tutto il governo, poiché quello che immagino operativamente, e mediaticamente, è un “modello Caivano” da proporre per il nord del Continente africano, in modo particolare per la Tunisia e la Libia, ben consapevoli delle differenze sussistenti tra Tripolitania e Cirenaica”. “Dobbiamo sforzarci di far sentire ad entrambe le Nazioni la nostra vicinanza e il nostro reale spirito di solidarietà. Pensiamo innanzitutto a impostare tavoli ministeriali che rafforzino la collaborazione”, è stata dunque l’indicazione. “Andiamo tutti in Libia e Tunisia, sviluppiamo progetti, controlliamone l’esecuzione, coordinando, come per Caivano, le presenze, in modo – ha concluso il premier – che siano cadenzate e diano il senso della continuità”.

6139.- Il caos in Senegal inguaia ancora Ecowas

Il Nuovo Piano Mattei è la base fondante dell’interconnessione regionale tra MedAtlantic e IndoMed e conferirà autorevolezza alla politica italiana impegnata a valorizzare il capitale umano dell’Africa. A partire dal Magreb, ma in particolare nel Sahel, i problemi di istruzione e la povertà sono importanti quanto quelli dell’economia e la situazione nel Senegal è considerata solo leggermente migliore. Le giunte militari golpiste di Mali, Niger e Burkina Faso e i disordini che scuotono il Senegal non sono gestibili da Ecowas e rappresentano l’esca che agevola la penetrazione neocolonialista russa e cinese. Ecco un motivo per procedere alla rifondazione dell’Unione europea, a farne un soggetto politico sovrano, potente, capace di impegnare le sue risorse in politiche di solidarietà attiva. Lo stimolo dell’economia potrà sostenere la crescita sociale e culturale di questi Paesi e non quella economica di Russia e Cina. Per condurre queste politiche, serve radicarci nella società africana, ma prima di tutto coesione e comunanza di obiettivi nella nostra politica, vista come alfiere di civiltà e non come strumento di potere. Questa è senz’altro una missione degna del Capo dello Stato.

Da di Emanuele Rossi | 18/02/2024 – 

Il caos in Senegal inguaia ancora Ecowas

Mentre il Consiglio costituzionale senegalese ha annullato lo spostamento delle elezioni voluto dal presidente Sall, continua una fase opaca per il Paese, che mette in ulteriore difficoltà Ecowas, organizzazione cardine della regione dell’Africa settentrionale in profonda crisi di autorevolezza

I leader della Economic Community of West African States (nota con l’acronimo Ecowas) si dovevano riunire giovedì per parlare della decisione senza precedenti di lasciare l’organizzazione presa a fine gennaio dalle giunte golpiste di Mali, Niger e Burkina Faso. Invece si sono ritrovati a parlare di una situazione complessa (che però ha avuto diversi precedenti nella storia di Ecowas): il Senegal sta piombando nel caos, perché il suo presidente, Macky Sall, ha deciso di posporre al 15 dicembre le elezioni – che erano programmate per domenica 25 febbraio. Dakar è piombata nel caos, proteste di piazza sotto slogan tipo “Sall è un dittatore”, scontro con le forze di sicurezza che hanno usato le maniere forti e procurato alcune vittime — “scontri provocati dall’arresto ingiustificato del processo elettorale”, che fanno “sanguinare il cuore di ogni democratico”, per dirla come il sindaco della capitale senegalese.

Bola Tinubu, presidente nigeriano che guida Ecowas, doveva recarsi personalmente a palare con Sall, ma le condizioni di sicurezza l’hanno portato a evitare il viaggio, dato che qualsiasi cosa di negativo gli fosse successo avrebbe avuto una eco complessa. L’organizzazione soffre una fase di criticità profonda: per dire, ha invitato il Senegal a “ripristinare urgentemente il calendario elettorale”, ma il blocco è consapevole che la sua influenza è praticamente inesistente. A maggior ragione in un momento in cui tre nazioni guidate da governi militari stanno già sfidando le sue richieste. Ora l’opaca situazione in Senegal la mette ancora più in difficoltà, dato che Dakar è considerata un bastione democratico — senza un golpe o un tentativo di alterazione del processo istituzionale dalla nascita della democrazia, nel 1960.

Nelle ore in cui questa analisi viene scritta, il Consiglio costituzionale senegalese ha annullato il rinvio delle elezioni presidenziali di questo mese, “una decisione storica che apre un campo di incertezza per la nazione tradizionalmente stabile dell’Africa occidentale”, spiega Fabio Carminati su Avvenire. Resta che la posposizione è stata votata da un parlamento assediato dalle forze di sicurezza lealiste, che hanno anche arrestato parlamentari di opposizione. Attenzione: il Consiglio di fatto ha dichiarato “impossibile organizzare le elezioni presidenziali nella data inizialmente prevista”, ma ha invitato “le autorità competenti a tenerle il prima possibile” – ossia non accetta il 15 dicembre, ma è “impossibile” votare il domenica 25 febbraio.

Cosa farà il presidente? Sall cercava un terzo mandato, e senza la possibilità di guidare il Paese ha cercato di spianare la strada a una sua successione a suon di repressione (i suoi oppositori sono stati in più occasioni arrestati nei mesi scorsi con accuse di insurrezione o pretestuose). Secondo i critici, arrivato a ridosso del voto ha percepito che il suo candidato (il primo ministro in carica) non avrebbe avuto una vittoria sicura, e allora ha spostato le elezioni per prendere tempo e aver dieci mesi in più di governo e campagna elettorale — forse addirittura sostituire il candidato.

Le critiche scoppiate per lo slittamento del voto sono frutto di un risentimento già esistente: Salò ha prodotto politiche che molti giovani senegalesi non hanno visto come efficaci nel fornire loro posti di lavoro, e molti hanno cercato rotte di migrazione irregolare verso l’Europa. Il Senegal ha problemi di istruzione, povertà e capitale umano, ed è considerato solo leggermente meglio dei Paesi guidati da giunte militari nel Sahel (e lì le condizioni sono pessime e prive di sbocchi). Sall nega ogni accusa, rivendica una scelta costituzionalmente corretta. Ma la sua mossa non ha solo messo nel caos il Paese, piuttosto ha ulteriormente danneggiato l’immagine dell’organizzazione che si dovrebbe occupare della stabilità in quella articolata regione — i cui effetti si allargano facilmente verso l’Europa in termini di sicurezza (dal terrorismo alle migrazioni, fino ad arrivare agli equilibri con attori rivali e competitivi come la Russia). 

Per dire, quando la scorsa estate il Niger è stato oggetto di un colpo di Stato, Ecowas aveva minacciato un intervento militare che Nigeria e Senegal avrebbero dovuto guidare. Nel frattempo, dopo che Ecowas ha fallito nell’attività di deterrenza e Niamey è rimasta in mano ai golpisti, Niger e Burkina Faso hanno comunicato non solo di abbandonare la Comunità, ma anche la West African Economic and Monetary Union (basata sul franco francese) e stanno pensando a una confederazione alternativa con il Mali.

6135.- Dal Piano Mattei alla Bielorussia, cosa succede in Africa

In Africa, le democrazie partono svantaggiate rispetto alle tempistiche delle autocrazie, salvo che non facciano un uso appropriato, preventivo, offensivo dell’intelligence.

Da Formiche.net, di Francesco De Palo | 23/02/2024 – 

Dal Piano Mattei alla Bielorussia, cosa succede in Africa

Etiopia e Ghana sono solo due dei Paesi che il governo italiano ha messo al centro della propria azione con il Piano Mattei. Ma nelle stesse settimane in cui si celebrava a Roma il vertice Italia-Africa, si è rafforzata la presenza bielorussa in loco

Piano Mattei e Africa: sono due i fatti che si possono unire idealmente sotto le insegne della geopolitica (e della marcatura che Mosca vuole fare all’Italia?). Il primo tocca l’Etiopia e in generale i progetti che si stanno moltiplicando tra Italia e Africa e il secondo verte l’attivismo del Presidente bielorusso.

Qui Etiopia

L’Italia ha restituito all’Etiopia il primo aeroplano costruito nel Paese africano, un gesto che rafforza i legami tra le due nazioni e chiude un capitolo doloroso iniziato quasi un secolo fa. Il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha espresso grande orgoglio per il ritorno di “Tsehay”. Alla cerimonia di consegna, ad Addis Abeba, hanno preso parte il Presidente Sahle-Work Zewde, il primo ministro e il sindaco Adanech Abiebie, nell’ambito della cerimonia di inaugurazione del Memoriale della Vittoria di Adwa. La cessione segue la cerimonia, avvenuta lo scorso 30 gennaio, presso il Musam, quando era stato ufficialmente consegnato il velivolo meticolosamente restaurato, alla presenza del primo ministro Abiy Ahmed Ali e del ministro della Difesa Guido Crosetto.

Su richiesta del primo ministro etiope al presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il velivolo è stato completamente ristrutturato prima della riconsegna e si inserisce all’interno di una relazione italo-etiope già solida dopo i vari incontri bilaterali tra i due leader. In Etiopia, tra l’altro, è presente l’istituto Galilei che quest’anno festeggia i 70 anni, al centro di accordo bilaterale siglato nel dicembre scorso nella capitale etiope dal ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara e personalmente visitato da Giorgia Meloni lo scorso aprile in occasione della sua visita ufficiale. 

Progetto Ghana

Colmare il deficit di manodopera nell’industria friulana: per questa ragione il presidente di Confindustria Alto Adriatico, Michelangelo Agrusti, ha incontrato il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, al quale ha illustrato il “Progetto Ghana”, con l’obiettivo di formare giovani ghanesi, già inseriti nelle scuole tecniche e professionali in quel Paese, con uesti profili richiesti: saldatori, mulettisti, carpentieri, elettricisti ed altro. Il ministero ha già dato la propria disponibilità a sostenere questa iniziativa nell’ambito di quel progetto arioso che prende il nome di Piano Mattei.

Qui Bielorussia

A fare da contraltare all’attivismo italiano, ecco il movimentismo bielorusso: il presidente Aleksandr Lukashenko ha dichiarato che, nonostante molti Paesi africani abbiano ottenuto l’indipendenza politica, devono ancora liberarsi dalla dipendenza economica. Ovvero ha annunciato l’inizio, anzi, la prosecuzione di una più ampia strategia per fer entrare in contatto Minsk con quei Paesi a cui si rivolge anche l’Italia con il Piano Mattei. Èun po’ come se, incrociandola con altre partite geopolitiche primarie, Mosca (per il tramite della Bielorussia) volesse marcare stretta l’Italia sull’Africa. 

Tra l’altro tre settimane fa è stato in Kenya per una visita ufficiale, dopo il precedente incontro avuto con il suo omologo kenyano, William Ruto, che si è tenuto a Dubai il 1° dicembre scorso, in occasione del Summit sul Clima Mondiale. Il viaggio in Kenya è stato per Lukashenko l’occasione di annunciare una più intensa partnership tra i due Paesi, sulla scia di quello che la Bielorussia già fa con Zimbabwe e Guinea Equatoriale. “Il potenziale della nostra cooperazione è enorme” disse nel gennaio 2023 incontrando ad Harare il leader dello Zimbawe Emmerson Mnangawa, dopo aver consegnato delle macchine agricole bielorusse.

Un mese prima aveva firmato una serie di accordi di cooperazione con il presidente della Guinea Equatoriale Teodoro Obiang Nguema Mbasogo nella capitale Malabo come parte di un tour africano per rafforzare i legami nel continente. I progetti nei settori dell’industria, dell’istruzione, della sanità e dell’agricoltura dovrebbero essere completati entro i prossimi due anni.

Strategia binaria

L’obiettivo di Minsk è quello di rafforzare i legami diplomatici ed economici tra i Paesi africani e la Bielorussia, sotto la spinta di Mosca, soprattutto riguardo alcuni settori mirati come l’agricoltura e la produzione alimentare, ambiti in cui il Kenya è più sensibile.

A dimostrazione dell’ulteriore presenza russa in loco ecco i numeri che provengono alla voce grano: l’Algeria è il secondo consumatore di grano in Africa dopo l’Egitto e lo acquista per la maggior parte dalla Russia, che si pone come il principale fornitore di grano davanti ai Paesi dell’Unione Europea. Numeri che hanno permesso al settore russo di esportare circa 400.000 tonnellate di grano in più rispetto all’Ue, che fino a prima della guerra era la prima fonte di approvvigionamento del Paese nordafricano.

6134.- Guardiamo al difficile cammino di ItaliAfrica, il nuovo Piano Mattei. La sicurezza.

Se di una cosa siamo certi è che il Nuovo Piano Mattei dovrà essere costruito, insieme, dagli imprenditori e dagli istituti finanziari dell’Europa e dell’Africa. Come viaggiare oggi nel Sahel diventa, perciò, importante. Ci affidiamo alla Helpline DFAE, Dipartimento federale degli affari esteri, uno dei sette Dipartimenti federali del governo svizzero. Partiamo con i piedi per terra dal Mali perché è il paese più grande dell’Africa occidentale ma è anche uno dei cinque paesi più poveri al mondo. Poi, vedremo Niger e Chad. Il Mali è sia il maggior produttore di cotone al mondo sia quello con il tasso di alfabetizzazione più basso: 32%.

Anche se il Mali non rientra nella classifica della Farnesina per i paesi con un rischio “estremo” per la sicurezza, i consigli di viaggio sono importanti e poggiano su un’analisi della situazione attuale effettuata dal DFAE. La Helpline DFAE funge da interlocutore per rispondere alle domande riguardanti i servizi consolari. Sono permanentemente controllati e se necessario aggiornati sia i Consigli sia anche le Raccomandazioni generali. Importanti inoltre i ragguagli sulle prescrizioni doganali per l’importazione o l’esportazione di animali o di merci: apparecchi elettronici, souvenir, medicamenti, ecc.

Valutazione sommaria

Si sconsigliano i viaggi a destinazione del Mali come pure i soggiorni di qualsiasi tipo. I rischi per la sicurezza portati non solo dal terrorismo sono elevati e il rischio di sequestro è molto alto in tutto il territorio.

Ci sono persone di cittadinanza svizzera che rimangono o si recano nel Mali nonostante la raccomandazione del DFAE, devono essere consapevoli che la Svizzera ha soltanto possibilità molto limitate di fornire assistenza o non ne dispone affatto in caso di emergenza.

In agosto 2020, unità dell’esercito hanno destituito il governo maliano e sciolto il parlamento. Alla fine di maggio 2021, un altro colpo di Stato ha avuto luogo e un governo di transizione è stato installato.

In tutto il Paese esistono elevati rischi per la sicurezza. Gli attacchi terroristici si verificano regolarmente e il rischio di sequestro è molto elevato. La Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite (MINUSMA) ha terminato il suo mandato il 31 dicembre e ha ritirato precipitosamente il suo personale dal Mali, abbandonando molto materiale.
Un ulteriore inasprimento della situazione di sicurezza è probabile.

La situazione politica rimane instabile e si verificano regolarmente scioperi e manifestazioni contro gli interessi stranieri. I principali collegamenti stradali possono essere bloccati e veicoli possono essere colpiti da pietre. In questi scontri si registrano regolarmente morti e feriti. 

Conflitti tra diversi gruppi della popolazione provocano regolarmente vittime.

Gruppi islamisti e altri gruppi armati controllano ampie zone del nord, del nord-est e del centro del Paese e si espandono verso sud. In tutto il Paese si verificano scontri armati tra le forze di sicurezza e questi gruppi, e si sferrano attacchi alle strutture militari e di polizia. Il numero di dispositivi esplosivi improvvisati lungo i principali assi stradali è aumentato.

Atti di violenza da parte di gruppi terroristici e criminali causano molti morti e feriti tra i civili. Tra i possibili obiettivi di un attacco terroristico vi sono impianti governativi, turistici o istituzioni straniere, assembramenti, come ad esempio mercati affollati, centri commerciali, mezzi di trasporto pubblici, scuole, manifestazioni culturali, alberghi internazionali e ristoranti rinomati. Vengono attaccati anche interi villaggi.

Il rischio di sequestro è molto alto in tutto il Paese. In molte regioni del Sahara e del Sahel sono operative bande armate e terroristi islamici che vivono di contrabbando e di sequestri. Sono perfettamente organizzati, operano anche al di là dei confini nazionali e hanno contatti con gruppi criminali locali. Dal novembre 2009, diverse persone straniere sono state sequestrate nelle zone del Sahel, in parte nelle città. Si trattava di persone in viaggio per turismo, personale di organizzazioni internazionali, organizzazioni umanitarie, aziende straniere, nonché di persone appartenenti a istituzioni religiose. Le situazioni di pericolo sono spesso imprevedibili e confuse e possono mutare rapidamente. L’ultimo attacco jihadista in Mali risale alla metà di giugno 2022, ma furono 132 le vittime uccise a Mopti, nel Centro del Paese.

SEGUE: L’Intelligence e l’immigrazione

6201.- PIANO MATTEI, AFRICA E INDO PACIFICO

Il Piano Mattei è per l’Occidente soltanto il primo scalino da salire, ma si deve essere forti e uniti, gli italiani per primi. Quanto ci penalizza la guerra alla Federazione Russa?

Da Formiche.net, a cura di Emanuele Rossi, 31 gennaio 2024

I Paesi dell’Indo-Pacifico hanno seguito attentamente gli sviluppi della Conferenza Italia-Africa, che Roma ha ospitato domenica 28 gennaio e lunedì 29. Il cosiddetto “Piano Mattei”, quale programma guida per una serie di progetti italiani nel continente africano, suscita notevole interesse nella regione in quanto l’Africa rappresenta un crocevia politico, diplomatico, economico e culturale-demografico a cui le nazioni indo-pacifiche guardano da tempo.

Narrazione, interesse, attenzione In questo ultimo anno, mi sono trovato in molte occasioni in cui ho potuto constatare direttamente – attraverso conversazioni, eventi, studi – come l’interesse indo-pacifico per l’Africa si abbini anche all’iniziativa italiana. Aspetto già positivo: la narrazione messa in piedi da Roma ha funzionato quanto meno nell’attrarre extra-attenzioni internazionali. Ora la sfida è di implementare questo storytelling con progetti concreti, anche se è plausibile pensare che i risultati arrivino rapidamente. Ma questa è una percezione più chiara al di fuori dell’Italia, dove si è portati a ragionamenti di carattere strategico (dunque a lungo termine). Lo è per esempio nell’Indo Pacifico.

L’importanza dei partner Sarà importante per l’Italia comprendere quali potrebbero essere eventuali partner per strutturare cooperazioni negli ambienti terzi africani. Territori dove tutte le potenze hanno rivolto la loro attenzione. L’Africa, ha sottolineato su France24 Antoine Glaser, esperto del continente dell’Institu Montaigne, “ha il mondo intero nella sua sala d’attesa”.

Qui Pechino Ho cercato le razioni cinesi al Piano Mattei, ma non ci sono (per ora) cose di livello. La Cina è interessante perché ha attualmente un ruolo importante, essendo il primo partner commerciale dell’Africa, anche grazie agli investimenti economici e politici. Pechino muove anche una sua narrazione, che vuole rappresentare il proprio modello di cooperazione come il più efficace e funzionale, mentre critica le attività occidentali (macchiate da post-colonialismo, dice). Bisogna fare i conti con questo substrato culturale e (dis)informativo che si sta creando, spinto anche dalla Russia, dall’Iran e da altri Paesi competitor.

Like-minded… Ma ci sono anche altri attori dell’Indo Pacifico, come India, Giappone, Corea del Sud, Australia, Taiwan, Indonesia e Vietnam, che mostrano un crescente interesse per l’Africa, sviluppando progetti e strategie specifiche. Molti di questi sono indicati sovente come “like-minded”, ossia vedono il mondo con le stesse lenti dell’Italia e dell’Occidente. Sono democrazie, sono aperti al libero mercato, sono meno interessati a rivoluzionare l’ordine mondiale di quanto non sia la Cina. Inciso a proposito di questo dal saggio pubblicato su Foreign Affairs dal direttore della CIA William Burns: “La Cina rimane l’unico rivale degli Stati Uniti [che ha] sia l’intento di rimodellare l’ordine internazionale sia il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per farlo”. Chiuso l’inciso.

…significa buoni partner? Una considerazione che mi ha fatto un parlamentare italiano che segue con estrema attenzione la politica internazionale: “Siamo sicuri che effettivamente quei Paesi like-minded poi intendano la proiezione africana come la intendiamo noi? Siamo sicuri che le direttrici di una cooperazione con loro seguano esattamente i nostri interessi? Che tipo di compromessi siamo disposti ad accettare?”.

Aspettiamo e vedremo Sebbene molti di quei Paesi indicati siano sinceramente interessati a comprendere la strategia italiana in Africa – aspettandosi anche input sui principi, cardini e sviluppi futuri del Piano Mattei (magari anche inviti) – attualmente ottenere informazioni dettagliate da loro su cosa ne pensino è complesso (quanto comprensibile). La sfida principale del Piano Mattei, come mi spiegava Arturo Varvelli (Ecfr), è trasformarlo in un paradigma trainante per i progetti europei, inquadrandolo in qualche modo al contesto più ampio del Global Gateway e renderlo ancora più appetibile agli occhi esterni. La forza finanziaria e politico-diplomatica europea supera notevolmente quella di un singolo Paese come l’Italia, ma l’idea strategica italiana può contribuire in qualche modo a direzionarla, ed è per questo che il progetto diventa attraente – e chiaramente sfidante.

E dunque? Ho pensato che, visto la sovrapposizione di interessi, potesse diventare utile fare un recap rapido (certamente non esaustivo, sicuramente basico e poco analitico) di quali sono obiettivi, attività e visioni di alcuni dei grandi attori dell’Indo Pacifico in Africa. E di farlo tramite studi di valore.

DIARIO DALL’INDO MEDITERRANEO
 . Tra gli appunti, parlando di Africa, ci finisce l’intervista fatta da Giulia Pompili del Foglio al primo ministro dell’eSwaitini, a Roma anche lui per la Conferenza. Russell Dlamini è il premier dell’unico stato africano che riconosce Taiwan: “La nostra politica è non avere nemici”, dice.

. A proposito di interviste, anche quella di Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, al presidente della Somalia, ospite di un evento organizzato nella sede di Fondazione Med-Or è interessantissima in ottica indo-mediterranea. “Nel gioco del Mar Rosso serve un accordo tra Cina e Occidente per garantire la stabilità”, propone Hassan Sheikh Mohammud.

. Rispondendo alle notizie uscite su un “enorme deposito” di armi cinesi nei tunnel di Hamas, il portavoce del ministero della Difesa di Pechino ha detto: “La Cina ha sempre adottato un atteggiamento prudente e responsabile nelle esportazioni di armi”. La notizia è qui, ma vi ricordate di quando l’analista militare Zhang Bin, spiegava come la tecnologia dei missili balistici antinave (ASBM) cinesi abbia raggiunto lo Yemen attraverso l’Iran? Ne avevamo parlato in IPS201223.

. Seul e Riad insieme per un jet di Sesta generazione? Girano voci che alti funzionari dell’Agenzia per lo sviluppo della difesa (Add) e del ministero della Difesa sudcoreani abbiano visitato l’Arabia Saudita per incontri teoricamente top secret di qualche giorno fa. Non è chiaro per ora quanto queste voci siano credibili e concrete, vero che la sfera militare fa parte delle relazioni tra i due Paesi, vero altrettanto che gira disinformazioni; inoltre è possibile che sauditi e sudcoreani parlino di armi ma non di quel genere di armi. Riad e Seul sono comunque interessati a un caccia di ultima generazione (entrambi hanno buttato gli occhi sul Gcap, sebbene con letture diverse).
 

A proposito di Africa, la cui costa orientale è considerata parte dell’Indo Mediterraneo (per lo meno nelle visioni indiane, sposate anche in parte dalla lettura geostrategica delle dinamiche in corso), val la pena fare un passo indietro sulla visita – a metà gennaio – del capo della diplomazia cinese, Wang Yi, in quattro Paesi del continente. Nella foto è in Tunisia, ma è stato anche in Egitto, Togo e Burkina Faso (che fa parte della triade golpista anti-occidentale che ha annunciato di voler uscire dall’associazione Ecowas in questi giorni).

E val la pena ricordare che dal 1991 a oggi, il primo viaggio all’estero del ministro degli Esteri cinese è sempre dedicato, ogni anno, all’Africa. Nel 2024 ci sarà anche il Forum sulla Cooperazione Cina-Africa (quello precedente c’era stato nel 2021 a Dakar, in Senegal, e aveva adottato piani per 2022-2024). Wang sta organizzando l’evento e le partecipazioni. Ne ho parlato sul canale Telegram “Indo Pacific Diary”, che curo più o meno quotidianamente da un paio di anni. Qui invece c’è la lettura del viaggio da parte della stampa egiziana e tunisina.
COSA ALTRO LEGGERE
 
Dicevamo che per rendere tutto più funzionale, questa settimana ho pensato di mettere qualche link ad analisi e studi su ruolo e visioni dei big indo-pacifici in Africa. Questa sezione di approfondimento diventa dunque “Cosa altro leggere”. 

CINA
China in Africa, Council on Foreign Relations; China in Sub-Saharan Africa: Reaching far beyond natural resources,Atlantic Council; An allied strategy for China, Atlantic Council; China-Africa relations, Chatham House: The response to debt distress in Africa and the role of China, Chatham House; Grandi ambizioni, risultati limitati: l’ordine globale secondo la Cina, Ecfr; Il risveglio degli Europei dal sogno della Cina, Ecfr; Valori occidentali, economia cinese? La frammentazione globale, Ecfr.

GIAPPONE
Japan in Africa, strategia pubblica del governo di Tokyo; What Japan and Africa can add to Tokyo International Conference on African Development, East Asia Forum; Japan to boost ties with Africa, with eyes on ChinaJapan TimesJapan’s valuable footprint in Africa, Gis; The Japan-Africa dialogue, Atlantic Council.

INDIA
Africa-India Cooperation Sets Benchmark for Partnership. Africa Center For Strategic Studies; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Atlantic Council; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Brookings Institution; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Orf; India eyes Africa in its quest for superpower status, Institute For Security Studies; India is driving change by working together with AfricaAsia Nikkei.

COREA DEL SUD
South Korea’s Engagement with Africa, Springer (libro); Seoul trains its sights on African relations, African Business; Korea and Africa rally additional finance and technology […], African Development Bank Group; The African Continental Free Trade Area: Opportunities and Challenges, Brookings Institution; South Korea’s Role in Africa’s Development: A New Approach, Orf.

AUSTRALIA
Strengthening Australia’s relationships in Africa through education, Aspi; A strategy for Australia’s engagement with Africa, analisi del gruppo di lavoro del dipartimento Affari Esteri e Commercio Estero del governo australiano; Rethinking Australia’s Approach to Africa, Australian Institute For International Affairs; Australia to achieve membership of an African development, DevPolicy Blog; Australia, New Zealand and the African Union, South Africa Institute For International Affairs.

INDONESIA, VIETNAM, TAIWAN
Indonesia Seeks to Deepen Africa RelationsVoice Of AmericaIndonesia’s Jokowi deepens Global South ties in Africa tour, Asia Nikkei; What Can Africa Learn From the Progress Made by Vietnam?, Tony Blair Institute; Vietnam treasures traditional ties with African countriesVientam PlusTaiwan and Africa: a comprehensive overview of diplomatic recognition and derecognition of the RoC, Ceias; Taiwan’s Africa outreach irks China, Orf.

6200.- L’addio all’Ecowas di tre giunte filorusse in Africa interessa anche l’Italia. Ecco perché

Mentre le mani si tendono a sugellare i patti per il futuro fra Italia e Africa le politiche di Washington e di Londra sembra che alimentino le divisioni e, infatti, come non notare le assenze a Roma del Mali, del Niger, del Burkina Faso, del Sudan e della Mauritania e, addirittura, della semibritannica Nigeria, che, solo ieri, faceva proseliti contro la rivolta filo russa nel Niger e non avrà certo cambiato idea. Sappiamo quanto credito abbia concesso Giorgia Meloni a Rishi Sunak e alla sua associazione e dovremo capire quanto la Gran Bretagna sarà a fianco dell’Italia in questo progetto mondiale. Dovremo capire se gli Stati Uniti useranno l’Italia e l’Europa verso l’Africa e contro Russia e Cina per rinsaldare la loro leadership occidentale, ma c’è ancora un Occidente e, in Occidente, c’é ancora un leader mondiale per tutti ? E, poi, di quali Stati Uniti stiamo parlando? É mai possibile avere per leader uno Stato a rischio di secessione? E, infine, saremmo insieme a un leader o sotto un padrone. Il South Stream 2 risponderebbe per noi. Ma se dovessimo dare una collocazione alla Federazione Russa, fra Europa e Asia diremmo: Europa! L’Italia e l’Europa troveranno sempre la Russia sul loro cammino: un fratello tradito o un competitor?

Da Formiche.net, di Emanuele Rossi | 30/01/2024 – 

L’addio all’Ecowas di tre giunte filorusse in Africa interessa anche l’Italia. Ecco perché

Mali, Niger e Burkina Faso annunciano l’uscita dall’Ecowas accusando l’organizzazione di essere al servizio dell’Occidente. È anche contro le narrazioni di queste giunte golpiste e populiste aiutate dalla Russia che si muovono progetti di cooperazione come quello Italia-Africa. L‘auto esclusione potrebbe peggiorare le condizioni economiche di quei Paesi: “Ciò comprometterebbe uno dei principali pilastri del Piano Mattei, ovvero la riduzione della migrazione”, spiega Willeme (Clingendael Institute)

L’annuncio di ieri da parte dei tre Paesi dell’appena costituita Alliance des Etats du Sahel — Mali, Niger, Burkina Faso, tre giunte golpiste in parte legittimate dalla popolazione anche come effetto delle attività ibride russe — “non è sorprendente, data la tensione in corso con il blocco regionale Ecowas/Cedeao”, spiega una fonte diplomatica europea che segue la regione del Sahel. “Tuttavia solleva diverse incertezze per l’intera regione e non solo, e forse non è un caso che arrivi contemporaneamente allo svolgimento della Conferenza Italia-Africa” — che con la presentazione del cosiddetto “Piano Mattei” intende lanciare una nuova visione strategica per la cooperazione con l’Africa.

Non si sa ancora come e quando quel “ritiro immediato”, ma ancora non formalizzato stando all’Ecowas (acronimo inglese di Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale), si tradurrà concretamente in uscita formale — che richiederebbe comunque un anno per entrare in vigore. Fatto sta che Bamako, Ouagadougou e Niamey spingono una narrazione perfettamente in linea con quella diffusa sin da subito dalle rispettive giunte golpiste, che negli ultimi tre anni hanno conquistato il potere nei vari Paesi sull’onda di una stagione particolarmente travagliata, sfruttata anche per attività di influenza strategica da attori nemici dell’Occidente.

Come la Russia, che cerca dossier e ambiti in cui capitalizzare successi nella competizione globale. Mosca ha da sempre sfruttato la situazione, soffiando le insoddisfazioni popolari a proprio vantaggio, penetrando — prima con la Wagner adesso con il neonato Africa Corps — le forze di sicurezza dei golpisti attraverso forme di assistenza che si sono trasformate in campagne ibride. Le unità russe fanno addestramento per militari e polizia locale, ma nel frattempo diffondono narrazione anti-occidentale e si incuneano nel tessuto economico (e sociale).

L’annuncio dei tre Paesi segue una staffetta diplomatica con rappresentanti di Russia, Cina e poi Stati Uniti che hanno viaggiato in Africa e mentre le massime autorità europee erano ospiti a Roma per parlare di nuove relazioni col continente in un “vertice” tra capi di Stato e di governo (espressione che ha valore non solo simbolico-diplomatico per la conferenza). Sullo sfondo si delineano — come già successo con i vari golpe regionali — i contorni della competizione tra potenze. Mentre la ricerca di un’autarchia politica, sicuritaria ed eventualmente economica caratterizza sia l’ambito golpista maliano che nigerino e burkinabé (i golpe ci sono stati nel 2020 in Mali, nel 2022 in Burkina Faso e nel 2023 in Niger).

Anche su questo si basa parte del successo narrativo dei golpisti, che incolpano l’Occidente, gli sfruttamenti coloniali passati e l’inefficacia nel fornire assistenza nel presente, della pessima situazione economica e del divampare dell’insorgenza jihadista sui propri territori. Una retorica emersa anche, in modo più moderato e controllato, in alcuni interventi degli invitati alla conferenza organizzata ieri al Senato — per esempio nelle parole del presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki.

Emergono interrogativi sempre più complessi per l’Ecowas, che, nonostante ultimatum, minacce di interventi militari e sanzioni, non ha ottenuto risultati concreti nelle negoziazioni con le giunte militari. Le quali invece accusano l’organizzazione di agire sotto l’influenza di potenze straniere (occidentali, chiaramente, e il contestassimo uso delle sanzioni ne sarebbe un marker). Sfruttando quel terreno narrativo fertile, pensano però in primo luogo ai propri interessi di mantenimento del potere.

Ecowas, dall’altra parte, si impegna a trovare una “soluzione negoziata all’impasse politica”, sottolinea le complessità burocratiche dell’uscita (che sono sintomo anche della complesse connessioni che l’organizzazione ha creato sin dalla fondazione nel 1975), ma si trova davanti a una sfida senza precedenti — e che potrebbe crearne uno pericoloso.

Diversi cittadini sono scesi in strada in quei tre Paesi per festeggiare l’Ecowas, visto anche altrove come un club esclusivo che preserva gli interessi delle leadership a discapito delle collettività. L’Alleanza degli Stati del Sahel, che le giunte hanno creato a novembre, sta cercando spazi nel contesto regionale per legittimare i governi militari che la compongono e per iniziare deve essere indipendente dall’Ecowas: è una scelta populista che potrebbe portare frutti.

Tuttavia ritirarsi dal blocco in questo modo “è senza precedenti”, spiega un osservatore regionale e visto come “un importante cambiamento”, perché “tutto il lavoro che è stato messo nella costruzione di un meccanismo di sicurezza collettiva si basa sui protocolli che postulano che la democrazia, il buon governo e lo stato di diritto saranno la base per quella sicurezza e per la pace”.

È un problema in più per l’Europa — che nel Sahel ha i suoi confini virtuali — e per l’Italia, che dell’Europa è avamposto esposto a quella regione? “L’Ue è uno dei principali partner e finanziatori dell’Ecowas e l’uscita di Mali, Burkina Faso e Niger ridurrà probabilmente lo spazio di manovra dell’Europa in questi tre Paesi”, risponde Laurens Willeme, esperto di Sahel del Clingendael Institute.

“Tutti e tre i Paesi hanno già abbandonato alcuni accordi bilaterali con l’Ue e con i singoli Stati membri, ma sono rimasti legati agli accordi stipulati dall’Ecowas. Con l’uscita dei tre, questi accordi non saranno più applicabili. Questo potrebbe lasciare spazio ad altri attori internazionali, come Russia, Cina e Turchia, che hanno già aumentato la loro presenza negli ultimi anni”.

Per stare su un tema complesso caro al governo italiano, c’è la possibilità di un aumento della migrazione verso l’Europa? “Certamente, soprattutto se la situazione economica dei tre Paesi si deteriora ulteriormente, cosa non improbabile, considerando che l’Ecowas facilita la libera circolazione di merci e persone. La mancanza di accesso ai porti marittimi diventerà inoltre una sfida economica considerevole per i tre Stati senza sbocco sul mare. Ciò comprometterebbe uno dei principali pilastri del Piano Mattei, ovvero la riduzione della migrazione”.

6199.- Italia-Africa, Meloni: “Siamo qui per scrivere una nuova pagina di storia”. Ecco i pilastri del Piano Mattei

Grazie presidente.

Da Il Secolo d’Italia, 29 Gen 2024, di Viola Longo. vedi 6174.

italia africa meloni

In un’aula del Senato gremita dai rappresentanti delle delegazioni che partecipano al vertice e circondata dalle bandiere degli Stati africani e delle organizzazioni internazionali presenti, il premier Giorgia Meloni ha aperto i lavori di “Itali-Africa. Un ponte per la crescita comune”, imprimendo da subito quell’indirizzo fortemente operativo che il summit vuole avere e illustrando, se pur rapidamente, le azioni che l’Italia ha già messo sul tavolo in ciascuno dei cinque pilastri su cui si fonda il Piano Mattei, il progetto di cui il governo si è fatto promotore per imprimere una svolta ai rapporti di cooperazione con il Continente. Le “direttrici strategiche” sono istruzione e formazione; salute, agricoltura; acqua; energia. Le stesse al centro delle sessioni di lavoro della giornata alla quale partecipano, per la prima volta, i vertici delle nazioni interessate. Perché se è vero che conferenze Italia-Africa ce ne sono già state, è anche vero che questa è la prima volta che i protagonisti non sono i soli ministri degli Esteri, ma i capi di Stato e di governo. Un segno della “centralità e della rilevanza che l’Italia attribuisce al rapporto con gli Stati africani”, ha sottolineato il premier, chiarendo come anche la scelta del Senato come sede del vertice ne sia conferma.

Meloni: “L’Africa ha un posto d’onore nell’agenda di governo”

Circondata dai vertici delle istituzioni europee e dell’Unione africana, Meloni ha voluto sottolineare anche che quello di oggi è “il primo appuntamento della presidenza italiana del G7” ed è frutto “di una politica estera precisa, che porta a riservare all’Africa un posto di onore nell’agenda del governo”. “Vogliamo dimostrare che siamo consapevoli che il destino di Europa e Africa sia interconnesso”, ha aggiunto ancora il premier, rivendicando come l’Italia sia stata anche tra le “primissime nazioni” a sostenere l’ingresso stabile dell’Unione africana nel G20, che si è realizzato quest’anno.

  •  Metsola: Enrico Mattei comprese che le nazioni lavorano meglio insieme, non l’una contro l’altra.

Un nuovo modo di concepire la cooperazione con il Continente

La cornice è quella illustrata più e più volte dal premier da quando è arrivata a Palazzo Chigi: con l’Africa va costruito un rapporto da “pari a pari”, senza più quegli approcci “predatorio” o “caritatevole” che troppo spesso hanno caratterizzato le relazioni con il Continente e che “mal si conciliano con la straordinarie potenzialità” dell’Africa. Per questo per il titolo del vertice parla di “ponte per la crescita comune”, ha chiarito ancora Meloni, ricordando che l’Italia è naturalmente un ponte tra Africa ed Europa e che il nostro Paese ha il vantaggio di poter costruire queste nuove relazioni partendo “non da zero”, ma dalla “lungimiranza di Enrico Mattei”, che quel ponte seppe immaginarlo vedendo la possibilità di “coniugare l’esigenza italiana di rendere sostenibile la sua crescita” con quella delle “nazioni partner” di vivere “una stagione di libertà, sviluppo, progresso”.

Basta con la narrazione dell’Africa come “continente povero”

“A monte bisogna smontare le narrazioni distorte che descrivono l’Africa come un continente povero”, ha ammonito Meloni, ricordando che l’Africa ha il 30% delle risorse minerarie, il 70% delle terre coltivabili, il 60% della popolazione sotto i 25 anni. “Italia, Europa e vorrei dire il mondo intero – ha sottolineato il premier – non possono ragionare di futuro senza tenere nella giusta considerazione l’Africa”. “Noi – ha proseguito – vogliamo fare la nostra parte, avviando un ambizioso programma di interventi capace di aiutare il Continente a crescere e prosperare, partendo dalle sue immense risorse”. “Questa è l’ossatura del Piano Mattei”, ha sottolineato il presidente del Consiglio, parlando degli interventi che si concentreranno su quelle cinque direttrici strategiche, evitando la dispersione in micro-interventi.

Il Piano Mattei e i progetti già messi in campo dell’Italia

Il Piano Mattei, ha chiarito ancora il premier, in ossequio alle sue premesse, non sarà dunque una “scatola chiusa da imporre e calare dall’alto”, come è accaduto in passato. “Anche il metodo deve essere nuovo, di condivisione e collaborazione con le nazioni africane, sia nell’identificazione sia nell’attuazione” dei progetti. E, dunque, eccolo a Roma il primo passo di questo nuovo percorso di confronto e crescita comune al quale l’Italia arriva potendo già presentare alcuni progetti avviati con diversi partner africani in ciascuno dei “5 pilastri”. Fra questi la realizzazione di un centro di eccellenza per la formazione nel campo delle energie rinnovabili in Marocco; la creazione di un progetto per migliorare l’accessibilità ai servizi sanitari primari in Costa d’Avorio, con particolare attenzione ai più fragili, a partire da donne e bambini; i numerosi progetti avviati nel campo cruciale dell’agricoltura, come il centro agroalimentare in Mozambico o il sostegno alla produzione di grano, mais, soia e girasole in Egitto, e che si avvalgono anche di tecnologie innovative, come il monitoraggio satellitare delle colture in Algeria, il potenziamento della stazione di depurazione delle acque non convenzionali per l’irrigazione in Tunisia. E, ancora, per quanto riguarda l’acqua, la costruzione di pozzi e reti di distribuzione con energie rinnovabili in Congo, o i progetti di collaborazione energetica con il Kenya, ricordando sempre che “l’Italia ha le carte in regola per essere l’hub naturale di approvvigionamento energetico per l’Europa”.

Un nuovo strumento finanziario con Cassa depositi e prestiti per agevolare gli investimenti privati

“Abbiamo individuato alcune nazioni africane del quadrante subsahariano e nordafricano”, che sarà poi allargato “seguendo una logica incrementale”, ha spiegato ancora Meloni, sottolineando la concretezza di questi progetti “capaci di generare un impatto per lo sviluppo” e che “intendo seguire personalmente”. Progetti nei quali, ha chiarito ancora Meloni, sarà necessario coinvolgere tutto il sistema Italia, col suo bagaglio di competenze. Il Piano Mattei, ha chiarito Meloni, parte con una dotazione finanziaria di 5,5 miliardi di euro, “ma questo non basta”, per questo l’Italia ha voluto coinvolgere le istituzioni finanziarie internazionali e sottolinea l’importanza del coinvolgimento di altri Stati donatori. Inoltre, ha annunciato il premier, entro un anno sarà creato “un nuovo strumento finanziario con Cassa depositi e prestiti per agevolare gli investimenti privati”.

L’importanza del Piano Mattei anche per garantire il “diritto a non dover emigrare”

Meloni, quindi ha ricordato che il Piano Mattei è anche uno strumento per “garantire il diritto a non dover essere costretti a emigrare”. “L’immigrazione illegale di massa non sarà mai fermata, i trafficanti di vite umane non saranno mai sconfitti se non si affrontano a monte le cause che spingono una persona ad abbandonare la propria casa. È esattamente quello che intendiamo fare: da una parte dichiarando guerra agli scafisti del terzo millennio e dall’altra lavorando per offrire ai popoli africani un’alternativa fatta di opportunità, lavoro, formazione e percorsi di migrazione legale”, ha sottolineato il premier, spiegando che “l’Africa che vediamo noi può e deve stupire”. “Si dice che dall’Africa sorge sempre qualcosa di nuovo, il mio augurio – ha concluso Meloni – è che da questo vertice sorga qualcosa di nuovo, per scrivere una nuova pagina nella storia”.