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6145.- Eutanasia. Così in Belgio si è passati dal diritto al dovere di morire

Come negare che siamo troppi e troppo stupidi? Come negare che la crisi dello Stato della Chiesa ha condotto i valori del Cristianesimo, i principi che sostengono la giustizia e l’etica della nostra società, alla fine?

Nel 2023 si sono verificati 3.423 casi, un aumento del 14.000% rispetto al 2002. Più dei numeri, però, spaventa la riforma della legge in Parlamento, che cancella il principio del rispetto dell’autodeterminazione del paziente

Da Tempi, di Leone Grotti, 4 marzo 2024

Un medico prepara un'eutanasia in Olanda
I casi di eutanasia in Belgio sono aumentati dal 2002 del 14.000% (Ansa)

Dopo oltre 20 anni di eutanasia legale in Belgio, farsi uccidere con l’iniezione letale e la benedizione dello Stato è diventato così normale che anche i due principi cardine sui quali si fonda la legge, autonomia e compassione, stanno per essere abbattuti nell’indifferenza generale. Gli ultimi dati della Commissione federale di valutazione e controllo dell’eutanasia (Fcce), al pari delle più recenti iniziative legislative in Parlamento, confermano il trend inquietante e aumentano il rischio che da diritto la “buona morte” si trasformi in dovere.

Decessi aumentati del 14.000% in 20 anni

I numeri dell’eutanasia in Belgio sono eclatanti: dai 24 decessi del 2002 si è passati ai 3.423 del 2023, più di nove al giorno, un aumento del 15% rispetto al 2022 e di oltre il 14.000% rispetto a 20 anni fa. Dall’analisi dei dati, contenuti nell’ultimo rapporto della Fcce, si evince che lo scenario in realtà è ancora più preoccupante.

Se un decesso con l’eutanasia su tre riguarda persone con meno di 70 anni, continuano a cambiare le patologie per cui la morte viene richiesta. Se dieci anni fa la patologia alla base del 70% dei casi era un cancro, perlopiù allo stadio terminale, nel 2023 la percentuale è scesa al 55,5.

Continuano a crescere, invece, le polipatologie, cioè un insieme di malattie che va dai problemi cardiaci all’artrite, dall’abbassamento della vista a quello dell’udito. Problematiche cioè non letali e legate alla vecchiaia. L’anno scorso le polipatologie hanno motivato il 23,2% delle richieste di eutanasia, e in quasi la metà dei casi (47%) la morte non era prevista nel breve periodo. Dieci anni fa costituivano appena il 9%.

Da case di cura a case di morte

La traiettoria è chiarissima: in Belgio l’eutanasia non serve più – o se si preferisce, serve sempre di meno – a porre fine a sofferenze insopportabili provocate da malattie letali, bensì a sbarazzarsi prematuramente delle persone anziane e disabili, a prescindere dalle prospettive di vita.

È indicativo, da questo punto di vista, che siano in continuo aumento le iniezioni letali praticate all’interno delle case di riposo (16,4% nel 2022, 17,4% nel 2023), che rischiano di trasformarsi in vere e proprie case della morte.

Se nel 2022, infine, sono stati uccisi 68 malati psichiatrici o affetti da diversi tipi di demenza o disturbi cognitivi, nel 2023 i casi sono aumentati a 89, una crescita del 30%.

Addio al caposaldo della compassione

Se uccidendo anche persone sane o affette da patologie minori si manda in soffitta il criterio della compassione, uno dei due capisaldi di qualunque legge sull’eutanasia, anche il principio dell’autonomia è clamorosamente in pericolo in Belgio.

Dopo i casi di Tine Nys Godelieva de Troyer, infatti, il 20 ottobre 2022 la Corte costituzionale del Belgio ha dichiarato la legge sull’eutanasia incostituzionale nella misura in cui non prevede un sistema di sanzioni graduale per i medici che la violano. Per questo il Parlamento ha iniziato a modificare la legge, ma il testo approvato in prima lettura dalla commissione Giustizia il 14 febbraio fa già discutere.

Nuove pene per chi viola la legge sull’eutanasia

Gli emendamenti proposti dalla maggioranza disegnano un sistema diviso in tre sezioni che prevede pene diverse a seconda delle condizioni della legge che vengono violate. Se un medico non rispetta le condizioni “di base” rischia dai 10 ai 15 anni di carcere; se non rispetta le condizioni “procedurali”, può essere punito con un periodo di reclusione dagli otto mesi ai tre anni e con un’ammenda dai 26 ai 1.000 euro; se non rispetta infine le condizioni “formali” non è prevista alcuna pena, neanche un rimprovero.

Se può apparire strano che un Parlamento non preveda sanzioni penale per la violazione di una legge che disciplina la morte delle persone, la situazione diventa addirittura inquietante quando si va ad analizzare quali siano le condizioni “formali” dell’eutanasia.

Il numero di casi di eutanasia dichiarati in Belgio dal 2002 al 2023
Il numero di casi di eutanasia dichiarati in Belgio dal 2002 al 2023

Le condizioni “procedurali” e “di base”

Le condizioni “di base”, ritenute le più importanti, che il medico deve verificare sono quelle che riguardano lo stato del paziente: deve essere in grado di intendere e di volere, essere cosciente nel momento in cui presenta la domanda ed essere affetto da una patologia incurabile che provoca sofferenze fisiche o psichiche insopportabili.

La condizioni “procedurali” riguardano il consulto di un secondo medico, indipendente dal primo e competente, o di un terzo se la morte del paziente non è prevista a breve termine; il consulto di un familiare e di un medico indipendente nel caso in cui l’eutanasia sia praticata sulla base di una dichiarazione anticipata di trattamento; il consulto di uno psichiatra infantile o di uno psicologo, insieme al rappresentante legale del minore, nel caso in cui l’eutanasia sia praticata su un bambino.

L’autodeterminazione non conta più niente

Le condizioni “formali”, la cui violazione non comporta alcuna sanzione penale, sono in realtà tutt’altro che secondarie. Si parla infatti della verifica da parte del medico che la domanda di eutanasia sia presentata dal paziente «in maniera volontaria» dopo attenta riflessione, sulla base di una volontà espressa in modo reiterato nel tempo e «che non sia il risultato di alcuna pressione esterna».

Sarà trascurabile anche «informare il paziente sul suo stato di salute e sulle sue speranze di vita», così come informarlo «delle possibilità terapeutiche ancora disponibili» e della possibilità di accedere alle «cure palliative». Non sarà più necessario nemmeno «assicurarsi della persistenza della sofferenza fisica o psichica» e parlare ripetutamente con il paziente «a distanza di tempo ragionevole». Neanche «parlare con i cari che il paziente indica» sarà più importante.

I medici potranno inoltre sorvolare sull’obbligo di far passare «almeno un mese tra la richiesta di eutanasia» e l’iniezione letale; non dovranno più preoccuparsi, in caso di dichiarazione anticipata di trattamento, «di discuterne con la persona di fiducia indicata dal paziente». Infine, i dottori che praticano una eutanasia non riceveranno alcuna sanzione penale se non invieranno tutta la documentazione alla Commissione federale di controllo e valutazione «entro quattro giorni».

Niente cure palliative, c’è l’eutanasia

In sintesi, non è più importante assicurarsi che la richiesta di eutanasia nasca davvero dalla volontà del paziente e non sia invece frutto di pressioni esterne o della depressione del momento. Non è più importante offrire al malato le costose cure palliative o spiegargli se e come potrebbe continuare a vivere.

Se gli emendamenti venissero approvati in via definitiva – e lo saranno probabilmente visto che la maggioranza in Belgio è d’accordo – cadrebbe il più importante pilastro della legge sull’eutanasia: quello dell’autonomia e dell’autodeterminazione.

Dal diritto al dovere di morire

Dopo 20 anni di eutanasia legale, a quanto pare, al Belgio non interessa più sapere né se una persona vuole davvero morire né perché desidera la morte. La cosa che conta davvero per Bruxelles, verrebbe da pensare, è che il richiedente sia ucciso il prima possibile, alla luce del sole o in segreto. Un medico, infatti, potrebbe anche attendere anni prima di segnalare l’eutanasia alla commissione incaricata di valutarla: non riceverebbe alcuna sanzione penale.

Impunità, omertà, assenza di verifiche e garanzie, disprezzo della volontà del paziente e totale abbandono terapeutico: così l’eutanasia in Belgio passa in sordina da diritto a dovere di morire.

@LeoneGrotti

6071.- SENTENZA RIVOLUZIONARIA!: Non vaccinarsi con i vaccini COVID è legittima difesa.

Ergo, è legittimo resistere a tentativi violenti o coercitivi e perseguire gli autori.

Di Redazione Blog di Sabino Paciolla, 14 Novembre 2023

covid-19-vaccino

L’avvocato Emanuele Fusi, che ha curato la difesa, riporta le motivazioni della sentenza del Giudice di Pace di Lucca – che ha annullato l’avviso di addebito per mancata vaccinazione “Over50” di 100 euro – nella quale afferma due principi importanti: 1) la Corte Costituzionale non ha sentenziato sull’obbligo vaccinale per gli ultra 50enni, che appare peraltro di dubbia legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 32; 2) non vaccinarsi è causa di legittima difesa putativa e stato di necessità, a causa dei possibili effetti avversi, che lo Studio Fusi ha dimostrato essere presenti nella vaccinazione Anti Sars CoV-2, anche grazie a importanti studi scientifici. Potete leggere la sentenza N.RG.1003/2023.

6010.- Secondo il Tribunale Corte penale internazionale la Palestina è uno Stato?

Con la battaglia del 2007, Hamas ha ottenuto il controllo di Gaza. Nel 2021, la Corte Penale Internazionale (CPI), altamente politicizzata, ha dichiarato di riconoscere la Palestina come Stato. Con la battaglia di questi giorni, Hamas potrebbe ottenere la statualità in cambio della pace. Sarebbe, però, la sua fine?

COUR INTERNATIONALE
DE JUSTICE 

La Corte penale internazionale cos’è.

La Corte penale internazionale è un tribunale internazionale a carattere permanente, con sede all’Aia, competente a giudicare individui che, come organi statali o come semplici privati, abbiano commesso gravi crimini di rilevanza internazionale, previsti nello Statuto della Corte, ossia il trattato istitutivo adottato dalla Conferenza diplomatica di Roma il 17 luglio 1998, ed entrato in vigore il 1° luglio 2002.

NOTA 1. – Per tribunale internazionale un organo giurisdizionale, composto da individui indipendenti, competente a risolvere le controversie tra Stati (Controversia internazionale) mediante una decisione (lodo o sentenza) obbligatoria per le parti in lite. Il tribunale internazionale può essere costituito ad hoc, allo scopo di risolvere una determinata controversia, oppure può avere carattere permanente, essere, cioè, un’istituzione precostituita che giudica in base a regole di procedura prestabilite.

La Corte è competente a giudicare il crimine di genocidio, altri crimini contro l’umanità e crimini di guerra (Crimini internazionali). Essa è altresì competente per il crimine di aggressione (Aggressione. Diritto internazionale), ma la giurisdizione rispetto ad esso verrà esercitata solo dopo l’entrata in vigore di un emendamento allo Statuto, relativo alla definizione di aggressione e alle condizioni di esercizio della giurisdizione stessa. Sono invece esclusi dalla competenza della Corte i cosiddetti treaty crimes (Terrorismo. Diritto internazionale), fattispecie criminose la cui repressione è prevista da trattati internazionali ma non nel diritto consuetudinario.

In base al principio di complementarità, la giurisdizione della Corte rispetto ai crimini menzionati nello Statuto può esercitarsi solo quando lo Stato che ha giurisdizione sul caso non abbia la volontà o la capacità di perseguire il crimine mediante i propri tribunali. La giurisdizione della Corte non ha carattere universale; la Corte pertanto non può procedere nei confronti di cittadini di Stati non aderenti allo Statuto o di situazioni verificatesi sul territorio di tali Stati, salvo il loro consenso. La giurisdizione della Corte è però automatica per i crimini previsti nello Statuto, se lo Stato sul cui territorio sono stati commessi o di cui il presunto responsabile è cittadino sono parti allo Statuto. In caso contrario, occorre che uno di tali Stati o entrambi accettino la giurisdizione della Corte con dichiarazioni ad hoc. Il consenso dello Stato non è necessario quando il caso è sottoposto alla Corte dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite in base al cap. VII della Carta dell’ONU.

NOTA 2. – Il capitolo VII attribuisce al Consiglio di Sicurezza la competenza a reagire alle situazioni di minaccia alla pace, violazione della pace ed aggressione (articolo 39), in primo luogo attraverso misure non implicanti l’uso della forza, quali le sanzioni economiche e l’interruzione delle relazioni diplomatiche.

Gli organi della Corte sono: la presidenza, le camere (composte da 18 giudici), l’ufficio del procuratore e il cancelliere. Lo Statuto ha inoltre istituito l’assemblea degli Stati aderenti allo Statuto.

Azione della Corte. – Insediatasi nel 2003, la Corte ha avviato procedimenti rispetto a gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario verificatesi in vari paesi sconvolti da guerre civili o da gravi crisi interne. Nella maggior parte dei casi, le segnalazioni di presunti crimini da cui tali processi hanno avuto origine sono pervenute dagli stessi Stati parti competenti a perseguire i crimini (Uganda, Repubblicademocratica del Congo, Repubblica centro africana); in due casi, si è avuto invece un rinvio da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite relativamente a crimini commessi nel territorio di Stati non parti allo Statuto (crimini commessi in Darfur, territorio del Sudan, e in Libia); in un caso (crimini in Kenia), il procedimento è stato avviato su iniziativa del Procuratore della Corte, in base a notitiae criminis pervenute da organizzazioni non governative e altre fonti non statali.

Il capitolo VII attribuisce al Consiglio di Sicurezza la competenza a reagire alle situazioni di minaccia alla pace, violazione della pace ed aggressione (articolo 39), in primo luogo attraverso misure non implicanti l’uso della forza, quali le sanzioni economiche e l’interruzione delle relazioni diplomatiche.

La Palestina è uno Stato?

di Alan M. Dershowitz, . Traduzioni di Angelita La Spada

  • Nel 2021, la Corte Penale Internazionale (CPI), altamente politicizzata, ha dichiarato di riconoscere la Palestina come Stato. Lo ha fatto senza alcun negoziato con Israele, senza alcun compromesso e senza confini riconosciuti. Lo ha anche fatto senza alcuna autorità giuridica, perché lo Statuto di Roma, istitutivo della Corte Penale Internazionale, non prevede che questa corte penale riconosca nuovi Stati.
  • La CPI non è un vero tribunale in qualsiasi modo si intenda questo termine. A differenza dei tribunali reali, che hanno statuti e un diritto consuetudinario da interpretare, la Corte Penale Internazionale prende decisioni. Come il giudice dissenziente ha così giustamente rilevato, la decisione sulla Palestina non è basata sulla legge esistente. Si basa sulla politica pura.
  • I palestinesi – sia in Cisgiordania sia a Gaza – che si sono rifiutati di negoziare in buona fede e hanno utilizzato il terrorismo come loro principale pretesa di riconoscimento, sono stati ricompensati da questa decisione per la loro violenza.
  • Le vere vittime di un procedimento così selettivo sono i cittadini di questi Paesi del Terzo mondo i cui leader li stanno uccidendo e mutilando.
  • In definitiva, la decisione della CPI sulla Palestina è una battuta d’arresto per un unico standard dei diritti umani. È una vittoria per il terrorismo e una riluttanza a negoziare la pace. Ed è un valido argomento a sfavore dell’adesione di Stati Uniti e Israele a questo “tribunale” di parte e che gli conferisce qualsiasi legittimità.
La Corte Penale Internazionale (CPI) altamente politicizzata non è vero tribunale in qualsiasi modo si intenda questo termine. A differenza dei tribunali reali, che hanno statuti e un diritto consuetudinario da interpretare, la Corte Penale Internazionale prende decisioni. Fatou Bensouda, procuratore capo della CPI, tiene una conferenza stampa, il 3 maggio 2018, a Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo. (Foto di John Wessels / AFP tramite Getty Images)

Sono trascorsi due anni, ma leggiamo.

Nel 2021, la Corte Penale Internazionale altamente politicizzata ha dichiarato di riconoscere la Palestina come Stato. Lo ha fatto senza alcun negoziato con Israele, senza alcun compromesso e senza confini riconosciuti. Lo ha anche fatto senza alcuna autorità giuridica, perché lo Statuto di Roma, istitutivo della Corte Penale Internazionale, non prevede che questa corte penale riconosca nuovi Stati. Inoltre, né Israele né gli Stati Uniti hanno ratificato quel trattato, pertanto, le decisioni della CPI non sono vincolanti per loro. Né questa decisione divergente è vincolante per i firmatari, poiché eccede l’autorità del sedicente tribunale.

Lo definisco “sedicente” tribunale, perché la Corte Penale Internazionale non è un vero tribunale in qualsiasi modo si intenda questo termine. A differenza dei tribunali reali, che hanno statuti e un diritto consuetudinario da interpretare, la Corte Penale Internazionale prende decisioni. Come il giudice dissenziente ha così giustamente rilevato, la decisione sulla Palestina non è basata sulla legge esistente. Si basa sulla politica pura. E la politica della decisione della maggiorana si basa a sua volta sull’applicazione di due pesi e due misure nei confronti di Israele, come fanno da tempo la Corte di Giustizia Internazionale e altri organismi internazionali.

Ci sono anche numerosi altri gruppi, come i curdi, i ceceni e i tibetani, che rivendicano un certo grado di indipendenza. Tuttavia, né la Corte Penale Internazionale né altre organizzazioni internazionali hanno mai dato loro qualche speranza. Ma i palestinesi – sia in Cisgiordania sia a Gaza – che si sono rifiutati di negoziare in buona fede e hanno utilizzato il terrorismo come loro principale pretesa di riconoscimento, sono stati ricompensati da questa decisione per la loro violenza.

Israele, che ha offerto ai palestinesi in diverse occasioni la statualità in cambio della pace, è stato punito per la sua disponibilità a negoziare e per la sua determinazione a proteggere i propri cittadini dal terrorismo palestinese.

Nel mondo si commettono così tanti gravi crimini di guerra e altre violazioni delle leggi umanitarie che la CPI ignora deliberatamente. Il procuratore capo della Corte Penale Internazionale ritiene che uno dei suoi ruoli sia quello di distogliere l’attenzione dai Paesi del Terzo mondo, dove vengono commessi molti di questi crimini, e di dirigerla verso le democrazie occidentali. Chi meglio di Israele potrebbe essere un obiettivo di questa forma perversa di “azione affermativa della pubblica accusa”. Scrivo “perversa” perché le vere vittime di un procedimento così selettivo sono i cittadini di questi Paesi del Terzo mondo i cui leader li stanno uccidendo e mutilando.

Israele, d’altra parte, ha raggiunto i migliori risultati in materia di diritti umani, Stato di diritto e attenzione per i civili nemici rispetto a qualsiasi nazione che deve far fronte a minacce simili.

Secondo l’esperto militare britannico Richard Kemp, “nessun altro Paese nella storia della guerra ha fatto di più per evitare vittime civili di quanto abbia fatto Israele nell’ Operazione ‘Piombo fuso'”. La Corte Suprema israeliana ha imposto enormi restrizioni al proprio esercito e ha offerto rimedi significativi per gli atti criminali commessi da singoli soldati israeliani. Il ruolo della CPI, secondo il trattato, è quello di intromettersi nella sovranità delle nazioni solo se tali nazioni non sono in grado di amministrare la giustizia. Il principio di “complementarità” è concepito per consentire ai tribunali delle nazioni democratiche, come Israele, di affrontare i propri problemi nell’ambito dello Stato di diritto. Solo se la magistratura non riuscirà ad affrontare tali problemi, la CPI avrà giurisdizione, perfino nei casi che coinvolgono le parti del trattato, ed Israele non lo è.

Gli Stati Uniti dovrebbero respingere la decisione della Corte Penale Internazionale non solo perché è ingiusta nei confronti del suo alleato Israele, ma anche perché stabilisce un pericoloso precedente che potrebbe essere applicato contro gli Stati Uniti e altre nazioni che agiscono conformemente allo Stato di diritto. Israele dovrebbe contestare la decisione, ma dovrebbe cooperare a qualsiasi indagine, perché la verità è la sua migliore difesa. Se un’indagine condotta dalla Corte Penale Internazionale possa produrre la verità è discutibile, ma le prove – compresi i video e gli audio in tempo reale – renderanno più difficile per gli investigatori della CPI distorcere la realtà.

In definitiva, la decisione della CPI sulla Palestina è una battuta d’arresto per un unico standard dei diritti umani. È una vittoria per il terrorismo e una riluttanza a negoziare la pace. Ed è un valido argomento a sfavore dell’adesione di Stati Uniti e Israele a questo “tribunale” di parte e che gli conferisce qualsiasi legittimità.

Alan M. Dershowitz è Felix Frankfurter Professor of Law Emeritus alla Harvard Law School e autore di “The Case against the Democratic House Impeaching Trump” e di “Guilt by Accusation”. È Jack Roth Charitable Foundation Fellow al Gatestone Institute.

5939.- Intercettazioni, progetto registrazione transazioni condivise (blockchain) per garantire l’integrità dei dati

Serve forzare i sistemi criptati, inseguire i criminali nel dark web, anche tramite hacker etici, cioè, esperti informatici in grado di aggirare i blocchi, garantendo l’integrità dei dati.

La Blockchain secondo l’enciclopedia libera:

Rappresentazione della blockchain con i blocchi della catena principale (blocchi neri), con il blocco di genesi (blocco verde) e i blocchi orfani (blocchi viola).

La blockchain (in italiano: blocchi concatenati) è una struttura dati che consiste in elenchi crescenti di record, denominati “blocchi”, collegati tra loro in modo sicuro utilizzando la crittografia. Ogni blocco contiene un hash crittografico del blocco precedente, un timestamp e dati di transazione. Poiché ogni blocco contiene informazioni sul blocco precedente, questi formano effettivamente una catena con ogni blocco aggiuntivo che si collega a quelli precedenti. Di conseguenza, le transazioni blockchain sono irreversibili in quanto, una volta registrate, i dati in un determinato blocco non possono essere modificati retroattivamente senza alterare tutti i blocchi successivi.

La blockchain rientra nella più ampia famiglia dei registri distribuiti (distributed ledger), ossia sistemi che si basano su un registro replicato, condiviso e sincronizzato tra più soggetti presenti in molteplici luoghi, ma comunque appartenenti alla medesima entità. Nel caso della blockchain non è richiesto che i nodi coinvolti conoscano l’identità reciproca o si fidino l’uno dell’altro perché, per garantire la coerenza tra le varie copie, l’aggiunta di un nuovo blocco è globalmente regolata da un protocollo condiviso. Una volta autorizzata l’aggiunta del nuovo blocco, ogni nodo aggiorna la propria copia privata. La natura stessa della struttura dati garantisce l’assenza di una sua manipolazione futura. 

Le caratteristiche che accomunano i sistemi sviluppati con le tecnologie della blockchain e dei registri distribuiti sono: digitalizzazione dei dati, decentralizzazione, disintermediazione, tracciabilità dei trasferimenti, trasparenza/verificabilità, immutabilità del registro e programmabilità dei trasferimenti.[3] Grazie a tali caratteristiche, la blockchain è considerata pertanto un’alternativa in termini di sicurezza, affidabilità, trasparenza e costi alle banche dati e ai registri gestiti in maniera centralizzata da autorità riconosciute e regolamentate (pubbliche amministrazioni, banche, assicurazioni, intermediari di pagamento, ecc.).

Da Altalex, di Claudia Morelli, Giornalista professionista, 25/09/2023.

Le innovazioni tecnologiche che investono il sistema hanno bisogno di governance, consapevolezza, nuove competenze e nuovi check&balances coordinandole a livello europeo. La commissione giustizia del Senato ha condotto una indagine conoscitiva che si è conclusa giovedì scorso con l’approvazione di un ampio documento conclusivo senza i voti dell’opposizione, contrariata per due integrazioni proposte all’ultimo minuto dai due relatori. 
Le integrazioni riguardano l’uso dei captatori informatici a fini di indagine, che Forza Italia e Lega vorrebbero escludere per i reati contro la pubblica amministrazione.

Per le intercettazioni, il cantiere è sempre aperto. Anche quello della discordia.
La proposta “Nordio” è stata presentata in Parlamento a luglio scorso. 
Le proposte contenute nella relazione conclusiva della indagine del Senato:

Il progetto intende

a) ampliare il divieto di pubblicazione delle intercettazioni, consentito solo nel caso in cui il loro contenuto sia stato riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento e venga utilizzato nel corso del dibattimento;

b) vietare il rilascio di copia delle intercettazioni e la loro pubblicazione, quando la richiesta sia presentata da soggetto diverso dalle parti e dai loro difensori, salva l’esigenza di utilizzare i risultati delle intercettazioni in altro procedimento specificamente indicato.


Il Governo ha inoltre, con il decreto legge n. 153/2023 ora all’esame parlamentare, introdotto norme che razionalizzano la geografia degli archivi digitali, destinati a raccogliere e conservare i risultati dell’attività di intercettazione.
Norme su norme, processuali e ordinamentali, che non toccano i “veri” problemi di riservatezza e buon funzionamento del sistema. Di tutto questo aspetto, finora trascurato, si è occupata la commissione giustizia del Senato che, per iniziativa della presidente Bongiorno, ha condotto una indagine conoscitiva che si è conclusa giovedì scorso con l’approvazione di un ampio documento conclusivo senza i voti dell’opposizione, contrariata per due integrazioni proposte all’ultimo minuto dai due relatori. 
Le integrazioni riguardano l’uso dei captatori informatici a fini di indagine, che Forza Italia e Lega vorrebbero escludere per i reati contro la pubblica amministrazione
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Intende

a) ampliare il divieto di pubblicazione delle intercettazioni, consentito solo nel caso in cui il loro contenuto sia stato riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento e venga utilizzato nel corso del dibattimento;

b) vietare il rilascio di copia delle intercettazioni e la loro pubblicazione, quando la richiesta sia presentata da soggetto diverso dalle parti e dai loro difensori, salva l’esigenza di utilizzare i risultati delle intercettazioni in altro procedimento specificamente indicato.

Wolters Kluwer

Blockchain per tracciare le operazioni di intercettazione tramite trojan

Una delle proposte più innovative riguarda la possibilità di utilizzare la tecnologia blockchain, per certificare il dato che è il risultato della intercettazione e per tracciare tutte le operazioni di attivazione e disattivazione del trojan (per esempio) e gli accessi ai dati. Questa proposta deriva dalla sperimentazione effettuata dalla Procura di Milano e dalla Procura di Napoli, procure inserite in un progetto pilota (Bogmar) proprio per l’utilizzo di una blockchain per il trasferimento dei dati dai server delle società al server della Procura. Questa proposta è stata caldeggiata dal Procuratore nazionale antimafia, che la ritiene particolarmente utile per controllare la genuinità delle fonti e delle tecniche di inserimento, oltre che da tutti i tecnici informatici intervenuti nel corso dell’indagine conoscitiva.

“L’istituzione del sistema blockchain è altamente auspicato dai rappresentanti della Procura in quanto consente il tracciamento di ogni singolo accesso, anche quello dei manutentori, ed assicura la genuinità del dato. Si è insistito su questo punto in quanto non vi è alcuna certezza che del dato conferito alla Procura le società non tengano copia: le procedure di sicurezza di carattere interno adottate non sono sufficienti a garantire che i dati conferiti costituiscano la copia unica e originale”, si legge nel documento.

Proprio l’attività di esecuzione delle operazioni di intercettazione lascia ampi margini di riflessione: l’indagine conoscitiva ha fatto emergere criticità quali l’assenza di controlli sulle operazioni, di tracciamento per ricostruire l’uso del malware (per esempio tramite un calendario delle attivazioni/disattivazioni) o il percorso del file di dati. Per questo, per esempio, il garante per la protezione dei dati ha suggerito di vietare l’utilizzo di malware che possono modificare o cancellare tracce.

La “querelle” del Trojan

Molta parte della riflessione, sia dei soggetti auditi in audizione che del documento, è dedicata proprio all’utilizzo a fini probatorio dei captatori informatici, malware inoculati nei dispositivi target (smartphone e/o pc). Avv4punto0 se ne è occupato diverse volte, da ultimo negli articoli Intercettazioni: la tariffa del Trojan e Trojan di stato, le novità della legge di conversione sul DL intercettazioni.

L’utilizzo del trojan, ammesso per via giurisprudenziale dalla Corte di Cassazione (sentenza Sorato) per la indagini in materia di criminalità organizzata e poi esteso ai reati di corruzione, sfugge ad una definizione normativa nonostante la profonda incisività e invasività nella sfera personale degli indagati.

Allo stato attuale mancano nell’ordinamento previsioni che definiscano normativamente il malware, che si occupino della conformità ai requisiti tecnici dei dispositivi e dei software utilizzati, pur se già fissati con  decreto ministeriale; viene segnalata la mancanza di presidi idonei a impedire l’alterazione dei dati acquisiti, oltre al problema del conferimento dei risultati negli archivi digitali, esposti al rischio di hackeraggio.

Secondo i dati consegnati dal Ministero della Giustizia, l’utilizzo del captatore informatico rappresenta in realtà soltanto il 3 per cento di tutte le intercettazioni.

Gli Archivi digitali

Anche la gestione degli archivi digitali, affidata a società private, mette a rischio riservatezza e integrità (potenzialmente).

Tutte lacune, queste, che è necessario colmare con controlli centralizzati sul rispetto dei requisiti tecnici e con la previsione della sanzione della inutilizzabilità dei risultati conseguenti all’assenza di requisiti tecnici. Il documento rileva ancora che non sono previsti strumenti per elidere il rischio di alterazione dei dati nel passaggio tra sale ascolto e archivio digitale.

Altre criticità riguardano lo storage dei dati, che può avvenire in server cloud posizionati all’estero, e la inoculazione non diretta ma mediata tramite piattaforme e app, che espone a rischi di intromissione e hackeraggio.

Le proposte che incidono sugli aspetti più tecnici vanno del senso di:

a) approvare una norma quadro di regolamentazione dei contratti con le società fornitrici;
b) centralizzare nel Ministero della Giustizia la regolazione contrattuale e la verifica dei requisiti;
c) studiare forme di certificazione ( e.s. Iso 9001, Iso 27001, oppure il sistema studiato da Lawful interception academy, la certifcazione LVS, che è quella prevista per le infrastrutture che fanno parte del perimetro nazionale di cyber sicurezza)
d) istituire una white list per i fornitori; 
e) quanto ai software e alle necessità di aggiornamento, vi è sul tappeto la doppia proposta di mutuare i sistemi antipirateria (che tramite firme digitali e sistemi basati sulla verifica d’integrità dei codici consentono ad un software di funzionare solo se modificato e “certificato” dal produttore: se qualcosa cambia non funzionano più); oppure di individuare una autorità che valuti i requisiti tecnici dei captatori informatici forniti da enti privati (in particolare, che verifichi il captatore fornito, il server e i processi adottati dal fornitore).

INFRASTRUTTURA DIGITALE CENTRALIZZATA
Il decreto legge 10 agosto 2023, n. 105 (attualmente in corso di conversione parlamentare) prevede l’istituzione di infrastrutture digitali centralizzate per le intercettazioni, tracciando, nel contempo, un graduale percorso, segnato dall’emanazione di una serie di decreti ministeriali, al fine di consentire di localizzare presso le suddette infrastrutture l’archivio digitale previsto dalle norme vigenti e, successivamente, di effettuare le stesse intercettazioni attraverso esse. Competerà proprio ai decreti attuativi la definizione dei requisiti tecnici essenziali per assicurare una migliore capacità tecnologica e un più elevato livello di sicurezza e interoperabilità dei sistemi, garantendo in ogni caso l’autonomia delle funzioni del procuratore della Repubblica di direzione, organizzazione e sorveglianza sulle attività di intercettazione e sui relativi dati, nonché sugli accessi e sulle operazioni compiute sui dati stessi.

La estensione del concetto di intercettazione e disciplina mancante

Un aspetto a mio avviso rilevante è la considerazione che il concetto di “intercettazione” sia oramai mutato a causa delle tecnologie. E non solo per una questione di modalità (con il malware inoculato nei dispositivi elettronici invece che tramite la linea telefonica); ma anche per il materiale ricavato e per le attività inquirenti che si possono compiere.

Grazie al trojan infatti, oggetto dell’attività inquirente non sono solo le “conversazioni”, ma in teoria tutto il materiale contenuto nel dispositivo target: documenti, file, foto; inoltre tramite il malware non si ascolta e basta, ma si può pedinare (Gps), si può perquisire, si può ispezionare.

Nonostante queste potenzialità, nulla dice il codice di procedura penale né in termini di ammissibilità né in termini di garanzie. Lo stesso sequestro dell’intero dispositivo si sottrae alle garanzie procedurali e di tutela della riservatezza.

La proposta è dunque quella di far confluire nell’archivio digitale anche questi ulteriori dati, di estendere le norme sul segreto investigativo, di disciplinare il sequestro del dispositivo e di prevedere la necessità di effettuare subito dopo una copia forense. (anche se nella inchiesta La Russa).

I criptofonini, il dark web e gli hacker etici

I criptofonini (ossia dispositivi mobili che utilizzano sim e reti e server schermati e che scambiano dati crittografati proprio per eludere le intercettazioni) sono strumenti sempre più utilizzati dalla criminalità organizzata internazionale. Nella indagine è emerso che in Francia e in Germania vi sono già disposizioni che consentono alle autorità l’acquisizione e l’utilizzabilità dei dati acquisiti sui c.d. criptofonini; ma non in Italia.

La proposta è dunque quella di disciplinare le attività inquirenti per “forzare” i sistemi crittati e inseguire i criminali nel dark web, anche tramite hacker etici, cioè esperti informatici in grado di aggirare i blocchi.

Le garanzie della difesa

A fronte della incisività degli strumenti tecnologici di ricerca delle prove, la bozza di documento propone di rivedere le garanzie della difesa, per restituire al principio di proporzionalità il campo delle indagini.

Le “emergenze” sono: la necessità di blindare la inviolabilità delle comunicazioni tra avvocati e assistiti (il legal privilege) con la sanzione della inutilizzabilità e della distruzione dei dati; e il superamento della cosiddetta “blindatura dell’archivio”, che permette agli avvocati di ascoltare solo le intercettazioni rilevanti nei locali server, senza potere avere accesso a tutti i dati raccolti e conservati nell’Adi.

La proposta è di ) garantire un accesso da remoto; b) o la previsione di una udienza predibattimentale ad hoc  in camera di consiglio in cui eseguire la selezione delle conversazioni rilevanti, in modo da assicurare che la gestione dell’archivio per le fasi successive sia affidato al giudice e riservare ad entrambe le parti – pubblico ministero e difesa – il medesimo trattamento.

La formazione del personale

«Subalternità cognitiva» nell’impiego a fini di giustizia delle tecnologie digitali è la rappresentazione dello stato in cui si trovano la macchina giudiziaria e gli apparati di polizia nell’impiego, secondo il Procuratore nazionale antimafia.

È evidente che la proposta/richiesta è quella di attuare un piano massivo di formazione.

5935.- Un’altra prova del reato di strage.

I vaccini COVID e i futuri booster “non sono sicuri per l’uso umano”: Il Dr. Peter McCullough testimonia al Parlamento Europeo

Da The Epoch Times, di Sabino Paciolla, 29 Settembre 2023

Peter McCullough, cardiologo americano, è stato vice-primario di medicina interna presso il Baylor University Medical Center e professore presso la Texas A&M University. McCullough è fondatore e attuale presidente della Cardio Renal Society of America e co-editore capo di Cardiorenal Medicine, la rivista della società, nonché editore di Reviews in Cardiovascular Medicine. Ha condotto diversi studi sulla corsa e sulle malattie cardiache e ha co-descritto il termine cardiomiopatia fidippide, una patologia cardiaca riscontrata in alcuni atleti di alta resistenza. Tra gli altri progetti di ricerca di McCullough figurano il rapporto tra malattie cardiache e malattie renali e i fattori di rischio per le malattie cardiache.

Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog l’articolo scritto da Naveen Athrappully e pubblicato su The Epoch Times. Visitate il sito e valutate liberamente le varie opzioni offerte e le eventuali richieste. Ecco l’articolo nella mia traduzione. 

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Il cardiologo Peter McCullough ha chiesto ai legislatori europei di ritirare dal mercato i vaccini COVID-19, avvertendo che essi sono responsabili di una serie di malattie, tra cui infiammazioni cardiache, coaguli di sangue e malattie neurologiche.

“I vaccini COVID-19 e tutti i loro derivati e futuri booster non sono sicuri per l’uso umano. Vi imploro, in qualità di organo di governo, Agenzia Europea per i Medicinali (EMA), di esercitare tutte le pressioni e la dovuta urgenza per ritirare i vaccini COVID-19 dal mercato”, ha dichiarato il dottor McCullough nella testimonianza del 13 settembre al Parlamento Europeo. “Negli Stati Uniti, la situazione si sta evolvendo di giurisdizione in giurisdizione, probabilmente Stato per Stato li ritireranno dal mercato se il governo federale non lo farà. Succederà in tutto il mondo”.

Il dottor McCullough ha detto che tutto ciò che ha appreso sui vaccini a RNA messaggero (mRNA) è stato “terrificante”. Negli Stati Uniti, il 94% degli americani che hanno ricevuto il vaccino COVID-19 aveva assunto un vaccino a mRNA.

“Non c’è un solo studio che dimostri che l’RNA messaggero viene degradato” nel corpo umano una volta iniettato, ha detto. “Non c’è uno studio che dimostri che lascia il corpo”. Poiché i vaccini sono “prodotti sinteticamente, non possono essere degradati”.

“La proteina spike – la proteina letale dei vaccini che si trova nel corpo umano dopo la vaccinazione – circola almeno per sei mesi, se non di più. E se le persone fanno un’iniezione in altri sei mesi, c’è un’altra introduzione di altra proteina potenzialmente letale in circolazione”.

Il Consiglio Mondiale della Sanità ha pubblicato l’anno scorso un rapporto di farmacovigilanza dopo aver esaminato 39 database globali sulla sicurezza, chiedendo di rimuovere dal mercato tutti i vaccini COVID-19 “per eccesso di rischio di morte”, ha dichiarato il medico.

Egli ha affermato che la proteina spike è “provata” in 3.400 manoscritti sottoposti a peer-review che causano quattro principali ambiti di malattia: cardiovascolare, neurologico, coaguli di sangue e anomalie immunologiche.

“Una è la malattia cardiovascolare, l’infiammazione cardiaca o miocardite. Tutte le agenzie regolatorie concordano sul fatto che i vaccini causano miocardite”, ha detto. “Per anni abbiamo avuto linee guida in cardiologia: in caso di miocardite, che sia sintomatica o meno, le persone non possono fare sforzi atletici, perché causerebbero un arresto cardiaco”.

“Eppure, in Europa e negli Stati Uniti, le leghe sportive iniettavano questi vaccini a giovani che non avevano alcuna necessità medica, alcuna indicazione clinica, e abbiamo assistito a una serie di arresti cardiaci in giovani individui. Come esperto cardiologo, vi dico che questi arresti cardiaci sono dovuti al vaccino COVID-19 fino a prova contraria”.

Le malattie neurologiche comprendono ictus ischemico ed emorragico, neuropatia delle piccole fibre, intorpidimento e formicolio, ronzio alle orecchie e mal di testa.

Il terzo dominio di malattia è quello dei coaguli di sangue “come non abbiamo mai visto prima”.

“La proteina spike è la proteina più trombogenica che abbiamo mai visto in medicina umana. Si trova nei coaguli di sangue. La proteina spike causa coaguli di sangue. Coaguli di sangue più grandi e più resistenti agli anticoagulanti di quanto si sia mai visto in medicina umana. Ho pazienti con coaguli di sangue che hanno superato i due anni e che non si dissolvono con gli anticoagulanti convenzionali a causa di questi vaccini”.

Il dottor McCullough ha sottolineato che le anomalie immunologiche possono includere malattie come la trombocitopenia “indotta dal vaccino”, una patologia in cui una persona ha un basso numero di piastrine nel sangue, e il disturbo infiammatorio multisistemico, una condizione associata al COVID-19 in cui diverse parti del corpo si infiammano.

Il medico ha definito il vaccino mRNA “il codice genetico per la parte potenzialmente letale della proteina spike del virus” e ha insistito sul fatto che “è stata la peggiore idea di sempre introdurre il codice genetico tramite iniezione e consentire la produzione sfrenata di una proteina potenzialmente letale nel corpo umano per un periodo di tempo incontrollato”.

Il vaccino CDC e l’OMS

Il discorso del dott. McCullough giunge mentre i Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) hanno raccomandato questa settimana a quasi tutti i cittadini americani di sottoporsi al nuovo vaccino COVID-19 aggiornato.
“Il CDC raccomanda ora la vaccinazione COVID-19 aggiornata per tutti coloro che hanno almeno 6 mesi di età, per proteggere meglio voi e i vostri cari”, ha dichiarato in un comunicato il direttore dell’agenzia, Dr. Mandy Cohen.

Il dottor Robert Malone, che ha contribuito a inventare la tecnologia utilizzata dai vaccini Pfizer e Moderna, ha recentemente dichiarato di essere contrario a raccomandare i nuovi vaccini COVID-19.

“Abbiamo una mancanza di dati a sostegno di questa decisione”, ha dichiarato in un’intervista a EpochTV. Questi prodotti non hanno alcun beneficio sostanziale e presentano un rischio significativo”.

Nel suo discorso al Parlamento europeo, il dott. McCullough ha accusato organizzazioni come i CDC, l’OMS, la Fondazione Gates, il World Economic Forum e le Nazioni Unite di formare un “sindacato”.

“Questo gruppo di organizzazioni non governative e di agenzie governative per la salute pubblica opera come un’unità. Sono accuratamente coordinati. E l’impatto è stato negativo”, ha detto. “L’OMS ha svolto un ruolo negativo fin dall’inizio, ingannando il mondo sulle origini della SARS-Cov-2”.

“I medici come noi nella pratica clinica sono rimasti indietro perché i nostri governi e le agenzie come l’OMS non sono stati onesti con noi. E invece di aiutarci o almeno di toglierci di mezzo in termini di cura dei pazienti e di salvataggio di vite umane, si sono messi in mezzo e hanno ostacolato la nostra capacità di curare i pazienti. Hanno influenzato e creato un intero ambiente di nichilismo terapeutico”.

McCullough ha chiesto all’Unione Europea, agli Stati Uniti e a tutte le altre parti interessate di “uscire completamente dall’OMS e di lasciare l’OMS ai propri sforzi”. L’organizzazione non dovrebbe avere “alcuna giurisdizione, alcun dominio su ciò che facciamo nella sanità”.

Tra le preoccupazioni per i vaccini a mRNA, sono emerse anche quelle per il vaccino COVID-19 di Pfizer, contenente un RNA modificato artificialmente chiamato modRNA. Il modRNA non è una sostanza presente in natura e rappresenta un serio rischio per la salute.

L’etichetta del prodotto della Food and Drug Administration (FDA) statunitense per il vaccino Pfizer afferma che contiene modRNA.

Klaus Steger, un biologo molecolare che ha diretto diversi laboratori di tecnologia genetica, ha affermato che, poiché il modRNA non è in grado di indirizzare cellule specifiche per la produzione di proteine virali, può finire per attaccare cellule perfettamente sane e aggirare le barriere protettive del corpo umano, come la barriera emato-encefalica.

Naveen Athrappully

5933.- Sulla disciplina del così detto “Superbonus 110%”

Premessa

La Cassazione muta la sua interpretazione avuto riguardo al momento in cui si concretizza il delitto di indebita percezione di erogazioni pubbliche. Se, infatti, la norma incriminatrice mira ad evitare la “dispersione” del denaro pubblico, deve ritenersi che la consumazione del reato coincida con il momento in cui l’imputato consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo. Questo non è una forma minore o attenuata di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche , e si verifica nel momento della percezione, non nel momento in cui il soggetto passivo assume, per effetto della condotta dell’agente, l’obbligazione.

Osserviamo che anche l’assunzione da parte del soggetto pubblico passivo dell’obbligazione lede il buon andamento della Pubblica Amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione. Si deve giudicare anche il comportamento della Pubblica Amministrazione, eventualmente omissivo, per cui la valutazione riguarderebbe un delitto di indebita percezione di erogazioni pubbliche oltre a un delitto di tentata truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.

Del delitto di indebita percezione di erogazioni pubbliche: Non è una forma minore o attenuata di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche


TRIBUTARIO

Documenti falsi per il Superbonus 110%: no truffa aggravata ma indebita percezione di erogazioni pubbliche

Di Rossella Catena, Consigliere della Corte di Cassazione, Pubblicato il 28/09/2023

Con la sentenza n. 37138/2023 – relativa a vicenda inerente il riconoscimento di erogazioni sotto forma di credito di imposta, ai sensi della disciplina del così detto “superbonus 110%” – la Cassazione ha ribadito la differenza tra il reato di cui all’


art. 316-ter cod. pen. rispetto a quello di cui all’


art. 640-bis cod. pen., quanto al diverso momento di consumazione delle dette fattispecie incriminatrici. Inoltre, in applicazione della differenza tra i concetti di prodotto e profitto del reato, la sentenza ha ritenuto – non del tutto condivisibilmente – che, nella concreta vicenda cautelare, essi fossero distinguibili e, quindi, entrambi suscettibili di ablazione.

Orientamenti giurisprudenziali
Sempre conformi:
Cass. pen., Sez. U, sentenza n. 9149 del 03/07/1996, dep. 17/10/1996
Cass. pen., Sez. U, sentenza n. 16568 del 19/04/2007, dep. 27/04/2007Cass, pen., 
Sez. U, sentenza n. 31617 del 26/06/2015, dep. 21/07/2015
Cass. pen., Sez. 2, sentenza n. 4284 del 20/12/2011, dep. 01/02/2012
Cass. pen., Sez. 2, sentenza n. 48820 del 23/10/2013, dep. 05/12/2013
Cass. pen., Sez. 6, sentenza n. 21317 del 05/04/2018, dep. 14/05/2018
Cass. pen., Sez. 6, sentenza n. 24890 del 20/02/2019, dep. 04&06/2019
Cass. pen., Sez. 6, sentenza n. 2125 del 24/11/2021, dep. 18/01/2022
Cass. pen., Sez. 6, sentenza n. 9060 del 30/11/2022, dep. 02/03/2023

Con la pronuncia in esame la Cassazione si è occupata della vicenda relativa ad un ipotizzato sodalizio criminale, composto da soggetti che, attraverso società operanti nel settore edilizio ed avvalendosi del concorso di professionisti, certificavano lavori di ristrutturazione relativi all’efficientamento energetico il cui valore, grazie alla predisposizione di documentazione falsa, risultava superiore a quello dei lavori effettivamente eseguiti, allo scopo di accedere ai benefici statali di cui alla normativa del così detto “superbonus 110 %”.

In tale contesto era stato eseguito un decreto di sequestro preventivo in relazione a somme di denaro, ritenute oggetto di confisca obbligatoria, quanto al profitto del delitto di cui all’


art. 316-ter cod. pen., avendo, in tal senso, il Giudice per le indagini preliminari qualificato la condotta, inizialmente inquadrata dal pubblico ministero nella diversa fattispecie di cui all’


art. 640, comma secondo, cod. pen.; tale profitto era stato individuato nell’importo del credito di imposta ottenuto dagli indagati attraverso il meccanismo dello sconto in fattura, suscettibile di cessione a terzi, avendo il giudice ritenuto la fattispecie criminosa di indebita percezione di pubbliche erogazioni in danno dello Stato, consumata a prescindere dalla intervenuta compensazione del credito. 

Il provvedimento ablativo – come emerge dalla sentenza in commento – era stato disposto in via diretta nei confronti della società beneficiaria del credito e, altresì, nei confronti dei soggetti sottoposti ad indagini, anche per equivalente, in quanto essi risultavano beneficiari di somme di denaro percepite nell’ambito delle attività edilizie realizzate.

Il Tribunale del riesame aveva confermato il provvedimento cautelare reale, osservando che il credito di imposta altro non è se non il diritto alla detrazione per un determinato importo, suscettibile di circolare mediante cessione, nei termini previsti dalle disposizioni normative specifiche in tema di superbonus 110%.

I difensori, in sede di legittimità, avevano, tra l’altro, eccepito che erroneamente il Tribunale del riesame aveva individuato l’importo da sequestrare nella somma di 2.622.508,00, laddove, invece, avrebbe dovuto essere sottoposta a sequestro solo la minor somma di euro 238.293,85, pari all’importo della somma portata in detrazione da una società cessionaria del credito, in quanto, affinché il reato di cui all’


art. 316-tercod. pen. possa dirsi consumato, è necessaria la cessione del credito, come si evince, tra l’altro, dalla disposizione dell’


art. 121, commi 1 e 4, del 


Decreto Rilancio.

La sentenza in commento – peraltro non del tutto chiara quanto all’esposizione delle doglianze difensive – ha affermato, richiamando la giurisprudenza di legittimità formatasi sul tema, che il reato di cui all’


art. 316-ter cod. pen. si consuma nel momento in cui è stato riconosciuto il credito di imposta, immediatamente monetizzabile e non più revocabile da parte della pubblica amministrazione.

Su questo aspetto va ricordato che, anche con recenti arresti la Cassazione ha rilevato che il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, di cui all’


art. 316-ter cod. pen., si consuma nel momento e nel luogo in cui l’ente pubblico eroga i contributi, i finanziamenti, i mutui agevolati, disponendone l’accredito sul conto corrente del soggetto che ne abbia indebitamente fatto richiesta, perché è con quell’atto che si verifica la dispersione del denaro pubblico.

Se, infatti, la norma incriminatrice mira ad evitare la “dispersione” del denaro pubblico, deve ritenersi che la consumazione del reato coincida con il momento in cui l’imputato consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo. 

In tal senso, quindi, la Corte di cassazione ha superato il precedente orientamento, che assimilava, quanto al momento consumativo, il delitto di indebita percezione di erogazioni pubbliche al delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, di cui all’


art. 640-bis cod. pen.; tale ultima fattispecie si consuma nel momento e nel luogo in cui il beneficiario percepisce materialmente l’erogazione pubblica, acquisendone la disponibilità, e non nel momento in cui il soggetto passivo assume, per effetto della condotta dell’agente, l’obbligazione.

Ciò in quanto il legislatore, con la condotta incriminata dall’


art. 316-ter cod. pen., ha fatto riferimento alla nozione di conseguimento, che evoca piuttosto l’assegnazione della relativa somma; ciò risulta anche dalla collocazione sistematica della fattispecie di indebita percezione di erogazioni pubbliche nei delitti contro la pubblica amministrazione, trattandosi, quindi, di norma posta a tutela del buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’


art. 97 della Costituzione, considerato sotto il peculiare profilo della corretta amministrazione delle risorse pubbliche, italiane e dell’Unione europea, prima ancora che del patrimonio pubblico.

“Nel disegno del legislatore, dunque, pur nel rapporto di sussidiarietà espressamente delineato tra le due fattispecie, il delitto di indebita percezione di erogazioni pubbliche, non è una forma minore o attenuata di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art.


640-bis cod. pen.), ma una fattispecie autonoma introdotta al fine di garantire la corretta allocazione delle risorse economiche dello Stato e dell’Unione europea, che verrebbe, invece, frustrata ove i fondi fossero assegnati a soggetti privi dei requisiti oggettivi e soggettivi richiesti per beneficiarne. La fattispecie incriminatrice di cui all’


art. 316-ter cod. pen. è, infatti, posta a tutela della libera formazione della volontà della Amministrazione pubblica, con riferimento ai flussi di erogazione e distribuzione delle risorse economiche, al fine di impedirne la scorretta attribuzione e l’indebito conseguimento, sanzionando l’obbligo di verità delle informazioni e delle notizie offerte dal soggetto che richiede il contributo.”

Pertanto, dunque, l’ingiusto profitto da parte del soggetto beneficiato non costituisce elemento del fatto tipico e la mancata previsione dello stesso non può essere surrogata dall’interprete, in quanto vi osta il divieto, costituzionalmente sancito, di analogia in materia penale, avendo il legislatore polarizzato il disvalore del reato solo sull’evento di danno, che si realizza nel momento e nel luogo in cui si realizza la deminutio patrimonii per il soggetto pubblico. 

Nel caso in esame, quindi, deve ritenersi che la pronuncia abbia ritenuto corretto l’inquadramento del credito di imposta – derivante dal meccanismo del superbonus 110%, di cui al Decreto Rilancio (


d.l. n. 34/2020, convertito con modificazioni dalla 


Legge n. 77/2020) – quale oggetto del reato, in coerenza con quanto già rilevato dalle Sezioni Unite della Cassazione, secondo cui “il riferimento sia dell’art. 316-ter sia dell’


art. 640-bis cod. pen. a contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate è tanto deliberatamente generico da escludere che nella definizione delle fattispecie penali si sia inteso recepire un improbabile linguaggio tecnico.”

In coerenza con tale impostazione il momento di consumazione del reato è stato individuato nel riconoscimento del credito di imposta, non più revocabile da parte della pubblica amministrazione ed immediatamente monetizzabile.

Quanto all’oggetto del sequestro, va rilevato che la sentenza ha ricordato come il Giudice per le indagini preliminari avesse disposto il sequestro preventivo, funzionale alla confisca obbligatoria del profitto del reato di cui all’


art. 316-ter cod. pen., per l’importo di euro 2.622.508,00, in via diretta nei confronti della società beneficiaria del credito e per equivalente, in relazione a detta somma, nei confronti delle persone fisiche sottoposte ad indagini a cui era contestata l’illecita percezione di somme in relazione all’attività svolta; inoltre, in riferimento ad una delle persone fisiche indagate, era stata disposto il sequestro per equivalente anche dell’ulteriore somma di euro 371.258,86; infine, era stato disposto il sequestro preventivo, sempre ai fini della confisca obbligatoria, del profitto dei reati di autoriciclaggio nei confronti dei soggetti a tale titolo sottoposti ad indagini preliminari.

Sul punto va detto che la sentenza non ha indicato in riferimento a quali soggetti, per quali titoli di reato e per quali importi, fosse stato concretamente disposta la misura cautelare reale.

Nell’affrontare nello specifico le doglianze difensive, la sentenza impugnata, al fine di inquadrare la natura dei beni sequestrati, ha, in particolare, citato una risalente pronuncia delle Sezioni Unite del 1996, Chabni Samir, secondo cui ”Il prodotto rappresenta il risultato, cioè il frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita; il profitto, a sua volta, è costituito dal lucro, e cioè dal vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato; il prezzo, infine, rappresenta il compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato e costituisce, quindi, un fattore che incide esclusivamente sui motivi che hanno spinto l’interessato a commettere il reato.“

Benché la distinzione dottrinale tra le predette categoria non possa rientrare nel limitato orizzonte del presente commento, va tuttavia osservato – per quanto è dato comprendere dalla esposizione estremamente sintetica e non del tutto chiara della sentenza – che la pronuncia in esame abbia ritenuto il credito di imposta riconosciuto, nel suo intero ammontare, come il prodotto del reato di cui all’art. 316-ter cod. pen.,


come tale suscettibile di sequestro, mentre il profitto del reato sarebbe stato individuato nella cessione del medesimo credito di imposta, indicato come vantaggio economico in concreto realizzato.

La pronuncia in commento, sul punto, per la verità, va meditata alla luce dei successivi approdi della giurisprudenza delle Sezioni Unite, con particolare riferimento alla sentenza Lucci

Quest’ultima, infatti, aveva affrontato – tra gli altri aspetti – anche la problematica concernente la possibilità di disporre, in base all’


art. 240, secondo comma, n. 1, cod. pen., ovvero ai sensi dell’


art. 322-ter cod. pen., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato, nel caso in cui il prezzo o il profitto del reato sia costituito da denaro, chiedendosi, altresì se la confisca delle somme di cui il soggetto abbia la disponibilità debba essere qualificata come confisca per equivalente ovvero come confisca diretta e, ove si ritenga che si tratti di confisca diretta, se debba ricercarsi il nesso pertinenziale tra reato e denaro.

Proprio In tale contesto le Sezioni Unite Lucci hanno ricordato, non a caso citando le Sezioni Unite Chabni Samir, come la categoria del prezzo del reato, vale a dire il compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato, costituisca un fattore che incide esclusivamente sui motivi che hanno spinto l’interessato a commettere il reato. Proseguendo, il massimo consesso nomofilattico della Corte ha affermato: “La logica che coinvolge e giustifica la obbligatoria confisca del prezzo del reato in base alla generale previsione dettata dall’


art. 240, secondo comma, cod. pen., non risulta diversa da quella che ha indotto il legislatore ad introdurre previsioni speciali di confisca obbligatoria anche del profitto del reato, sul rilievo che la evocabilità del prezzo, inteso come retribuzione promessa o corrisposta per la commissione del reato, rappresentasse una evenienza riconducibile soltanto ad alcune fattispecie, ma non pertinente – secondo l’id quod plerumque accidit – rispetto ad altre, ove, appunto, viene più frequentemente in discorso il profilo del lucro desunto dal reato, inteso come vantaggio economico ottenuto in via diretta ed immediata dalla commissione del reato, e quindi legato da un rapporto di pertinenzialità diretta con l’illecito penale. Da qui, l’attrazione, accanto al prezzo, anche del profitto del reato, all’interno di un nucleo per così dire unitario di finalità rispristinatoria dello status quo ante, secondo la medesima prospettiva volta a sterilizzare, in funzione essenzialmente preventiva, tutte le utilità che il reato, a prescindere dalle relative forme e dal relativo titolo, può aver prodotto in capo al suo autore, e con specifico riferimento a figure di reato per le quali il legislatore ha ritenuto necessario optare per una simile scelta. L’


art. 322-ter cod. pen. finisce, dunque, per rappresentare un chiaro esempio che accredita una simile linea ricostruttiva, specie alla luce delle modifiche ad esso apportate ad opera dell’


art. 1, comma 75, lettera o), della 


legge 6 novembre 2012, n. 190, recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”. La novella, con l’introdurre, alla fine del primo comma dell’


art. 322-ter cod. pen. le parole “o profitto”, ha, come è noto, inciso esclusivamente sulla disciplina della confisca per equivalente, ampliandone l’ambito di operatività non soltanto al prezzo del reato, ma anche – per l’appunto – al profitto del medesimo. Nella formulazione originaria, infatti, tale disposizione prevedeva, in caso di impossibilità di procedere alla confisca dei beni costituenti il profitto o il prezzo dei reati previsti dagli articoli da 314 a 320 cod. pen., la confisca di altri beni nella disponibilità del reo per un valore corrispondente al “prezzo” del reato, da intendersi nel senso tecnico di corrispettivo dato o promesso per indurre, istigare o determinare taluno a commettere il reato: nozione, pertanto, non estensibile alle altre utilità connesse al reato. Ciò ha indotto la giurisprudenza ad escludere l’applicabilità di tale figura di confisca per equivalente a reati per i quali non risulta concettualmente riferibile la nozione di prezzo del reato, quali, ad esempio, il peculato, la malversazione a danno dello Stato e l’indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato. Per simili ipotesi poteva semmai configurarsi la figura del profitto di reato, rispetto alla quale, però la formulazione letterale della norma ne precludeva qualunque spazio operativo, anche in considerazione dei connotati afflittivi di quella figura di confisca e la conseguente esigenza di rispettare appieno il canone di stretta legalità (v. ad es. Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244189; Sez. 6, n. 12819 del 17/03/2010, Magliocchetti, Rv. 226691). Da qui, l’esigenza della modifica introdotta dalla 


legge n. 190 del 2012, ma da qui, anche, l’univoco segnale che la novella offre per ritenere – quanto allo specifico tema dei reati contro la pubblica amministrazione per i quali trovi applicazione la disciplina dettata dall’


art. 322-ter cod. pen. – normativamente equivalente la confisca del prezzo e la confisca del profitto tratto da quei reati, sia per ciò che attiene alla confisca diretta sia per quanto riguarda la confisca per equivalente.”

Infine, le Sezioni Unite Lucci hanno osservato che “Qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme di cui il soggetto abbia comunque la disponibilità deve essere qualificata come confisca diretta; in tal caso, tenuto conto della particolare natura del bene, non occorre la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato”.

Nel caso in esame, quindi, appare evidente che, almeno in riferimento alla fattispecie di cui all’


art. 316-ter cod. pen., sia corretto, in riferimento alla specifica vicenda in esame, individuare il profitto del reato nella somma corrispondente al credito di imposta riconosciuto, non potendo in alcun modo individuarsi, in relazione alla medesima fattispecie di reato – salvo illogiche duplicazioni – un diverso concetto di prodotto del reato.

Sotto tale aspetto, infatti, la sentenza in esame sembra confondere il profitto del reato – ossia la somma corrispondente al credito di imposta riconosciuto – con le vicende che hanno avuto ad oggetto tale credito di imposta, tra cui, ad esempio, la sua cessione a terzi.

Altro, e diverso, risulta l’aspetto relativo ai soggetti nei confronti dei quali il sequestro del profitto va disposto, in quanto tale profilo – su cui la pronuncia non sembra essersi specificamente soffermata – avrebbe reso necessaria la concreta individuazione di coloro che concretamente avevano tratto un profitto dalla descritta attività illecita, a fronte della riconducibilità di tali vantaggi, in ogni caso, all’unicità del profitto del reato di cui all’


art. 316-ter, cod. pen., come individuato.

In realtà la sentenza in commento, seppure richiamando un principio in astratto coerente con l’insegnamento delle Sezioni Unite, quanto alla differenza tra il prodotto ed il profitto del reato, non sembra tenere conto che il concetto di prodotto, in realtà, rappresenta un genus rispetto a quello di profitto, e che, in relazione alla vicenda in concreto rappresentata – in cui si individua per l’appunto un credito di imposta, come tale monetizzabile – correttamente dovrebbe essere individuabile solo il concetto di profitto del reato.

Quella che, quindi, appare essere un duplicazione concettuale in cui è incorsa la sentenza in commento, si è riverberata sulla motivazione che, non a caso, non ha per nulla chiarito come siano stati ripartiti gli importi delle somme sottoposte a sequestro in riferimento alle categorie concettuali asseritamente diverse di prodotto e di profitto, risultando anche omessa l’individuazione, tra i vari soggetti coinvolti – persone fisiche e giuridiche – di coloro nei confronti dei quali sia stato eseguito, e a che titolo e per quali importi, il provvedimento cautelare; in altri termini, è stata lasciata del tutto impregiudicata la possibilità di verificare per quali ragioni, nel caso in esame, si sia o meno verificata, nel concreto, la duplicazione delle ragioni del sequestro.

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Cassazione penale, Sez. III, sentenza 12 settembre 2023, n. 37138

5870.- Il ministro degli Interni e dell’Oltre Mare Gérald Darmanin vuole sfrattare i criminali dalle case popolari

Da Scenari economici, il 1 Settembre 2023. Di Guido da Landriano

Gérald Darmanin, attuale ministro degli interni nel governo Bourne-Macron,  vuole colpire duramente la criminalità urbana. Secondo le informazioni riportate da Le Point, il ministro dell’Interno ha chiesto ai prefetti di adottare una posizione sistematicamente dura per quanto riguarda lo sfratto dei responsabili della violenza urbana dalle case popolari. “Vi chiediamo di mobilitare tutti gli strumenti previsti dalla legge per sfrattare i delinquenti dalle case popolari che occupano”.

Questa presa di posizione arriva dopo le polemiche che hanno accompagnato lo sgombero di un pregiudicato che aveva preso parte alle recenti rivolte dalla sua casa nella Val d’Oise il 24 agosto. L’uomo aveva saccheggiato un negozio. Secondo il prefetto, un ordine di esclusione dall’abitazione popolare era già in corso, ma è stato accelerato. “Per risparmiare tempo, abbiamo eseguito un ordine di sfratto preesistente”.

Una misura convalidata dalla legge

Attualmente, il prefetto non può ordinare uno sfratto senza una procedura legale, che può essere molto lunga. Questa procedura può essere avviata solo per il mancato rispetto del contratto di locazione (affitto non pagato, turbativa d’uso) o per atti di delinquenza (meccanica non autorizzata, vendita di droga, disturbo).

Gérald Darmanin ha fatto riferimento a due articoli di legge: l’articolo 1728 del Codice civile francese e l’articolo 7 della legge 89-462 del 6 luglio 1989, per spiegare che “un grave atto di delinquenza nelle vicinanze dell’abitazione costituisce una violazione dell’uso pacifico dell’abitazione”.

Sulla base di questi due articoli di legge, il locatore può quindi rivolgersi ai tribunali per ordinare lo sfratto del rivoltoso. Il Ministro e il Segretario di Stato per gli Affari Urbani, Sabrina Agresti-Roubache, hanno invitato i prefetti a informare i sindaci e i proprietari di casa di queste disposizioni.

Immaginate l’applicazione in Italia, con la stessa modalità, di una normativa simile: i quartieri fortezza della malavita, quelli dove ormai regnano indisturbati gli spacciatori, potrebbero venire violati, o almento incrinati. Però la magistratura, con varie scuse, disarmerebbe la legge. Ma Macron è un “Buono” e “Progressista”, quindi può farlo.

5855.- Verità e correttezza nella comunicazione fanno parte dell’abito mentale di un ufficiale e di ogni militare

Nell’era della dissacrazione dei valori cristiani che hanno ispirato le costituzioni, siamo costretti ad ascoltare le sparute minoranze, cooptate e comprate facilmente dai poteri nemici della civiltà, che non trovano di meglio che offendere chi a quei valori anela e ha dedicato con onore la propria vita. Le istituzioni stesse sono possedute da questa bestemmia se il capo dello Stato è intervenuto a un meeting sferzando senza nominarlo, perciò offendendo, un generale autore di un libro che non ha violato la Costituzione né il nuovo codice dell’Ordinamento della Difesa, che non tratta argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio, né fa propaganda politica; lo scrivo con il dovuto rispetto a quel due volte Capo dello Stato che, proprio lui, non ha sciolto il C.S.M. autodichiaratosi politicizzato, quindi, che non ha garantito la separazione dei poteri alla base di ogni democrazia. Da chi ha avuto l’onore di essere stato un ufficiale del generale S.A. Mario Arpino sorge questo: “Grazie Comandante!”

Perché difendo la libertà di pensiero del generale Vannacci. L’opinione di Mario Arpino

Che cosa pensa Mario Arpino, già Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica e della Difesa, del libro “Il mondo al contrario” scritto dal generale Roberto Vannacci

Mario Arpino di Mario Arpino

26 Agosto 2023 

Venerdì 18 agosto, appena letti sulle rassegne i ritagli di stampa sul libro del generale Roberto Vannacci, ho avvertito odore di bruciato e sono andato a cercare il curriculum vitae del generale. Ineccepibile, anzi, straordinario: racconta la storia di un soldato generoso, valoroso e lineare nel comportamento. Due nomi, una garanzia: Folgore e 9° Col Moschin… Mi sono lasciato prendere da un impulso immediato, ho preso carta e penna (anzi, schermo e tastiera) e ho scritto quanto segue all’Istituto geografico di Firenze. Era il primo pomeriggio, e non circolava ancora la notizia del probabile avvicendamento al Comando.

“Caro generale Vannacci, anche se non ci siamo conosciuti nel corso degli anni di servizio, mi permetta di esprimerle tutta la mia ammirazione per la sua figura di uomo e di soldato. Al di là delle penose polemiche che hanno accompagnato l’uscita di ‘Il mondo al contrario’ (il coraggio di dire la verità – o di ammetterla – evidentemente non è molto diffuso). Le voglio assicurare che siamo ancora in tanti, direi un’ampia maggioranza, a credere in quei valori che oggi da poche chiassose minoranze vengono rifiutati e derisi. Condivido parola per parola, riga per riga, ciò che lei ha detto e scritto. Farò del mio meglio per darne la massima diffusione. È da questa parte, non da altre, che verranno la salvezza e l’affermazione della nostra cara Italia. Una stretta di mano stretta e forte, da soldato a soldato”.

In quel momento non avevo ancora letto il libro riga per riga, ma solo stralci e una copia elettronica. Solo il giorno dopo mi sono arrivate due copie cartacee, che, come promesso, farò circolare a iniziare da figli e nipoti.

Poi, mi è venuto un dubbio atroce: si è parlato di autorizzazione e di sanzioni. Io ho lasciato il servizio attivo 23 anni fa, non è che nel frattempo è cambiato qualcosa? Ho voluto verificare. Il nuovo codice dell’Ordinamento della Difesa in effetti è datato 2010 e comprende ben 2272 articoli. La “Libertà di manifestazione del pensiero” per i militari è contemplata dall’articolo 1472, in vigore dal 27 marzo 2012, che così recita:

“1. I militari possono liberamente pubblicare i loro scritti, tenere pubbliche conferenze e comunque manifestare pubblicamente il proprio pensiero, salvo che si tratti di argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio, per i quali deve essere ottenuta l’autorizzazione.
2. Essi possono, inoltre, trattenere presso di sé, nei luoghi di servizio, qualsiasi libro, giornale o altra pubblicazione periodica.
3. Nei casi previsti dal presente articolo resta fermo il divieto di propaganda politica”.

Ebbene, nel libro del generale Vannacci non c’è traccia di argomenti riservati di interesse militare o di propaganda politica. Ma allora, dove sta il problema? Se si tratta di esigenze di “politicamente corretto” nell’esprimere le proprie idee, questo lasciamolo ad altri. A noi militari interessano solo verità e correttezza nella comunicazione. Qualità che in questo libro certo non mancano.

5844.- La democrazia è morta a Washington

L’incriminazione di Trump criminalizza il dissenso politico

Dal Gatestone Institute, di Daniel Greenfield  •  20 agosto 2023. Traduzioni di Angelita La Spada

L’incriminazione per l’assalto a Capitol Hill, sede del Congresso americano, del 6 gennaio 2021, formulata dal consigliere speciale Jack Smith, un amico dei Democratici di lunga data, criminalizza le contestazioni elettorali. O almeno quelle che prendono di mira i Democratici. E insieme a ciò, ogni dissenso politico. Smith non ha fatto altro che prendere parti della legge e usarle per creare un’infrastruttura criminale in grado di bandire la maggior parte dei partiti politici e delle attività alla stregua della Cina comunista o della Russia. Nella foto: Smith si prepara a parlare ai media il 1° agosto 2023, a Washington, D.C. (Foto di Drew Angerer/Getty Images)

Le numerose accuse e le molteplici indagini penali a carico dell’ex presidente Donald Trump intendono manipolare le elezioni presidenziali del 2024, ma l’ultima incriminazione ha l’obiettivo di manipolare anche le conseguenze di queste elezioni.

Le precedenti incriminazioni dell’ex presidente avevano fatto qualcosa di inedito trasformando i misfatti in reati e stabilendo che i termini di prescrizione non sono vincolanti, ma l’incriminazione per l’assalto a Capitol Hill, sede del Congresso americano, del 6 gennaio 2021, formulata dal consigliere speciale Jack Smith, un amico dei Democratici di lunga data, va oltre perché criminalizza le contestazioni dei risultati elettorali.

O almeno quelle che prendono di mira i Democratici. E insieme a ciò, ogni dissenso politico.

L’atto d’accusa per i fatti del 6 gennaio 2021 sostiene che le contestazioni del voto da parte di Trump costituissero un reato. Cosa offre di diverso quest’ultima incriminazione rispetto alle precedenti? Intende intimidire qualsiasi repubblicano che potrebbe cercare di contestare l’esito delle elezioni presidenziali del 2024.

Non contenti di incriminare il principale candidato alle primarie del GOP, il Grand Old Psrty (il Partito Repubblicano, N.d.T.) per aver truccato le elezioni, i Democratici stanno criminalizzando l’opposizione politica e in seguito criminalizzeranno le prossime elezioni.

L’accusa, per inciso, sembra più un editoriale del Washington Post in cui si afferma che Trump era “deciso a rimanere al potere” e pertanto “ha diffuso menzogne” in merito al fatto che c’erano stati brogli onde “creare un’intensa atmosfera nazionale di sfiducia e rabbia, ed erodere la fede pubblica nella gestione delle elezioni”.

Se sostenere che un’elezione presidenziale è stata falsata è illegale, dov’è l’incriminazione a carico di Al Gore? Nessun democratico è mai stato citato in giudizio per aver affermato che George W. Bush è stato eletto grazie a delle schede malpunzonate, per aver contestato al Congresso la sua elezione entrambe le volte, o per aver diffuso menzogne e per aver avviato indagini intese a dimostrare che Trump era stato eletto dai russi, anche quando lo hanno fatto per “creare un’intensa atmosfera nazionale di sfiducia e rabbia”.

Quando i Democratici diffondono menzogne in merito a un’elezione, ottengono contratti editoriali e ospitate in fasce serali su MSNBC, e talvolta, come Al Gore, ricevono persino Oscar e premi Nobel per la Pace.

Contestare l’esito elettorale è una pratica tradizionale che risale a più di due secoli fa, alle elezioni presidenziali del 1800. Le nazioni libere con elezioni aperte non hanno paura delle contestazioni e i Democratici hanno speso una fortuna per i loro tentativi di contestare il risultato delle elezioni presidenziali. La campagna di Biden ha speso 20 milioni di dollari in oltre 60 cause legali post-elettorali, nel 2020.

Smith, un amico dei Democratici di lunga data, non incriminerà Biden né Marc Elias. Piuttosto, ha messo sotto accusa Trump per reati inventati come “ostacolo e intralcio al funzionamento del Congresso del 6 gennaio [2021]”, “cospirazione contro il diritto di voto” e cospirazione per “ostacolare” la “legittima funzione del governo federale mediante la quale i risultati delle elezioni presidenziali vengono raccolti, conteggiati e certificati dal governo federale”.

Definire pubblicamente le contestazioni del voto come un tentativo di “frodare” il governo degli Stati Uniti trasforma la Sezione 371 del Titolo 18 del Codice degli Stati Uniti. (U.S.C.) in uno strumento modificabile per sopprimere un’ampia gamma di dissenso politico. Trattare il lobbismo o qualsiasi tipo di advocacy come l’equivalente della corruzione di testimoni trasforma in un’arma la Sezione 1512 del Titolo 18 dell’U.S.C. contro chiunque cerchi di condizionare una funzione del governo. Vale a dire, di fatto, tutti coloro che sono interessati alla politica. E infine, l’utilizzo della Sezione 241 del Titolo 18 del Codice degli Stati Uniti – originariamente concepita per combattere il KKK – contro Trump e contro chiunque cerchi di verificare i risultati elettorali legittimi rende la frode elettorale un diritto civile.

Al di là di questo uso improprio della legge federale per colpire un avversario politico, l’atto d’accusa così com’è stato concepito da Smith pone le basi per una repressione senza precedenti dell’opposizione politica che non finirà con Trump né con le elezioni presidenziali del 2024. Smith non ha fatto altro che prendere parti della legge e usarle per creare un’infrastruttura criminale in grado di bandire la maggior parte dei partiti politici e delle attività alla stregua della Cina comunista o della Russia.

Questa era la situazione totalitaria abbozzata nel Russiagate, ma che sta culminando in un’incriminazione che non è soltanto incostituzionale, ma cerca di rimpiazzare ogni tipo di sistema politico aperto con uno stato di sorveglianza paranoica che stronca spietatamente ogni minaccia alla “democrazia” abusando delle leggi esistenti per colpire e mandare in galera gli oppositori politici.

E questo è ciò che è davvero in gioco qui.

L’atto d’accusa per i fatti del 6 gennaio 2021 si richiama agli editoriali sulle minacce alla democrazia, accusando l’ex presidente di “bugie destabilizzanti in merito alla frode elettorale” che “prendono di mira una funzione fondamentale del governo federale” non riuscendo però a stabilire il motivo per cui mettere in dubbio o contestare le funzioni federali dovrebbe essere un reato. Se fare pressioni sui legislatori statali e cercare elettori alternativi è un crimine, allora ogni singolo presidente prima del 1900 sarebbe stato incarcerato. Per non parlare di aspiranti personaggi politici come Alexander Hamilton. E ogni volta che i Democratici perdono un’elezione, iniziano a complottare per eliminare il Collegio Elettorale e hanno cercato di farlo attraverso la porta di servizio utilizzando vaste misure come il National Popular Vote Interstate Compact (NPVIC).

L’NPVIC e gli Stati che vi partecipano dovrebbero essere considerati come una cospirazione criminale contro una “funzione fondamentale del governo federale?” L’atto di incriminazione formulato da Smith ha creato un precedente.

L’incriminazione accusa ripetutamente il magnate e i suoi collaboratori di “frode” sul presupposto, palese per i Democratici, che Biden abbia vinto le elezioni e quindi contestarne l’esito è fraudolento. Jack Smith basa le sue accuse di frode sulle asserzioni del suo stesso partito, usando retoriche come “infondate affermazioni di frode”, “false indagini elettorali” e “false affermazioni di frode elettorale”. Tutte queste sono le opinioni di parte del procuratore piuttosto che a legge.

Ed è a questo che si riduce l’incriminazione. È illegale non essere d’accordo con i Democratici? Se lo è, come afferma Smith nel suo atto d’accusa, allora anche tutte le forme di opposizione politica sono illegali.

I Democratici e i loro media sostengono che l’incriminazione è apolitica quando non è soltanto il prodotto di pregiudizi politici, ma può anche esistere solo come documento politico democratico che non ha rilevanza per un ordinamento giuridico indipendentemente dai suoi pregiudizi. In una visione del mondo democratica, Trump ha fatto “false affermazioni” su un’elezione che ha perso.

Ma, come molte cose in politica, questa è un’opinione, non un dato di fatto.

Si possono incriminare le persone per quello che fanno, non per quello in cui credono, eppure Smith si accanisce ossessivamente su ciò in cui Trump credeva perché in mancanza di ciò, non c’è reato. E se non c’è reato senza credenza, allora non c’è mai stato un reato da cui cominciare.

Smith afferma che Trump ha reso “false dichiarazioni” perché, tra le altre cose, il Segretario di Stato del Nevada ha pubblicato un documento intitolato “Fatti contro Miti”. Secondo l’incriminazione, non è possibile che il Presidente degli Stati Uniti e il Segretario di Stato del Nevada siano in disaccordo ed è illegale che il primo non si pieghi all’autorità del secondo.

I Democratici che nel 2000 respinsero le conclusioni del segretario di Stato della Florida Katherine Harris, che fu poi biasimata, minacciata e derisa, non vennero processati. Il problema non sono le posizioni relative, ma la politica relativa di Repubblicani e Democratici.

I Democratici hanno trascorso le ultime due generazioni a criminalizzare il dissenso politico. Gli attivisti ambientalisti chiedono che le compagnie petrolifere e del gas siano accusate di frode perché “negano” il riscaldamento globale. I dipartimenti di polizia aprono indagini sulla violazione dei diritti civili quando mettono in dubbio le accuse di razzismo sistemico. L’incriminazione per i fatti del 6 gennaio 2021 fa parte di un programma totalitario che rigetta l’idea del dissenso politico e la centralità del dibattito in seno al mercato delle idee nel nostro sistema.

Questo atto d’accusa non costituisce soltanto una minaccia per un ex presidente, ma anche per il Bill of Right (la Dichiarazione dei Diritti).

Se l’atto d’incriminazione formulato da Smith avesse successo, la libertà morirebbe e il dissenso diventerebbe illegale. Non essere d’accordo con la Sinistra non porterà più soltanto alla perdita del lavoro o a discussioni sui social media, ma anche ad arresti, processi giudiziari e a pene detentive. Ciò che è in gioco qui è la sopravvivenza dell’America.

Daniel Greenfield è Shillman Journalism Fellow presso il David Horowitz Freedom Center. Quest’articolo è stato precedentemente pubblicato su Front Page Magazine.

5836.- Vietato scrivere la verità su migranti, femministe e lgbt. Gogna vergognosa al generale della Folgore Vannacci “linciato” per averla scritto in un libro e travisato.

C’era una volta la libertà d’opinione, finché fummo messi in vendita. Ora, a ‘mò di santa inquisizione, c’è una sinistra omosessuale e anti italiana che deve e vuole censurare le opinioni inoffensive ma diverse dalle sue su migranti e gay e vige la difesa, all’estremo, di ogni forma di delinquenza. Nel libro “Mondo al contrario” a firma del generale sono elencate molte delle contraddizioni che siamo “obbligati” a subire da una politica e un’informazione serve di interessi contrari a Cristo e non sono tutte. C’è una politica che fa quel che può, ma santifica se stessa ogni giorno; eppure, la democrazia non può reggersi sull’indifferenza alla verità e al bene comune. Questa politica, per esempio, non può o ha paura di dichiarare una sua corresponsabilità negli eventi meteorologici, dannosi, che stiamo affrontando da soli, soli come sempre. Degli accordi sugli esperimenti climatici sottoscritti dai nostri governi con gli Stati Uniti si può solo leggere, non parlare. Chi rompe il silenzio è un bastian contrario. Alla gogna, chiunque esso sia.

Onore al generale patriota Vannacci che non arretra di 1 millimetro


17 Agosto 2023
da NicolaPorro.it – Dopo il polverone, le spiegazioni. Il generale di Divisione Roberto Vannacci, dopo le notizie esplose sul suo libro recentemente pubblicato e già sulla cima delle vendite di Amazon, rompe il silenzio e parla […]

da NicolaPorro.it – Dopo il polverone, le spiegazioni. Il generale di Divisione Roberto Vannaccidopo le notizie esplose sul suo libro recentemente pubblicato e già sulla cima delle vendite di Amazon,rompe il silenzio e parla di “frasi estratte dal contesto” per costruire “storie che dal libro non emergono”. Insomma: una “decontestualizzazione” che avrebbe portato al “processo delle opinioni”.

Il caso si fa strada quando Repubblica pubblica un articolo-recensione sul “Mondo al contrario” a firma del generale, già comandante della Folgore, operativo in diversi scenari di guerra e ora alla guida dell’Istituto geografico militare. I titoli dei giornali sono tutti per lui: dalla frase sul sentirsi erede di Giulio Cesare alle invettive contro la dittatura delle minoranze e quel modo di fare politicamente corretto che sembra leggere la realtà all’opposto, appunto, di come la vivono le persone comuni.

È un libro che prende le distanze da un mondo in cui “gli occupanti abusivi delle abitazioni prevalgono sui loro legittimi proprietari”. Una nuova società dove “si spende più per un immigrato irregolare che per una pensione minima di un connazionale” e dove “l‘estrema difesa contro il delinquente che ti entra in casa viene messa sotto processo”.

Il generale si scaglia contro chi ci obbliga “ad adottare le più stringenti e costosissime misure antinquinamento” mentre “i produttori della quasi totalità dei gas climalteranti se ne fregano e prosperano”. Un mondo “al contrario”, come dice il titolo, dove “definirsi padre e madre diventa discriminatorio, scomodo ed inclusivo perché urta con chi padre o madre non è” e dove “non sai più come chiamare una persona di colore perché qualsiasi aggettivo riferito all’evidentissima e palese tinta delle sua pelle viene considerata un’offesa”

Prima la sentenza, poi, il processo. Funziona così nell’Italia culattina.

Guido Crosetto:

Non utilizzate le farneticazioni personali di un Generale in servizio per polemizzare con la Difesa e le Forze Armate. Il Gen. Vannacci ha espresso opinioni che screditano l’Esercito, la Difesa e la Costituzione. Per questo sarà avviato dalla Difesa l’esame disciplinare previsto.

Guido Crosetto: Non utilizzate le farneticazioni personali di un Generale in servizio per polemizzare con la Difesa e le Forze Armate. Il Gen. Vannacci ha espresso opinioni che screditano l’Esercito, la Difesa e la Costituzione. Per questo sarà avviato dalla Difesa l’esame disciplinare previsto.

Tuttavia alcune frasi, in particolare quelle sui gay (“normali non lo siete”) o su Paola Egonu (“è italiana di cittadinanza, ma è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità”), hanno portato prima l’Esercito a prendere le distanze “dalle considerazioni del tutto personali espresse dall’Ufficiale”. E poi il ministro Guido Crosetto ci ha messo il carico da undici, definendo le opinioni di Vannacci delle “farneticazioni” che “screditano l’Esercito, la Difesa e la Costituzione”. Inutile star qui a citare le numerose richieste di dimissioni da parte della sinistra tutta.

Le Forze armate hanno avviato un esame disciplinare, per capire se il generale ha infranto o meno qualche regola interna. Lui intanto si difende. “Le critiche non mi disturbano affatto e al ministro Crosetto non replico – dice all’Ansa – mi attengo a quelle che sono le sue disposizioni. Ciò che mi procura disagio è la strumentalizzazione: sono state estratte frasi dal contesto e su queste sono state costruite storie che dal libro non emergono. Sono amareggiato dalla decontestualizzazione e dal processo a delle opinioni”. Vannacci si dice pronto a “confrontarmi sulle mie opinioni e nel campo delle argomentazioni”. Spiega che quel “non siete normali” rivolto agli omosessuali non aveva accezioni negative o positive, perché “l’anormalità non è migliore o peggiore, non è buona o cattiva”. Infine rivendica che “la libertà di opinione è una delle radici della nostra radice libera e occidentale”. E si paragona a Giordano Bruno augurandosi che “nessuno voglia imporre un modo di vedere la realtà”. Poi conclude: “Hanno fatto una grande pubblicità al libro, magari le vendite aumenteranno. Per le illazioni fatte io non ho problemi a rispondere nel merito, sarò ben lieto di farlo”