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5135.- Perché è sbagliato definire l’Ucraina “il granaio del mondo”.

Ora che tutto il raccolto di grano e di mais del 2021 è bloccato nei silos in Ucraina, abbiamo scoperto che una parte del vantato grano italiano veniva da quella terra. L’Ucraina è uno dei principali produttori mondiali di grano oltre ad essere un importante produttore di mais. Circa 30 milioni di tonnellate di mais e circa 25 milioni di tonnellate di grano sono state raccolte nel paese nel 2020, secondo le Nazioni Unite. Solo nei porti, sarebbero ad oggi, depositate circa 4,5 milioni di tonnellate di grano, mentre il quantitativo di grano presente nelle zone occupate, è pari a 1,5 milioni di tonnellate. Non possono essere spostate via terra e né via mare, a causa di rotte marittime non sicure. La precauzione da parte delle forze d’interdizione della flotta russa è d’obbligo, perché le rotte sono state minate dagli ucraini. Perciò, i porti risultano inaccessibili. “Nessuna parte di quel grano può essere utilizzata in questo momento” e potrebbe deperire. Sarebbe interessante sapere come si stanno muovendo le multinazionali Cargill, DuPont e Monsanto.

L’Ucraina è uno dei principali produttori mondiali di grano oltre ad essere un importante produttore di mais. Circa 30 milioni di tonnellate di mais e circa 25 milioni di tonnellate di grano sono state raccolte nel paese nel 2020

L’Ucraina è stata recentemente definita “granaio del mondo” soltanto perché Kiev produce effettivamente decine di milioni di tonnellate di grano, esportandone di fatto quasi i due terzi complessivi. Dati alla mano – dati della Food and Agriculture Organization of the United Nations (FAO) – nel 2020 gli ucraini hanno raccolto circa 25 milioni di tonnellate di grano, per l’esattezza 24.912.350 tonnellate, vendendone all’estero più o meno 18 milioni.

L’evolversi della guerra, con l’esercito russo che ha preso possesso di Mariupol e di una lunga fetta di fascia costiera ucraina, ha spinto la comunità internazionale ad interrogarsi sul futuro delle esportazioni del grano prodotto da Kiev. Come farà l’Ucraina ad esportare il suo grano via mare se la maggior parte dei porti meridionali sono finiti sotto il controllo del Cremlino?

Le opzioni di inviare il grano via terra o tramite treno sono improbabili se non impossibili. Nel primo caso, infatti, servirebbe un’enorme quantità di tir; nel secondo, occorerebbero standard di sicurezza che, almeno per il momento, non sono presenti nel territorio ucraino. Morale della favola: numerosi governi occidentali stanno ripetendo all’unisono che il blocco russo dei porti ucraini provocherà presto una catastrofe alimentare globale, visto che l’Ucraina è, appunto, il “granaio del mondo”, ovvero il Paese dal quale dipenderebbe il sostentamento alimentare di tutti noi.

I dati della FAO

In realtà, a leggere i dati della FAO relativi al 2020 si evince che non solo l’Ucraina non è il “granaio del mondo”; non lo è neppure dell’Europa. Nella classifica dei dieci principali Paesi produttori di grano, l’Ucraina piuttosto in basso, tra Pakistan e Germania.

Al primo posto – è lei sì che può essere definita “granaio del mondo” – troviamo la Cina. Pechino, sempre considerando l’annata 2020, l’ultima registrata dalla FAO, ha prodotto qualcosa come 134.250.000 tonnellate di grano. Alle spalle del Dragone troviamo un altro Paese asiatico, l’India, con 107.590.000 tonnellate di grano. Sul gradino più basso del podio ecco la Russia (85.896.326), seguita da Stati Uniti (49.690.680), Canada (35.183.000) e Francia (30.144.110). La top 10 si conclude con Pakistan (25.247.511), Ucraina (dati riportati sopra), Germania (22.172.100) e Turchia (20.500.00).

Per quanto riguarda la classifica dei dieci Paesi dotati della produzione lorda di grano più preziosa, anche in questa top 10 l’Ucraina è ben lontana dalle prime posizioni, piazzandosi soltanto ottava. L’aspetto più curioso, come anticipato, è che Kiev non potrebbe teoricamente esser considerata neppure il “granaio d’Europa“. Il motivo è semplice: Russia e Francia producono più grano dell’Ucraina, ferma al terzo posto.

L’importanza dell’Ucraina

Sia chiaro: questo non significa che il blocco delle esportazioni di grano contro il quale sta combattento l’Ucraina non sia importante o non abbia risvolti su numerose nazioni povere o poverissime.

Ad esempio, come ha sottolineato Foreign Policy, tra queste nazioni troviamo il Libano. La solita FAO ha stimato che la metà del grano consumato a Beirut e dintorni nel 2020 fosse di provenienza ucraina. Nel medesimo anno, il più grande consumatore di grano “made in Kiev” è stato l’Egitto, con importazioni per oltre 3 milioni di tonnellate. Libia e Yemenhanno importato dall’Ucraina il 43% e il 22% del loro grano, mentre Malesia, Indonesia e Bangladesh si fermano rispettivamente a 28% i primi due e 21% il terzo.

In conclusione, dal grano ucraino dipendono moltissimi Paesi, ma è fuorviante collegare il problema della fame nel mondo, nonché l’aumento dei prezzi del grano, solo e soltanto alla guerra in Ucraina o al blocco del porto di Odessa. Tutto ciò che accade nel territorio ucraino in questi giorni ha sicuramente un peso da non trascurare, ma il conflitto ucraino non è l’unica ragione da prendere in considerazione.

Ue valuta missione navale

In merito a quanto sta accadendo in Ucraina, il quotidiano spagnolo El Pais ha fatto sapere che l’Unione europea sta valutando la possibilità di lanciare una missione navale per scortare il passaggio delle navi di grano ucraino attraverso il Mar Nero, infestato da mine e presidiato da navi e sottomarini russi. L’operazione navale per sbloccare il grano ucraino comporterebbe un “rischio estremo” per l’Ue. Il motivo è presto detto: potrebbe portare ad uno scontro con la Marina russa.

Tuttavia, Bruxelles teme che l’attuale crisi alimentare mondiale possa tradursi in un “crimine contro l’umanità” in quei Paesi i cui fabbisogni alimentari più elementari dipendono dalle esportazioni ucraine. L’Ue, ha quindi sottolineato il giornale, è pronta a mobilitare tutte le risorse possibili per la rimozione del grano accumulato nei silos e nei porti ucraini. Nelle conclusioni della bozza del vertice, visionate dal Pais, si “condanna severamente la distruzione e l’appropriazione illegale della produzione agricola ucraina da parte della Russia”. E si chiede a Mosca di “porre fine al limite massimo consentito di esportazione di generi alimentari, soprattutto nella regione di Odessa”.

2608.- QUANDO A GOVERNARE SI MANDANO LE CHIACCHERE

Il Ceta, il trattato di libero scambio fra Unione Europea e Canada, è in vigore solo sperimentalmente da due anni e per una parte e possiamo ratificarlo o rifiutarlo. Se il governo non lo ha messo in agenda, sta tradendo non solo gli agricoltori, ma tutti gli italiani. Tra le clausole che diventeranno operative con la ratifica nazionale, che l’Italia finora si è rifiutata di fare, c’è la libera importazione di alimenti, tra cui la carne.  La prima questione ad essere sollevata è se i requisiti europei in materia di etichettatura delle carni siano adeguati per garantire che i clienti dell’Ue siano pienamente informati sull’origine e le condizioni di crescita delle carni importate nell’ambito del Ceta. Ai sensi della normativa europea, le etichette delle carni bovine e dei prodotti a base di carne, fresche o congelate, devono indicare il paese di origine. Ciò è definito sia dal paese in cui è stato allevato l’animale sia da dove è stato macellato. I regolamenti europei rimuovono qualsiasi spazio di interpretazione attraverso uno schema dettagliato per determinare il paese di origine, a seconda dell’età di macellazione, del peso e delle specie dell’animale. Al contrario, la carne importata canadese può essere stata in parte allevata negli Stati Uniti in base alle normative statunitensi, mentre il suo paese di origine ufficiale è il Canada. Le normative e i requisiti di etichettatura odierni possono lasciare il consumatore ignaro della sua vera origine.

Teresa Bellanova,  dal Villaggio contadino allestito da Coldiretti a Bologna, fa retromarcia, ma solo sugli Ogm: “Gli Ogm sono vietati in Italia e tali rimarranno. Sul Ceta, invece, insiste: “Il trattato Ceta non l’ho fatto io e non è in discussione adesso in Parlamento: il Ceta c’è, è in vigore (FALSO! è solo sperimentale e per una parte e possiamo rifiutarlo). Ha voluto difendersi, tuttavia, vi sono alcune preoccupazioni sull’uso delle colture Ogm nei mangimi. In effetti, queste colture sono consentite all’interno dell’UE come mangime per bestiame e non come cibo, e non è necessario che siano menzionati nell’etichettatura del pacchetto.

È teoricamente vietato importare in Europa carne di animali trattati con ormoni della crescita. Tuttavia, l’accordo commerciale rimane silente per quanto riguarda l’importazione di scarti di origine animale e di animali allevati con antibiotici. Ad esempio, alcune aziende stanno già promuovendo la loro carne etichettando il benessere degli animali. La valutazione del benessere degli animali si basa su riferimenti scientifici internazionali e oltre 230 criteri. L’etichettatura della carne rimane la principale preoccupazione dei consumatori nell’Ue, e il Ceta ne aggiunge delle nuove.

In realtà, il trattato tra Europa e Canada è entrato in funzione solo in parte in via sperimentale, dopo l’ok dell’Unione europea, ma spetta ai singoli Stati accettare anche le parte più controverse (come l’armonizzazione degli standard di produzione alimentare), tramite una ratifica. Decisione che fino ad ora l’Italia non ha preso, al contrario di altri paesi tra cui la Francia. Questi Stati – tra cui, appunto, la Francia – hanno adottato schemi sperimentali di etichettatura di origine obbligatoria per carne o ingredienti a base di carne. A seconda delle norme nazionali, l’origine canadese della carne può essere etichettata. Ma quello della carne è solo uno dei problemi.

CETA: Crolla export di Grana Padano e Parmigiano: noi l’avevamo detto!

20 Settembre 2019

Anniversario flop per il CETA, con -32% sull’export di Grana Padano e Parmigiano Reggiano nel primo semestre 2019, mentre il Canada festeggia la produzione di ben 6,3 milioni di chili di Parmesan (falso Parmigiano Reggiano), in aumento del 13% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e la netta crescita dell’esportazione in Italia di grano trattato con glifosato in preraccolta.

Un crollo devastante delle esportazioni in Canada di questi simboli agroalimentari del Made in Italy, che si sono ridotte praticamente di un terzo, scendendo a soli 1,4 milioni di chili nel primo semestre del 2019, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Tra i prodotti interessati dalla flessione anche un altro campione tutto italiano come l’olio di oliva, che registra un brusco calo delle esportazioni in Canada, pari al 20% nelle quantità e al 27% in valore.

Ecco i risultati dell’analisi della Coldiretti, sulla base dei dati Istat, a due anni dell’entrata in vigore in via provvisoria dell’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Canada, CETA, nonostante a oggi sia stato ratificato solamente da 15 nazioni su 28.
“La presenza sui mercati esteri è vitale per il made in Italy – precisa il presidente di Coldiretti Ettore Prandini -, ma negli accordi di libero scambio vanno garantite reciprocità delle regole ed efficacia delle barriere non tariffarie, perché non è possibile agevolare l’importazione di prodotti ottenuti secondo modalità vietate in Italia. Il settore agricolo non deve diventare merce di scambio degli accordi internazionali senza alcuna considerazione del pesante impatto sul piano economico, occupazionale e ambientale sui territori”.

L'accordo CETA favorisce il falso made in Italy
cesto canadese

Perchè il CETA favorisce il falso made in Italy

Come prospettato, la diffusione del falso Made in Italy ha ridotto lo spazio ai prodotti italiani originali. Lo dimostra il fatto che il  Canada festeggi questo anniversario con un primo semestre del 2019 caratterizzato dalla produzione di:

  • 6,3 milioni di chili di falso Parmigiano Reggiano (Parmesan), al +13% sul I semestre 2018;
  • 4,5 milioni di ricotta locale;
  • 1,9 milioni di chili di Provolone taroccato;
  • 74 milioni di chili di mozzarella;
  • 228mila chili di un “fantomatico” formaggio Friulano.

In sostanza, oggi sono falsi 8 pezzi di Parmigiano su 10, senza considerare i tarocchi esportati in Canada da altri Paesi grazie all’accordo CETA, che ha legittimato per la prima volta nella storia dell’Unione Europea le imitazioni del Made in Italy. Basti considerare che il Parmigiano Reggiano può essere liberamente prodotto e commercializzato dal Canada con la traduzione di Parmesan. Ma è anche possibile produrre e vendere Gorgonzola, Asiago e Fontina, mantenendo una situazione di ambiguità che rende difficile al consumatore distinguere il prodotto originale ottenuto nel rispetto di un preciso disciplinare di produzione dall’imitazione di bassa qualità.

Un precedente disastroso, riproposto negli accordi successivi: da quello con il Giappone a quello con il Messico, fino al negoziato drammaticamente concluso con i Paesi del Mercosur, grandi produttori di formaggi italiani taroccati.

CETA, la situazione dei formaggi italiani

Ecco, nello specifico, i prodotti del settore caseario nazionale più colpiti secondo l’analisi Coldiretti su dati Istat relativi al primo semestre del 2019:

  • Parmigiano Reggiano e Grana Padano: -32%;
  • Provolone: – 33%;
  • Gorgonzola: -48%;
  • Fiore sardo e Pecorino romano: -46%
  • Asiago, Caciocavallo, Montasio e Ragusano: -44%

Un totale che vale, appunto, -32% sull’export di questi prodotti verso il Canada rispetto al primo semestre del 2018.

Mentre il Canada gioisce…

Al contrario, aumentano di quasi 9 volte la quantità di grano importato dal Canada in Italia nel primo semestre del 2019 rispetto allo stesso periodo del 2018, per un totale di 387 milioni di chili. Il balzo delle importazioni è favorito dalla concorrenza sleale di prodotti che non rispettano le stesse regole di sicurezza alimentare e ambientale vigenti nel nostro Paese. Il grano duro canadese viene infatti trattato con l’erbicida glifosato in preraccolta, secondo modalità vietate sul territorio nazionale dove la maturazione avviene grazie al sole.

Preoccupano anche le conseguenze sulle importazioni di carne canadese, visto che nel Paese nord americano per l’alimentazione degli animali è consentito l’uso di derivati di sangue, peli e grassi trattati ad alte temperature, senza indicazione in etichetta. Un sistema che in Europa è vietato da oltre venti anni a seguito dello scandalo della mucca pazza.

“Gli accordi di libero scambio siglati dall’Unione Europea devono rappresentare una priorità per il nuovo Governo, affinchè sia garantito che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali ed europei ci sia un analogo percorso di qualità che riguarda l’ambiente, il lavoro e la salute”, conclude il presidente Prandini.

L’opinione degli imam

A questa invasione del mercato agricolo-alimentare italiano, si sommano le turbe dei politicanti da quattro soldi pro-migranti e pro-islam (non bastava il Vaticano!). A Bologna, i tortellini si faranno senza carne di maiale, per compiacere il profeta.

2366.- Il mondo scomparso dei contadini

L’evoluzione della società agricola italiana in società industriale avvenne con la Prima Guerra Mondiale, trovò impulso nell’I.R.I. e produsse il miracolo economico, fino a che non subì l’impatto delle politiche di austerità e delle diseguaglianze attuate dall’Unione europea.

Lo storico Adriano Prosperi ci riporta in un contesto remotissimo che abbiamo del tutto rimosso, ma che ci riguarda da molto vicino: la vita (e la miseria) nelle campagne italiane dell’800. E’ Massimo Bucciantini, storico della scienza, ad accompagnarci alla scoperta del libro scritto da Prosperi, “Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento”. E’ proprio attraverso la scienza, e in particolare attraverso il lavoro e l’osservazione dei medici dell’epoca, che siamo infatti in grado di ricostruire le condizioni di vita della classe contadina italiana dell’Ottocento. Il saggio di Prosperi parte dalle considerazioni del medico Bernardino Ramazzini (1633-1714), che si dedicò all’osservazione delle condizioni di lavoro e dialogò con i più umili per chiarire le cause dei loro disturbi si salute. Prosegue con le statistiche di Melchiorre Gioia, con il lavoro dei medici prima e dopo il 1848, con le considerazioni nell’Italia unita sull’igiene, intesa come vangelo borghese della salute o differenza di razza (ecco Paolo Mantegazza e Cesare Lombroso). Un capitolo, tra gli altri, è sulle condizioni materiali di vita dei contadini nell’inchiesta di Luigi Bodio (1840-1920), economista e statistico. Un altro sul medico Agostino Bertani (1812-1886) e sulle inchieste agrarie.
Prosperi, osserva Massimo Bucciantini, ci aiuta a gettare uno sguardo sui «contadini che siamo stati». E lo fa partendo da alcune domande che possono sembrare banali nella loro semplicità. Come si viveva e cosa si mangiava nelle campagne italiane nell’Ottocento e nel primo Novecento, quali erano le condizioni di vita dei lavoratori della terra, ovvero degli uomini, delle donne e dei bambini che erano costretti a lavorare per gran parte dell’anno dieci o dodici ore al giorno? Come si viveva in case sudicie e fatiscenti, piene di umidità, con muri formati di rottami e di cocci, con il tetto fatto di canne o paglia, spesso composte di due sole stanze, una per la famiglia e l’altra per gli animali? Sono domande che confliggono con l’immagine dell’altra Italia, con il Paese definito – e oggi pubblicizzato – delle «cento città». Qui c’è ben altro, c’è il basso popolo delle «cento campagne»: oltre quindici milioni di persone unite dal segno inconfondibile della miseria, delle malattie e della subalternità economica e culturale. Non i salotti, i caffè, le biblioteche, i circoli letterari, le redazioni di giornali, le accademie, i luoghi tipici della sociabilità borghese così bene ricostruiti da uno storico come Marino Berengo. E la frattura tra questi due mondi in Italia – a differenza di altri paesi come la Francia – è stata insanabile. Se le «cento città» sono servite a mettere in risalto il lato moderno e innovativo della nazione e della sua classe dominante, è altrettanto vero che questa immagine ha finito per nascondere l’altra faccia della medaglia: un paese non meno vero e reale, abitato da una classe contadina a cui è toccato di pagare il prezzo più alto e il cui sacrificio è stato completamente dimenticato.

Dal menu della Domenica del Sole 24 Ore

1920.- Paolo Barilla: Pasta senza glifosato? Il costo, da 20 centesimi, passerebbe a 2 euro a piatto. Lo scippo del grano sardo.

Lo scippo del grano sardo Senatore Cappelli trovò d’accordo l’allora Ministro Martina – quello che blatera oggi su tutto il da farsi – e continua. Mentre il Sud si conferma la ‘colonia’ del Centro Nord Italia, esattamente come dopo la ‘presunta’ unificazione italiana del 1860. Allora i piemontesi spedivano in Sicilia Cialdini di turno per scannare i contadini meridionali che si rifiutavano di andare a servire per sette anni – tanto durava il servizio militare – un regno che il Sud non riconosceva. Il Ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali Gian Marco Centinaio deve intervenire in fretta

Oggi le industrie del Centro Nord tengono basso il prezzo del grano duro ordinario per potere fare affari con il grano duro canadese, regalando ai consumatori pasta industriale con glifosato e micotossine.

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Paolo Barilla è presidente dell’Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane: un imprenditore che guarda al profitto. Si giudica da solo.
da i I Nuovi Vespri 13 agosto 2018

Paolo Barilla dice il vero; ma la questione va ribaltata con la seguente domanda: che cosa contiene la pasta che costa 20 centesimi di euro a piatto? Ci vogliono fare credere che i contaminanti – glifosato, ma non solo – non fanno male alla nostra salute? Il ruolo del mercato di Chicago e della UE: E l’assenza del Governo nazionale e delle Regioni

E’ di qualche giorno fa la prima, clamorosa condanna per la Monsanto, la multinazionale che ha riempito il mondo di glifosato, un erbicida molto utilizzato in agricoltura (e, purtroppo, anche dalle pubbliche amministrazioni che, per diserbare le strade, risparmiano sulla manodopera utilizzando il glifosato!).

Come i lettori di I Nuovi Vespri sanno, il blog conduce da tempo una difficilissima battaglia contro il grano duro estero pieno di glifosato che arriva in Italia. Ci sono state pure due denunce e si è finiti in Tribunale a Roma. E’ andata bene, ma questo dà la misura delle difficoltà che si incontrano quando, con le inchieste, si toccano certi temi (e, soprattutto, certi interessi).

Oggi torniamo sulla vicenda glofosato-grano duro partendo da una dichiarazione di Paolo Barilla, presidente dell’Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane e vicepresidente dell’omonimo gruppo:

“Per l’industria tutto dipende da che tipo di prodotto produrre e a quali costi, perché se noi dovessimo fare un prototipo di pasta perfetta, in una zona del mondo non contaminata, senza bisogno di chimica, probabilmente quel piatto di pasta invece di 20 centesimi costerebbe due euro. Una pasta a ‘glifosato zero’ – aggiunge il vicepresidente dell’omonimo gruppo – è possibile, ma solo alzando i costi di produzione. Si sta dando molta enfasi a qualcosa che non è un rischio – spiega Paolo Barilla – noi rispettiamo le norme, la nostra filosofia d’impresa ci impone anche un ulteriore principio della cautela che realizziamo attraverso i nostri controlli. Detto questo, per arrivare ai limiti previsti dalla legge bisognerebbe mangiare duecento piatti di pasta al giorno”. (SU I NUOVI VESPRI TROVATE L’INTERVISTA A PAOLO BARILLA PER ESTESO).

Non entriamo nel merito dell’azione del glifosato sulla nostra salute, tema che abbiamo affrontato più volte e che, proprio qualche giorno fa, è stato ricordato da Cosimo Gioia in una lettera al Ministro delle Politiche agricole, Gian Marco Centinaio: lettera nella quale Gioi arriva a conclusioni molto diverse da quelle espresse da Paolo Barilla (SU I NUOVI VESPRI TROVATE LA LETTERA DI COSIMO).

Noi, oggi, vogliamo ribaltare il ragionamento di Paolo Barilla.

Il numero due del gruppo Barilla afferma:

Se noi dovessimo fare un prototipo di pasta perfetta, in una zona del mondo non contaminata, senza bisogno di chimica, probabilmente quel piatto di pasta invece di 20 centesimi costerebbe due euro”.

Bene. Ribaltiamo il ragionamento con una domanda: che cosa contiene il piatto di pasta che costa 20 centesimi di euro?

Il problema è tutto lì. Gli industriali della pasta sostengono che il grano duro prodotto in Italia non basta alle stesse industrie. Ma allora come mai buona parte del grano duro del Mezzogiorno d’Italia dello scorso anno e buona parte della produzione di quest’anno è invenduto?

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Grano Cappelli, consorzio sardo beffato: invenduti 8000 quintali
Il passaggio dell’esclusiva agli emiliani blocca le vendite come varietà da semina. Dice la giovane presidente del Consorzio sardo Grano Cappelli, Laura Accalai -, era un punto fermo, riconosciuto a livello nazionale, perché è difficile farlo bene. Ora non è più possibile perché l’esclusiva l’ha vinta la Sis. Possiamo commerciarlo solo come grano da macina. Un’operazione che va esattamente nel senso contrario di ciò che dovrebbero essere le politiche agricole e che ha di fatto privato il Consorzio e la ditta sementiera Selet di Tuili di un bene creato con un lavoro trentennale che cominciava a dare i suoi frutti”.
In calce, leggiamo l’articolo di Antonello Palmas per La Nuova Sassari

Le industrie della pasta dovrebbero acquistare il grano duro prodotto in Italia e, poi, se non dovesse bastare,il grano duro estero.

Perché, invece, le industrie della pasta acquistano prima il grano duro estero, contribuendo a far precipitare il prezzo del grano duro del Sud del nostro Paese a 18 euro circa al quintale, ben al di sotto del costo di produzione dello stesso grano duro del Mezzogiorno d’Italia, che oscilla tra 23 e 24 euro al quintale?

La verità è che, a monte di questa storia, c’è una speculazione internazionale che parte da Chicago, il più importante mercato dei cereali del mondo. Da Chicago si arriva a Bruxelles, con le politiche dell’Unione Europea che puntano a scoraggiare la produzione di grano duro, con il ricorso al Set-Aside (in inglese, letteralmente, mettere da parte): un regime agronomico adottato nell’ambito della politica agricola comune dall’Unione europea nel 1988, che consisteva nel ritiro dalla produzione di una determinata quota. E’ noto che l’Unione europea non tutela la salute.

In terza battuta c’è il Governo nazionale, che fino ad oggi non solo non ha sostenuto la cerealicoltura del Sud Italia, ma ha delegato all’industria le scelte in materia agricola!

In quarta battuta ci sono le Regioni. I Presidenti delle due Regioni del Sud Italia più importanti per la produzione di grano duro – Michele Emiliano per la Puglia e Nello Musumeci per la Sicilia – rispetto a questo tema sono praticamente ‘latitanti’.

Il risultato di tutto questo è duplice:

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Da una parte, nel Sud Italia, negli ultimi anni, si registra l’abbandono di circa 600 mila ettari di seminativi;
dall’altra parte, il nostro Paese è letteralmente sommerso dal grano duro estero, con in testa il grano duro canadese, che continua ad arrivare in Italia. È bene precisare che la maturazione indotta con il glifosato – riguarda le aree fredde e umide del Canada. Poi ci sono altre zone del Canada dove si produce un ottimo grano duro, ma questo “noi” non lo acquistiamo.

A conti fatti, sono le scelte ‘esterne’ all’Italia (leggere scelte imposte dalle multinazionali), avallate dal Governo nazionale e dalle Regioni (queste ultime potrebbero promuovere i controlli sulla sanità del grano estero: se lo facessero, gran parte di questo prodotto verrebbe rimandato al mittente e le industrie della pasta italiana sarebbero costrette ad acquistare grano duro del Sud Italia; aumentando la domanda, il prezzo del grano duro del Sud Italia salirebbe).

Invece avviene l’esatto contrario: vincono le multinazionali, il grano duro del Sud Italia costa 18 euro al quintale e rimane invenduto e trionfa la pasta industriale che costa 20 centesimi di euro a piatto.
Ma cosa c’è nel piatto di pasta che costa 20 centesimi di euro?
Provate a darvi la risposta da voi…

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Si parla del glifosato contenuto nel grano duro che arriva dal Canada e delle micotossine nei derivati del grano, ma come fare a individuare un pane fatto con grano che contiene micotossine?

“Il grano canadese che arriva in Europa è un rifiuto speciale che finisce sulle nostre tavole”

Lo racconta il noto micologo pugliese, Andrea Di Benedetto, che, da anni, si occupa dei problemi del grano duro e di micotossine. Questo ‘regalo’ lo dobbiamo all’Unione Europea che, dal 2006, in seguito alle pressioni delle lobby, consente l’arrivo, con le navi, di grani duri che in altre parti del Mondo vengono smaltiti come rifiuti tossici. Il problema vale per tutti i consumatori europei ma, in particolare, per gli italiani: soprattutto per gli abitanti del Sud Italia che, in media, tra pasta, pane, pizze, dolci ingeriscono ogni anno 130 chilogrammi di derivati del grano. Da qui l’aumento di malattie: Morbo di Crohn, Parkinson, Autismo e altre patologie autoimmuni. E anche la Gluten sensitivity, scambiata per Celiachia
“Partiamo da una semplice considerazione – ci dice il micologo Di Benedetto -: un grano che ha viaggiato molto deve costare di più. Invece, con riferimento al grano duro che arriva dal Canada, avviene l’esatto contrario: alcune partite di grano duro costano poco. Questo ci dovrebbe fare riflettere”.
Si parla del glifosato contenuto nel grano duro che arriva dal Canada e delle micotossine nei derivati del grano. E’ il caso del cosiddetto DON, acronimo di Deossinivalenolo. La presenza di questa micotossina nei mangimi prodotti e commercializzati in Canada, in una quantità oltre a mille ppb (sigla che sta per parti per miliardo ndr), crea seri problemi agli animali monogastrici, che non progrediscono nella crescita”.
L’Unione Europea, nel 2006, in seguito alle pressioni delle lobby, ha fissato il limite di questa micotossina a 1750 ppb”.

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Il grano duro che in Canada non si potrebbe utilizzare nemmeno per gli animali è un rifiuto tossico e speciale, che dovrebbe essere smaltito con certi costi. Un prodotto che, invece, finisce sulle tavole dei consumatori europei”.
Lo portano con le navi. Questo grano duro pieno di DON viene miscelato con i nostri grani duri – parlo dei grani duri del Sud Italia che hanno un contenuto di DON pari a zero – e poi viene utilizzato per produrre pasta, pane, pizze, dolci e via continuando”. In condizioni normali i villi intestinali non assorbono il glutine. Il DON altera la funzione dei villi intestinali che iniziano ad assorbire il glutine dall’intestino che, a propria volta, va nel sangue e crea problemi al nostro organismo”: per esempio, la Sla e il morbo di Alzheimer, il morbo di Crohn. Poi ci sono malattie del sistema nervoso: per esempio Parkinson, Autismo e altre patologie autoimmuni”.

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Nelle farine per il pane, spesso, ci sono meno controlli e passa di tutto: glifosato, micotossine e anche metalli pesanti”. Nel Centro – Nord d’Italia c’è da rabbrividire. Si comincia con una testimonianza di alcuni tecnici di laboratorio che raccontano di aver analizzato ben 135 tipi di farine prodotte con grano tenero. E che cosa hanno trovato? Tante micro-nano particelle di ferro e di altre sostanze dannose per la salute. Metalli – nel servizio lo si dice a chiare lettere – che, a lungo andare provocano il cancro. Da qui una domanda: se il grano tenero conservato nei silos presenta ferro e altri metalli dannosi per la salute dell’uomo, che cosa si troverà nel grano duro che viene trasportato con petroliere?
Buona parte del grano tenero, oggi, arriva in Italia dall’Ungheria, dalla Bulgaria e dalla Romania. Non arriva sotto forma di farina, ma di farina impastata e surgelata ancor prima che inizi la lievitazione.
La grande distribuzione organizzata, nel Centro Nord Italia, non dà molte informazioni sul pane che mette in vendita. I consumatori leggono:
“Pane appena sfornato”.
La notizia è corretta. Ma è pane che arriva dai Paesi dell’Est europeo. E viene importato perché costa poco.
Questo ci dice che, oggi, la povertà ha raggiunto ampie fasce di popolazione del Centro Nord Italia. Perché un pane che arriva impastato nell’Est europeo, che può rimanere surgelato anche due anni, non può che essere di pessima qualità.

“La prova sulla fettina del pane è valida per escludere la presenza di due funghi che producono l’ocratossina, che è ancora più pericolosa del DON” perché sembra che sia addirittura cancerogena”. La prova è valida: serve per escludere la presenza – nelle farine con le quali è stato prodotto il pane – di Aspergillus e Penicillium, ma attenzione: anche il nostro grano duro, se conservato male, può sviluppare Aspergillus e Pennicillium e, quindi, ocratossine”. La prova è facile: se la fettina di pane conservata per sei-sette giorni produce la patina verdastra – cioè i funghi Aspergillum e Pennicillum possiamo dire che le farine erano di pessima qualità?

Possiamo dire che tutto questo nasce dal fatto che Paesi dove il grano non dovrebbe essere coltivato viene invece coltivato. Il grano è una coltura che dovrebbe essere tipica delle aree del mondo a Sud del 42 parallelo nell’emisfero boreale. In queste zone – e il Mezzogiorno d’Italia ne è un esempio classico – le radiazioni ultraviolette del sole eliminano i funghi che producono micotossine. Non altrettanto può dirsi delle aree umide, dove i grani, proprio a causa dell’umidità, sviluppano funghi e quindi micotossine”.

A causa del grano duro canadese al glifosato e alle micotossine, il Sud Italia ha abbandonato circa 600 mila ettari di seminativi.

La fusione tra la Monsanto e la Bayer

“La Monsanto è una multinazionale americana che opera nel settore dei pesticidi e degli erbicidi. La Bayer nel settore medicale. Magari sarà un po’ sinistro quello che dico, ma ho l’impressione che le multinazionali si stiano attrezzando: ci fanno ammalare e poi ci curano…”.

Le associazioni i Nuovi Vespri e GranoSalus, da cui abbiamo attinto quanto avete letto, hanno deciso di fare chiarezza su tutti i derivati del grano duro che circolano in Italia. L’associazione GranoSalus sta mettendo insieme i produttori di grano duro del Mezzogiorno d’Italia con l’obiettivo di rilanciare un prodotto di alta qualità messo in crisi dalla globalizzazione dell’economia.

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Nel nostro Paese esiste una produzione di pasta alta qualità, legata ai grani locali?

“Certo che esiste. Parliamo, ovviamente, del Sud Italia. In Molise, ad esempio, opera il Pastificio Spighe Molisane Piemme food srl. Si trova a Cerce Maggiore, a Campobasso. E’ una pasta prodotta al cento per cento con grani duri locali. Una pasta di alta qualità la si può trovare anche in Basilicata, a Stigliano, in provincia di Matera, dove opera il Pastificio Fatti in casa di Delle Fave Nunzia snc. Questo pastificio lavora solo con la cultivar di grano duro Senatore Cappelli (varietà di grano duro pugliese sulla quale ha lavorato il grande genetista Nazareno Strampelli: si tratta di un grano duro antico di altissima qualità ndr)”.

Ci sono anche la Puglia e la Sicilia.

“Certamente. In Puglia ci sono alcune realtà importanti. Segnalo il Pastificio Granoro di Corato, a Bari, azienda di medie dimensioni che lavora solo grani duri locali, ovvero grano duro al cento per cento della Puglia. Poi l’azienda Agrigiò-Candela, a Foggia, che lavora solo con il grano duro Senatore Cappelli con macina in pietra; produce pasta e pane molto ricchi di fibra. E, ancora, sempre per restare in Puglia, Il Fornaio dei Mulini vecchi di Barletta, altra azienda che lavora solo con la cultivar Senatore Cappelli con macina in pietra”.

Andiamo alla Sicilia.

“In Sicilia c’è il Pastificio Valledolmo, che lavora solo con i grani locali. E’ una bella realtà che va crescendo. Segnalo anche il Pastificio agricolo Lenato, a Caltagirone. Questa è un’azienda particolare che trasforma il grano duro che produce. E’ un’azienda agricola di circa 150 ettari che si è trasformata in un pastificio”.

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Una lapide all’esterno della casa di Strampelli reca la scritta: ‘Dove cresceva una spiga di grano ne fece crescere due’. Gli affaristi di oggi, invece, siccome non conoscono le regole della concorrenza, ‘Dove cresce una spiga ne fanno morire due’!

Eccoci, ora, al Grano Cappelli, consorzio sardo beffato: invenduti 8000 quintali
Il passaggio dell’esclusiva agli emiliani blocca le vendite come varietà da semina. La società bolognese SIS, Società italiana sementi – dietro la quale ci sono potentati del mondo agricolo nazionale cui è difficile opporsi: Negli accordi di esclusiva c’è di mezzo Coldiretti, Consorzi Agrari d’Italia (Lombardo-Veneto) & Proseme, Molino Grassi, Molino De Vita e Pastificio Sgambaro”. – che ha partecipato a un bando del Crea di Foggia e l’ha vinto, aggiudicandosi per 15 anni l’esclusiva di riproduzione e certificazione di uno dei più noti grani antichi del Sud Italia – la varietà Senatore Cappelli – e adesso impedisce la commercializzazione di questo grano duro per la semina. «Possibile commerciarlo solo per la macina. L’operazione è stata fermata (ma non bloccata, perché non sappiamo ancora come finirà questa storia, ma occorre fare in fretta»: tutto deve passare da loro! Succederà la stessa cosa con le varietà di grano duro antiche della Sicilia, dalla Tumminìa al Russello, dal Perciasacchi al Maiorca? A nostro modesto avviso, visto che è passato un principio assurdo, il pericolo c’è.
Per la cronaca, l’allora Ministro delle Politiche agricole, PD, affermò che non esisteva alcun monopolio nell’azione della Sis. Mah…”. È stato chiesto al Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura, Crea, che ha istruito il bando, l’accesso agli atti per verificarne la regolarità, senza avere avuto ancora risposta”.
L’articolo di Antonello Palmas:

TUILI. Montagne di grano duro “Senatore Cappelli” invenduto: 8000 quintali. L’appello viaggia sui social: aiutateci. È il risultato dell’operazione che ha portatola bolognese Sis all’acquisizione dei diritti di certificazione sulla pregiata qualità, bloccando una filiera che solo a livello regionale conta un centinaio di aziende, ma ci sono ripercussioni anche nel settore bio nazionale. «Prima potevamo venderlo in tutta Italia come grano da semina – dice la giovane presidente del Consorzio sardo Grano Cappelli, Laura Accalai –, era un punto fermo, riconosciuto a livello nazionale, perché è difficile farlo bene. Ora non è più possibile perché l’esclusiva l’ha vinta la Sis. Possiamo commerciarlo solo come grano da macina».

Un’operazione che va esattamente nel senso contrario di ciò che dovrebbero essere le politiche agricole e che ha di fatto privato il Consorzio e la ditta sementiera Selet di Tuili di un bene creato con un lavoro trentennale che cominciava a dare i suoi frutti. Tutto nacque grazie all’intuizione di Santino Accalai, che recuperò da un anziano contadino la varietà ormai abbandonata agli anni 60 per altre considerate più redditizie. In 30 anni quel grano ha riacquistato valore, sfondando in tutta Italia.

Ma ha attirato l’attenzione di qualcuno che ne ha capito le potenzialità. Un bando istruito con condizioni considerate inaccettabili per la piccola realtà sarda ha di fatto consegnato il piccolo gioiello, che stava creando lavoro e rappresentava un modello di efficienza, nelle mani degli emiliani della Società italiana sementi, dietro la quale ci sono potentati del mondo agricolo nazionale cui è difficile opporsi.

Il Consorzio ha affidato a facebook la sua preoccupazione e da tutta Italia arrivano richieste, ma non basta. «L’annata è stata ottima solo da noi, con 20 quintali di resa a ettaro. È il primo anno che abbiamo così tanto grano – commenta Laura, figlia di Santino – E invece dobbiamo vivere nell’ansia. Dopo quello che è accaduto ci sono 8000 quintali di “ Cappelli” invenduti». Il motivo? L’esclusiva, finita in altre mani: «Senza certificazione il nostro grano non è tracciabile, gli agricoltori dopo il raccolto non potrebbero scrivere nella documentazione che è un “Cappelli”, insomma – spiega Laura – si ritroverebbero con un grano duro qualsiasi che a quel punto riterrebbero non conveniente da seminare. Solo con l’auto-dissemina puoi prorogare la qualità, ma per un anno. Nel frattempo il piano di semina da mille ettari è sceso a zero: con questo invenduto non possiamo prendere altri impegni con gli agricoltori».

E così la montagna dorata resta nei granai. E occorre fare in fretta per smaltirla. C’è di mezzo anche il meteo. La responsabile del Consorzio: «Siamo a gennaio e ci sono anche 20 gradi e parecchia umidità, che certo non aiutano la conservazione di un grano biologico, che oltretutto non può essere trattato contro il punteruolo. Il grano è bellissimo, ma occorre vendere in fretta, non sappiamo se dura sino a giugno». Gran parte della filiera, composta da agricoltori, panificatori, agriturismo, sostiene il Consorzio: «Sono tutti arrabbiati e sperano che la situazione torni quella di prima – dice Laura – . Abbiamo mosso i nostri passi sul piano legale e chiesto, ad esempio a Crea, che ha istruito il bando, l’accesso agli atti per verificarne la regolarità, senza avere avuto per ora risposte».

E gli emiliani? «Il loro progetto era di chiudere chissà quanti contratti nel biologico, ma sappiamo che la nuova esclusiva non ha portato alla chiusura di contratti nel biologico. Nessuno ha accettato la loro intenzione di fare monopolio, anche se il ministro Martina afferma che non esiste alcun monopolio nell’azione della Sis. Mah…». La politica? «Tante promesse, ma alla fine la Regione non ha fatto nulla. Lo affermo senza polemica. Dicono che la politica ha i suoi tempi. Così come sembra inutile che la questione sia finita
in Parlamento». Ma il Consorzio non demorde: «Le idee non mancano – dice la Accalai –, lavoriamo su altri progetti e altre varietà, tutte antiche, anche in collaborazione con l’università di Firenze. Chiaro che ci vorranno altri anni per ripartire».