Archivio mensile:dicembre 2017

1611.- Circa il “Patriottismo Costituzionale”

Questo anno trascorso ha visto le forze politiche che compongono il variegato fronte vincitore del No subire una nuova legge elettorale che contrasta con la libertà e l’uguaglianza del voto. La Costituzione uscita vittoriosa dallo scampato pericolo, è ancora in discussione fra i fautori della tesi della sua mancata e, quindi, necessaria attuazione e quelli della sua ancor più necessaria riforma e completamento. E’ un fatto che se la Costituzione non è stata attuata completamente ed è stata per di più violata, qualcosa di grave deve essere mancato nel suo impianto. Comunque, il dato, senz’altro positivo, della vittoria del NO è stato la conferma del principio che la Costituzione si riforma per punti se si vogliono rispettare la libertà del voto ed evitare un’eversione. Ne parleremo. Europa Libera chiude l’anno con questo saggio di Alessandro Visalli sul “Patriottismo Costituzionale”

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Alcuni recenti interventi hanno riproposto nell’arena politica italiana la parola d’ordine del “Patriottismo Costituzionale”. Il termine si incontra alla fine degli anni ottanta nel dibattito di lingua tedesca su proposta di Habermas (il Verfassungspatriotismus) in opposizione al nazionalismo proprio della storia della prima metà del novecento. Il “patriottismo” rivolto alla Costituzione implica, cioè, lealtà alla sostanza universalista della libertà ed alla democrazia incorporata nelle costituzioni novecentesche ed opera una cesura sistematica tra l’ideale politico della nazione fatta da cittadini e quella immaginata costituita da un “popolo”; dunque intesa come unità prepolitica fondata su fattori come linguaggio e cultura (per non parlare della razza). Un “patriottismo” di questo genere è “politico” nel senso di riconoscere pienamente il fatto del pluralismo, ovvero la piena legittimità dei diversi possibili stili di vita e delle altre differenze che si riferiscano ai valori della libertà e della democrazia.

La politica dell’inclusione, contesto nel quale viene ripreso il termine, non deve quindi essere intesa come obbligo di assimilazione, per cui l’altro deve diventare l’uguale appiattendo i suoi valori e cultura, né deve rovesciarsi in chiusura difensiva in cerca di una omogeneità che alza frontiere. Piuttosto i confini sono aperti a tutti, ma occorre avere in comune un “Patriottismo della Costituzione” che significa aderire convintamente ai principi universalistici incorporati in essa. In questo senso l’unione è politica, non culturale. Del resto anche in Durkheim il concetto viene ripreso, all’inizio del novecento, a partire dallo spettacolo dei conflitti etnici e religiosi che laceravano la Francia, allineandosi su linee politiche (affare Dreyfus).

Il termine viene ripreso in Italia in modo diverso, e anche divergente, da autori come Rusconi, Viroli, Galli della Loggia negli anni novanta. Antecedenti sono in Mazzini, John Stuart Mill e Alexis de Tocqueville, chiaramente in diverse direzioni a dimostrazione della polisemicità e flessibilità del termine.

E riceve però anche un’articolazione significativamente diversa da parte di MacIntyre, che lo ridefinisce come una sorta di passione che implica lealtà ai meriti ed alle realizzazioni della propria nazione. Una lealtà che si riferisce alla particolarità della storia, anche senza implicare un malinteso senso di superiorità verso altre storie, che possono essere altrettanto ricche ma non sono “nostre”. Il patriottismo, nel senso del teorico “comunitarista”, è una forma di amore e si rivolge ad individui particolari. È dunque una passione prima di essere (come in Habermas) una forma della ragione. Il filosofo scozzese crede che per dare un senso alla storia della nostra vita, quindi per vivere una vita morale significativa, ognuno di noi debba essere all’interno di una comunità nazionale. La nazione deve essere qui “intesa come un progetto nato in qualche modo nel passato e continuato nel tempo in modo da realizzare una particolare comunità morale che rivendica autonomia politica nelle sue diverse forme istituzionali” (1984, pp. 13-14).

In qualche modo assonante è la lettura di Rorty che nel 1999, in “Una sinistra per il prossimo secolo” vede unica soluzione per uscire dai dilemmi del presente della sinistra cosmopolita e globalista che attacca di puntare sull’orgoglio nazionale. Per il filosofo pragmatista americano “l’orgoglio nazionale è per le nazioni ciò che il rispetto di sé è per gli individui: una condizione necessaria per migliorarsi” (p.15). Senza questo non è possibile alcuna capacità di mobilitare le energie. La sinistra deve immaginare il futuro e “Il coinvolgimento emotivo nei confronti del proprio paese è necessario ad una deliberazione politica immaginativa e produttiva. […] Coloro che sperano di persuadere una nazione a tentare un qualsiasi sforzo, devono ricordare al loro paese anche ciò di cui può essere orgoglioso, e non solo ciò che potrebbe coprirlo di vergogna. Devono raccontare storie illuminanti su episodi e figure del passato della nazione – episodi e figure ai quali il paese deve rimanere fedele. […] la competizione per la leadership politica è in parte una competizione tra le differenti storie sull’identità della nazione, sull’immagine che ha di se stessa, e tra i differenti simboli della sua grandezza”. Raccontare questa storia, costruire questa immagine, significa coltivare quello che Durkheim chiamava “patriottismo costituzionale”, e che è necessario per mobilitare verso la direzione di un cambiamento che, insieme, sia riscoperta di ciò che ‘realmente’ si è. Dove, naturalmente, cosa o chi ‘realmente’ si è, è indissolubile da chi di vuole essere al proprio meglio. E questo dal racconto di cosa e chi si è stati al proprio meglio. Bisogna chiedersi che cosa o chi ‘realmente’ siamo. Bisogna, cioè, ricordarlo, esercitare una forma di ermeneutica storica e valoriale per definire, rammemorandolo, quale è l’impegno che ci definisce.
Bisogna cioè ricordare, e costruire, storie illuminanti. Come, secondo Rorty, fecero instancabilmente, con lo spirito degli attori e non degli spettatori, grandi democratici progressisti come Walt Whitman e John Dewey che cercarono di mobilitare la speranza, di mobilitare un “nazionalismo morale patriottico”, contrapponendolo alla narrazione di élite ristrette ed egoistiche (p.25).

Anche qui occorre essere attenti: qualunque cosa sia l’identità morale creata nella contingenza e nella temporalizzazione, è qualcosa che deve sempre, di nuovo, essere ridefinita. Non qualcosa che è stato e deve essere preservato. Non è “multiculturale”, nel senso di una giustapposizione di monadi variamente diverse, incomunicabili, ma più un tessuto di differenze che sono in contatto e nelle quali ci sono anche scontri, in cui ci devono essere scontri. Probabilmente, in riferimento al dibattito tra Habermas e Taylor (oltre che Walzer ed altri) dell’avvio del decennio, la posizione è più vicina alle posizioni dei secondi.

Un altro modo, che recupera motivi hegeliani (come Taylor) si ha nel recente “Il diritto della libertà” di Axel Honneth. Il termine viene ripreso in un’accezione più ampia di recupero della memoria, dopo la caduta dei nazionalismi difensivi e reazionari degli anni trenta, della parte migliore della grande stagione di progresso, in un reciproco inseguimento, che ricorda anche qui in qualche modo l’auspicio di Durkheim, tra riforme sociali condotte sulle arene nazionali sulla spinta diretta ed indiretta delle lotte dei lavoratori e fertilizzazioni reciproche.
Su questa leva, inibita ma potenzialmente potente, Honneth punta perché quello che chiama “il patriottismo insito nell’archivio europeo degli sforzi collettivi per conquistare la libertà” torni ad essere rivolto alla sua realizzazione, riattivando e reinterpretando per i nostri tempi le promesse istituzionalizzate nelle diverse “sfere”. Che questo “patriottismo buono” (se posso dire così) scacci il “patriottismo cattivo” che sta riprendendo piede sull’onda della paura e della sfiducia reciproca che è alimentata proprio dall’inibizione a tutti i livelli, da quelli personali a quelli economici e politici, determinata dall’imperialistico prevalere delle sole “libertà giuridiche”, senza conservare le condizioni della loro attuazione.

Una simile forma di “Patriottismo Costituzionale”, che si nutre dell’interpretazione dei momenti più alti della nostra storia e dell’ancoramento alla sostanza di liberazione delle nostre istituzioni, anzi dello “spirito oggettivo” di queste, nella loro eticità, non è incompatibile con gli obblighi auto assunti nei confronti dell’umanità in generale, ma li sostanzia. La causa dell’umanità si sostiene difendendola entro di noi e nelle istituzioni con le quali abbiamo a che fare, compiendo la “buona gara” di rendere ognuna esempio per l’altra.
Specificamente la Costituzione repubblicana è per noi la sintesi concreta del progetto di agire insieme delle principali culture nazionali, per come si è dato nel momento fondativo. Ciò non significa musealizzarlo, ma riconoscere la necessità di una ermeneutica sempre rinnovata, aperta ai problemi dell’oggi, che però tenga insieme.
Rispetto a questo progetto comune nella svolta degli anni novanta si è prodotto un vulnus, una radicale discontinuità, che ha allontanato dal terreno comune producendo l’egemone dittatura di una delle culture presenti (ma minoritaria) nel compromesso repubblicano. Gli effetti li stiamo vedendo.

I temi che possono essere mobilitati, dunque, in una ripresa del concetto di “Patriottismo Costituzionale” sono la valorizzazione della nostra storia recente come felice fusione delle culture politiche intorno ad un comune interesse per la crescita democratica, il rigetto della logica del “vincolo esterno” e il rispettoso confronto non subalterno con la cultura luterano-calvinista del “capitalismo del nord” (pur con tutte le sue differenze). La rivendicazione di un orgoglio, che è anche amore e passione, per la capacità storica di trovare una sintesi alta, insieme all’affermazione del diritto di autoderminarsi secondo i nostri, propri, termini.

1610.- Intervento di Alessandro Pace al convegno per il 70° anniversario della Costituzione

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“La Costituzione della Repubblica è sempre giovane” su iniziativa del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, si è organizzato Convegno in occasione del 70° anniversario della firma della Costituzione della Repubblica Italiana (27/12/1947- 27/12/2017)
Sala degli Atti parlamentari del Senato della Repubblica,
all’interno della Biblioteca del Senato, piazza della Minerva 38, Roma
Intervento di Alessandro Pace

1. Sul Corriere della Sera del 27 dicembre è stata sintetizzata in dieci istantanee la “storia” dell’attuale legislatura. La n. 9 rappresenta «l’immagine di Matteo Renzi che nella sala stampa di Palazzo Chigi annuncia le sue dimissioni dopo la disfatta del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016». L’autore dell’articolo si ferma qui, mentre sarebbe stato opportuno andare un po’ indietro e ricordare che la riforma Renzi-Boschi venne votata da un Parlamento illegittimo nella sua composizione nonostante la Corte costituzionale, con la sentenza n. 1 del 2014, avesse dichiarato incostituzionale il c.d. Porcellum in forza del quale era stato eletto. Il vero è che sia a causa dell’ignoranza dell’opinione pubblica circa i tecnicismi giuridici, sia a causa della mala fede dei detentori del potere, sulla sentenza n. 1 del 2014 fu steso un velo soprattutto comodo per i partiti, in particolare il PD, che avevano lucrato un illegittimo cospicuo premio di maggioranza.
Un Parlamento “delegittimato”, quindi, che nondimeno modificò ben 55 articoli della Costituzione, senza che gli allora Presidenti della Repubblica e della Corte costituzionale – entrambi c.d. “garanti” della Costituzione – battessero ciglio. Omettendo quindi di considerare che la Corte costituzionale aveva chiaramente avvertito, nelle ultime battute del n. 7 del “considerato in diritto” della sentenza n. 1 del 2014, che il principio della “continuità istituzionale” non avrebbe potuto, alla lunga, sostituirsi al doveroso voto popolare. Con l’abnorme conseguenza che, per tutta la XVII legislatura, abbiamo avuto un Parlamento costituzionalmente viziato nella sua composizione, che solo il M5S aveva reiteratamente denunciato.
Né quel “peccato originale” venne attenuato, strada facendo, dalla c.d. riforma Renzi-Boschi. Che anzi violò la libertà di voto (art. 48 Cost.) in conseguenza della disomogeneità del contenuto prescrittivo della riforma. Che violò il “principio supremo” della sovranità popolare (art. 1 comma 2 Cost.) negando l’elettività diretta del Senato. Che conferì, in violazione dell’art. 3 Cost., funzioni senatoriali part-time a consiglieri regionali e a sindaci privi della diretta legittimazione democratica. Che, in violazione dell’art. 5 Cost., attribuì alle regioni, tranne qualche eccezione, soltanto competenze legislative di contenuto meramente organizzativo. Che modificò surrettiziamente la forma di governo, indebolendo i contro-poteri e conseguentemente rafforzando indirettamente i poteri del Governo, e soprattutto quelli del Premier. E così via.
Ed è anche per queste ragioni tecniche, la grande maggioranza degli elettori si espresse in favore del No, non solo per lo stravolgimento apportato al sistema costituzionale, ma per la complessità delle modifiche costituzionali. Dando così ragione, nei fatti, al procedimento di revisione costituzionale previsto dall’art. 138 Cost., che prevede soltanto revisioni puntuali o comunque omogenee. Non riforme megagalattiche come la Renzi-Boschi.

2. Sta di fatto che fino al 1983 – e cioè per ben 35 anni – sia le leggi costituzionali, sia le leggi di revisione costituzionale hanno sempre avuto un contenuto puntuale o comunque omogeneo. In linea quindi con quanto il Presidente Terracini, in una delle ultimissime riunioni della Commissione per la Costituzione (15 gennaio 1947), aveva affermato, in risposta all’on. Mortati, che l’Assemblea costituente si doveva «limitare all’ipotesi di una revisione parziale». Nelle prime monografie sulla revisione costituzionale, il problema delle mega riforme non fu minimamente sollevato.
Del resto nella lingua italiana una cosa è la “riforma”, altra cosa è la “revisione”. Prescindendo dal significato giuridico del concetto di “revisione”, nel Grande dizionario della lingua italiana il concetto di revisione allude sempre ad attività puntuali: alle operazioni di esame e di verifica della verità e di conformità di un conto economico o di un bilancio; al riesame di una sentenza o di una causa decisa; all’esame stilistico di un’opera letteraria; all’esame preventivo di un testo destinato alla stampa o alla conformità alle disposizioni di legge; al riscontro periodico dell’operato della pubblica amministrazione e all’insieme delle operazioni di controllo e di manutenzione di macchine (ad es. le automobili).
Era quindi assolutamente pacifico, almeno fino agli anni ’90, che le modifiche costituzionali dovessero servire solo a modificare specifiche disposizioni; «ad ammodernare, adeguare, perfezionare, rabberciare un vecchio meccanismo» o, tutt’al più, a innovare qualche istituto politico lasciando intatti gli altri.
E quindi, quando fu approvata la legge sui referendum n. 352 del 1970, le “riforme” erano ancora di là da venire, per cui l’applicazione della legge n. 352 ad esse – da parte dei loro sostenitori – costituì un’evidente forzatura, tant’è vero che si giunse addirittura a sostenere che alle mega riforme non sarebbero applicabili i principi della sovranità popolare (art. 1 Cost.) e della libertà di voto (art. 48 Cost.), perché il procedimento di revisione costituzionale sarebbe derogatorio di quei due principi fondamentali!

3. Sta di fatto, che delle possibili “riforme” costituzionali si cominciò a parlare, a livello politico, soltanto alla fine degli anni ’70, col famoso articolo di Bettino Craxi, apparso sull’Avanti nel dicembre del 1979, nel quale veniva teorizzata “la Grande Riforma” consistente nella modifica della forma di governo da parlamentare in presidenziale. Che però non ebbe alcun seguito.
I successivi tentativi di “grandi riforme” sono tutti inesorabilmente falliti: così le riforme Bozzi (1985) e Letta (2013) che non furono nemmeno approvate; le leggi di riforma De Mita-Iotti (1993) e D’Alema (1997), che furono approvate ma, avendo un contenuto meramente organizzative, non ebbero un seguito normativo; le riforme Berlusconi (2006) e Renzi-Boschi (2016) che furono respinte in sede referendaria. Il che conferma l’estraneità delle mega riforme nei confronti del nostro sistema costituzionale che prevede soltanto “revisioni”.
Sorprende, perciò, che un politico intelligente come il ministro Carlo Calenda, nell’intervista di Lorenzo Salvia apparsa sul Corriere del 27 dicembre, abbia addirittura auspicato l’istituzione di un’Assemblea costituente nella prossima legislatura «per aumentare il coinvolgimento dei cittadini», evidentemente, senza rendersi conto:
1) che l’istituzione di un’Assemblea costituente costituisce, per definizione, la negazione dei valori della costituzione alla quale pretende di sostituirsi (nella specie: la Costituzione del 1947);
2) che l’elezione di un’Assemblea costituente non determinerebbe, di per sé, un “coinvolgimento” dei cittadini, ma solo un voto come gli altri (per cui il voto popolare confermativo ex art. 138 comma 2 Cost. implica un indubbio maggior coinvolgimento);
3) che solo nelle revisioni puntuali o omogenee la sovranità popolare viene effettivamente esercitata, poiché solo di fronte ad un singolo quesito relativo ad un singolo articolo e su una pluralità di articoli dal contenuto omogeneo, i cittadini sono effettivamente liberi di votare Sì o No. Che è poi la tesi sostenuta dalla maggioranza dei costituzionalisti, tra cui i più autorevoli, secondo i quali le riforme disomogenee coerciscono la libertà di voto, essendo svariati i quesiti ad esse sottese.

1609.- Costituzione, siamo sempre a rischio

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Massimo Villone Il Manifesto, 29 dicembre 2017

Massimo Villone è un politico e costituzionalista italiano. È professore emerito di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

La Costituzione, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, compie 70 anni. È giovane? Assolutamente sì. Tale è perché la sua tavola di valori – eguaglianza, diritti, solidarietà – reca le risposte oggi giuste e necessarie in un paese come l’Italia, in cui le diseguaglianze aumentano.
Milioni di persone sono sotto la soglia di povertà, diritti essenziali come quello alla salute o all’istruzione sono resi evanescenti, la speranza di un lavoro sicuro e di una vita serena e dignitosa per sé e i propri cari è un lusso inaccessibile per tanti, e soprattutto per i giovani.
In ogni caso, la Costituzione è stata spesso “ammodernata”, con l’art. 138. Solo negli ultimi 20 anni abbiamo le leggi costituzionali 1/1999 e 2/2001 (elezione diretta dei governatori); 2/1999 (giusto processo); 1/2001 (circoscrizione estero); 3/2001 (riforma del titolo V); 1/2003 (pari opportunità); 1/2007 (abolizione della pena di morte); 1/2012 (pareggio di bilancio). Alcune riforme sono nel merito discutibili, come il nuovo Titolo V, o addirittura censurabili, come il pareggio di bilancio necessario. Ma qui rileva che l’innovazione è stata possibile.
Sono invece fallite le “grandi” riforme, quelle soi-disant epocali. Accade con le speciali commissioni bicamerali (Bozzi, 1983; De Mita-Iotti, 1993; D’Alema, 1997; le ultime due istituite con leggi costituzionali). Accade anche con le “grandi” riforme perseguite con l’ordinario procedimento di revisione ex art. 138: nel 2005, la Berlusconi-Bossi, e nel 2016, la Renzi-Boschi. Approvate in Parlamento con la sola maggioranza assoluta in seconda deliberazione, sono respinte dal voto popolare nel successivo referendum.
Proprio nelle riforme 2005 e 2016 troviamo l’attacco alla Costituzione. Sono accomunate soprattutto da due tratti: vedono una contrapposizione frontale tra maggioranza e opposizione, e nel merito concentrano il potere sull’esecutivo e sul suo leader, comprimendo il ruolo delle assemblee elettive (in specie quella 2016, con il pendant dell’Italicum). La governabilità schiaccia la rappresentatività, in una versione edulcorata, moderna e ossequiente – solo nella forma – ai canoni della democrazia del «credere, obbedire, combattere». Ma che ne è dell’antico principio per cui la Costituzione si modifica con un consenso ampio, al di là dei confini di una maggioranza di governo?
Accade che nel 1992 si avvia Tangentopoli, che disarticola i partiti storici. Nel 1993 si svolta verso il maggioritario, con l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di provincia (l. 81/1993), e, a seguito di un referendum, con il Mattarellum (l. 276 e 277/1993). Le elezioni 1994 aprono Palazzo Chigi a partiti non partecipi della nascita della Costituzione, o i cui antenati erano stati addirittura ad essa antagonisti (Forza Italia, Lega, An). Si dissolve il cosiddetto arco costituzionale, composto dalle forze politiche partecipi in assemblea costituente del patto costituzionale, e convenzionalmente unite nell’intesa che tutti gli originari contraenti dovessero concorrere alle modifiche della Costituzione.
Il nuovo contesto, unitamente alla distorsione di rappresentatività e al vantaggio in seggi dato dal maggioritario, di collegio o da premio, apre la via alle Costituzioni “di maggioranza”. Superando il quorum minimo della maggioranza assoluta in seconda deliberazione previsto dall’art. 138, maggioranza di governo e maggioranza per la revisione possono coincidere. Già con l’adozione del Mattarellum, da più parti era stata chiesta la messa in sicurezza della Costituzione, con l’innalzamento di quel quorum. Non è stato fatto. Da questo punto di vista, le Costituzioni “di maggioranza” sono figlie del maggioritario, e l’unico vero tutore della Costituzione rimane il popolo sovrano nel voto referendario. Come è accaduto.
Siamo ancora a rischio? Certamente sì. Anche il Rosatellum produce una distorsione maggioritaria. I partiti sono tuttora evanescenti. Le forze che spingono per la normalizzazione di paesi affetti da eccessi di democrazia sono sempre in campo, e il famigerato documento J.P.Morgan sulle Costituzioni socialisteggianti esiste davvero. Come è vivo il mantra della governabilità, che certo sentiremo prima e dopo un voto che non darà un vincitore nell’immediato. Nel merito, qualche scontro già si avvia, come per la proposta di una flat tax, che potrebbe solo allargare ancora l’enorme fossato tra chi ha e chi non ha. E chi può negare sia giovane la Costituzione che subito ci offre con l’art. 53 e il principio di progressività l’arma per contrastare gli epigoni di Trump?
Attuare, non stravolgere. Credere nella Costituzione è una fede laica, che non espone icone e santi, ma beni terreni, come libertà, diritti, eguaglianza, qualità di vita. Come ogni fede, chiede a tutti di schierarsi per ciò in cui si crede. E questo dobbiamo alla Costituzione per il suo settantesimo compleanno: l’impegno di donne e uomini che si battono ogni giorno perché vivano e si inverino le promesse dell’antico patto costituente.

1608.- La Corte Costituzionale a settant’anni dalla firma della Costituzione

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Contributo di Felice Besostri al Convegno del CDC del 27 dicembre 2017-Sala degli Atti Parlamentari-Senato della Repubblica
Se la Costituzione a 70 anni dalla sua firma è “sempre giovane” la Corte Costituzionale è ancora più giovane, perché sebbene prevista dalla legge costituzionale n. 1 del n. 9 febbraio 1948, tempestivamente adottata dalla Assemblea Costituente a pochissima distanza dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e prima delle elezioni del 18 aprile 1948, non fu una priorità della prima legislatura-. Soltanto nel suo ultimo anno fu approvata la legge costituzionale n. 1 del 11 marzo 1953 e la legge 11 marzo 1953 n. 87. Era un’Italia divisa quella uscita dalle elezioni del 1948 in un mondo diviso tra blocchi contrapposti e reciprocamente ostili, che si era rapidamente sostituito all’unità contro il nazi-fascismo e all’imperialismo giapponese. Nel sistema costituzionale italiano la Corte Costituzionale era un organo di garanzia e il più neutro rispetto alla Presidenza della Repubblica e alle Presidenze delle due Camere, la cui investitura era totalmente politica. A mio avviso non è un caso che l’attuazione della Costituzione, nella previsione di un giudice delle leggi, si sia svolta in parallelo con una riforma del sistema elettorale proporzionale con una legge forse ingiustamente definita “legge truffa”. Basta pensare ai più tardi tentativi di attribuire una maggioranza artificiale, a chi non l’avesse conquistata nelle urne, perseguita con le leggi n. 270/2005 e n. 52/2015, dichiarate incostituzionali nelle parti qualificanti dalle sentenze n. 1/2014 e 35/2017. L’aspetto preoccupante di quella legge era l’entità del premio di maggioranza, non che fosse attribuito ad una maggioranza assoluta consacrata dal voto popolare. Con il 65% dei seggi la coalizione maggioritaria aveva a portata di mano la possibilità di modificare la Costituzione con i due terzi dei voti delle Camere e quindi di sottrarla al referendum costituzionale previsto dall’art. 138 Cost.. Questo strumento che si è rivelato efficace usbergo, nel 2006 e il 4 dicembre 2016, ai tentativi di modificare la forma di governo parlamentare e il bicameralismo, sottraendo il Senato all’investitura di un’elezione universale e diretta (art.58) con voto eguale, libero e personale, oltre che segreto, come prescrive l’art. 48 Cost.. Una riforma, che era piuttosto una deforma costituzionale, che con la modificazione della composizione del parlamento in seduta comune nel caso dell’art. 90 Cost. e una legge elettorale maggioritaria, con un’impropria designazione di un candidato alla presidenza del Consiglio dei Ministri, avrebbe alterato l’equilibrio tra i poteri costituzionali posti al vertice della Repubblica, con la messa sotto tutela del suo Presidente.
La legge elettorale 31 marzo 1953 fu eccezionalmente promulgata, pubblicata e entrata in vigore lo stesso giorno, una fretta giustificata dalle elezioni del successivo 3 giugno 1953: una legge sulla quale la Corte Costituzionale non avrebbe potuto pronunciarsi poiché si è insediata il 15 dicembre 1955 e dopo aver eletto il suo primo Presidente, Enrico de Nicola, tenne la sua prima seduta il 23 aprile 1956, giorno a me particolarmente caro riportandomi all’adolescenza, annullando significativamente e simbolicamente un articolo il 113 di una legge fascista il T.U. delle leggi di p.s. approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773.
La sentenza n. 1 del 5 giugno 1956 ha avuto come relatore Gaetano Azzariti ed stata decisa dopo aver sentito gli avvocati di cui basta leggere alcuni nomi per comprendere l’importanza di quella sentenza: Costantino Mortati, Massimo Severo Giannini, Vezio Crisafulli, Giuliano Vassalli, e Piero Calamandrei, il cui discorso sulla Costituzione del 26 gennaio 1955 a Milano è stato decisivo per la mia formazione. L’importanza di quella sentenza sta anche per l’affermazione in dispositivo “Afferma la propria competenza a giudicare sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge anche se anteriori alla entrata in vigore della Costituzione”. La nascita della Corte Costituzionale e la sua prima decisione è stata segnata dalla volontà di non lasciare zone franche, sottratte al controllo di costituzionalità. Per le leggi elettorali si è dovuto aspettare un’ordinanza del 17 maggio 2013 la n. 12060 della Prima Sezione Civile della Cassazione. Quest’ ordinanza, in un certo senso, ha avuto la stessa funzione dell’ordinanza del pretore di Prato, che per primo aveva sollevato la questione di costituzionalità dell’art. 113 del T.U. di P.S. con l’ ordinanza 27 dicembre 1955 e che era Antonino Caponnetto, al suo primo incarico di magistrato.
La Corte Costituzionale è un organo indipendente dalla politica, ma non dal clima politico e culturale, in cui si trova ad operare e che per funzionare ha bisogno che una pluralità di attori sia sensibile ai valori costituzionali a cominciare dai gruppi parlamentari, dai partiti politici, dai docenti universitari, che formano giudici ed avvocati, da quest’ultimi nella loro professione per finire con l’opinione pubblica e il corpo elettorale.
Come per la legge n. 148/1953 fu il popolo ad esprimersi nelle successive elezioni del 7 giugno, spetterà al corpo elettorale pronunciarsi politicamente sulla legge n. 165/2017, che ha sì abbandonato la strada dei premi espliciti di maggioranza, ma non la tentazione di prefigurare i risultati. Si impedisce una volta di più agli elettori di scegliersi i loro rappresentanti con liste bloccate( come se l’unica alternativa ai voti di preferenza fossero le liste bloccate ignorando il sistema elettorale svizzero o quello svedese), con il voto congiunto tra candidati uninominali e liste plurinominali, l’assenza di scorporo e i privilegi per i gruppi parlamentari uscenti rispetto a nuovi soggetti che possano competere per essere rappresentati in Parlamento. Vi è la violazione dei principi di una sentenza fondamentale come quella del 23 aprile 1986 della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, per i quali i gruppi di un parlamento uscente non si possono accordare privilegi a danno di soggetti politici non ancora rappresentati.
La zona franca delle leggi elettorali dipende anche dalla cattiva abitudine di adottare leggi elettorali nuove o con modificazioni importanti alla vigilia delle elezioni. Così è stato con la legge n. 148/1953 pubblicata il 31 marzo e con elezioni indette il 7 giugno successivo. La legge n. 270 del 21 dicembre 2005 ha presieduto le elezioni del 9 e 10 aprile 2006 . La stessa indifferenza ha prodotto l’approvazione della legge di modifica della legge 24 gennaio 1979, n. 18 con la legge 20 febbraio 2009, n. 10, frutto di un accordo PD-FI alla vigilia delle elezioni del 6 e 7 giugno di quell’anno. Le prossime elezioni per la XVIIIma Legislatura saranno rette da una legge entrata in vigore il 12 novembre 2017 e si svolgeranno, come da anticipazioni di stampa, nel mese di marzo e sicuramente prima del 18 per dar loro una parvenza di elezioni anticipate, per riammettere in termini sindaci che si erano dimenticati di dimettersi in tempo. L’Italia fa parte dalla sua fondazione del Consiglio d’Europa e ha contribuito all’adozione di un Codice di Buona Condotta in Materia Elettorale, che ha ormai quasi 15 anni di vita essendo stato adottato a Strasburgo il 23 maggio 2003, che raccomanda di non adottare cambiamenti importanti della legge elettorale nell’anno che precede le elezioni. Un Parlamento, che è stato eletto con una legge dichiarata incostituzionale dopo la sua elezione, manca evidentemente della sensibilità per i valori della democrazia, ma avrebbe dovuto evitare addirittura di abrogare di fatto una legge del 1990, la n. 53, che avrebbe consentito di raccogliere le firme fin dal 180° giorno precedente le elezioni per portarlo al 45° giorno antecedente al voto. Non c’è il tempo per portare al vaglio della Consulta la nuova legge elettorale e mi sia consentito di dire, che neppure sarebbe stato opportuno che una decisione intervenisse dopo lo scioglimento delle Camere. La Corte di Cassazione aveva fissato la discussione finale del ricorso per la riforma della decisione negativa della Corte d’Appello di Milano sul diritto di votare in conformità della Costituzione per il gennaio 2013 per rinviarla al 17 maggio 2013. Con le elezioni indette si deve pronunciare il corpo elettorale anche se il pronunciamento non sarà libero e il voto non eguale e personale. Finché il voto sarà segreto chi si confeziona leggi elettorali nel suo interesse è sempre stato smentito in sede di prima applicazione, così e avvenuto per il Mattarellum e il Porcellum. L’Italikum è stato, addirittura, espunto dall’ordinamento prima di essere applicato. Per la legge 165/2017 bisogna augurarsi un destino analogo a quello della legge 148/1953. La via politica e quella giudiziaria non sono alternative e men che meno si contrappongono, ma si integrano e si influenzano. La decisione di ricorrere alla giustizia ordinaria e costituzionale è di per se stessa una scelta politica, di fiducia nello stato di diritto, nella democrazia e nella Costituzione. Semmai c’è da denunciare una carenza di iniziativa legislativa anche della sinistra, quando era maggioranza almeno come proposta di riforma della procedura di controllo di costituzionalità. Non mi ricordo nessuna iniziativa per circoscrivere l’art. 66 Cost. alla fattispecie prevista dallo stesso articolo, ma estesa, grazie ad una magistratura compiacente alle operazioni elettorali preparatorie, che altrimenti non sarebbe stato legittimo approvare una norma di delegazione legislativa come l’art.44 c. 2 lett. d) della legge n. 69 del 2009, che assoggettava al controllo giurisdizionale le operazioni elettorali preparatorie per la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica. Per quella via sarebbero potute arrivare al controllo di costituzionalità, in tempi più rapidi, almeno le norme che incidono sulla stessa libertà di voto e di candidarsi in condizione di eguaglianza come prescritto dall’art. 51 Cost.. Tuttavia in un ottica di manutenzione e difesa attiva della Costituzione, la soluzione maestra è quella di adottare soluzioni del tipo della Grundgesetz della Germania Federale, dove è previsto un ricorso al Tribunale Costituzionale Federale contro le decisioni del Bundestag sulla convalida dei deputati e sui ricorsi contro la loro proclamazione. Le leggi elettorali sono inoltre collegate nella loro attuazione al sistema dei partiti, che da noi, nonostante l’art. 49 Cost., non sono mai stati oggetto di un’organica legislazione, che comprenda il controllo giurisdizionale delle decisioni in ordine alla candidature: una procedure trasparente e giustiziabile, assunta con largo anticipo rispetto al deposito delle liste, porrebbe fine alle discussioni su liste bloccate e preferenze. In assenza d’istituti d’accesso diretto alla Corte Costituzionale in caso di lesione di diritti costituzionali fondamentali come il Verfassungbeschwerde nella RFT o il recurso de amparo constitucional spagnolo, almeno in materia di diritto di voto, il controllo in via incidentale non è uno strumento adatto per i suoi tempi. Bisognerebbe che la raccomandazione del Codice di Buon Comportamento in Materia Elettorale, per la quale “Gli elementi fondamentali del diritto elettorale, e in particolare del sistema elettorale propriamente detto, la composizione delle commissioni elettorali e la suddivisione delle circoscrizioni non devono poter essere modificati nell’anno che precede l’elezione” sia incorporata almeno nei Regolamenti parlamentari. Gli stessi Regolamenti dovrebbero essere espliciti, in conformità con l’art. 72c.4 Cost. nel divieto di approvarne articoli con il ricorso al voto di fiducia, sulla cui erronea applicazione nella Camera dei Deputati in occasione dell’approvazione finale della legge n. 52/2015 ha scritto con argomentazioni decisive il nostro presidente prof. Massimo Villone nel Manifesto del 16.4.2015 (http://ilmanifesto.it/lossimoro-della-fiducia-segreta/ ). Parlo del voto di fiducia su norme elettorali perché si è creato un precedente, del quale il Presidente del Senato, benché contrario, ha dovuto, per la sensibilità istituzionale che gli va riconosciuta, tener conto per non smentire l’altra Camera e non dare un’immagine schizofrenica del bicameralismo paritario consacrato dal corpo elettorale referendario con una partecipazione superiore a quella delle precedenti elezioni del 2014. La questione è stata sollevata nei 23 ricorsi presentati in altrettanti Tribunali delle città capoluogo di distretto di Corte d’Appello, di cui solo 5 hanno dato luogo ad ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale e nessuna di esse con un quesito ritenuto ammissibile sul punto, tanto che la Corte ha auspicato che le fosse rimesso, finora invano per insensibilità dei Tribunali aditi. Se le leggi elettorali sono costituzionalmente necessarie, esse devono essere necessariamente costituzionali, quindi l’accertamento del diritto di votare secondo Costituzione deve precedere le elezioni pena l’inefficacia della decisione, com’è avvenuto con la sentenza n. 1/2014 rispetto al Parlamento eletto nel 2013. In Germania il Plenum del Bundesverfassungsgericht ha fin dal 20 luglio 1954 (BVerfGE 4,27) statuito che i partiti politici possono far valere le loro ragioni in materia elettorale soltanto per la via dell’Organstreit, che corrisponde al nostro conflitto di attribuzioni, ma una tale decisione può arrivare solo con modifica della legge n. 87/1953, anche se il collegamento tra partiti e legge elettorale è consacrato dall’art. 14 del dpr n. 361/1957 e tra liste presentate alle elezioni e gruppi parlamentari dai Regolamenti parlamentari, compreso quello assai recentemente approvato dal Senato della Repubblica, che senza incidere sul divieto di mandato imperativo, che va mantenuto, è di ostacolo alle transumanze.
Il conflitto di attribuzione è lo strumento più adatto, anche alla luce dell’ordinanza n. 225/2017 che ha dichiarato ammissibile il conflitto di attribuzione n. 2/2017 e ammesso per la prima volta la possibilità di misure cautelari estendendo ai conflitti di attribuzione quanto previsto dagli artt 22, 35( come modificato dall’art. 9 c. 4 l. n. 131 del 2003) e 40 della legge n. 87/1953 per i giudizi di costituzionalità in via incidentale. A legislazione vigente la Corte Costituzionale potrebbe tenere conto che la nostra Costituzione è l’unica, tra quelle europee, nella quale la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione ( art. 1 c. 2 Cost.) e che come corpo elettorale elegge un Parlamento, i cui membri non rappresentano in primo luogo i loro elettori e/o i territori d’elezione, bensì la Nazione(art. 67 Cost.). Al prossimo Parlamento spettano compiti importanti come il completamento della Corte Costituzionale, l’elezione dei membri laici del CSM e, se compie il quinquennio, l’elezione o la riconferma del Capo dello Stato nel 2022, oltre che contribuire alla riforma dei Trattati dell’Unione europea in vista delle elezioni per il Parlamento europeo del 2019. Una legge elettorale è stata approvata, che solleva dubbi e favorisce una diminuzione della partecipazione elettorale. Per evitare contraccolpi, che rendano ancora più fragili le nostre istituzioni, sarebbe opportuno che tutte le forze politiche amanti della Costituzione, siglino al loro interno e tra di loro un Patto per la Costituzione, per la sua difesa e attuazione che abbia come guida il secondo comma dell’articolo 3 Cost., per il quale “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” e come fonte di ispirazione le aspettative e le speranze, che hanno animato i cittadini e le cittadine, che hanno partecipato al referendum del 4 dicembre dello scorso anno.

1607.- Lorenza Carlassare – 70° anniversario della firma della Costituzione

“La Costituzione della Repubblica è sempre giovane” su iniziativa del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, si è organizzato Convegno in occasione del 70° anniversario della firma della Costituzione della Repubblica Italiana (27/12/1947- 27/12/2017)
Sala degli Atti parlamentari del Senato della Repubblica,
all’interno della Biblioteca del Senato, piazza della Minerva 38, Roma

“La Costituzione della Repubblica è sempre giovane” su iniziativa del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, si è organizzato Convegno in occasione del 70° anniversario della firma della Costituzione della Repubblica Italiana (27/12/1947- 27/12/2017)
Sala degli Atti parlamentari del Senato della Repubblica,
all’interno della Biblioteca del Senato, piazza della Minerva 38, Roma

Settanta anni sono passati. Gli Stati sovrani e il diritto soccombono alle ragioni dell’economia e della finanza e i popoli ne subiscono le regole. La Costituzione, modernissima, non è stata attuata perché difetta delle norme e delle procedure che dovevano garantire il rispetto dei suoi principi, soprattutto, nei casi di loro violazione e nella sua attuazione differita. Sostengo che la democrazia è rimasta incompiuta e tale resterà anche per la mancata costituzionalizzazione di principi con cui garantire l’effettiva partecipazione alla vita politica dei cittadini, attraverso i partiti. Ma una Costituzione ad attuazione, in gran parte differita, non poteva essere attuata anche perché il pensiero di chi ha abbracciato l’ideologia comunista tollera male il pluralismo democratico, che si trovi in situazioni di minoranza o di maggioranza. Importanti, in questo breve intervento, i passaggi sul diritto e sulla funzione sociale delle donne e sul principio di solidarietà contenuto nell’art. 38. Con più tempo, si sarebbe potuto accennare anche alla importante funzione che è demandata a questo articolo, in coerenza con altrettanta funzione assegnata al principio lavoristico: di offrire a ciascun cittadino le condizioni sufficienti a garantire la sua dignità e libertà e, quindi, la sua partecipazione consapevole alla vita politica (che, poi, è l’art. 3 “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”).

1606.- Besostri: “Anche il Rosatellum è incostituzionale. Il voto non è libero, uguale e personale”

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ROMA – “Alla mia età vorrei occuparmi dei miei nipoti. È un caso eccezionale che un Parlamento faccia tre leggi elettorali incostituzionali. Due ho contribuito a farle dichiarare tali. È vero che non c’è il due senza tre. Ma soprattutto: la sentenza fatta dopo le elezioni a cosa serve?”. Felice Besostri, avvocato, professore universitario, ex deputato socialista, è uno dei protagonisti delle battaglie giuridiche che hanno portato la Corte Costituzionale ha dichiarare parzialmente incostituzionali il Porcellum e l’Italicum. Adesso tenta un nuovo approccio per cercare di demolire il Rosatellum. Una legge elettorale, anche questa, che giudica tarlata da vizi di incostituzionalità perché “il voto non è sempre uguale, non è libero e non personale”.

1462341937-elezioniROSATELLUM, ECCO COME FUNZIONA. LA SCHEDA

Avvocato Besostri, perché il Rosatellun è incostituzionale?
“È incostituzionale in base alla sentenza della Consulta che affossò il Porcellum. In quella sentenza i giudici fanno un riferimento molto preciso ad una sentenza del Tribunale federale tedesco del 25 luglio 2012 sui mandati aggiuntivi. La nostra Corte, non avendo precedenti di annullamenti di leggi elettorali nazionali, li ha dovuti prendere da un ordinamento omogeneo che non avesse costituzionalizzato il sistema elettorale. Io poi aggiungo che il loro articolo 38 e il nostro 48 delle Costituzioni sono perfettamente sovrapponibili”.

Bene. Ma qui siamo ancora alle fonti…
“Quella sentenza dice che ciascun voto deve contribuire potenzialmente con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi. Quando il legislatore adotta il sistema proporzionale, anche in modo parziale, genera negli elettori la legittima aspettativa che non si determini uno squilibrio negli effetti del voto: ci deve essere una corrispondenza fra i voti in entrata e i seggi in uscita. Nel Rosatellum questo non avviene a causa di due elementi: l’assenza del voto disgiunto e dello scorporo”.

Avvocato, lo scorporo è l’oggetto più misterioso degli ultimi 25 anni di vita politica…
“Nel Rosatellum abbiamo eletti nella parte maggioritaria, collegio uninominale, e eletti nella parte proporzionale. Chi è eletto nel collegio uninominale ottiene sicuramente una percentuale di voti più alta di quella che mediamente a livello nazionale ottiene il suo partito o la sua coalizione. Siccome i suoi voti vanno ad aumentare la parte proporzionale, si altera il rapporto fra voti in entrata e seggi in uscita.

E questa è una furbata che non era prevista nel Mattarellum. In quella legge i voti serviti ad eleggere un parlamentare nella parte uninominale venivano detratti dalla parte proporzionale. E sempre in quella legge c’erano due schede e l’elettore poteva usare il voto disgiunto. Inoltre c’è anche il problema delle candidature multiple e delle liste Corte”.

Anche questo è argomento ostico…
“Le liste sono eccessivamente corte. E anche questa è una furbizia. Si vuol fare credere, e non è vero, che la Consulta si sia pronunciata per le liste corte. Il massimo dei candidati in un collegio plurinominale proporzionale è quattro, anche quando si debbano eleggere otto parlamentari. Nel caso in cui uno sia eletto sia nel proporzionale che nell’uninominale deve optare per l’uninominale. E se lo stesso è stato candidato cinque volte grazie alle candidature multiple previste dal Rosatellum, gli eleggibili nella parte proporzionale scendono da quattro a tre. In casi estremi anche a due.

In conclusione quando non ho un numero sufficiente da eleggere in una circoscrizione devo andare a cercarli in un’altra circoscrizione. E questo, secondo quella sentenza della Corte tedesca fatta propria dalla nostra, vìola il principio che nessun candidato può essere favorito o sfavorito dal comportamento elettorale di cittadini elettori di una circoscrizione diversa da quella in cui è candidato. Così il voto non è uguale fra una circoscrizione e un’altra”.

Avvocato, come spiegarlo agli elettori?
“Lo si può fare spiegando che si vìola anche il principio del voto personale. Con la lista corta io dovrei conoscere il candidato. Ma questo può portare all’apprezzamento o al disprezzo del candidato. Se non posso scegliere all’interno della lista viene meno la mia personalità di voto. Sono costretto a votare dei candidati che non apprezzo. E qui ritorna il problema dell’assenza del voto disgiunto. E quindi si profila l’incostituzionalità. Poi, come sempre il diavolo si annida nei dettagli…”.

Quali dettagli?
“Guardiamo alle norme per l’elezione dei parlamentari del Trentino Altro Adige e del Molise. Nel voto nel Trentino Alto Adige il rapporto fra proporzionale e maggioritario si rovescia a favore della parte maggioritaria con sei deputati contro cinque. E questo non riguarda per nulla gli accordi De Gasperi-Gruber perché quella parte riguardava il Senato”.

Ma pure il Molise è nel mirino?
“Nel Molise due deputati sono eletti nel maggioritario e uno con il metodo proporzionale. Come si possa eleggere un deputato con il metodo proporzionale è da premio Fielis che corrisponde al Nobel per la matematica”.

Mattarella dovrebbe allora non promulgare?
“Dicono che promulga venerdì. Mi sembra un po’ troppo presto e io dico al Presidente che sarebbe meglio riflettere più a fondo. Ma quelle che ho elencato sono questioni di merito sulla legge. Ci sono invece questioni di metodo che sono state già sollevate davanti alla Corte per conflitto di attribuzioni. Per sollevarle, infatti, non serve che la legge sia promulgata, perché il conflitto di attribuzione si crede che sia stato già violato dai voti di fiducia”.

Il 12 dicembre la Consulta dovrà pronunciarsi sull’ammissibilità di due ricorsi sulle modalità di approvazione dell’Italicum tramite la fiducia. Sono conflitti di attribuzione sollevati da quattro deputati e dai gruppi grillini di Camera e Senato. È evidente che c’è un nesso con il Rosatellum. E infatti i gruppi grillini hanno sollevato lo stesso conflitto di fronte alla Corte anche contro la fiduce sulla legge appena approvata. Ma singoli deputati e gruppi hanno questo potere?
“L’idea del potere del singolo deputato a ricorrere nel caso della violazione dell’organizzazione dello Stato è sostenuta dal giurista tedesco Georg Jellinik nel 1901. Non è dunque un’invenzione dell’avvocato Besostri, ed è stata ripresa nel 1991 dall’attuale giudice costituzionale Nicola Zanon.

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Il professor Paolo Grossi presidente della Corte Costituzionale

Inoltre, due dei tre conflitti di attribuzione sono fatti a nome dei gruppi e la violazione delle regole sulla fiducia nel caso dell’approvazione delle leggi elettorali era presente anche nei ricorsi ai tribunali che portarono alle decisioni della Consulta. La Camera di Consiglio della Corte è segreta e non ci saranno contraddittori. Precedenti interorganici non ce ne sono. Ma la Corte, in maniera indiretta, ha riconosciuto che i gruppi sono organi del Parlamento”.

1605.- LE PROMESSE, CIOE’, LE MINACCE ELETTORALI: L’OCCASIONE FINALE PER UN “NO”. 48

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Quand’è che il futuro è passato da essere una promessa a essere una minaccia?
Chuck Palahniuk

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1. Finita la parte più strettamente religiosa delle feste, e quindi messa provvisoriamente in sospensione l’ubriacatura immigrazionista dello ius soli, e dei diritti immaginariamente negati, si passa ai propositi per il Nuovo Anno.
E questi propositi, nelle circostanze attuali, altro non sono che promesse elettorali, perché in tali termini vanno, da tutti voi, attentamente considerate; e immancabilmente, tutto questo va assunto nel connubio, ormai indistinguibile fra partiti di governo (in nome dell’€uropa dei mercati) e media di controllo, entrambi sospinti dall’incessante lavorio degli influencers,.

2. Questi operano dunque in un incessante processo circolare che alimenta di soluzioni di soccorso, – aggirantesi preferibilmente sull’unico grande tema del debito pubblico (con varianti imperdibili)-, la linea di governo €urotrainata, mentre, a loro volta, gli espertologi proponenti delle soluzioni, in contraccambio, ricevono la legittimazione preventiva – mediatica, naturalmente- a divenire futuri governanti o, quantomeno, consulenti dei massimi livelli dell’amministrazione politico-economica. Tra una (lucrosa) “porta girevole” e l’altra; sempre qui, pp. 6-7.

3. In questo circuito, non c’è più spazio, e nemmeno tempo da perdere, per l’ascolto dell’orientamento dell’elettorato – inteso come elemento sociale costitutivo dello Stato nonché titolare della sovranità-, all’interno di un processo, almeno formalmente, democratico.
Traduco in termini più diretti: ammesso che il voto possa non essere condizionato dallo strapotere mediatico di chi odia la Costituzione (quella vera, non quella filosofica dei banchieri “liberali”) e l’umanità stessa, l’idea precostituita è che comunque la futura agenda di governo non potrà e non dovrà tenerne conto. Tutto è già comunque deciso.
Rimarrebbe solo da ascoltare, per mesi di campagna elettorale, la reiterazione ossessiva, pluriennale, – che dico: pluridecennale!-, delle stesse “soluzioni”.

4. Siamo irreversibilmente, – ci dicono in tutti i modi sicché nessuno possa avere più dubbio alcuno-, in un mondo in cui i tecnici gestiscono mentre i mercati governano (Reichlin dixit, once and for ever): e, poiché il ruolo dei politici è di andare in televisione e sui big-media, per converso, il passaggio mediatico del tecnico emerge spontaneamente quale voce-dell’opinione-pubblica-che-non-può-essere-ignorata. Essa e soltanto essa, tra le molte che si levano da una società che pure mostra profondi segni di inquietitudine, è abilitata a segnare i limiti di (non)”significato”di ogni possibile espressione del voto:
Il voto, attesa la incomprensibilità, da parte dell’individuo comune-elettore, della realtà normativa naturale, è solo un processo subordinato di ratifica delle decisioni “impersonali” del mercato (questa sintesi è agevolmente ricavabile, ex aliis, da questo post e da quest’altro).

5. Ma una volta profilato come “atto dovuto”, senza alternative, il piegarsi preventivo ed incondizionato dell’elettorato alle esigenze del “lovuolel’€uropa”, le “soluzioni” assumono il carattere più preciso di minacce.
Un tale carattere minaccioso delle dichiarazioni programmatiche elettorali potrebbe sembrare un ben curioso calcolo di captazione del voto.
Promettere prelievi patrimoniali sulle proprietà immobiliari e sui conti correnti delle famiglie, nonché (oh, finalmente!) tagli feroci della spesa pubblica, uniti alle soluzioni più tipiche di welfare caritatevole, drasticamente alternativo alle politiche di piena occupazione, e conditi dalle immancabili riforme definitive della Costituzione in senso “liberale”, – in modo da ammantare prelievi e ferocia di una solenne legalità-, infatti, parrebbe in controtendenza clamorosa rispetto alle speranze e alle motivazioni di voto della schiacciante maggioranza degli italiani; ma, grazie al meccanismo della legge elettorale ed all’esistenza stessa, rectius all’accurata creazione, dei “3 poli”, non lo è.

6. Oggi un residuo lumicino di speranza per evitare tutto questo passa per una rigorosa rivendicazione della vostra autonomia di giudizio, per la libertà del vostro voto: per un no che, questa volta, non possa essere beffardamente vanificato.
Perché, come ormai dovreste aver imparato, un “no” non preceduto dal risveglio e dalla mobilitazione delle coscienze (p.2), dall’aver coltivato “lo spirito di scissione” gramsciano (inteso come chiara presa di distanza che non ammetta compromessi e paure), può sempre essere vanificato.
E questa con ogni probabilità potrebbe essere l’ultima volta che un “no” potrete ancora (utilmente per voi) esprimerlo. Almeno all’interno dei parametri democratici che, con eccessiva di prigrizia, si tende a dare per scontati.
E’ obbligo civile, e di legalità costituzionale, l’essere consapevoli che, questa volta, è veramente un’occasione finale. Com’è finale l’attacco del neo-liberismo globalista alle Costituzioni.

7. Non rimane, dunque, che fare la cronaca delle battute finali della “sceneggiatura” nel suo prossimo compimento, ricordandone le premesse strutturali:
“E quindi, come in Italia, si conferma che la “governabilità” (qui, pp. 2.1.4 e ss.) è una qualificazione di tipo tecnico-istituzionale che, se assunta come valore autosufficiente (cioè come indicatore di un’astratta funzionalità organizzativa che non si cura più del raggiungimento dei fini costituzionali dell’organizzazione stessa), finisce per assorbirne ogni altro, cioè per rendere irrilevante ogni contenuto e fine dell’indirizzo politico-elettorale.
Quest’ultimo, in teoria, dovrebbe risultare corrispondente alle esigenze che l’elettorato, ed anche la obiettiva realtà socio-economica, cercano di segnalare al sistema pseudo-rappresentativo dei partiti; ma, ci si accorge che, come giustamente, ha detto Draghi (ispirandosi a Friedman; qui, p.1, “addendum”), l’indirizzo politico è fissato da un “pilota automatico”.

Anzi, si potrebbe persino dire che l’apparente frammentazione partitica attuale sia un bene per il “governo dei mercati”: restituisce alle masse una sceneggiatura di contendibilità delle istituzioni (democratico-elettive) su varie, apparenti, versioni dell’indirizzo politico e così allontana la presa d’atto popolare sull’abolizione delle sovranità democratiche.
La sceneggiatura di una grande reality sedativo stile “Truman show”.
E dunque, aveva pienamente ragione Reichlin (qui, p.8.1.):
“I mercati governano, i tecnici gestiscono, i politici vanno in televisione”.
E questa è l’€uropa: ora più che mai.
Perché il problema di fondo rimane sempre questo:
“Se un “governo” sovranazionale free-trade non è strutturalmente idoneo ad autoriformarsi per via endogena (e le ragioni sono le stesse per cui i paesi non vincolati dalla bdp, cioè in surplus, non risultano praticamente mai, nella storia economica, aumentare le proprie importazioni e raggiungere il pieno impiego, cooperando spontaneamente a riequilibrare i saldi esteri e i livelli di occupazione dei paesi “vincolati”), ne deriva una struttura della massima rigidità.

E una tale struttura può solo collassare, escludendo, geneticamente, qualsiasi elasticità delle sue regole: se infatti fosse prevista una clausola di “elasticità”, la sua governance riterrebbe di perdere la “credibilità” necessaria per affermare i suoi fini naturali.
E in fondo, è ciò che ci va ripetendo, ogni volta che ne ha l’occasione, Mario Draghi.
Anzi, precisa che qualsiasi alternativa a tale rigidità istituzionale è “unrealistic”.

Quindi il destino delle masse €uropee è segnato”.

1604.- Niger: ma lo sapete dove li state mandando?

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(Nicola Evoli) – Ecco che cosa ci aspetta in Niger che il governo Gentiloni-Pinotti in salsa Macron non vogliono che si sappia. I veri rischi oltre gli interessi francesi sull’uranio del Niger. Cartelli della droga colombiani e messicani hanno saltato l’Oceano Atlantico e si sono espansi nell’Africa occidentale, lavorando a stretto contatto con le bande criminali locali per ritagliarsi un’area di sosta per un assalto al redditizio mercato europeo.

L’Africa occidentale sta facendo appello ai narcotrafficanti dall’America Latina.

La situazione è diventata così fuori controllo che la piccola Guinea-Bissau, la quinta nazione più povera del mondo, è stata definita il primo stato-narco dell’Africa. Altri parlano di come la Gold Coast in Africa sia diventata la Costa della Coca. In tutto, dicono i funzionari, almeno nove importanti cartelli della droga latino-americani hanno stabilito basi in 11 nazioni dell’Africa occidentale.

“Le stesse organizzazioni che investighiamo nel Centro e Sud America che sono coinvolte nell’attività della droga verso gli Stati Uniti sono impegnate in questo traffico in Africa occidentale”, ha dichiarato Russell Benson, direttore regionale dell’Agenzia per l’applicazione della droga per l’Europa e l’Africa. “Non c’è un paese che non sia stato toccato in una certa misura.”

Il calcolo è semplice: maggiori profitti in Europa che negli Stati Uniti, meno forze dell’ordine in Africa occidentale che in Europa.

La forza trainante è il boom del mercato europeo della cocaina.

“L’aumento esponenziale del numero di consumatori ha reso l’Europa il mercato in più rapida crescita e più redditizio del mondo”, ha dichiarato Bruce Bagley, preside della Graduate School of International Studies presso l’Università di Miami.

Mentre il mercato europeo si è espanso, l’uso negli Stati Uniti è diminuito rispetto al picco degli anni ’80, ha dichiarato l’Ufficio U.N. di droga e criminalità nel suo rapporto annuale.

La guerra alla droga viene combattuta nelle foreste nigeriane
“La prevalenza di uso di cocaina negli Stati Uniti è inferiore del 50% rispetto a vent’anni fa, mentre Spagna, Italia, Portogallo, Francia e Regno Unito hanno visto il doppio o il triplo uso di cocaina negli ultimi anni”, afferma il rapporto U.N.

Ogni anno vengono prodotte circa 1.000 tonnellate di cocaina pura, quasi il 60 percento delle quali sfugge all’intercettazione delle forze dell’ordine e lo immette sul mercato, afferma il rapporto. Quello è un mercato globale all’ingrosso di circa $ 70 miliardi.

Il traffico criminale di circa 250 tonnellate in Europa ogni anno, anche se non tutto lo rende lì, ha detto l’U.N. Il mercato europeo ammonta a circa $ 11 miliardi. Circa il 27% della cocaina entrata in Europa nel 2006 proveniva dall’Africa, hanno riferito le Nazioni Unite.

I profitti enormi rendono l’Europa particolarmente attraente. Due chili di cocaina non tagliata possono vendersi per $ 22.000 negli Stati Uniti, ma per $ 45.000 in Europa. Il Dipartimento di Giustizia ha affermato che il prezzo in Europa può essere tre volte maggiore rispetto agli Stati Uniti.

“È un mercato significativo da sfruttare per loro”, ha detto Benson.

Un euro forte e un dollaro più debole rendono anche l’Europa attraente per i trafficanti a causa dei tassi di cambio favorevoli. C’è anche il fatto che l’Unione Europea ha ancora in corso una banconota da 500 euro, attualmente equivalente a circa $ 700. La più grande denominazione del dollaro in circolazione è la banconota da $ 100. I trafficanti preferiscono le banconote in euro grandi perché sono più facili da trasportare in grandi quantità.

Ad esempio, Benson ha detto che $ 1 milione in $ 100 pesa 22 pounds, mentre $ 1 milione in banconote da € 500 ne pesa 3,5.

“È un’enorme differenza”, ha detto.

I colombiani e i cartelli messicani hanno scoperto che è molto più facile introdurre clandestinamente carichi di grandi dimensioni nell’Africa occidentale e poi suddividerli in piccole spedizioni verso il continente, principalmente in Spagna, nel Regno Unito e in Francia.

L’Africa occidentale è il sogno di ogni contrabbandiere e soffre di una combinazione di fattori che rendono l’area particolarmente vulnerabile. È tra le regioni più povere e meno stabili del mondo. I governi sono deboli e inefficaci e, come capo il capo della DEA ha testimoniato all Senato degli Stati Uniti, i funzionari sono spesso corrotti.

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Anche le forze dell’ordine sono ampiamente corrotte. Le bande criminali dilagano. I soldati dei narcos possono essere reclutati da una grande folla di giovani poveri e disperati.

L’Africa occidentale fa riferimento a Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone e Togo.

Le autorità degli Stati Uniti si trovano in una posizione di grande svantaggio nel combattere i cartelli che hanno molto più denaro e armi. La DEA ha quattro uffici – in Egitto, Ghana, Nigeria e Sud Africa – per coprire un continente che si estende per 11,7 milioni di miglia quadrate e ha circa 1 miliardo di persone.

“È un posto grande”, riconosce Benson, sottolineando che ci sono 54 paesi nel continente.

Anche la polizia locale è ampiamente sotto controllo. La Guinea-Bissau offre un esempio allarmante.

“La polizia giudiziaria … ha 60 agenti, un veicolo e spesso senza carburante”, ha scritto l’analista Bybee in un giornale chiamato New Voices in Public Policy, pubblicato dalla George Mason University School of Public Policy. “Di conseguenza, quando i colpevoli vengono arrestati, vengono portati in un taxi alla stazione di polizia. Nell’esercito, una nave arrugginita pattuglia i 350 chilometri (217 miglia) di costa e 88 isole. ”

Anche quando i criminali vengono catturati, Bybee ha detto che “la quasi assenza di un sistema giudiziario consente ai trafficanti di operare senza impedimenti”. Ad esempio, ha detto, “poiché la polizia è così impotente, i colpevoli sono spesso trattenuti solo poche ore prima che i militari di alto grado raggiungano improvvisamente poteri giudiziari straordinari per chiedere il loro rilascio”.

I pochi funzionari che si oppongono ai trafficanti ricevono minacce di morte o vengono uccisi.

L’Africa occidentale è anche particolarmente attraente per i trafficanti perché è vicina “al ventre molle dell’Europa”, ha detto il generale dell’esercito a quattro stelle in pensione Barry McCaffrey, che è stato direttore delle politiche antidroga del presidente Clinton.

La geografia gioca un altro ruolo perché l’Africa occidentale è abbastanza vicina alle tre nazioni sudamericane che producono quasi tutta la cocaina del mondo: Colombia, Perù e Bolivia. Molte delle spedizioni partono dal Venezuela, che condivide un confine poroso di 1.273 miglia (2.050 chilometri) con la Colombia ed è ancora più vicino all’Africa.

La maggior parte delle spedizioni di cocaina attraversano l’Atlantico in grandi “navi madri” e poi vengono scaricate su piccole navi vicino alla costa, hanno riferito le Nazioni Unite. Sono stati utilizzati anche piccoli aerei modificati per il volo all’estero che possono trasportare un carico di 1 tonnellata.

I trafficanti utilizzano le barche veloci, i pescherecci e i container commerciali come mezzo principale per contrabbandare la cocaina dal Venezuela. McCaffrey ha anche notato l’uso di barche e aerei speciali.

L’amministratore delegato della DEA Thomas Harrigan ha testimoniato davanti al Senato a giugno che le autorità della Sierra Leone hanno sequestrato una spedizione di cocaina l’anno scorso da un aereo bimotore contrassegnato da una croce rossa. Il volo era originato in Venezuela.

Il rapporto del GAO ha osservato che “i funzionari del governo degli Stati Uniti hanno osservato un aumento del traffico aereo sospetto proveniente dal Venezuela”. Nel 2004, secondo il rapporto, le autorità monitoravano 109 voli sospetti dal Venezuela. Nel 2007, i funzionari monitorarono 178 voli sospetti.

Poi c’è la connessione criminale in Africa occidentale.

“I trafficanti colombiani e venezuelani sono trincerati nell’Africa occidentale e hanno coltivato rapporti di lunga data con le reti criminali africane per facilitare le loro attività nella regione”

“Queste organizzazioni non operano nel vuoto”, ha detto Benson. “Devono allinearsi con i gruppi criminali dell’Africa occidentale”.

Anche i cartelli si sono allineati con i terroristi, ha detto Harrigan.

“La minaccia del narcoterrorismo in Africa è una vera preoccupazione, inclusa la presenza di organizzazioni terroristiche internazionali che operano o basate in Africa, come la minaccia regionale presentata da al Qaeda nelle Terre del Maghreb”, ha detto riferendosi ad al Qaeda attivisti in Nord Africa. “Inoltre, le indagini della DEA hanno identificato elementi delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia [FARC] della Colombia come coinvolte nel traffico di cocaina nell’Africa occidentale”.

Benson ha detto che i gruppi che operano in Africa sono “principalmente organizzazioni di narcos” ma hanno riconosciuto che i guerriglieri delle FARC marxiste in Colombia sono una forza da affrontare. I ribelli hanno fatto guerra al governo colombiano per oltre 40 anni.

“Il potenziale di profitto è tale che le FARC sono una delle più grandi organizzazioni nel traffico di cocaina a livello globale ed è anche un’organizzazione terroristica”, ha affermato.

Bagley e McCaffrey vedono meno prove di connessioni terroristiche con i trafficanti in Africa, usando entrambi un linguaggio quasi identico.

“Sarei molto scettico su questo tipo di affermazioni”, ha detto McCaffrey.

“Sono piuttosto scettico sui legami tra cartelli e terroristi”, ha detto Bagley. “I gruppi criminali cercano profitti, non sono interessati a conquistare i governi”.

Eppure, ha detto Bagley, i trafficanti e i terroristi potrebbero utilizzare alcune delle stesse reti criminali.

Gli analisti osservano che l’ondata di attività dei cartelli nell’Africa occidentale è uno sviluppo abbastanza recente. Il rapporto U.N. dice che è iniziato intorno al 2005.

McCaffrey, che era alla Casa Bianca di Clinton negli anni ’90, disse di aver visto il problema arrivare molto tempo fa.

“Ho avvertito le persone in Europa e in America Latina a partire da 10 anni fa, dove questo problema si sarebbe trasferito”, ha detto. “Gli europei non mi hanno assolutamente creduto”.
Gianni Fraschetti

1603.- IL SUGGERITORE DI BERGOGLIO SUI MIGRANTI E’ UN BILDERBERG DI GOLDMAN SACHS. Maurizio Blondet

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Nei suoi discorsi ossessivi a favore dell’immigrazione senza limiti e il suo torvo, iracondo discorso di Natale a difesa postuma dello Jus Soli, Bergoglio “sembra ispirarsi più a Soros che a Cristo”, ha commentato il filosofo Fusaro, accusando El Papa di mettersi sempre più al servizio della “mondializzazione e dello sradicamento capitalistico”. Come mi ha ricordato un amico lettore, “Francesco” ha un ispiratore – o suggeritore o “gestore” – più diretto di Soros. Un personaggio cui El Papa ha dato in febbraio la presidenza della International Catholic Migration Commission, e che ha reso consigliere della Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA). Un filantropo umanitario dell’abolizione dei confini che è anche, come dubitarne?, un banchiere d’affari. Ed è anche molto, molto di più.

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S’introduca qui Peter Sutherland, da almeno 20 anni presidente non (più) esecutivo di Goldman Sachs ma ultra-esecutivo del Bilderberg (sta nello “steering committee, ossia nella direzione che del Gruppo elabora l’agenda politica e i fini da raggiungere); ebreo di madre, sionista, ex presidente della BP (British Petroleum) e contemporaneamente Rappresentante Speciale dell’ONU per le Migrazioni, tutte cariche che non ha lasciato quando”Francesco” lo ha incoronato presidente della Catholic Migration Commission.

Meet the pope’s Bilderberger guru

Ma è molto di più, Sutherland. E’ stato Commissario europeo alla Concorrenza quando presidente della Commissione era Delors; è stato direttore del WTO, Organizzazione Mondiale del Commercio, ossia del tribunale mondiale del commercio globale senza confini né dazi, che praticamente ha creato da sé. E’ capo del Global Forum on Migration and Development, da cui 160 paesi prendono le direttive sulla migrazione. Insomma è il globalista totale e assoluto, con le mani in pasta in tutte le entità sovrannazionali ad un tempo (ONU, WTO, UE, forse la massima eminenza grigia della “mondializzazione e dello sradicamento capitalistico” nell’interesse della finanza transnazionale.

Quasi dimenticavo: Sutherland è anche presidente onorario della Trilateral Commission e capo della London School of Economics, nonché Cavaliere di Malta e membro dell’Opus Dei. Non si fa mancare nulla in posizioni di potere.

“La UE deve minare le omogeneità nazionali”, per Sutherland.
Le sue idee:

“L’Unione Europea deve fare del suo meglio per minare l’omogeneità dei suoi stati membri”, dettò nel giugno 2012. Parlava in qualità di presidente del Global Forum on Migration davanti alla sottocommissione inglese dei Lords, che stava indagando sull’aggravarsi improvviso delle ondate migratorie.

La risposta essenziale all’invecchiamento delle popolazioni in Germania o nei paesi del Sud Europa è, “ed esito a dirlo perché il concetto è stato attaccato, lo sviluppo di stati multiculturali”. Il problema, ha spiegato, sono le popolazioni, che “ancora coltivano un senso della loro omogeneità e differenza dagli altri. Ed è precisamente questo che l’Unione Europea, a mio parere, deve fare di tutto per erodere”. In nome di cosa? “Della futura prosperità”, rispose. “ Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda sono società di migranti e quindi si adattano più prontamente a chi viene da un diverso mondo culturale. E’ una dinamica cruciale per la crescita economica”.

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Disse anche, Sutherland, che “si è passati dagli stati che scelgono i migranti, ai migranti che scelgono gli stati”, per cui la capacità della UE di “competere a livello globale” è a rischio…ma d’altra parte, ha ingiunto: la UE deve smettere di selezionare solo migranti “altamente qualificati” perche “alla base di tutto, gli individui devono avere libertà di scelta” di dove muoversi.

(Qui per l’articolo della BBC , EU should ‘undermine national homogeneity’ says UN migration chief – http://www.bbc.com/news/uk-politics-18519395

Come si vede, è proprio l’ideologia di “Francesco”, confusione e contraddittorietà compresa; l’ideologia delle Bonino e Boldrini e dei Manconi, del circo mediatico progressista. Da qui si vede bene come ad ispirarle sia il capitalismo mondializzato finanziario; per il quale le “omogeneità” , ossia le identità storiche e culturali che fanno i popoli vari e diversi, sono un ostacolo e un intoppo, una pretesa odiosa, perché il consumatore globale tipo dev’essere letteralmente “senza identità”, senza comunità, “aperto” alle “esperienze”, cosmopolita, nomade e senza “tabù”, senza “pregiudizi” (e senza scrupoli), di sesso variabile. Nella esortazione di Sutherland che la UE eroda, mini, indebolisca le “omogeneità” c’è il disprezzo per la cultura – ciò che fa à degli uomini esseri umani – come di sovrastruttura inutile e dannosa alla libertà di consumo. Allo stesso modo papa Francesco, giorni fa, ha sproloquiato: “Gli europei non sono una razza nata qui, hanno radici migranti”, evocando una condizione anteriore alla civiltà e alla cultura – anche per lui, come per il presidente di Goldman Sachs, la “omogeneità” culturale (quel che fa di ungheresi degli ungheresi, la coesione di una comunità e identità comune saldata dalla storia, dalla lingua, persino dalle sue specifiche arti) un fastidioso orpello che “resiste” alla “integrazione” senza limiti, una “mancanza di carità” contro la “accoglienza” – che oltretutto, completa il guru Bilderberg di El Papa, ci rende “meno competitivi sui mercati mondiali”.

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Ora El Papa ha affidato la Commissione Cattolica sulla Migrazioni al banchiere d’affari e al Bilderberg – ostile alle “omogeneità” culturali, e che si adopererà quanto può per “indebolirle” (il verbo che ha usato è “undermine”), scalzarle, come se già non fossero abbastanza minate. Per i papisti cattolici ingenui, quindi, la questione da ideologica può venire fraintesa come morale: una questione di bene e di male. Nella confusione etica che lo stesso Bergoglio ha sparso a piene mani, la “omogeneità” nazionale di un popolo è equiparata al male morale, e male sarà volerla salvaguardare. Spero che almeno si possa chiedere questo: se l’omogeneità è un male, perché Sutherland auspica che venga scalzata in Europa, ma non la impone ad Israele, stato che difende con l’apartheid la propria identità, che si rifiuta di estendere la cittadinanza ai palestinesi perché questo snaturerebbe il “carattere ebraico di Israele”, ossia la propria omogeneità? E’ strano che tutto ciò di cui i noachici debbono liberarsi perché vizio deplorevole, sia invece pregiato, bello e giusto per i talmudici.

9 gennaio 2018. Scompare Peter Sutherland, già uomo di Goldman Sachs nel Regno Unito. Sognava “l’abbattimento dei confini ” e l’immigrazione illimitata nei paesi europei. Non sentiremo la sua mancanza.

1602.- LA SOCIETA’ MULTI-ETNICA NON PORTA SVILUPPO, MA DEGRADO. C’E’ LA PROVA SCIENTIFICA

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dProfessor Robert Putnam.
di Maurizio Blondet

  • “La UE deve scalzare la omogeneità nazionali … società di migranti si adattano più prontamente a chi viene da un diverso mondo culturale … è cruciale per la crescita economica”. Come ho raccontato nell’articolo del 27 dicembre, è questa l’idea centrale di Peter Sutherland, l’uomo Bilderberg e Goldman Sachs che El Papa ha messo a capo del suo organo a favore delle migrazioni di massa. Ovviamente è anche l’idea di “Francesco”; come della Boldrini, del senatore Manconi (“Accogliamoli tutti!”), dei Gad Lerner e di tutte le sinistre mediatico-umanitarie e dei misericordiosi neo-cattolici: il senso di appartenere ad una comunità storica da salvaguardare è un atteggiamento “egoista”, e peggio, un ostacolo all’aumento della prosperità; il rifiuto della commistione di popolazioni e “culture”, e dell’apertura senza limiti delle frontiere , oltre che un riflesso regressivo illusorio (perché “non c’è alternativa” alla globalizzazione), produce chiusure e quindi declino.

    Ora, grazie al suggerimento di un acuto lettore, torno sull’argomento per dire: questa “idea” è stata dimostrata falsa. Dimostrata falsa con tutti i crismi della scientificità da un grande studio sociologico completato dal maggior sociologo politico vivente: Robert Putnam , luminare di Harvard (Kennedy School), noto come l’inventore, per così dire, del concetto di “capitale sociale”: ossia dell’insieme di norme civiche condivise inespresse, e spontaneamente obbedite, legami fiduciari formali e informali, che consentono agli individui di una società di “fidarsi l’uno dell’altro” – ciò che aiuta e facilita, ovviamente, lo sviluppo economico.

    La prima opera fondamentale di Putnam riguarda molto da viicino noi e le nostre magagne: Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy, (Far funzionare la democrazia: tradizioni civiche nell’Italia moderna), dove dimostra che la prosperità delle regioni del Nord Italia dipende dalla loro storia di associazioni, gilde, scopi comuni condivisi, legami orizzontali reciproci, che ha indotto un maggiore coinvolgimenti civico e soluzione collettiva dei problemi. Mentre la società agraria del Meridione dominata dal latifondo è meno sviluppata – non solo in quanto ad economia, ma in quanto a vivacità democratica – perché ha meno “capitale sociale”, appunto inteso come quella “rete di norme e impegno civico che induce i membri di una comunità a fidarsi l’uno dell’altro, a contare genericamente di non essere fregato dal vicino.

    La diversità etnica porta a chiudersi

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    Ebbene: la sua più recente ricerca sociologica fatta su 41 siti americani comprendenti 30 mila persone, Putnam l’ha cominciata condividendo l’utopia progressista “diversità porta arricchimento”, e allo scopo di confermarla “scientificamente”.

    Ciò che ha scoperto, è il contrario. Che l’immigrazione e la diversità di culture non solo riducono il “capitale sociale” fra i gruppi etnici diversi, ma anche all’interno degli stessi gruppi”omogenei”: non solo non si fidano degli stranieri di diverso colore e religione, non si fidano più nemmeno dei loro simili. Di conseguenza, si riduce la fiducia anche verso il vicino del proprio colore, gli atti di altruismo e di cooperazione comunitaria si fanno più rari e così le amicizie. Dai quartieri di Chicago a Los Angeles fino al Sud Dakota contadino, deve riconoscere Putnam, “la gente che vive in ambienti etnicamente diversi si chiude (hunker down) come fanno le tartarughe” che si ritraggono nel carapace. E non basta: “si ritirano anche dagli amici vicini, tendono ad aspettarsi il peggio anche dalla propria comunità e suoi leaders, tendono a collaborare meno, a fare meno volontariato”; persino, hanno meno cura dei beni pubblici, come non sprecare acqua o tenere il giardinetto, o ocuparsi della manutenzione della strada, perché pensa che, tanto, gli altri sprecano e non curano; non si aspetta che gli altri coopereranno spontaneamente a risolvere i problemi del quartiere.

    E ancora non basta: “Si registrano meno per votare e votano meno, si agitano di più per “cambiare la società” ma con meno fiducia di poter davvero cambiare le cose, e finiscono per agglomerarsi, infelici, davanti alla tv”.

    Ricorda qualcosa?

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    Ha scoperto l’acqua calda? Ma scientificamente.

    Senza stupore, scopriamo così che l’idea “diversità = arricchimento” che ci viene imposta da tutte le sinistre è “ideologia”, nel senso deteriore: una anti-scientifica razionalizzazione di sentimenti e impulsi che essa ritiene “morali” proprio perché negano la realtà concreta, per le sinistre “bassa” ed egoistica. Possiamo anche valutare l’ennesimo disastro sociale che l’ennesima ideologia adottata dal progressismo totalitario imperante sta producendo su una società, quella italiana, dove già è tragicamente scarso il “capitale sociale” . I governi, le entità sovrannazionali globalizzatrici, ed adesso El Papa ci stanno imponendo una “diversià” “accoglienza” e “riduzione delle omogeneità” che non possono che aggravare il generale “hunkering down”, ritrarsi a tartaruga, la non-partecipazione politica, la paura e diffidenza del vicino, il rarefarsi della collaborazione spontanea, e la sfiducia (impotente) nei governanti e governanti di ogni livello.

    Si dovrebbero trarre le conclusioni sulla evidente pericolosità sociale essenziale dell’essere “di sinistra”: appena compare una ideologia, la sinistra la adotta e la impone agli altri con la superiorità moralistica che la rende inflessibile: l’ha fatto col marx-leninismo, ora lo fa col gender, coi “diritti gay”, con l’accoglienza degli immigrati, con “abbattiamo ogni confine”, con l’adesione al globalismo voluto dal grande capitale finanziario – sempre senza riconoscere i disastri umani che le ideologie producono nella compagine sociale concreta, realmente esistente.

    Questa pericolosità è dimostrata dallo stesso Putnam, che è ovviamente un progressista (e si è pure convertito all’ebraismo della sua consorte): giunto alla prova scientifica (secondo i criteri popperiani), ossia avendo “falsificato” la teoria cui credeva , egli ha ritardato anni a pubblicare lo studio che dimostrava gli effetti (per lui) sorprendentemente negativi della “diversità”, perché “temeva” (parole sue) che potessero portare acqua al mulino dei contrari nel “dibattito pubblico sull’immigrazione”. Insomma aveva sottratto al dibattito pubblico elementi di verità. Di fronte alle proteste dei colleghi sociologi, che gli chiedevano se ritenesse etico, come docente e scienziato, sopprimere dati che gli erano sgradevoli, ha detto al Financial Times che aveva ritardato la pubblicazione delle sue scoperte fino a quando non avesse elaborato “proposte per compensare gli effetti negativi della diversità”, ossia di cucinare qualche giustificazione ideologica cosmetica. Infatti, dovendo alla fine pubblicare (la ricerca era costata un occhio all’Università di Harvard) ha aggiunto alla pubblicazione un finale che ha titolato “Becoming Comfortable with Diversity”, ossia “sentirsi a proprio agio nella diversità”. Imperdonabile, ammette in una nota che “gli effetti reali della diversità sul ritrarsi sociale può essere stato sottostimato”. In Nota.

    Vedi, in Scandinavian politic Lecture: E Pluribus Unum: Diversity and Community in the Twenty-first Century The 2006 Johan Skytte Prize Lecture

    E’ morale non diffondere dati che smentiscono la ideologia dominante? Per uno scienziato, no. Ma per un ideologo sì – e ciò dimostra ancora una volta perché il dominio politico-culturale delle sinistre non solo sbocca, ma fin dall’inizio volge al totalitarismo: ne è essenziale la soppressione della verità, non tollera antagonismi alla sua ideologia, l’ultima di moda che ha adottato. Il linguaggio politicamente corretto che impone è già uno strumento totalitario, perché punta a vietare l’espressione di idee antagoniste alla propria.

    Se l’ideologo totalitario è anche Papa

    Per contro, loro, gli ideologi, si permettono qualunque offesa alle altrui convinzioni. Lo stesso Sutherland, in una intervista all’ufficio stampa dell’ONU, ha deriso e schernito la nozione stessa di sovranità nazionale. I governi devono riconoscere che “la sovranità è una illusione, una illusione assoluta che dobbiamo lasciarci alle spalle. I tempi in cui ci si riparava dietro confini e steccati sono da lungo tempo finiti”. Con un salto logico tipico (lo stesso argomento ha usato anche Gad Lerner), Sutherland ha accusato gli Stati che in Europa pongono un tetto al numero delle ammissioni di immigrati di “ricordare direttamente il tipo di tetto che il Terzo Reich pose alla popolazione ebraica”. Da qui all’accusa a Orban di compiere un Olocausto, manca un passo. Che sarà sicuramente compiuto. A dimostrazione ulteriore che “la Sinistra fa sempre il gioco del grande capitale, a volte perfino senza saperlo” (Oswald Spengler).

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    Bergoglio con il banchiere dell’accoglienza senza limiti Peter Sutherland.“Francesco” ha un ispiratore – o suggeritore o “gestore” – più diretto di Soros. Un personaggio cui El Papa ha dato in febbraio la presidenza della International Catholic Migration Commission, e che ha reso consigliere della Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA). Un filantropo umanitario dell’abolizione dei confini che è anche, come dubitarne?, un banchiere d’affari. Ed è anche molto, molto di più. Leggi 1603: IL SUGGERITORE DI BERGOGLIO SUI MIGRANTI E’ UN BILDERBERG DI GOLDMAN SACHS dal blog di Maurizio Blondet

    La comparsa rumorosa e senza precedenti di un Papa ideologico, di sinistra libertaria, applaudito dal mondo, pone un ordine di problemi persino più gravi della pura e semplice imposizione del totalitarismo laicista. Il perché lo spiega un mio lettore ed amico, Stefano , docente di filosofia tomistica in una università europea. Commentando lo sproloquio di Bergoglio “Gli europei non sono una razza nata qui, hanno radici migranti”

    Stefano mi scrive cosa si nasconde, filosoficamente, nell’odio di Francesco alla cultura dei popoli europei. Gli lascio la parola:

    “Considerare la cultura come sovrastruttura dell’ omogeneità naturale è uno strafalcione gravissimo.

    Non solo manifesta pochezza di comprensione del processo naturale (storia, guerre, imprese comuni) che ha fatto di quello specifico popolo tale popolo; ma distrugge l’armonia cattolica tra grazia e natura, considerando la natura un blocco originario (razziale?) dove si nega come propriamente umano lo sviluppo di una cultura particolare sopra la quale la grazia ripara e perfeziona.

    “L’Europa è un “luogo” dove la razza è stata chiamata a lasciar passo alla cultura (lo ius romano) e dove finalmente il cristianesimo, senza distruggere ciò che di buono aveva realizzato la cultura lo ha elevato all’ordine della grazia.

    “Si riconosce l’antico sistema gnostico: non ci può essere un’ elevazione soprannaturale della natura/ cultura (l’Europa in questo caso) perché la natura stessa non può produrre nulla di buono, dunque questa deve sciogliersi in un monismo originario, in una uniformità senza contorni, nel quale finalmente può prodursi la superazione attraverso il ritorno all’origine.

    “Alla base del discorso, dietro l’esaltazione dell’ indifferenza naturale, c’è un odio enorme alla grazia divina che si china sull’uomo nella sua debolezza e nelle sue realizzazioni naturali. La parola “cultura” richiama il lungo lavoro della coltivazione, in cui l uomo pone al suo servizio le realtà naturali, generando allo stesso tempo un simbolismo e una distanza dalla natura che solamente possono essere umani, in cui manifesta la sua trascendenza rispetto al mezzo che lavora”.

    Una cattolica in carcere. In Canada.
    Se credete che questo discorso resti teorico e astratto, guardatevi attorno: la persecuzione dei non ideologici è già in atto. Enon solo dei cristiani in Oriente; anche in Canada i cristiani sono perseguitati. Chi sapeva di Mary Wagner?

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      Mary Wagner: Natale in galera.

      “Mary Wagner, canadese arrestata per la sua difesa delle madri e dei figli (entra nelle cliniche abortive per offrire alle donne un’alternativa all’aborto, infrangendo la legge che non permette nemmeno che si provi ad aiutarle a trovare un’altra via all’omicidio dei loro piccoli), ha partecipato anche quest’anno alla Messa di Natale celebrata in carcere. E lo ha fatto anche se sarebbe bastato sottoscrivere una dichiarazione in cui prometteva di tenersi lontana dalle cliniche abortive per essere liberata.

      Non solo, perché in una lettera scritta in carcere Mary non si è lamentata, ma ha chiarito di essere lì per amore di Gesù, descrivendo un presepe “in attesa del Cristo Bambino – il simbolo del Verbo fatto carne, che abita in mezzo a noi, nella Chiesa e nel più piccolo degli esseri umani”. Perciò, ha continuato, “preghiamo affinché tutti i figli di Dio capiscano che il loro primo dovere è nei confronti del nostro Maestro. Noi siamo i suoi servi. Cerchiamo di non farci trovare negligenti nel nostro dovere verso di Lui”.

      Come ha ricordato Mary Wagner in cella: “Non pensavo di poter continuare su questa strada e non so se l’avrei mai imboccata, senza il dono della fede e la grazia che Dio, grazia su grazia, che Lui mi ha dato”. A dire che da quando quel Bambino è nato la povertà e la sconfitta sono diventate solo apparentemente tali, nascondendo il sé una potere sul mondo che nessun altro credo conosce.

      Benedetta Frigerio, “L’apparente contraddizione del Natale”, la Nuova Bussola Quotidiana