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4255.- L’U.S. Army ha dimostrato agli occhi del mondo di non sapersi ritirare con intelligenza. Vero o falso?

Aggiornato ven 20 agosto 2021, 21.58

Non si sono ritirati con intelligenza. Lo dicono o lo direbbero gli elicotteri Black Hawk statunitensi, i blindati, i fucili d’assalto lasciati catturare ai talebani. Certo, smilitarizzare le basi statunitensi non è così facile e non tutti gli equipaggiamenti lasciati cadere in mano ai terroristi saranno in piena efficienza, ma hanno avuto tutto il tempo di evitarlo e, per quelli ceduti, tutti gli strumenti per verificare la tenuta dell’esercito afghano. Fino all’ultimo, l’esercito afghano ha ricevuto mezzi e armi. L’intelligence dov’era? Ora, i senatori “inorriditi” chiedono un audit del Dipartimento della Difesa, ma è tardi. Le giustificazioni di Elias Yousif e di Jake Sullivan non convincono, mostrano l’imbarazzo in cui si trovano gli Stati Uniti e rilanciano certi dubbi. È presto per cercare di dipanarli. Credo che abbiamo preso l’abitudine di sopravvalutare gli americani e avremmo voluto una dimostrazione di potenza anche nella ritirata. Ma questo sganciamento è stato voluto da Trump e confermato da Biden. Resta perciò il dubbio che siamo di fronte a un piano strategico di ampio respiro, di dieci anni, per esempio.

Anche uno di questi assaltatori è stato lasciato ai talebani.
Almeno due di questi elicotteri d’assalto sono passati di mano.

Elicotteri Black Hawk statunitensi catturati dai talebani, mentre i senatori “inorriditi” chiedono un audit del Dipartimento della Difesa

BY Jack Phillips, 20 Agosto 2021. Premessa, citazioni e traduzione nostre.

Probabilmente miliardi di dollari di armi e veicoli americani sono ora nelle mani del gruppo estremista talebano dopo il crollo del governo e dell’esercito afghano, con numerosi video e foto che emergono online che mostrano membri talebani che sequestrano le attrezzature.

Sono circolate foto di membri talebani che tengono Carabine M-4 americane e fucili M-16 piuttosto che AK-47 o AKM. Altre immagini e video hanno mostrato i talebani che circondano gli elicotteri Black Hawk statunitensi e gli aerei d’attacco A-29 Super Tucano.

Mercoledì, diversi senatori del GOP hanno chiesto al Dipartimento della Difesa (DOD) di fornire un resoconto completo delle armi e delle attrezzature catturate dai talebani, considerata da diverse agenzie come un’organizzazione terroristica.

“Mentre guardavamo le immagini che uscivano dall’Afghanistan mentre i talebani riprendevano il paese, siamo rimasti inorriditi nel vedere le attrezzature statunitensi, compresi gli UH-60 Black Hawk, nelle mani dei talebani”. I Sen.ri Marco Rubio (R-Fla.), Bill Cassidy (R-La.) e due dozzine di altri senatori hanno scritto questa settimana al capo del Pentagono Lloyd Austin.

“È inconcepibile che l’equipaggiamento militare ad alta tecnologia pagato dai contribuenti statunitensi sia caduto nelle mani dei talebani e dei loro alleati terroristi”, hanno aggiunto i repubblicani. “

Diciamo anche in mano ai cinesi, perché il passo è breve.


La protezione dei beni degli Stati Uniti avrebbe dovuto essere tra le massime priorità per il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti prima di annunciare il ritiro dall’Afghanistan. “Alcuni esperti hanno affermato che la cattura dei talebani di hardware degli Stati Uniti ha più un impatto psicologico, piuttosto che un impatto pratico”.

Quando un gruppo armato mette le mani su armi di fabbricazione americana, è una specie di status symbol. È una vittoria psicologica”, ha affermato Elias Yousif, vicedirettore del Security Assistance Monitor del Center for International Policy, secondo The Hill.

Yousif ha affermato che il successivo impiego pratico è problematico per una serie di motivi. “Chiaramente, questo è un atto d’accusa nei confronti dell’impresa di cooperazione per la sicurezza degli Stati Uniti in generale”, ha aggiunto.

Non funziona così. Elias Yousif non è credibile. Se dicesse il vero, dovrebbe essere sollevato dal suo incarico per il bene di tutti, anche suo.

“Dovrebbe davvero sollevare molte preoccupazioni decidere su quale sia l’impresa più ampia che si svolge ogni singolo giorno, che si tratti del Medio Oriente, dell’Africa sub-sahariana, dell’Asia orientale”.

Military
Veicoli militari trasferiti dagli Stati Uniti all’esercito nazionale afghano nel febbraio 2021. (Ministero della difesa dell’Afghanistan/via Reuters)
talibans
I talebani fanno la guardia a un cancello d’ingresso fuori dal ministero degli Interni a Kabul, il 17 agosto 2021. Le armi sono americane. (Javed Tanveer/AFP via Getty Images)

L’Ufficio dell’ispettore generale speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan, istituito dal Congresso nel 2008, ha affermato che sono stati spesi circa 83 miliardi di dollari per lo sviluppo e il sostegno della polizia e dell’esercito afghani in oltre due decenni. Tra il 2003 e il 2016, gli Stati Uniti hanno trasferito alle forze afghane quasi 600.000 armi, 76.000 veicoli, 163.000 dispositivi di comunicazione, 208 aerei e apparecchiature di sorveglianza e ricognizione, secondo un rapporto del Government Accountability Office del 2017.

Tra il 2017 e il 2019, gli Stati Uniti hanno fornito alle forze dell’esercito afghano 4.702 Humvee, 2.520 bombe, 1.394 lanciagranate, 20.040 bombe a mano e 7.035 mitragliatrici, ha affermato l’Ufficio dell’ispettore generale speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan.

Yousif ha detto a The Hill che è probabilmente i talebani sarebbero in grado di utilizzare aerei o armi avanzati, ma hanno sottolineato che non saranno in grado di mantenere l’aereo efficiente al volo per lungo tempo.“
Potrebbero essere in grado di gestire un volo o due o di farli funzionare in una capacità davvero limitata a breve termine, ma senza supporto a lungo termine, manutenzione, assistenza e quel genere di cose, non si trasformerebbe in un robusto o utile strumento di capacità militare”, ha detto.

“Gli afgani e gli Stati Uniti hanno impiegato molto tempo per sviluppare una capacità aerea indigena, e anche allora facevano affidamento sugli Stati Uniti per mantenere quegli aerei in volo”.

Le armi leggere come gli M-16, ha detto, sono più preoccupanti.

Fucile d’assalto Colt M-16. Calibro
5,56 mm (0,224 in)
Tipo munizioni
.223 Remington, 5,56 × 45 mm NATO
M-4

“Sono facili da mantenere, facili da imparare a usare, facili da trasportare”, ha detto Yousif (al punto vendita).
“La preoccupazione per tutte le armi di piccolo calibro è che siano beni durevoli e che possano essere trasferiti, venduti. L’abbiamo già visto che dove finisce un conflitto, le armi che rimangono lì si fanno strada in tutte le parti del mondo”.

Quando sono stati sollecitati a rilasciare un commento, i funzionari della Casa Bianca hanno affermato che non è chiaro quante armi o veicoli siano stati sequestrati, rectius, abbandonati”.

Non abbiamo un quadro completo, ovviamente, di dove sia andato a finire ogni articolo di materiale per la difesa, ma certamente una buona parte di esso è caduta nelle mani dei talebani».
Lo ha detto ai giornalisti il ​​consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan. “E ovviamente, non abbiamo la sensazione che ce lo consegneranno prontamente all’aeroporto”.
E Sullivan ha fatto riferimento agli elicotteri Black Hawk che sono stati presi, incolpando l’esercito afghano di non essersi difeso.“

Jake Sullivan è in imbarazzo e scarica la responsabilità sull’esercito afghano.

Quei Black Hawk non sono stati dati ai talebani”, ha detto. “Sono stati dati alle forze di sicurezza nazionali afgane per potersi difendere su specifica richiesta del presidente [afghano] [Ashraf] Ghani, che è venuto allo Studio Ovale e ha chiesto, tra le altre cose, ulteriori capacità aeree”.

Jack Phillips Jack Phillips, SENIOR REPORTER

4254.- La sfida afgana è salvare la faccia, ma in nome di chi, non si sa.

Stanno schedando le donne nubili di Kabul perché le donne sono il loro bottino.

L’editoriale di Feltri su Libero aiuta a scoperchiare il vaso, ma il fondo non si vede. Può solo immaginarsi. Lo scemare inesorabile e del tutto naturale della pandemia ha trovato un sipario dietro il quale nascondersi per completare al meglio la vendita dei vaccini e l’ha trovato, non un anno fa, al tempo e nell’accordo di Doha, ma nella fuga di Biden e nella veloce caduta di Kabul. Caduta di che? Non si dice, perché si è dimostrato che abbiamo difeso con il nostro sangue un popolo dominato dai narcotrafficanti di tutto il mondo. Che l’Afghanistan non sia una nazione e che sicuramente sia abitato anche da persone sane, ma rare o tonte, lo dimostra la rapina delle casse dello Stato e la fuga ad Abu Dhabi del presidente Ashraf Ghani, con 169 milioni di dollari in banconote. Caro Direttore, giunge anche notizia che stiano schedando le donne nubili di Kabul perché le donne sono il loro bottino. I talebani perquisiscono le case una per una e procedono con esecuzioni mirate». L’ha detto l’ambasciatore afghano all’Onu Ghulam M. Isaczai, alla riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, convocata d’urgenza lunedì 16 agosto a New York.

20 anni fa, il narcostato fu lasciato indenne dall’offensiva americana. Ora, come allora, ha bisogno di gente povera, paurosa e obbediente e la sharia è lo strumento che lo consente. Questo potentato economico deve alimentare il mercato della droga in America, in Europa, in Russia e ovunque. Sono interessi finanziari a livello mondiale. Macron si riferiva certo al terrorismo, alla migrazione, ma non escluderei che pensasse anche alla potenza finanziaria dei narcos quando ha detto che “la Russia, gli Stati Uniti e l’Europa devono cooperare per affrontare la situazione in Afghanistan perche’ i nostri interessi sono gli stessi” e che l’iniziativa deve essere immediata. Del resto – e lo ripeto – il Pentagono stesso non sa se gli americani con passaporto USA, ancora in Afghanistan sono 5 o 11 mila e quanti di questi vorranno essere evacuati. Pechino ha detto ai talebani di lasciar stare gli americani. Quali? Per questo mi chiedevo: “Quanto siamo usciti dall’Afghanistan?” 

Pace per i nostri 53 caduti, per i 448 britannici, gli 86 francesi, per i 2.312 americani e, comunque, per tutti i 3.069 caduti che, in nome della democrazia e della libertà, hanno lasciato quella terra nei “sacchi neri”. Mentre ci interroghiamo su cosa farà Pechino, i talebani di oggi subentrano di fatto agli eserciti occidentali. Senza combattere, hanno preso possesso di blindati, elicotteri, radio e armi individuali (carabine M-4, fucili M-16) del 207° Corpo d’Armata afghano e manterranno intatta la coltivazione dell’oppio, della marijuana e l’organizzazione del narcotraffico. Oggi è come ieri ed è vano sperare che i talebani di oggi saranno meno rigidi dei loro fratelli maggiori che avevamo battuto 20 anni fa. Sono molto più forti di quelli del 1996. Vi dice niente?

Senza combattere, i taliban hanno preso possesso di blindati, elicotteri, radio e armi del 207° Corpo d’Armata afghano, compresi un elicottero d’assalto UH-60 Black Hawk dell’US.Army e un aereo d’attacco A-29 Super Tucano.
Un elicottero Black Hawk su Kabul mentre il primo ministro David Cameron visita l’Afghanistan, Cameron fu il primo leader mondiale ad incontrare il presidente fuggito dall’Afghanistan Ashraf Ghani. I senatori Marco Rubio, Bill Cassidy e altri 24 hanno detto a di essere inorriditi per queste catture, qualunque sia il loro stato.

Feltri: “I progressisti ubriachi credono nella balla dei talebani buoni. Finiamola, sono peggio del Covid”

giovedì 19 Agosto 14:53 – di Gabriele Alberti, pubblicato da Il Secolo d’Italia

Talebani Feltri

Vittorio Feltri e la “balla” sui talebani “buoni”. Un editoriale su Libero del direttore più virulento che mai sgombera il campo dalle panzane, dalla “favola bella”: “I progressisti ubriachi che credono alla balla dei Talebani buoni”, tuona nell’articolo di prima che campeggia sotto il titolo “la balla dei Talebuoni, felice e irridente neologismo. Si sta vedendo in queste ore come i nuovi padroni dell’Afghanistan stiano  “rassicurando” la popolazione: a suon di spari sulla folla. Molti commentatori “si fidano” e scommettono sulla svolta moderata espressa a parole dai talebani. Ma smentita a tempo di record.

Feltri: “Talebani  più gravi del virus”

Feltri commenta che nel bel mezzo della pandemia in cui tutti siamo “condannati a vivere con la paura di crepare è successo qualcosa che sembra ancora più grave dell’avvento del virus. Mi riferisco ai casini inenarrabili dell’Afghanistan dove i talebani si sono nuovamente impadroniti del Paese, incapace di tutto tranne che di coltivare oppio e venderlo al mondo intero a prezzi esorbitanti;  impestando con la droga miliardi di maschi e femmine fragili o viziosi, giudicate voi”. Fa dunque un ritratto della realtà, alla sia maniera: “ I talebani hanno una dote: la grande maggioranza di loro è analfabeta e se ne gloria. Si affida allasharia, un insieme di norme parareligiose da rispettare alla lettera, chi le vìola rischia la pelle. In base ai dettami islamici, è noto, le donne hanno lo stesso valore di stracci e come tali vengono trattate, prive di ogni solidarietà perfino delle femministe nostrane e un po’ tonte“.

Feltri: “Non sbaglia chi teme che tra i disperati possano arrivare  terroristi”

Prosegue Feltri nella ricostruzione del disastro su cui ha sbattuto l’Occidente: “…inutili o tentativi (velleitari) di esportare a Kabul un simulacro di democraziai”. “Kabul è stata assediata e occupata dai fanatici i quali hanno promesso di non torcere un capello ad alcuno. Col cavolo. La sola presenza dei barbuti nella capitale ha gettato nel più tetro sconforto, altro che il Covid, qualsiasi cittadino”. E ora una folla di disperati cerca di lasciare il Paese: gli aerei sono presi d’assalto. È in atto un movimento di massa che mira a emigrare in Occidente”. La tragedia ha una ripercussione immediata: il dramma dei profughi. E i nostri politici hanno subito iniziato a litigare. “Naturalmente l’Italia, come il resto dell’Europa, è disponibile ad accogliere i fuggiaschi – scrive Feltri- . Ma quanti sono e chi sono? Salvini, e non ha torto, dice di ospitare volentieri mamme e bambini:  tuttavia teme che nel mucchio degli immigrati afghani vi siano pure dei terroristi, di cui francamente non abbiamo bisogno”.

“Già siamo pieni di stranieri che se ne fottono della Lamorgese”

“A costoro preferiamo il virus che almeno si fa uccidere facilmente dai vaccini. Già siamo pieni di stranieri che se ne fottono della Lamorgese e seguitano a sbarcare allegramente sulle nostre coste, ci manca soltanto di ospitare una quantità industriale di maomettani per completare l’opera di distruzione”. E’ il tema del momento e Feltri lo c’entra in pieno in modo diretto ma franco.

4253.- I MILIZIANI DELLA DROGA

I talebani sono i nuovi narcos: eroina, miliardi e geopolitica

Così la droga che producono finanzia la guerra e viene venduta in Usa e alle mafie mondiali e italiane

di Roberto Saviano, Corriere

Non ha vinto l’islamismo, in queste ore, dopo oltre vent’anni di guerra. Ha vinto l’eroina. Errore è chiamarli miliziani islamisti: i talebani sono narcotrafficanti. Se si leggono i report dell’Unodc, l’ufficio droghe e crimine dell’Onu da almeno vent’anni, troverete sempre lo stesso dato: oltre il 90% dell’eroina mondiale è prodotta in Afghanistan. Questo significa che i talebani, insieme ai narcos sudamericani, sono i narcotrafficanti più potenti del mondo. Negli ultimi dieci anni hanno iniziato ad avere un ruolo importantissimo anche per l’hashish — producono non solo il fumo afgano, ma anche il charas — e la marijuana. Per quanto possa sembrarvi pretestuosa questa affermazione, di Afghanistan sentirete sempre parlare eludendo le dinamiche principali del conflitto, ignorando le fonti prime che finanziano la guerra, e spesso quindi vi sarete trovati a farvi un’idea su questa terra lontana sull’eterno conflitto mancando dell’elemento centrale: l’oppio. 

La guerra in Afghanistan è una guerra dell’oppio. Prima delle scuole coraniche, dell’obbligo al burqa, prima delle spose bambine, prima, i talebani sono dei narcotrafficanti che portano un assoluto moralismo nel consumo delle droghe e nella coltivazione, che finsero di proibire nel 2001. Qui accade uno dei più gravi errori dell’amministrazione americana: nel 2002 il generale Franks, il primo a coordinare l’invasione in Afghanistan da parte delle truppe di terra americane, dichiarò: «Non siamo una task force antidroga. Questa non è la nostra missione». Il messaggio era rivolto ai signori dell’oppio, invitandoli a non stare con i talebani, dicendo che gli Stati Uniti avrebbero loro permesso la coltivazione. Lo stesso James Risen, nel 2009, scrisse sulNew York Times un articolo dove segnalava che nella lista nera del Pentagono dei trafficanti di eroina da arrestare non venivano inseriti quelli che si erano schierati a favore delle truppe americane. 

Le cose andranno male comunque, perché con la presenza militare americana gli affari dei contrabbandieri d’oppio che avevano bisogno di movimenti rapidi e veloci si vedono continuamente fermare, ispezionare, devono farsi autorizzare dai militari. I talebani invece riescono a ottenere rapidità di approvvigionamento e movimento, e non solo, iniziano a tassare il doppio i produttori che non lavorano per loro e a coltivare direttamente le proprie piantagioni. Non più quindi racket sulla coltivazione, ma diretta gestione del traffico. Questo l’avevano già iniziato a fare i mujaheddin, sostenuti dall’Occidente nella guerra contro i sovietici. I contadini non hanno alternativa: il Mullah Akhundzada, appena le truppe dell’Armata Rossa nel 1989 si ritirarono, capì che bisognava smettere di prendere il 10% come pizzo dai trafficanti di eroina, per essere direttamente loro, i guerriglieri di Dio, a gestire il traffico. Impose che tutta la valle di Helmand, a Sud dell’Afghanistan, fosse coltivata a oppio, e chiunque si fosse opposto, continuando a coltivare melograni o frumento prendendo sovvenzioni statali, sarebbe stato evirato. Il risultato fu la produzione di 250 tonnellate di eroina. Akhundzada oggi è indicato come il maggiore leader talebano, ed è uno dei trafficanti più importanti al mondo. Scalano le gerarchie interne (anche religiose) sempre di più i dirigenti talebani trafficanti rispetto a quello che accadeva un tempo, ossia dare incarichi e possibilità di comunicare ai dirigenti militarmente più capaci e alle figure religiose. 

L’eroina talebana fornisce camorra, ‘ndrangheta e Cosa Nostra, fornisce i cartelli russi, e rifornisce Cosa Nostra americana e tutte le organizzazioni di distribuzione in Usa a eccezione dei messicani che cercano di rendersi autonomi dall’oppio afgano (a fatica, perché l’eroina di Sinaloa è più costosa di quella afgana). Tramite la rotta Afghanistan—Pakistan—Mombasa (Kenya) i talebani riforniscono anche i cartelli di Johannesburg in Sudafrica, altro immenso mercato. Forniscono eroina ad Hamas, altra organizzazione che si finanzia (anche) con hashish ed eroina e che ha infatti comunicato: «Ci congratuliamo con il popolo islamico afghano per la sconfitta dell’occupazione americana su tutto il territorio dell’Afghanistan e con i talebani e la loro brava leadership per la vittoria che giunge al culmine di una lunga battaglia durata 20 anni». Queste sono apparentemente alleanze politico—ideologiche, in realtà patti criminali.APAP

L’eroina talebana ha creato un asse importantissimo con la mafia di Mumbai, la D Company di Dawood Ibrahim, il sovrano dei narcos indiani protetto da Dubai e dal Pakistan e che è il vero distributore dell’oro afgano. Il mercato cinese ancora non è conquistato ma l’ambizione talebana guarda a Est, a prendersi anche il Giappone (la Yakuza si rifornisce in Laos, Vietnam e Birmania) e soprattutto le Filippine, che hanno un mercato florido e da sempre sono in rotta con l’eroina birmana. Quest’ultima come l’eroina cinese è direttamente gestita dai militari e quindi può contare su una produzione veloce ed efficiente che spesso i cartelli costretti alle tangenti e alle mediazioni non riescono ad ottenere. 

Il massimo storico stimato per la produzione di oppio è stato raggiunto nel 2017, con 9.900 tonnellate, per un valore di circa 1,4 miliardi di dollari ma, come riferisce l’Unodc, se si tiene conto del valore di tutte le droghe – hashish, marijuana ed eroina — l’economia illecita complessiva del paese, quell’anno, sale a 6,6 miliardi di dollari. Gretchen Peters, la reporter che ha seguito da vicino il legame tra eroina e talebani, osserva nel suo libro Semi di Terrore: «Il più grande fallimento nella guerra al terrorismo non è che Al—Qaida si stia riorganizzando nelle aree tribali del Pakistan e probabilmente pianificando nuovi attacchi all’Occidente. Piuttosto, è la spettacolare incapacità delle forze dell’ordine occidentali di interrompere il flusso di denaro che tiene a galla le loro reti». La guerriglia colombiana delle Farc riuscì a tenere testa all’esercito occupando il 26% del territorio, e la propria forza economica si basava sulla cocaina. Benché le due guerriglie e le due vicende non siano comparabili, è fondamentale capire che le narcoguerre non possono vincersi con interventi di occupazione, e nemmeno con la classica guerra alla droga: bruciare piantagioni, punire coltivatori, arrestare trafficanti. Guardie talebane all’esterno della green zone (EPA)Guardie talebane all’esterno della green zone (EPA)

I talebani hanno cambiato lo scacchiere internazionale. Cosa Nostra e i marsigliesi, dagli anni Sessanta agli anni Duemila, importavano l’eroina dal sud-est asiatico; il monopolio dell’oppio era in Indocina, nel triangolo d’oro Birmania-Laos-Thailandia. Ora i talebani hanno preso il loro posto, lasciando un mercato residuale al sud-est asiatico, una fetta di mercato che va dall’1% al 4%. Gli Stati Uniti, rendendosi conto che i signori dell’oppio li stanno tradendo e che i sovrani del traffico sono diventati i talebani, spenderanno 8 miliardi (fonte: Reuters) per sradicare le piantagioni di papavero: errore fatale, perché i contadini afgani non poterono che schierarsi con gli studenti coranici — è bene ricordare che questo significa talebano. È paradossale: gli Stati Uniti combattevano investendo miliardi di dollari contro una guerriglia, che si finanziava vendendo eroina proprio ai suoi cittadini. Il primo e il secondo mercato di eroina in Europa sono Regno Unito e Italia. I governi occidentali ignorano il dibattito sulle droghe ormai da tempo immemore. 

La droga non è un semplice vizio o una deriva immorale: la qualità del vivere peggiora, la competizione distrugge la serenità. Sia il privilegiato occidentale che il disperato contadino mediorientale accedono alle droghe: senza di esse, l’insostenibilità della vita li schiaccerebbe. Mentre l’anno scorso la pandemia di Covid-19 infuriava, la coltivazione del papavero è aumentata del 37% (fonte: Unodc). Più vivere in questo mondo diventa inumano, più aumenterà la necessità di droga, più i trafficanti ricaveranno profitto. Combattenti talebani in una foto del 2001 a JalalabadCombattenti talebani in una foto del 2001 a Jalalabad

Regola su cui non troverete nessun dibattito in queste ore. Ma i talebani non vendono solo ai cartelli: senza oppio non si possono realizzare farmaci analgesici. Senza oppio, niente morfina né codeina. Ora, le case farmaceutiche comprano oppio da produttori autorizzati, ma questi ultimi sempre più spesso comprano da società indiane che si approvvigionano direttamente dall’Afghanistan. I talebani decidono anche delle nostre anestesie e dei nostri psicofarmaci. Nel 2005, l’allora presidente Karzai aveva sentenziato: «O l’Afghanistan distrugge l’oppio, o l’oppio distruggerà l’Afghanistan». È andata esattamente come prevedeva la sua seconda ipotesi. Ma Karzai stesso era uno dei signori dell’oppio, e gran parte dei proclami erano solo una facciata. L’ex presidente è stato uno dei maggiori proprietari di raffinerie di oppio afgano. In realtà, stava dicendo: «Distruggeremo l’oppio gestito dai talebani e terremo il nostro». Insomma, dal monopolio di questo stupefacente non è possibile prescindere, hanno solo vinto i trafficanti migliori. 

Le nuove generazioni di talebani sono identiche alle vecchie con una sostanziale differenza: i vecchi talebani vedevano i mujaheddin antisovietici come eroi, i nuovi talebani vedono come riferimento i grandi trafficanti, coloro che hanno cambiato le sorti della guerra (e le proprie) con l’oppio. I talebani utilizzano la legge islamica per creare un regime autoritario, necessario ai loro traffici; vietano la musica e l’ombretto mentre la droga, fino a vent’anni fa, la vendevano solo fuori dai confini: c’è stato un cambio di rotta. Ora vendono anche internamenteLa tossicodipendenza in Afghanistan è un’epidemia che nessuno ha preso in considerazione e che cresce di anno in anno, e i talebani ne approfittano: le giovani reclute sono riempite di hashish — e questo è il meno —, ma vengono anche date possibilità di accedere all’eroina: entra nei nostri gruppi e potrai farti, è il non detto (impensabile vent’anni fa) dei caporali talebani. Quando ormai si riducono a larve, li gettano come zombie consumati. 

L’Afghanistan si è trasformato in un narcostato, la cui unica possibilità di fuga è provare a consumare pasta base di eroina e taglio. Eroina da vendere ed eroina da distribuire per annichilire qualsiasi alternativa. Guardando l’esercito americano, i suoi blindati e i suoi elicotteri, vi sarà sembrato un’armata ricchissima contro pastori dalle barbe lunghe e dai coltelli arrugginiti. Ebbene, gli Stati Uniti hanno speso 80 miliardi in vent’anni di guerra per addestrare un esercito afgano, creare ufficiali, truppe, poliziotti e giudici locali; i talebani, in vent’anni, hanno guadagnato oltre 120 miliardi dall’oppio. Quale era l’esercito più ricco? Con chi conveniva stare? I talebani vincitori non avranno pace. I prossimi nemici saranno gli iraniani. 

L’Iran ha bisogno di eroina esattamente come di benzina, e l’eroina consumata a Teheran viene tutta dall’Afghanistan. I trafficanti iraniani vogliono poter controllare l’eroina afgana, poter essere loro e non più i turchi, i libanesi (e i kurdi) a essere i mediatori con l’Europa. Vogliono non avere solo Hezbollah come strumento del traffico di hashish ed eroina, vogliono controllare l’oppio afgano e i talebani a breve saranno nemici da sconfiggere per sostituirli con i loro uomini. L’Iran è un paese divorato dall’epidemia d’eroina ma questa è un’altra storia. Rimane tra me e il mio lettore un patto: chiamare i talebani con il loro nome, narcotrafficanti.

4249.- Il narcostato dietro il paravento della sharia.

Phisikk du role – Democrazia, Afghanistan e l’economia dell’oppio

Di Pino Pisicchio | 18/08/2021 -Formiche

Phisikk du role – Democrazia, Afghanistan e l’economia dell’oppio

Forse hanno ragione quegli osservatori che hanno studiato la storia e l’economia di quel quadrante del mondo quando dicono: “Volete risolvere il problema dell’Afghanistan? Semplice: bombardate i campi di oppio e piantate zucchine e meloni”. La rubrica di Pino Pisicchio

Secondo il rating dell’Economist che ogni anno misura l’indice di democrazia presente in 167 Paesi del globo terraqueo, solo il 5,7% degli Stati può essere catalogato nella prima fascia, quella della democrazia piena. Il 35%, invece è in una condizione di regime autoritario. In mezzo le democrazie imperfette e i regimi ibridi. 

L’autoritarismo caratterizza i Paesi dove il pluralismo politico è assente o limitato, dove allignano dittature, spesso sanguinarie. Talvolta in questi regimi ci può anche scorgere qualche fievole presenza di istituzioni che in altri contesti sarebbero parte di una democrazia, ma si tratta solo di tromp l’oeil: le violazioni e gli abusi delle libertà civili sono così numerosi e frequenti da revocarne in dubbio ogni parvenza. E lo stesso si dica per le elezioni, l’autonomia e l’indipendenza dei media, la magistratura, la mannaia della censura. Il conto di Democracy Index fa riferimento a 58 Stati di questo tipo. 

Ogni volta che al mondo occidentale gli vien voglia di andare ad esportare la liberaldemocrazia (e la way of life degli yankee con l’Europa al seguito) varrebbe la pena, prima di tutto, domandarsi perché lì e non negli altri 57 posti dove i diritti umani vengono stracciati in modo altrettanto violento. L’Afghanistan, anche se Biden dice oggi che non è così, è stato uno di quei posti. Così come lo fu il Vietnam, la Libia eccetera, eccetera, eccetera. Il dramma è in pieno svolgimento, con derive orrorifiche in favore delle tv occidentali, all’aeroporto di Kabul, dove migliaia di poveracci, che all’occidente “portatore di democrazia” avevano creduto, vengono abbandonati nelle mani dei talebani. Quelli stessi di Osama Bin Laden. Vent’anni dopo. La ricerca vana di un appiglio sulla carlinga liscia dell’aereo americano che decolla è la sintesi in una tela iperrealista del dramma senza requie e di un popolo senza speranza.

I giornali e I tiggi’ fanno le copertine e le prime pagine con tutto quello che può raccontare la situazione afghana e sulle prospettive, con dovizia di commenti di esperti e di giaculatorie dei capi di stato sulla promessa di portare via nella fuga dalla capitale, insieme ai diplomatici, anche gli amici afghani. Notevole, nella preghiera di cortesia, la raccomandazione ai nuovi padroni talebani di rispettare i diritti delle donne. State sicuri che sarà la prima preoccupazione del nuovo governo… nel rispetto della Sharia, naturalmente.

Una cosa non abbiamo, però, ancora potuto leggere che avesse l’ambizione di un approfondimento, ed è un accenno all’economia di questo Paese, poverissimo eppure in grado di trarre dall’oppio lucri immensi. L’oppio è una risorsa a cui hanno attinto nei lunghi anni della “presenza di pace” delle forze occidentali, e continuano ad attingere a mani pienissime, proprio i talebani. Per comprenderci meglio: l’Afghanistan, soprattutto nella regione dell’Helmand sotto il controllo talebano dal 2002, è la terra promessa dell’oppio e dei suoi illegali derivati. I campi di papaveri, infatti, fanno di questo Paese che gratta il fondo della classifica di ogni povertà il primo produttore al mondo di oppio: il 90% dell’eroina che circola nel pianeta nasce dalle capsule acerbe del papaver somniferum coltivati in quest’area, la più talebana da sempre. 

Per rendere intensivo lo sfruttamento nell’Helmand sono state adottati, nella maggior parte delle coltivazioni, pannelli solari modernissimi che hanno portato a triplicare la produzione, garantendo così la moltiplicazione degli introiti ricavati dalla vendita della materia prima per la produzione degli stupefacenti distribuiti negli USA, in Europa, in Russia, in Cina. Chi, oltre le mafie internazionali, mette in cassa questo fiume di denaro non sono certamente i contadini di questa remota parte di mondo. La domanda, forse retorica, sorge spontanea: che abbiamo fatto noi “portatori di democrazia” tutto questo tempo in Afghanistan? Mai a dare un’occhiata a quegli orticelli colorati?

Forse hanno ragione quegli osservatori che hanno studiato la storia e l’economia di quel quadrante del mondo quando dicono: “Volete risolvere il problema dell’Afghanistan? Semplice: bombardate i campi di oppio e piantate zucchine e meloni”. Come diceva Massimo Troisi: segnamocelo, così la prossima volta stiamo più attenti…

Gli americani non hanno bombardato i campi dell’oppio

«Non siamo una task force antidroga. Questa non è la nostra missione». Aggiungo: Hanno ancora in Afghanistan dai 5 ai 10 mila cittadini con passaporto americano che potrebbero voler essere evacuati. Non sanno quanti sono e cosa facevano, per questo il loro numero è incerto. Possiamo immaginare cosa facessero, almeno una buona parte di loro e che continueranno, stabilite le nuove regole, ma questo non sarà necessario dappertutto perché i talebani sono nel giro da sempre.

Afghanistan, i talebani sono i nuovi narcos. Guerra dell'oppio vinta, 120 mld

Afghanistan, i talebani sono i nuovi narcos. Guerra dell’oppio vinta, 120 mld

fonte Affari italiani, fondato da Angelo Maria Perrino

Gli Usa hanno speso 83 bilioni di dollari per la missione in Medio Oriente. Ma non sono serviti a fermare il traffico di droga internazionale.

La guerra in Afghanistan ha dei vincitori assoluti, si tratta dei talebani. Gli Usa hanno speso 80 mld per la missione durata 20 anni, mentre nello stesso periodo i nuovi padroni di Kabul ne hanno guadagnati 120. Il loro giro d’affari è valutato in circa 6,6 mld all’anno.  Sono diventati – si legge sul Corriere della Sera – i nuovi narcos. Negli ultimi dieci anni hanno iniziato ad avere un ruolo importantissim o anche per l’hashish e la marijuana. Se si cercano le dinamiche principali del conflitto, le fonti prime che lo finanziano, si arriva lì: quella in Afghanistan è una guerra dell’oppio. Prima delle scuole coraniche, dell’obbligo al burqa, prima delle spose bambine, prima di ogni altra cosa, i talebani sono narcotrafficanti. Nel 2001 finsero di proibire la coltivazione di oppio e a questo si lega uno dei più gravi errori dell’amministrazione americana: nel 2002 il generale Franks, il primo a coordinare l’invasione in Afghanistan delle truppe di terra Usa, dichiarò: «Non siamo una task force antidroga. Questa non è la nostra missione».

L’eroina talebana rifornisce – prosegue il Corriere – camorra, ’ndrangheta e Cosa nostra, i cartelli russi, la mafia americana e tutte le organizzazioni di distribuzione negli Usa a eccezione dei messicani che cercano di rendersi autonomi dall’oppio afgano (a fatica, perché l’eroina di Sinaloa è più costosa di quella afgana). Tramite la rotta Afghanistan-Pakistan Mombasa i talebani riforniscono i cartelli di Johannesburg in Sudafrica. E ancora, la vendono ad Hamas: altra organizzazione che si finanzia (anche) con hashish ed eroina e che infatti ha comunicato: «Ci congratuliamo con il popolo islamico afghano per la sconfitta dell’occupazione americana su tutto il territorio dell’Afghanistan e con i talebani e la loro leadership per la vittoria che giunge al culmine di una lunga battaglia durata 20 anni». Apparentemente un’alleanza politico-ideologica, in realtà un patto criminale.

4245.- Il vincitore starà fra Cina e Pakistan e gestirà il terrorismo, l’emigrazione, il contrabbando della droga.

Cosa resta dell’Afghanistan nella politica americana. Conversazione con Del Pero

Di Emanuele Rossi | Formiche, 17/08/2021 

Cosa resta dell’Afghanistan nella politica americana. Conversazione con Del Pero

La debacle afghana, i problemi dell’America. Analisi con Mario Del Pero (SciencesPo) sul ritorno dei Talebani visto da Washington: “È un’umiliazione, per gli Usa e chi li guida”

L’immagine dell’aereo cargo della US Air Force rincorso da dozzine di afghani (alcuni aggrappati a parti del carrello, con conseguenze tragiche) lungo la pista dell’aeroporto di Kabul è l’iconografia del ritorno dei Talebani, della caduta dell’Afghanistan nel baratro da cui venti anni di intervento militare occidentale l’aveva solo apparentemente tolto.

“È un’umiliazione, per gli Usa e chi li guida. Joe Biden ha seguito la linea di Donald Trump e sostanzialmente applicato gli accordi del febbraio 2020, ma di certo non si pensava a una debacle simile e alla necessità di evacuare in tempi così stretti”, commenta con Formiche.netMario Del Pero, docente di Storia Internazionale e Storia della politica estera statunitense all’Institut d’études politiques di Parigi.

Non più di una settimana fa, le stime più pessimistiche parlavano di una finestra di 60-90 giorni prima che il Paese collassasse in mano al gruppo insorgente creato dal Mullah Omar nel 1994. Ma la situazione è precipitata senza controllo. “Li abbiamo preparati per il fallimento”, ha detto al New York Times David H. Petraeus, generale iconico che ha comandato le forze internazionali in Afghanistan dal 2010 fino a quando è stato nominato direttore della Cia l’anno successivo. La squadra del presidente Biden, secondo Petraeus, “non ha riconosciuto il rischio incorso dal rapido ritiro” dei droni di intelligence e da ricognizione e del supporto aereo ravvicinato, così come il ritiro di migliaia di contractor che hanno tenuto in volo l’aviazione afghana (tutto nel mezzo di una stagione di combattimenti particolarmente intensa). Il risultato, spiega il comandante americano, è stato che le forze afgane sul campo avrebbero “combattuto per alcuni giorni, e poi si sarebbero rese conto che non c’erano rinforzi”, e per questo “l’impatto psicologico è stato devastante”.

“L’immagine e la credibilità degli Usa e, anche, dell’amministrazione Biden ne escono fortemente danneggiati, su questo non c’è dubbio”, aggiunge Del Pero: “Ma la storia ci insegna che quello della credibilità è un feticcio, spesso invocato per giustificare interventi inutili o per prolungarli senza senso (e questa sarebbe, se ben interpretata, una delle fondamentali lezioni del Vietnam). Tutto dipenderà da come governeranno questi nuovi Talebani. Se l’Afghanistan dovesse diventare nuovamente una zona franca dove operano gruppi terroristici capaci di colpire l’Europa e gli Usa, allora Biden diverrebbe a tutti gli effetti colui che ha perso l’Afghanistan; se garantiscono un minimo di ordine e disciplina (che poi erano la premessa e l’auspicio dietro i negoziati e gli accordi dell’anno scorso, ndr), se insomma l’Afghanistan esce dai radar pubblici, politici e mediatici, allora anche questo fiasco sarà archiviato”.

È il dubbio delle cancellerie internazionali: i Talebani saranno in grado nei fatti di meritarsi il riconoscimento che cercano sganciandosi da Al Qaeda e combattendo contro l’IS nel Khorasan? L’assurdo sta nel fatto che a venti anni di distanza dall’intervento occidentale ci si ritrova davanti alla necessità di pensare a un qualche approccio pragmatico nei confronti del gruppo armato contro cui si era entrati in guerra.

“Quella — continua il docente dell’università francese — era una guerra per colpire Al Qaeda, rovesciare il regime che le aveva permesso di avere la sua base e le sue infrastrutture, modernizzare l’Afghanistan e, nel farlo, garantire l’estensione di alcuni fondamentali diritti civili e politici. Queste, in sintesi estrema, erano le variabili che convergevano nell’equazione che definiva le matrici dell’intervento. E però, come già in passato, sono scattati vari cortocircuiti: della strategia della modernizzazione (e degli assunti che vi sottostanno) e dell’interventismo umanitario. Ancora più acuti in un contesto così complicato come quello afghano. Di soldi ne sono stati investiti non pochi: chi ha provato a stimarli ha prodotto cifre da capogiro. E però i risultati non sono stati quelli attesi e da un certo momento in poi negli Usa tutta la narrazione politica, mediatica e pubblica si è concentrata sulla corruzione, il malgoverno, l’inefficienza militare”.

Quasi una mezza dozzina di funzionari statunitensi (in tutta l’amministrazione) dicono alla Reuters che c’è una crescente frustrazione e persino rabbia per il modo in cui Biden ha gestito l’evacuazione da Kabul. Spiegano che la sua Casa Bianca ha perso troppo tempo nei mesi precedenti la settimana scorsa. Quei funzionari dichiarano (in forma anonima) che i militari da settimane hanno comunicato alla Casa Bianca che erano pronti a fare di più per evacuare gli afgani, ma la decisione non è arrivata fino a quando non è stato troppo tardi.

“La frustrazione verso quanto accadeva in Afghanistan — spiega Del Pero — e la disillusione sulla possibilità, irrealistica e velleitaria, di modernizzarlo, democratizzarlo, occidentalizzarlo si è già intrecciata con il mutare delle condizioni che quell’intervento avevano provocato, giustificato e legittimato. Nel 2008 gli Usa e il loro sistema politico si trovano a fronteggiare diversi fronti di crisi: economica, di politica estera, di legittimità stessa delle istituzioni. È, se vogliamo uno slogan, una crisi della globalizzazione Usa-centrica che, tra le altre cose, è crisi (e, appunto, delegittimazione) di un interventismo globale nel quale centrale è l’hard power militare. Da allora in poi la questione è come disimpegnarsi, e anche la bizzarra surge di Obama (con annessa deadline: tu aumenti le truppe ma annunci una scadenza!) è funzionale a quello”.

“L’America First di Trump, che in fondo è anche quella del nazionalismo progressista di Biden, è anche la come home America: di mandare ragazzini del North Dakota a morire in Afghanistan non ne ha voglia più nessuno”, aggiunge il docente. Il ritiro è un imperativo politico-elettorale, insomma, come tanti sondaggi hanno mostrato. E su questo si spiega anche l’evidente continuità tra il secondo mandato di Barack Obama, Trump e ora Biden.

Anche la giustificazione etica ed ideale dell’intervento viene meno, ovvero viene meno il clima che la alimenta, giustifica e legittima? “La breve era della guerra umanitaria e dei diritti umani in fondo sta dentro l’arco tra Iraq-1 (1991) e Iraq-2 (2003), o al massimo possiamo spingerla fino alla Libia (2011)”, risponde Del Pero: “I doppi standard dell’interventismo umanitario, le sue mille opacità, l’idea stessa della guerra per la vita, l’unilateralismo statunitense, la notte della ragione del Patriot Act e di Guantanamo discreditano e delegittimano i codici e, se vogliamo chiamarla così, l’ideologia dei diritti umani e dell’interventismo umanitario (non aiuta che alcuni dei suoi principali cantori e teorici, a partire da Tony Blair con la sua associates finiscano poi per fare consulting per Kazakhistan, Azerbaijan etc)”.

La rotta dell’esercito afghano, con la vendita ai talebani delle armi individuali, si spiega solamente con la percezione dell’abbandono da parte delle truppe occidentali, dei loro aeromobili e dei contractor. Conosciamo il valore delle truppe americane e temiamo che questa fuga sia dovuta a una politica incerta e perdente in partenza. L’unico modo per salvare il salvabile sarebbe di portare in Occidente quanti più afghani fuggiaschi sia possibile. C’è un italiano a Kabul, ma cosa potrà fare dipende da Washington.

Chi è l’ambasciatore Stefano Pontecorvo, l’italiano che sta gestendo i voli da Kabul

Di Luigi Romano | 17/08/2021 -Formiche

Chi è l’ambasciatore Stefano Pontecorvo, l’italiano che sta gestendo i voli da Kabul
Secondo Sputnik l’aeroporto Karzai è stato dato in gestione ai turchi da 3 giorni.

Sessantaquattro anni, in diplomazia dal 1985: Stefano Pontecorvo, già ambasciatore italiano in Pakistan, è Senior Civilian Representative della Nato in Afghanistan

In questi giorni complicati in Afghanistan, c’è un italiano a gestire il traffico all’aeroporto internazionale Hamid Karzai, scalo che serve la capitale Kabul. È Stefano Pontecorvo, 63 anni, diplomatico con grande esperienza nella regione, già ambasciatore d’Italia in Pakistan, da giugno 2020 Senior Civilian Representative della Nato in Afghanistan su nomina del segretario generale Jens Stoltenberg.

Nelle ultime ore il diplomatico ha condiviso un tweet di Guido Crosetto che recita: “Il primo modo per combattere l’integralismo talebano, oggi, è dare rifugio ed aiuti a chiunque rischia di essere perseguitato del nuovo regime ed a quelle che sarebbero le prime vittime: le donne che hanno creduto di poter essere libere di scegliere”.

Nato a Bangkok (Thailandia), 17 febbraio 1957, Stefano Pontecorvo è entrato nella carriera diplomatica nel 1985. Dal 2013 al 2015 ha lavorato in qualità di consigliere diplomatico del ministro della Difesa italiano, operando su questioni politico-militari della Nato, incluso l’Afghanistan. Tra i suoi precedenti incarichi figura quello di vice capo missione presso le ambasciate d’Italia a Londra e Mosca.

Ecco cosa diceva a Formiche.net un anno fa, appena nominato a Kabul: “L’Italia è considerato in Afghanistan un Paese amico da tutta la popolazione. Non perché siamo simpatici e belli, ma perché abbiamo raggiunto risultati impressionanti. Resolute Support ha diviso il Paese in quattro zone operative. All’Italia spetta la zona ovest di Herat, attualmente al comando del generale Enrico Barduani, dove si sono raggiunti risultati incredibili. L’impegno italiano ha consentito il miglioramento delle capacità delle forze afgane con una serie di azioni (compresi addestramento e mentoring su logistica, manutenzione e riparazione di veicoli armati) che hanno dato loro la sostenibilità della forza. Il 207esimo Corpo d’armata afgano, affidato in cura agli italiani, è ora in grado di esprimere una garanzia di sicurezza alla popolazione perché, vista l’azione italiana di trasferimento di competenze e capacità, è diventata una forza armata sostenibile, in grado cioè di funzionare quotidianamente nel tempo”.

4244.-Gli Stati Uniti hanno perso, la NATO ha perso, Noi abbiamo perso.

Mentre i piloti dei Globemaster fanno miracoli, mentre Biden tenta di auto-assolversi e Di Maio rilascia selfie a Porto Cesareo, si compie il destino delle famiglie e degli afghani che, per 20 anni, hanno prestato il loro lavoro con il contingente italiano, come interpreti, come impiegati o operai nelle nostre basi. 225 di loro erano già stati portati a Roma, altri 300, almeno e le loro famiglie erano in attesa che la burocrazia li scremasse una seconda volta: A loro, sì, agli ospiti di Lamorgese, invece, no. Ora, l’occupazione repentina delle città afghane da parte dei talebani impedisce loro di raggiungere l’aeroporto Karzai di Kabul, ma con quale piano d’imbarco e su quale aeroplano? L’appello del generale Giorgio Battisti a fare in fretta non è servito. Troppa burocrazia ha messo le pastoie al Comando Operativo Interforze e, comunque, ha rallentato l’evacuazione. Il silenzio dei media è stato mascherato da un aereo cisterna dell’Aeronautica Militare, rientrato ieri da Kabul con 70 passeggeri fra diplomatici, italiani e solo pochi (poi, il 18, altri 85 secondo Sputnik) afghani. E così è stato per i collaboratori degli altri contingenti alleati. Quando l’ultimo soldato americano avrà lasciato Kabul, quando la notte sarà scesa ancora una volta sull’Afghanistan e avremo un nuovo Emirato Islamico, li attende tutti un solo destino.

Pace ai nostri morti.

Quale futuro attende l’Afghanistan, dopo la precipitosa ritirata degli occidentali e la vittoria-lampo delle milizie dei talebani? L’aeroporto di Kabul rimarrà aperto finché non saranno evacuati i civili occidentali e una minoranza di afgani. I talebani promettono tolleranza e non ingerenza nei territori dei vicini (Cina e Russia), ma forse è solo propaganda. Il Pakistan, tramite i suoi servizi segreti, si aggiudica la maggior vittoria: ha assistito l’offensiva talebana, organizzandola e infiltrando le truppe governative. Ora mirerà al controllo del prossimo governo islamico afgano.

Talebani padroni dell’Afghanistan, un successo del Pakistan

di Gianandrea Gaiani, da La Nuova Bussola Quotidiana

Talebani nel palazzo presidenziale

“Hanno vinto, ora i talebani tutelino gli afghani”. L’ex presidente dell’Afghanistan spiega in un messaggio su Facebook di essere fuggito “per evitare un massacro” a cominciare dalla capitale Kabul. Ghani, sua moglie, il capo dello staff e il consigliere per la sicurezza nazionale sono arrivati a Tashkent, capitale dell’Uzbekistan. Sul palazzo presidenziale sventola la bandiera talebana, bianca con la shahada, la scritta in arabo della testimonianza su Dio: “Testimonio che non c’è nessun dio, al di fuori di Dio e testimonio che Maometto è il profeta di Dio”.

L’Afghanistan tornerà al nome precedente all’arrivo degli americani nel 2001, Emirato Islamico dell’Afghanistan mentre i militari americani garantiranno il traffico aereo all’aeroporto di Kabul per facilitare le evacuazioni ma solo per qualche giorno, finchè il ponte aereo non sarà ultimsato. In una dichiarazione congiunta, il Pentagono e il Dipartimento di Stato hanno annunciato misure per garantire la sicurezza dello scalo afghano al fine di “consentire l’uscita sicura del personale statunitense e dei loro alleati dall’Afghanistan, in ambito civile e militare aereo. Nelle prossime 48 ore, avremo ampliato la nostra presenza di sicurezza a quasi 6.000 soldati, con una missione focalizzata esclusivamente sulla facilitazione di questi sforzi, e ci occuperemo del controllo del traffico aereo” all’aeroporto, afferma la nota.

Gli sviluppi futuri in Afghanistan dipenderanno però soprattutto dalle decisioni che verranno assunte in Pakistan, sponsor da sempre del movimento talebano e vero artefice politico e militare della “blitzkrieg” talebana che in una settimana ha travolto tutto l’Afghanistan. Mentre in Occidente c’è già chi guarda alla “svolta moderata” dei talebani a Kabul detto il portavoce dei talebani, Sohail Shaheen, in un’intervista alla CNN definisce “prematuro” dire chi saranno i nuovi membri dell’esecutivo, ma, ha aggiunto, ci saranno “figure note”. “Quando diciamo un governo islamico inclusivo afghano significa che anche altri afghani partecipano al governo”, ha affermato. Meglio però non farsi illusioni circa eventuali governi multipartitici inseriti in sistemi rappresentativi semi-democratici: i talebani hanno annunciato la proclamazione dell’Emirato, il che significa che ci sarà un capo del governo (l’emiro) e i suoi ministri. In tutte le città “liberate” dai talebani le autorità amministrative locali sono state destituite, le donne sono state cacciate dai posti di lavoro inclusi quelli pubblici e “invitate” e indossare il burqa.

La disponibilità dei talebani ad accettare che decine di migliaia di connazionali vengano evacuati dal ponte aereo americano e occidentale comporta due vantaggi: togliere di mezzo scomodi oppositori al regime della sharia e mostrare alla comunità internazionale un movimento talebano non più sanguinario. Aspetto indispensabile per far si che l’Emirato dell’Afghanistan ottenga di venire riconosciuto sul piano internazionale e per favorire i rapporti economici e commerciali. Russi e cinesi sono gli unici a non aver evacuato le ambasciate a Kabul ma non certo perché sono amici dei talebani. Mosca e Pechino si preparano da tempo al ritorno dei talebani a Kabul e hanno mantenuto rapporti nel tentativo di barattare una disponibilità agli scambi economici (la Cina ha alcune compagnie minerarie impegnate in Afghanistan) con l’impegno talebano a non soffiare sul fuoco del jihad nel Sinkiang cinese e nelle repubbliche asiatiche ex sovietiche (soprattutto Turkmenistan, Tagikistan e Uzbekistan). Quanto ci sia da fidarsi della parola dei talebani, la cui ideologia islamica considera una virtù mentire agli infedeli, lo dirà solo il tempo ma già ora è ben chiaro chi sia il vero vincitore dell’ultimo capitolo della guerra afghana.

Il Pakistan già domenica, mentre i talebani prendevano pacificamente Kabul, ha convocato a Islamabad, una delegazione di alto livello di oppositori dei talebani. Lo ha annunciato il rappresentante speciale del Pakistan per l’Afghanistan, Mohammad Sadiq. “Ho appena ricevuto una delegazione di alto livello tra cui Ulusi Jirga Mir Rehman Rehmani, Salah-ud-din Rabbani, Mohammad Yunus Qanooni, Ustad Mohammad Karim Khalili, Ahmad Zia Massoud, Ahmad Wali Massoud, Abdul Latif Pedram e Khalid Noor” per discutere “questioni di reciproco interesse”. Il Pakistan intende porre sotto la sua diretta influenza il nuovo governo afghano dominato dai talebani offrendo garanzie anche agli oppositori tagiki e uzbeki che in passato hanno condotto una lunga e fiera guerra contro gli il regime degli “studenti coranici”.

Islamabad ha pianificato da tempo con i servizi segreti militari (Inter Services Intelligence – ISI) la guerra-lampo da scatenare nell’imminenza del completamento del ritiro delle forze americane e alleate, rinforzando con propri combattenti provenienti dai reparti d’élite e dalle milizie tribali della Tribal Area pakistana le milizie talebane. Con tali forze gli attacchi talebani hanno potuto svilupparsi su più fronti contemporaneamente, aumentando la percezione presso le truppe governative di una indiscussa superiorità del nemico. Il Pakistan avrebbe inoltre fornito ai talebani un’ampia copertura d’intelligence che sembra aver visto protagonisti numerosi agenti dell’ISI infiltrati nei comandi militari afghani e nei governi provinciali con l’obiettivo di indurre i reparti a cedere le armi o a non opporre resistenza.

Sul piano politico e strategico la vittoria lampo dei talebani porta consistenti vantaggi al Pakistan che controllando l’Afghanistan si pone da un lato come interlocutore di grande rilevanza con Cina e Russia e dall’altro ha stroncato l’iniziativa imbastita dal presidente Ashraf Ghani con l’India, interessata a sostenerne anche militarmente il governo per contenere i talebani alleati del rivale pakistano. Con la caduta di Kabul inoltre l’ISI si è preso la sua vendetta nei confronti degli Stati Uniti per il blitz ad Abbottabad del 2011 in cui venne ucciso Osama bin Laden, effettuato dalle forze speciali americane in territorio pakistano senza informare i servizi d’intelligence di Islamabad.

3050.- Lo Stato monco e gli spacciatori immuni.

Cittadini chiusi in casa e spacciatori ‘padroni’ della città. Siamo a Padova, capitale dei cocainomani. L’appello sono Elisabetta Gardini:

Ancora una volta Padova è protagonista dello scenario nazionale per lo stato di degrado nel quale versa la città. “Non ci sembra che lo spaccio di droga rientri tra le attività consentite da decreto”.

A lanciare l’appello sono Elisabetta Gardini, che siede con Giorgia Meloninell’Esecutivo Nazionale di Fratelli d’Italia, Filippo Ascierto e Rossano Moracci componenti del dipartimento nazionale per i rapporti con le Forze dell’Ordine di FdI.

“Mentre i cittadini sono obbligati ad uscire di casa solo per necessità, gli spacciatori girano indisturbati. Le zone di spaccio sono note da anni” dichiara Gardini “chiediamo al sindaco Giordani di intervenire per garantire la sicurezza dei padovani e il decoro della città del Santo”.

Una situazione che viene costantemente documentata con foto e video dai cittadini, che chiedono a gran voce l’intervento dell’amministrazione.

“Abbiamo già appurato a livello nazionale le disastrose conseguenze di slogan e tentativi di rassicurazione che altro non sottolineano che la chiara volontà di nascondere il problema. Ai proclami ‘è tutto sotto controllo’ e ‘Padova è una città sicura’ non crede ormai più nessuno” prosegue Elisabetta Gardini.

Ad intervenire sul tema anche Filippo Ascierto, già Maresciallo dei Carabinieri “Padova è diventata il crocevia dello spaccio. Il sindaco deve chiedere al Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica che le Forze dell’Ordine intensifichino indagini e iniziative per verificare i reali motivi della crescita costante di spaccio di sostanze stupefacenti”.

“Per l’emergenza Covid -19 sono stati ampliati alcuni poteri ai militari dell’Esercito Italiano. Si faccia lo stesso per il contrasto alla droga” conclude Moracci, militare in ausiliaria.

Fratelli d’Italia

Questa sera a Striscia la notizia: droga a Padova, nonostante la quarantena

6 aprile 2020

Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) Vittorio Brumotti torna a occuparsi dei luoghi che dovrebbero essere di tutti, ma che di fatto sono diventati zone di spaccio nelle nostre città. Questa sera è a Padova, dove il traffico di droga sembra non risentire delle restrizioni imposte dall’emergenza Coronavirus.

Nonostante le continue lamentele dei residenti e le segnalazioni alle forze dell’ordine, di fronte alla stazione della città veneta gli spacciatori, in barba a tutte le limitazioni, continuano a vendere droga.

L’inviato di Striscia li mette in fuga, ma, dopo aver individuato un nuovo gruppo di pusher, viene aggredito da un fitto lancio di bottiglie di vetro. Prima che la situazione precipiti, fortunatamente, intervengono i Carabinieri che riescono a bloccare gli aggressori.

Brumotti più volte si è recato nella città veneta per documentare la situazione di degrado in cui versano alcuni quartieri e come i cittadini siano costretti a convivere con i pusher. Anche in altre occasioni gli spacciatori non erano stati troppo gentili con il nostro inviato.

L’ultima visita di Striscia la notizia risale allo scorso novembre. Ecco cosa era successo.

1784.- [L’inchiesta] Donne schiave, riti voodoo e sottomissione. Viaggio nella ferocia della mafia nigeriana

pamela-innocent-oseghale10“Pamela, uccisa con riti voodoo, bevuto il sangue. I Pm tacciono”. Meluzzi choc sulla mafia nigeriana

«Come gli schiavi liberi dopo aver pagato fino a 30.000 euro. E chi non porta soldi ogni giorno viene picchiata, costretta al digiuno». Il racconto del procuratore Gratteri, di Guido Ruotolo, editorialista e giornalista d’inchiesta

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In Nigeria, a Benin city, nell’Edo State, e’ accaduto un fatto storico che potrebbe liberare molte ragazze vittime della tratta a scopo di sfruttamento sessuale

Fa paura questa mafia nigeriana. Che nasce nelle università come confraternite e che sta dilagando oltre ogni immaginazione. In Italia, in Europa, nel mondo. Il suo collante è l’intimidazione e i riti juju, un misto di rito vodoo impregnato da giuramenti e sottomissioni. I suoi affari sono droga e prostituzione. «Le ragazze destinate alla prostituzione sono moderne schiave, vittime di violenza e di stupri. Ne abbiamo liberate cento». Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, per la prima volta si ritrova di fronte alla mafia nigeriana, anche se “tecnicamente” il reato di associazione mafiosa non è stato contestato nei sette fermi eseguiti ieri mattina a Lamezia Terme ma il favoreggiamento alla immigrazione clandestina, riduzione in schiavitù e tratta di donne.

Procuratore Gratteri, state nei fatti indagando, anche se non è emerso ancora “tecnicamente”, nulla potente mafia nigeriana. Siamo in Calabria e, dunque, cosa fa la ‘Ndrangheta? Si limita a guardare?
«Sembra inverosimile. Per il momento, però non sono emerse evidenze processuali di rapporti tra le due organizzazioni. Sappiamo però che le ragazze che si prostituiscono devono pagare diciamo una rata per l’occupazione del suolo pubblico. Stiamo lavorando per dare una identità a questi esattori».

Come nasce questa inchiesta?
«Nasce a gennaio con una ragazza costretta a prostituirsi che decide di raccontarci il dramma che aveva vissuto e che stava vivendo. Convinte a partire per avere un futuro di lavoro come cameriere o parrucchiere e invece si ritrovano costrette a prostituirsi dopo un viaggio allucinante che le ha portate in Niger e poi in Libia dove, in veri centri di stoccaggio, di detenzione vengono istruite alla prostituzione. E violentate».

Costrette a dover pagare un riscatto per tornare libere?
«Come gli schiavi liberi dopo aver pagato fino a 30.000 euro. E chi non porta soldi ogni giorno viene picchiata, costretta al digiuno».

Tutto questo accade a Castel Volturno come in Piemonte, in Veneto o in Sicilia. E poi c’è il grande affare dell’accoglienza. Il prefetto di Reggio ha notificato una interdittiva antimafia a una cooperativa che gestiva l’accoglienza di 700 richiedenti asilo.
«Dove ci sono i soldi c’è la Ndrangheta. Nell’inchiesta sul centro di accoglienza di Isola di Capo Rizzuto persino il prete ha preteso 180.000 euro da giustificare sotto la voce di assistenza spirituale».

Uno spaccato inquietante. i fermi di Lamezia Terme sono solo l’inizio di una indagine destinata ad allargarsi. Tra le carte c’è la testimonianza di Blessing, che ha deciso di collaborare con la magistratura. Ecco una sintesi delle sue dichiarazioni.
«Appartengo a una famiglia molto povera e ho due figli che vivono attualmente con mia mamma a Oute in Nigeria, dove ci sono anche mio fratello e mia sorella». «Ho lasciato il mio paese e sono venuta in Italia per migliorare la mia condizione di vita e quella dei miei familiari rimasti in Nigeria, dopo aver accettato la proposta di Johnson, che mi aveva promesso un aiuto per raggiungere l’Italia, dove mi avrebbero fatto trovare un lavoro legale, che mi avrebbe consentito di restituire gradualmente la somma di circa l5mila euro, che mi era stata anticipata per affrontare il viaggio, e di guadagnare per aiutare economicamente i miei familiari». «Prima della partenza, avevo dovuto giurare, attraverso un rito wudu praticato da uno stregone, di restituire questa somma economica una volta giunta in Italia e che avrei dovuto rispettare le indicazioni della signora (madame) che avrei trovato qui e che mi avrebbe indicato il lavoro da fare. In quell’occasione erano presenti al rito di giuramento anche mio fratello, mia sorella, Johnson e Ifanyi, un ragazzo di etnia igbo di circa 30 anni, fratello maggiore – a suo dire – della signora (madame) che avrei conosciuto in Italia».

«E’ cosi che sono partita dalla Nigeria per giungere in una macchina guidata da Ifanyi fino in Libia, attraversando il Niger e il deserto. È stato un viaggio completamente diverso rispetto a quello che mi avevano prospettato: nel deserto sono stata violentata da altri nigeriani; durante una sosta in Niger ho saputo casualmente da un’altra ragazza nigeriana che il vero lavoro che avrei dovuto fare, una volta giunta in Italia, sarebbe stato quello della prostituzione; in Libia sono rimasta tre quattro mesi a casa di un signore ghanese, che si faceva chiamare papa, che costringeva me e altre cinque ragazze anche loro nigeriane (Stella, Vivian, Haisse e altre due di cui non ricordo il nome) a fare sesso con lui e con altre persone abitanti la sua casa. Non avevamo altra scelta perché non ci facevano uscire e, se non ci concedevamo a tutto quello che ci chiedevano, non ci davano da mangiare e ci picchiavano. Più volte, dopo aver capito le vere intenzioni delle persone e il vero motivo del viaggio, avevo chiesto spiegazioni e aiuto a Ifanyi. Non sapevo come fare: non avevo soldi, ero senza cellulare e chiusa in casa insieme alle altre 5 ragazze; lo stesso Ifanyi mi ha intimato di finire di chiedergli aiuto, perché dovevo soltanto acconsentire e obbedire a quello che successivamente in Italia mi avrebbe detto di fare la sorella (madame), pena le ripercussioni sulla mia famiglia e sui miei figli in Nigeria».

«Dopo quattro mesi trascorsi a casa di questo signore che si faceva chiamare papa, io e le altre cinque ragazze siamo state accompagnate da un signore arabo in un altro posto. Era una specie di campo in Libia, dove vivevano tante persone, alcune delle quali venivano continuamente a chiedere a me e alle altre cinque ragazze di praticare attività sessuale. Tuttavia, il ragazzo arabo, che ci aveva accompagnato da casa del papa fino in quel campo, si frapponeva ed evitava che fossimo costrette a prostituirci o venissimo violentate. Preciso che mi ero separata da Ifanyi, quando ero stata data a questo signore arabo, che mi aveva portato in questo campo ed era amico di Ifanyi, che quest’ultimo era già arrivato in Italia e mi stava aspettando con la sorella (madame). Tramite Kelvin, Ifanyi mi aveva dato l’indicazione di mettermi immediatamente in contatto con la sorella (madame), una volta che sarei sopraggiunta in Italia, contattandola fingendo a chi mi avrebbe prestato il cellulare o dato una scheda telefonica di voler contattare i miei parenti in Nigeria; sempre secondo queste indicazioni, non avrei dovuto dire niente di quello che mi era successo e non avrei dovuto usare il nome “madame”, con il quale la sorella di Ifanyi veniva chiamata dallo stesso, e soprattutto non mi sarei dovuta fare identificare».

«Da questo campo libico ci hanno trasportato sulle coste e ci hanno fatto salire su una barca che è sbarcata il 13/02/16 in Sicilia. Subito dopo lo sbarco, sono stata identificata e portata prima in un centro di accoglienza in Sicilia e poi in un altro in Calabria. Appena sbarcata, sono riuscita ad avvisare mia madre per dirle che ero viva, ma ho avuto sempre grande vergogna di dirle ciò che mi era successo e il giro in cui ero finita. Avevo vergogna e paura che potesse succedere qualcosa di brutto a tutti noi. Giunta in Calabria, a Olivadi, con l’aiuto di un’altra ragazza accolta nel centro, ho contattato la madame al numero che mi aveva dato Ifanyi. Costei si è presentata come Elisa e mi ha detto che sarebbe venuto un signore di nome Osagie (detto Osas) a prendermi all’indirizzo del centro di Olivadi, che le avevo dato. Dopo due giorni, è venuto Osas a prendermi per portarmi dal campo di Olivadi a casa sua a Lamezia Terme Sant’Eufemia». «Abbiamo viaggiato con un pullman di colore blu fino a Sant’Eufemia e Osas mi ha portato a casa sua. Qui c’erano la moglie e la figlia di due anni di nome Gift; c’erano inoltre due ragazze di nome Favor e Juliet Success, anche loro nigeriane. Era una casa a un piano molto alto: una casa grande con un soggiorno, la cucina vicino al soggiorno e subito dopo un bagno. La stanza di Favor e di Juliet Success era attaccata a quella di Osas e della moglie. Io stavo chiusa a chiave nella stanza di Favor e, una volta che rientravano a casa Favor e Juliet Success, mi facevano trasferire nel soggiorno e anche in tal caso la moglie di Osas mi chiudeva a chiave».

«Ho aspettato così per circa tre giorni, fino a quando è arrivata la madame, che era stata chiamata dalla moglie di Osas, che l’aveva avvisata del mio arrivo. Sopraggiunta la madame, costei ha detto alla moglie di Osas di aggiustarmi i capelli perché avrei dovuto prostituirmi. Mi hanno dato dei vestiti che avrei dovuto indossare per prostituirmi: alcuni li aveva portati la madame nella sua borsa; altri me li ha dati la moglie di Osas. Ho provato a rifiutarmi, ma mi è bastata la sua smorfia e la sua aria minacciosa per capire che non avrei avuto altra scelta. Quella sera stessa sono dovuta uscire con Juliet, per andare nel parcheggio (quello con il trenino al centro) di Sant’Eufemia a prostituirmi. Ricordo che, prima di uscire, la moglie di Osas mi ha dato il cellulare, spiegandomi come avrei dovuto comportarmi: quando si fermavano i clienti avrei dovuto indicare due dita o tre dita, in segno di 20 o 30 euro. E’ stata lei ad andare a comprare i preservativi con i 5,00 euro che le ho dovuto dare. La stessa mi ha dato il cellulare e mi ha detto che sarei dovuta scappare in caso fosse arrivata la Polizia e che, se mi avessero fermata, non avrei dovuto dire nulla».

«La madame, invece, è rimasta per due giorni in quella casa e poi è andata via. La prima sera non sapevo neppure come fermare le macchine. E’ stata Juliet Success a fermare un cliente per me e, dopo la fine del servizio, ho ricevuto la paga di 20,00 euro. Rientrata a casa, ho dovuto dare i soldi guadagnati dall’attività alla moglie di Osas che ne ha preso nota su un foglio. La moglie di Osas ha sgridato me e Juliet Success perché eravamo rientrate troppo presto, e Juliet Success le ha detto che avevamo fatto rientro prima perché c’era la polizia nella zona. Preciso che non distinguendo bene i luoghi, non mi ero neppure accorta dell’accaduto».

«Il giorno dopo siamo andate a prostituirci a domicilio da due ragazzi che ci hanno dato 50,00 euro. Tornate a casa Juliet Success, ha consegnato questi soldi alla moglie di Osas. Sono rimasta a casa anche perché faceva freddo e mi vergognavo. La moglie di Osas mi ha detto che avrei dovuto portare i soldi a casa se volevo mangiare e vivere. Le sere ero costretta a uscire per andare a prostituirmi nel parcheggio. Le prime volte non riuscivo, mi vergognavo e i clienti non si fermavano. Rientrata a casa, lei mi diceva che non avevo lavorato bene e non mi faceva mangiare e mi diceva che se non avessi lavorato, non mi avrebbe fatto rimanere lì e avrei passato grossi problemi».

«Io e Juliet Success andavamo a prostituirci nel parcheggio dietro la stazione; Favor prendeva il treno per andare in un altro posto a prostituirsi.
Una volta ottenuto il permesso di soggiorno, Juliet Success ha iniziato a prostituirsi in un’altra zona, su indicazione della moglie di Osas. Io invece continuavo a prostituirmi nel parcheggio. Così è stato per circa due mesi. In un’occasione sono rimasta per tre giorni a casa perché non volevo più prostituirmi. La moglie di Osas ha chiamato la madame che è sopraggiunta immediatamente con due persone, un ghanese e un nigeriano. Tutti e tre, la madame, il ghanese e il nigeriano, mi hanno picchiato. Tutte le volte che tornavo senza soldi rimanevo senza mangiare».

«Preciso che Juliet Success dava il ricavato della prostituzione a Osas; io e Favor alla moglie. Per un periodo di tempo nell’abitazione di Sant’Eufemia, nella mia stessa stanza, aveva vissuto un’altra ragazza di nome Precious che si prostituiva insieme a Favor. A volte riuscivo a telefonare di nascosto in Nigeria, acquistando una ricarica di euro 5,00: sentivo mamma e mi vergognavo di dire quello che stava accadendo. Una volta ho sentito il marito di mia sorella e gli ho detto che stavo lavorando in un supermercato. Ma era domenica e i supermercati erano chiusi e lui ha capito che non stavo dicendo la verità; mi ha chiesto come mai non fossi andata in chiesa. Lui mi ha detto di pregare e poco dopo mi hanno fermata e sono stata accolta nel progetto».

DOMANDA: ricorda se durante il periodo in cui si trovava a Lamezia è stata costretta a ricorrere a cure mediche/ricoveri in ospedale?
RISPOSTA:«- si, in una occasione, appena arrivata a Sant’Eufemia, dopo aver effettuato il viaggio, sono stata portata presso una abitazione, non so dire di preciso dove, perché ero rimasta incinta a seguito delle violenze subite durante il viaggio per raggiungere l’Italia. Ero incinta di circa 5 mesi e la “madame” e la moglie di Osas mi hanno costretta ad abortire, portandomi in una casa privata, viaggiando col treno per pochi minuti dopo essere partiti da Sant’Eufemia e siamo scesi all’ultima fermata, ma non so indicare con precisione quale sia il paese. Qui, un uomo di colore, del quale non conosco il nome, mi ha dato alcuni medicinali che mi hanno provocato un aborto spontaneo, uccidendo il feto. Io ero contraria ad abortire, ma sono stata obbligata dalla madame e dalla moglie di Osas. Quando io ho chiesto il motivo di tale aborto mi è stato riferito che era necessario farlo perché dovevo lavorare e ad una mia richiesta circa quale lavoro dovevo intraprendere mi è stato detto che dovevo andare “in strada” e che quindi dovevo prostituirmi».
DOMANDA:«- ha mai avuto a che fare con qualche italiano che aiutava la madame o Osas?».
RISPOSTA:«No, tengo a precisare che il numero di telefono riportato in oggetto è attivo ed è da me utilizzato, ma da quando mi trovo nella comunità è spento. Lo accendo solo sporadicamente per sentire i miei familiari ed in tali occasioni ricevo molteplici messaggi e chiamate da parte delle utenze indicate in querela che mi chiedono dove mi trovo e che fine io abbia fatto in quanto vogliono che io mi prostituisca di nuovo. Inoltre i miei aguzzini sono riusciti a raggiungere la mia famiglia in Africa, minacciandoli affinchè questi mi convincano a ritornare a prostituirmi a Sant’Eufemia. Infatti anche da loro ricevo delle pressioni per ritornare nella vecchia abitazione perché hanno paura che sia a me che a loro possa succedere qualcosa di brutto».

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20 dicembre 2017

1186.- Cosa vogliono dalla zarina Boschi (i miliardi, il potere).

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Di Maurizio Blondet

Ricordate Francesco Spano? Quel tizio col cappottino arancione che dirigeva l’UNAR  sigla per il pomposo  Ufficio  Nazionale per anti discriminazioni razziali? – quello che finanziava  con denaro pubblico locali di droga e prostituzione omosex? Dove  (per usare i termini di Dagospia) “le uniche attività culturali sono il glory hole dove infilare il gingillo? Dove si spaccia droga? Dove ci sono dark room “Sono delle stanze buie dove la gente entra vestita, nuda, per fare sesso con chi capita, senza guardarsi in faccia?

Ebbene: vi ricorderete che  questo Spano era pure socio dei locali “culturali” che finanziava coi soldi nostri a botte di 55 mila  euro (“…Mi hanno abbonato a mia insaputa”).   Vi ricorderete anche che alla  fine Spano,   ha firmato una lettera vibrante di sdegno per la sua virtù offesa ( “la macchina del fango contro chi compie con lealtà e correttezza al proprio dovere”..). S’è dimesso dall’incarico. Si spera si sia dimesso anche dallo stipendio, che non ricordo più se ammontava a 150 o a 200 mila euro annui; non so, non sono sicuro. Magari  Maria Elena Boschi gli ha trovato un altro incarico presso  la Presidenza del Consiglio.

Rievoco la faccenda  per spiegare quel che fa della “Presidenza del Consiglio” una preda  invidiatissima,  che fa una gola immensa, che adesso “poteri forti o quasi vogliono togliere alla Boschi per metterci uno di loro. Un centro di potere  che ha il vantaggio di  essere  poco visibile,  con immensa capacità di spesa, che assume chi vuole e dà gli stipendi che vuole agli amici suoi,  per incarichi fantastici o inventati. Come  “ finanziare e promuovere progetti che abbiano come fine ultimo l’integrazione e la lotta alla discriminazioni di genere, razza, religione o orientamento sessuale”, quale è appunto la missione del suddetto UNAR, creato nel 2003 con un decreto. Sottolineo: decreto.

La  Presidenza del Consiglio è molto più di un ministero: è la macchina e plancia di comando dell’oligarchia burocratico-politica, con una autonomia di spesa vicina ai 4 miliardi l’anno: grasso che cola, laddove  gli  altri ministeri si vedono lesinare gli stanziamenti e controllare le spese.

E’ il vaso della marmellata  ideale per i loro cucchiai. Come si diceva,   per funzionare spende tra i 3,6 e 4 miliardi l’anno (a volte i primi ministri decidono di tagliare un po’; Renzi ha aumentato). Vi diranno che il 60 per cento del bilancio è dedicato alla Protezione Civile; infatti, 2 miliardi. Berlusconi volle la Protezione presso di sé. Ma sotto Berlusconi e Bertolaso essa funzionava; come funzioni oggi, chiedetelo ai terremotati del Centro Italia che aspettano ancora le casette,  i lavori non fatti, chiedetelo al ristorante che giorni fa è fallito perché ha dato da mangiare per mesi a soccorritori, e il governo non ha mai pagato il conto.  Mettere un di loro a quel posto, significa  per il partito  di governo avere la  più ampia disponibilità di spesa discrezionale concessa di questi tempi. Chi ti va a sindacare se il commissario compra le casette dell’amico suo che costano il doppio di quelle fabbricate in Alto Adige? Se da  lavori alle sue coop rosse tenendo alla larga tutti  concorrenti più efficienti? Chi è così meschino da andare a spulciare quanto costa una  roulotte per ricoverarci i bisognosi?

Ma  quanto a “spese discrezionali”, tuttavia, la Protezione Civile è nulla in confronto al “Segretariato generale”.   Si dedica alle “spese a  supporto  della presidenza, all’organizzazione e alla gestione amministrativa”: attività importantissime non meglio identificate. E non meglio sindacate e contabilizzate,  men che meno rese pubbliche. Quanto spende il Segretariato Generale della Presidenza del Consiglio? Dipende: per esempio, nel 2013 si parlava di 396 milioni; l’anno dopo, 2014, saliti a 754 milioni.

Che cosa giustifica un quasi raddoppio della spesa del Segretariato? Non si sa. E dico di più: non avete diritto di saperlo,  è l’insindacabile giudizio del premier del momento.

Il  solo personale di Palazzo Chigi costa sui 237 milioni l’anno: paga  bene,   la Presidenza  del Consiglio.  Si deve ammettere che rispetto a Renzi,  Letta  ha speso per  il personale di più: 38 milioni in più.

Spese insindacabili per “beni e servizi”:  150 milioni l’anno.

Poi ci sono gli “stanziamenti per l’editoria”.  Voce importantissima   per la gestione di potere, che fa esistere giornali che nessuno legge, e  di cui nemmeno conoscete l’esistenza (i “giornali di partito”) grazie ai sussidi. Dati o negati dalla Presidenza del Consiglio.

E   sotto Gentiloni? Lascio la parola a Franco Bechis, unico giornalista che si occupa di queste cose, nell’indifferenza di  voi italioti:

“A Palazzo Chigi quest’ anno si spendono circa 21,5 milioni di euro in più del 2016, e la lievitazione inattesa è tutta nelle spese correnti, che tornano a superare il miliardo di euro con un incremento di 36,3 milioni.

“Ma quel che fa comprendere la differenza fra i due governi è la notevole lievitazione delle spese del segretariato generale di palazzo Chigi, il cuore pulsante del potere del governo. Lo stanziamento in questo caso passa da 403,57 a 537,9 milioni di euro, con un incremento di 134 milioni.

“Aumentano addirittura del 40 per cento i costi del trattamento economico accessorio degli staff di Gentiloni e del sottosegretario Maria Elena Boschi, che passano rispetto a Renzi e al suo sottosegretario Claudio De Vincenti da 2,7 milioni a 3,76 milioni di euro annui. Mentre per i ministri senza portafoglio la crescita è più limitata, passando da 4,5 a 4,8 milioni di euro”.

Capito? 3,76 milioni di “trattamento economico” per la Zarina e il suo staff.

Bechis, implacabile: “Crescono anche i costi del personale fisso, che solo per le retribuzioni di ruolo aumentano di 1,513 milioni di euro.

Palazzo Chigi, Gentiloni costa piu’ di Renzi: spese salite di 21,5 milioni

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“Per le spese legali per liti e contenziosi, l’aumento è da record: più 180 per cento, e salgono da 50 a 140 milioni di euro i fondi stanziati”. Magari Spano, che è avvocato, avrà trovato colla coazione lì, chissà,   nelle spese per liti legali

“Di fronte a tanti aumenti, c’ è invece una riduzione di fondi che proprio nessuno avrebbe atteso: quelli del capitolo per la Protezione civile […]  sul  Fondo per la prevenzione del rischio sismico (cap. 7459) non è stata stanziata alcuna risorsa finanziaria».

E’ quel che ci si aspetta da un’oligarchia avida, parassitaria e incapace: aumenta il piatto per sé, e diminuisce  il servizio al pubblico necessario.

Ecco perché è sotto attacco  la Boschi, e attraverso di lei Renzi: ha mantenuto questo centro di poter che fa gola agli altri. O è Gentiloni che vuole conquistare piena autonomia da Renzi mettendo le mani su questa macchina di  sprechi?   Secondo il principio:   Togliti tu che mi ci metto io.

1163.- SCANDALO OLTRE LE ONG, NELLA STIVA PROSTITUTE NIGERIANE, CARICHI DI DROGA …E ARMI?

Il fenomeno del traffico di clandestini dalla Libia all’Italia è strettamente legato anche ad altri settori di criminalità, oltre le Ong, su cui le forze di polizia indagano quotidianamente. Ma pensa.

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Le donne vittime di tratta, incontrate sulle strade della città soltanto da alcune unità di strada, nel 2015 sono state 1.854: il 63% sono originarie dei Paesi dell’Est Europa, il 28% nigeriane e il 3% sudamericane. Ma se si scende nel dettaglio delle nazionalità, il gruppo più numeroso è quello delle romene (37%) seguito da quello delle nigeriane (28%). Preoccupa la presenza sempre più massiccia di minorenni, in particolare tra le nigeriane. Ad oggi, le nigeriane hanno superato le romene. Di fatto, i trafficanti di uomini sfruttano i canali dell’immigrazione per far arrivare sempre più donne, specialmente nigeriane, da sfruttare nel mercato della prostituzione. E a tal proposito, è stata suor Claudia Biondi responsabile dell’area “Maltrattamento donna” di Caritas Ambrosiana a citare alcuni dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) riguardanti gli sbarchi di persone di nazionalità nigeriana: «Nel 2015 erano state 22mila e nel 2014 9mila – ha proseguito suor Claudia -: il 90 per cento delle donne nigeriane che arrivano in Italia sono vittime della tratta» il 98% di quelle che si prostituiscono in strada è vittima di violenza e sfruttamento: non c’è alcuna libera scelta. 

La tratta delle nigeriane, come risulta anche dai decreti di fermo disposti dal pubblico ministero di Palermo, avviene, invece, grazie a sodalizi criminosi tra personaggi provenienti proprio dai Paesi del Nord Africa. Nell’ambito dell’operazione «Boga» sono stati arrestati diversi soggetti di nazionalità nigeriana e ghanese che costringevano le donne a venire in Italia a prostituirsi, trasportandole sui barconi come gli immigrati, in modo clandestino, dietro pagamento di 30mila euro come saldo del viaggio. Nel decreto si legge: «Approfittando della situazione di vulnerabilità psicologica determinata alla celebrazione di un rito Vodoo», quindi sotto ricatto, «a garanzia del debito contratto», le donne venivano trasportate in Italia, violentate, messe in regime di schiavitù e, quindi, su strada. Grazie agli uomini della Guardia di finanza, il Mediterraneo viene controllato anche per questo tipo di traffici.

Vi sentireste di escludere che alcune navi Ong trasportino droga? Noi si, ovviamente. Ma di sicuro trasportano prostitute nigeriane e spacciatori. Grazie.

Le prostitute

Prendiamo, per esempio, Milano. Sempre più donne nigeriane si prostituiscono a Milano e nell’hinterland. Secondo le associazioni che si occupano di prevenire la tratta, hanno ormai superato le donne dell’est. Molte di loro sono arrivate negli ultimi mesi, coi barconi, traghettate da Renzi dalla Libia.

E sono oltre duemila le persone (in gran parte donne) contattate in strada (ma anche nelle case) nel corso del 2015 dalle associazioni che si occupano di prevenzione della prostituzione e della tratta, con un turn over notevole, che arriva a superare il 50% nel caso delle nigeriane e delle romene, perché la criminalità organizzata non vuole che le ragazze si ambientino troppo in un territorio, che creino legami con i residenti o con le stesse unità di strada.

La droga

Il nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Palermo da tempo indaga anche su aspetti diversi, quali l’importazione di stupefacenti dai Paesi del Nord Africa e la tratta delle prostitute nigeriane. È stata proprio questa sezione delle Fiamme Gialle, a partire dal 2011, in seguito alle crisi politiche libica ed egiziana, a occuparsi dei canali commerciali dell’hashish, che da quel momento si sono radicalmente modificati.

Mentre gli algerini preferiscono trasportare i carichi via terra, lungo il percorso che attraversa il Sahara, per raggiungere i confini della Libia, quelli marocchini, che sono i maggiori fornitori di hashish al mondo, prediligono il trasporto via mare. Lo stupefacente viene caricato al largo di Casablanca, o nelle zone limitrofe e trasportato da siriani, egiziani o libanesi con pescherecci fino al largo delle coste della Cirenaica orientale. Ed è dalla Libia e dall’Egitto che i carichi vengono poi fatti passare per il Mediterraneo per raggiungere l’Europa. Nell’ambito dell’operazione «Libeccio», volta proprio al contrasto del traffico di stupefacenti, gli uomini della Gdf hanno sequestrato numerosi carichi.

Nel 2013 sulla «Adam», battente bandiera delle Isole Comore, furono recuperate, tanto per fare un esempio, 15 tonnellate di hashish nascosti in 591 sacchi di juta.

Quarantotto ore. Tanto è durata l’operazione congiunta del gruppo aeronavale e dei comandi provinciali di Trapani e Palermo  della Guardia di finanza, che ha portato al maxi sequestro di oltre 20 tonnellate di hashish, trasportate sulla nave “Adam” battente bandiera delle Isole Comore e partita presumibilmente dalle coste marocchine. “Stavamo ormai seguendo da due giorni l’imbarcazione  –  sottolinea il tenente colonnello Cristino Alemanno, comandante del gruppo Aeronavale di Trapani –  con due unità d’altura e un Atr 42, punta di diamante del reparto. L’abbiamo seguita con l’areo “Grifo 15″, abbiamo aspettato che facesse ingresso in acque territoriali, poi finalmente a circa 11 miglia da Pantelleria, in quelle poche ore di passaggio, il guardacoste Paolini del Gruppo aeronavale di Trapani, ha effettuato l’abbordaggio. Una operazione delicatissima questa perché non sapevamo cosa potesse aspettarci, ora possiamo dirci soddisfatti”. Quello operato nella notte dai finanzieri è di uno dei sequestri più importanti di stupefacenti effettuati negli ultimi anni in acque italiane. La notizia di una nave con un carico di droga era arrivata al comando pperativo aeronavale di Pratica di Mare. La nave dopo l’abbordaggio è stata scortata dalle unità della Guardia di finanza nel porto di Marsala per le operazioni di quantificazione della droga: una vera montagna di hashish confezionata in sacchi di juta e occultata sotto dei teloni di plastica. “Le indagini dovranno accertare intanto la provenienza dello stupefacente anche se dale carte sembra che il carico provenga dal Marocco e naturalmente a chi era diretta – dice Alemanno  –  presumibilmente a una organizzazione criminale libica o di qualche Paese del Nordafrica. Al momento non ci sarebbe alcun coinvolgimento con organizzazioni mafiose italiane, ma saranno le ulteriori indagini a verificare se ve ne siano”. I sei membri dell’equipaggio, di origine siriana uno è dovuto ricorrere alle cure dei medici per un malore, e la nave sono a disposizione della Autorità Giudiziaria. Già il 13 aprile scorso, una nave turca con quasi una tonnellata di hashish era stata sequestrata dal Gruppo Aeronavale di Trapani, in sinergia con i Reparti territoriali siciliani. “L’odierna operazione  – dice il colonnello Pietro Calabrese, comandante provinciale della Gdf di Trapani, conferma come il Mediterraneo sia fonte di ricchezza, ma anche opportunità per I traffici illeciti” (Laura Spanò – Foto Ansa e Studio Camera)

Il sequestro più ingente è quello del luglio 2014, attuato sulla motonave «Aberdeen» al largo di Pantelleria, quando furono trovate 42 tonnellate di stupefacente. «Il nostro – spiega il tenente colonnello Giuseppe Campobasso del nucleo di Polizia tributaria della GdF – è un lavoro molto serrato e puntuale. I controlli avvengono anche su base di collaborazioni con Paesi esteri e scaturiscono da indagini, segnalazioni e attività di polizia». Al porto di Palermo ci sono due navi di medie dimensioni e un peschereccio, sotto sequestro da tempo. Costano allo Stato perché non sono ancora state alienate. Il carico di stupefacenti era nascosto sotto tonnellate di reti, mentre in un altro caso, molto recente, la droga era occultata nella stiva, saldata e ricoperta di marmo.

Le armi

Salvini, ospite di Lucia Annunziata insieme al presidente di Medici senza frontiere Italia Loris De Filippi, ha sostenuto: “A me risulta che ci sia un dossier dei servizi segreti italiani che certificano i contatti tra trafficanti, malavita, scafisti e alcune associazioni. Se esiste questo dossier, ed è in mano al presidente del Consiglio Gentiloni e il premier lo tiene nel cassetto, sarebbe una cosa gravissima. Se esiste lo renda pubblico a tutti gli italiani e lo dia al procuratore capo di Catania”. Poi butta lì: “Su quelle navi ci sono armi e droga…”. A quel punto interviene De Filippi di Msf: “Sono illazioni, tiri fuori le prove. Se avete prove, siamo i primi a chiederle: a noi gli scafisti fanno schifo”.

Il discorso viene lasciato cadere, ma Lucia Annunziata ci torna quando la puntata è quasi finita: “Avete in mano la presidenza del Copasir (attraverso Giacomo Stucchi, ndr) non potete agire?”. Risposta di Salvini: “Ma certo. Se io le dico qualcosa è perché abbiamo fondati motivi per supporre che ci sono elementi concreti che tracciano non solo i contatti tra scafisti e alcuni soccorritori, ma che certificano che a bordo di alcune di quelle navi ci sono armi e droga. Noi non stiamo aiutando chi scappa dalla guerra, stiamo portando in Italia persone che rischiano di portarci la guerra in casa”. Conclude la giornalista: “Quindi lei ci sta dicendo che quando parla di armi e droga, fornisce un’opinione informata…”. Salvini annuisce.