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6198.- Intervento militare e cornice costituzionale

Portiamo tuttora i segni di una monarchia infelice.

Nei limiti in cui si svolge la partecipazione dell’Italia alla politica estera dell’Occidente e nella variabilità delle situazioni che vedono le Forze Armate italiane partecipare, a loro volta, alle operazioni della Nato e dell’Ue in ambito internazionale, si apprezzano il valore della nostra sovranità, quello del principio di giustizia universale e di pace della Carta Costituzionale e quello residuale di tutte, proprio di tutte, le Istituzioni. Dal ripudio della guerra seguito alla sconfitta, ai lutti, come dalle amputazioni di popoli italianissimi conseguenti sia ad una cobelligeranza sia ad un trattato di pace entrambi senza condizioni, sorse l’impegno di condizionare le nostre future azioni ad obblighi che potessero essere assunti in ambito internazionale, ma insieme ad altri Stati. Con questo “insieme”, con questa modesta condizione dimentica degli altrui interessi, accompagnata – tuttora – da un’occupazione militare alleata, comunque straniera, l’Italia della Costituente, ancora in macerie, stretta fra due blocchi, divisa fra una politica d’ispirazione cattolica ed una comunista da disarmare, ritenne di poter contribuire con i suoi principi di giustizia universale e di pace a garantire una situazione di pace tra i popoli.

Di Redazione Blog di Sabino Paciolla. 8 Aprile 2024

Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog l’articolo scritto da Mauro Ronco e pubblicato su Centro Studi Livatino. Visitate il sito e valutate liberamente le varie opzioni offerte e le eventuali richieste. 

Guerra Ucraina_macerie_carroarmato (foto: afp)
Immagine di repertorio (foto: afp)

Riflessioni a margine del conflitto russo-ucraino, sui rapporti fra NATO, Unione Europea e istituzioni nazionali.

1. Si susseguono con sempre maggiore frequenza dichiarazioni di esponenti politici di vertice di alcuni paesi europei (in particolare, della Francia e della Polonia) circa l’eventualità, se non l’opportunità, di un intervento diretto delle forze militari della NATO, oppure, non si comprende bene, delle forze militari dell’Unione Europea in collaborazione militare con la NATO, nel conflitto attualmente in corso tra l’Ucraina e la Federazione russa. Nello stesso contesto, i media lanciano notizie in ordine a un sempre più massiccio dispiegamento di truppe terrestri, aeree e forze speciali sul fronte Est dell’Alleanza atlantica[1].

Da parte italiana, mentre il Ministro degli Esteri ha più volte pronunciato parole drastiche sul rifiuto dell’Italia di partecipare, direttamente o indirettamente (eventualmente tramite la NATO e l’Unione europea) al conflitto, il Capo di Stato Maggiore della Difesa Ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, spostando il focus della questione, ha lamentato un sottodimensionamento  delle forze militari italiane, poiché i soldati sono insufficienti, le armi in gran parte obsolete, l’addestramento carente, tanto che egli sollecita un riarmo imponente con le seguenti parole: “Il confronto con la Russia secondo la Nato durerà un decennio, anche se la guerra in Ucraina finirà prima”[2]. Evocando un possibile futuro disimpegno americano, egli ha inoltre soggiunto: “proviamo a trasformare una crisi in opportunità”[3],  lasciando le sue parole nella indeterminatezza più assoluta.

2. A fronte di dichiarazioni inequivocabili del Ministro degli Esteri, molti commentatori – cui sembra conferire forza l’allarme del Capo di Stato Maggiore – avanzano giustificazioni circa il rifiuto dell’Italia di entrare nel conflitto che riecheggiano le sciagurate ‘scuse’ che Benito Mussolini presentava al Führer del Reich tedesco per evitare l’entrata in guerra dell’Italia, quando sosteneva che le forze armate nazionali non erano pronte in termini di mezzi e di risorse economiche e logistiche. Poiché giustificazioni di tipo siffatto mi sembrano inappropriate – è noto che le ‘scuse’ di Mussolini non bastarono: Hitler fornì mezzi e risorse e l’Italia entrò rovinosamente in guerra – ritengo necessario in questa condizione, assai fluida ed estremamente pericolosa, ricondurre la tematica dell’uso delle forze militari italiane al rigoroso metro del diritto costituzionale, che raramente ho visto evocare nell’imponente propaganda che i media, interessati a tutti i costi nella escalation del conflitto, continuano a propalare in modo confuso e sovrabbondante.

3. L’ancoraggio al diritto è essenziale. Il Centro Studi Rosario Livatino, per la sua natura istituzionale, non intende entrare nel dibattito storico-politico sulle cause, sulle modalità e sui possibili sviluppi del conflitto Russia c/ Ucraina e c/ Occidente a trazione politica e militare statunitense, britannica e francese.

Avverto comunque il dovere di stendere questa nota di carattere giuridico per richiamare il principio inderogabile che l’Italia rifiuta la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

4. Secondo una certa tesi, più tollerata nei fatti che formulata scientificamente, il sistema nord-atlantico di difesa apparterrebbe a quel sistema di organi e di fonti esterne cui lo Stato italiano, tramite l’art. 11 Cost., conferirebbe una corsia preferenziale diretta a creare “un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11 ultima parte).

Così non è. Va rilevata anzitutto l’involuzione dell’Alleanza nord-atlantica a partire dalla fine della guerra fredda e la sua lenta trasformazione da strumento difensivo in un contesto storico ben determinato ad attore che si arroga compiti, al di fuori di qualsiasi mandato delle Nazioni Unite, di usare la forza armata contro altri paesi.

Questa trasformazione mai è stata oggetto di pattuizioni aggiuntive ai Trattati originari e mai è stata discussa approfonditamente dal Parlamento nazionale.

Alla luce di queste considerazioni, è certamente scorretta proprio la tesi prima accennata, che, cioè, sia consentita all’Italia una cooperazione così intensa con la Nato e con Stati stranieri, tale da implicare limitazioni all’esercizio della nostra sovranità.

Si dice che la sovranità dello Stato sia in crisi. E’ vero, piuttosto – come ha scritto l’insigne studiosa internazionalista Laura Picchio Forlati – che la sovranità non è più “dicibile”[4]. Tuttavia, la sovranità pesa ancora, soprattutto in relazione alle sue eventuali limitazioni nel settore delle azioni militari.

5. La sovranità italiana è limitata nel settore delle azioni militari dagli obblighi che discendono dalla partecipazione alle Nazioni Unite e all’Unione europea, nei limiti previsti, per quest’ultima, dagli artt. 42-46 TUE e 222 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune dell’UE.

Come noto, infatti, le misure di sicurezza possono essere autorizzate dalle Nazioni Unite anche a livello regionale, secondo l’ipotesi regolata dall’art. 53 della Carta delle Nazioni Unite.

L’art. 11 della Costituzione ammette esclusivamente le limitazioni di sovranità necessarie “ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Quindi, anche le iniziative dell’Unione europea ai sensi degli artt. 42-46 TUE e 222 TFUE nell’ambito della politica di difesa e di sicurezza dell’UE non possono sfuggire a un controllo da parte del Parlamento circa la loro puntuale corrispondenza ai fini di realizzare la pace e la giustizia tra le Nazioni.

Le limitazioni di sovranità a favore dell’UE, nell’ambito dei fini sopra visti, sono giustificate dal cosiddetto primato del diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 117 Cost., secondo l’interpretazione, tuttavia, che ne ha dato la Corte costituzionale, che esse sarebbero prive di valore ove trattati o istituti dell’Unione o singole misure di essa, che prevedessero, per esempio, l’uso della forza contro altri Stati, violassero i diritti e le libertà della persona o fuoriuscissero dal perimetro rigorosamente regolamentato dell’art. 11 della Costituzione[5].

6. Discorso del tutto diverso riguarda il rapporto tra il Trattato Nato e la Costituzione italiana. Va detto con chiarezza che dal Trattato non scaturisce alcuna limitazione di sovranità nei confronti di alcuno Stato e, dunque, neppure dell’Italia. Pertanto “[…] nessun organo internazionale ivi previsto può decidere obbligatoriamente per l’Italia l’intervento delle truppe o il ricorso al dispositivo militare di questa; tanto meno, può legittimare con le sue delibere tale intervento dal punto di vista costituzionale. Sono gli organi dello Stato a dovere, se del caso, provvedere assumendosi le proprie responsabilità”[6].

A eventuali limitazioni di sovranità, che si volessero far derivare da impegni internazionali eventualmente collegati al Trattato Nato va opposta la prescrizione proibitiva dell’art. 11.

7. Se, come visto, il Trattato nordatlantico non prevede limitazioni di sovranità per gli Stati membri, tanto meno si potrebbero ipotizzare limitazioni di sovranità che, non previste dal Trattato, si volessero ipotizzare tramite le misure, internazionali e interne, di attuazione[7].

La verifica circa l’esistenza attuale di tali limitazioni di sovranità non è semplice a causa della segretezza delle intese bilaterali con i Quartieri interalleati e, soprattutto, con il governo degli Stati Uniti.

In ogni caso, eventuali accordi che consentissero limitazioni di sovranità ad organizzazioni internazionali, anche allo scopo circoscritto di favorire “un ordinamento che assicuri la pace, la giustizia tra le nazioni”, sarebbero proibiti dal nostro sistema costituzionale, per essere completamente estranei alle uniche fonti – la Carta delle Nazioni Unite e i Trattati dell’Unione europea – che consentono all’Italia interventi diretti ad assicurare la giustizia tra le nazioni.  

8. Qualsiasi decisione, di conseguenza, diretta ad autorizzare una partecipazione militare italiana all’esercizio di misure di carattere militare rientra nella sfera della piena sovranità italiana, con le sole limitazioni previste a favore delle Nazioni Unite e, a certe ancora più rigorose condizioni, all’Unione europea per gli scopi definiti con precisione dall’art. 11.

Pertanto, eventuali autorizzazioni di tipo interventistico-militare debbono necessariamente passare attraverso il vaglio del Parlamento, la sua approvazione con legge formale, promulgata dal Capo dello Stato e sottoposta al vaglio della Corte costituzionale.

Mauro Ronco


[1] Cfr. La Stampa, 28 marzo 2024, 3, che riferisce di un dispositivo militare al cui centro starebbe un gruppo tattico multinazionale guidato da Londra e da forze militari che “si addestrano e si spostano a ridosso della zona calda”.

[2] Cfr. La Stampa, 27 marzo 2024, 2.

[3] Ibidem.

[4] L. Picchio Forlati, La politica estera e di sicurezza comune dell’Unione europea tra Carta delle Nazioni Unite e impegni NATO, in Aa.Vv., Diritto e Forze Armate. Nuovi impegni S. Riondato, (a cura di), Padova, 2001, 150.

[5] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza 10 aprile 2018, n. 115 che statuisce: “L’autorità competente a svolgere il controllo sollecitato dalla Corte di giustizia è la Corte costituzionale, cui spetta in via esclusiva il compito di accertare se il diritto dell’Unione è in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale e in particolare con i diritti inalienabili della persona”.

[6] L. Picchio Forlati, cit., 150.

[7] Così L. Picchio Forlati, Rapporti Nato-Nazioni Unite e Costituzione italiana: profili giuridici, in L’alleanza occidentaleNascita e sviluppi di un sistema di sicurezza collettivo, O. Barié (a cura di), Bologna, 1988, 522.

6132.- Un operazione famosa dell’esercito italiano

Da Quora, di Giovanni Iannucci

Il 3 novembre 2011 ad Herat in Afghanistan un gruppo di talebani composto da cinque uomini attaccò la sede della compagnia ES-KO, un’ azienda che si occupa di fornire servizi alle forze ISAF impegnate a combattere la presenza terroristica del paese. La volontà dei talebani era chiara, attaccare una città con al suo interno delle basi ISAF e una compagnia che fornisce supporto logistico ad esse, per dimostrare che la loro presenza nel territorio non era ancora eradicata.

(l’edificio attaccato)

All’alba il commando talebano si avvicinò all’edificio della ES-KO, nei pressi dell’aereoporto, davanti all’ ingresso due uomini si fecero esplodere aprendo la strada ad altri tre, che entrarono nell’ edificio uccidendo due soldati afghani e ferendone altri tre, poi prendendo in ostaggio 31 civili, molti di essi stranieri tra cui sei italiani.

La notizia giunse verso le 9:30 Alla base NATO di Camp Arena, l’edificio venne prontamente circondato dai soldati dell’ allenza e i civili all’esterno messi in sicurezza, anche diversi elicotteri si alzarono in volo, i talebani dal canto loro avevano ancora in mano gli ostaggi e minacciarono di ucciderli.

Vista la presenza di ostaggi italiani, intervenì anche la Task Force 45 .

Un nucleo di forze speciali del nostro paese fondato nel 2006 e che comprende più di 200 soldati provenienti da vari corpi (marina, paracadutisti, carabinieri..) altamente addestrati e preparati per le missioni più difficili.

Secondo le fonti ufficiali un gruppo di 20 soldati appartenenti alla TF 45 hanno pianificato ed eseguito il blitz nell’ edificio, utilizzando cariche esplosive i militari sono entrati contemporaneamente da porte, finestre e dal soffitto, uccidendo con estrema precisione e coordinazione tutti gli insorti e liberando gli ostaggi senza che fossero uccisi. Nell’ azione un soldato italiano è rimasto ferito ad una gamba, pare dalla scheggia di un’ esplosione, ma non in modo grave ed è stato prontamente evacuato.

L’azione è stata descritta da più analisti militari come impeccabile, che valse agli uomini coinvolti il conferimento della medaglia d’ argento al valore con le seguenti motivazioni:

“Ufficiale Superiore incursore, Comandante della Task Unit Bravo, chiamato a condurre un’operazione di antiterrorismo volta alla liberazione di ostaggi
nella citta’ di Herat, guidava il proprio personale con indomito
coraggio e audacia, adoperandosi senza alcun risparmio e timore. La
sua azione, animata da slancio e permeata da assoluta abilita’
professionale, portava alla liberazione di trentuno ostaggi tra cui
sei italiani. Magnifica figura e mirabile esempio di Ufficiale,
permeato dei piu’ alti valori etici, che ha dato lustro al Paese,
alle Forze Armate e alla Marina Militare”

Anche il Generale Stanley McChrystal comandante delle truppe NATO in Afghanistan, intervistato a riguardo dell’ operato della Task Force 45 del Coriere disse:

«Non voglio rivelare dettagli. Posso solo dire che ho potuto osservare il lavoro e la professionalità di quella squadra. Credo che gli italiani sarebbero orgogliosi dei loro soldati».

6091.- Americani imbufaliti per lo stop di Meloni e Crosetto alla francese Safran sull’ex Microtecnica?

In Europa, se non ci fossero i francesi, bisognerebbe inventarli per avere un minimo di autonomia rispetto agli americani. La vicenda che presentiamo ricorda il Regno d’Italia di Napoleone, che scrisse e volle che non vi nascessero industrie che avrebbero sottratto mercato, mano d’opera e materie prime all’industria francese e, con tutto il nostro europeismo, siamo ancora lì e, perciò, assieme ai tedeschi.

Caro direttore, amici americani mi dicono che il Pentagono aveva dato il via libera alla vendita dell’italiana Microtecnica del colosso americano Collins Aerospace alla francese Safran. Ma il no del governo Meloni li avrebbe spiazzati, mentre i francesi stanno dando di matto. D’altronde… La lettera di Francis Walsingham

Da Startmag, 24 Novembre 2023

Americani imbufaliti per lo stop di Meloni e Crosetto alla francese Safran sull’ex Microtecnica?

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Caro direttore,

dammi retta, insisto: lascia perdere quella storia della reputazione dei manager e dei finti giornali web creati appositamente per pomparla. C’è una notizia molto più interessante da seguire.

Mi riferisco all’opposizione del governo italiano alla vendita dell’ex-Microtecnica, azienda di meccanica di precisione con sede in Italia ma controllata interamente dagli americani, alla società francese Safran. Vedo che su Startmag avete pubblicato un ottimo articolo di cronaca e approfondimento (i miei complimenti, caro direttore, vanno ovviamente all’autrice del pezzo, Chiara Rossi, non certo a te); permettetemi di aggiungere un po’ di sale e pepe, perché diversi indizi mi suggeriscono che gli americani si sono infastiditi parecchio per la mossa dell’esecutivo con il golden power. Anche se forse un po’ meno dei francesi che stanno dando di matto, con preannuncio di ricorsi e dichiarazioni esagitate: poverini, hanno ricevuto un colpo esiziale per la loro grandeur.

Ma procediamo per gradi anziché saltare subito alle conclusioni. Come avete scritto, l’ex-Microtecnica realizza apparecchiature per l’aeronautica civile e militare, rifornendo clienti di grandissima rilevanza come Airbus e Leonardo: per esempio – leggo stamattina sul Sole 24 Ore – il C-27J utilizza componenti di Microtecnica. Stiamo parlando di un aereo da trasporto tattico utilizzato dalle forze armate italiane, statunitensi e di tanti altri paesi; Leonardo lo costruisce a Caselle.

Se ci sono in ballo gli Stati Uniti e Leonardo, ho pensato, allora è utile leggere Formiche sulla vicenda Microtecnica perché così si possono intuire le posture degli Stati Uniti sulla questione. Formiche, per chi non lo sapesse (e non mi riferisco ovviamente a te che sei stato direttore del sito di Formiche), è stata fondata ed è edita da Paolo Messa, che lavora in Leonardo con la carica di responsabile delle relazioni geo-strategiche con gli Usa. Ho spulciato un po’ sul web e sono incappato in questo pezzo di Starmag di un paio d’anni fa – i miei complimenti vanno ai curatori della Seo, caro direttore: non esaltarti -, che cito:

Messa si occupa di curare le relazioni geostrategiche con gli Stati Uniti d’America”, ha scritto sul Riformista la lobbista Mariella Palazzolo, blogger di Formiche, che ha pubblicato su Youtube nell’ambito della rubrica “Lobby non olet” un video dal titolo: “Paolo Messa di Leonardo per Lobby Non Olet. La lobby non solo “non olet”, addirittura profuma.

Paolo Messa non è solo un raffinato e apprezzato lobbista per Leonardo – con la carica precisa di Executive Vice President di Leonardo, non so se mi spiego -; è stato direttore del Centro studi americani (Csa), che ha robusti agganci con l’ambasciata degli States in Italia, ed è fondatore/editore di Formiche: è anche editore di Airpress, rivista specializzata in aerospazio e difesa.

Sulla vicenda Microtecnica-Safran-golden powerFormiche scrive questo: “Il blocco da parte di Roma di un’acquisizione da parte di una società di un Paese alleato europeo o della Nato è un fatto relativamente raro” perché “se finora la maggior parte degli interventi in questo senso hanno rappresentato il blocco di acquisizioni da parte di aziende cinesi verso realtà italiane in settori strategici, Difesa in primis (ma anche energia e comunicazioni)”.

Mi pare un aspetto interessante, anche perché appunto viene evidenziato dal giornale di Messa, inseritissimo nell’establishment americano. Un conto, infatti – suggerisce Formiche -, è l’utilizzo dei poteri speciali a tutela di quegli asset critici che rischiano di finire sotto il controllo della Cina, o comunque di paesi che non appartengono al nostro sistema di alleanze internazionali. Un altro conto è bloccare un’operazione che coinvolge due soggetti – Collins Aerospace, gruppo statunitense che ha il 100% dell’ex-Microtecnica, e Safran, francese, che vuole comprare l’ex-Microtecnica – pienamente e indubbiamente alleati dell’Italia.

Ma con la Francia, poi, non avevano firmato un Trattato del Quirinale che si prefiggeva proprio di promuovere la cooperazione nella difesa, sia a livello operativo che industriale?

Sul Trattato del Quirinale è tuttavia importante precisare – cito per l’ennesima volta Startmag, caro direttore, ma solo per dare credito ai tuoi giovani redattori – che Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia erano (lo sono ancora?) scettici, se non completamente ostili, all’accordo; e che anche il Copasir – al tempo guidato da Adolfo Urso, oggi ministro delle Imprese – aveva criticato il patto con la Francia invitando a predisporre “un’adeguata tutela degli asset strategici in ambito finanziario e industriale italiani”. Microtecnica è italiana di residenza, certo, ma straniera di proprietà. E non di uno straniero qualsiasi: è statunitense, di un colosso Usa.

Insomma, fatte tutte le necessarie premesse, vengo ad aggiungere i miei granelli di sale e pepe. Microtecnica lavora con il complesso industriale-militare degli Stati Uniti; e quando c’è di mezzo il complesso industriale-militare nulla si muove e nulla accade senza che il Pentagono sia stato consultato e abbia dato il suo assenso. È praticamente certo che il dipartimento della Difesa sapesse dell’operazione con Safran per l’ex-Microtecnica, e dagli indizi che ho raccolto attraverso le mie fonti (come sai, ho bazzicato molto quel mondo e ho ancora agganci di un certo peso) posso dirti che i funzionari americani si sono… inalberati, diciamo così, per l’ostruzione del golden power. O diciamo stupiti, per carità di patria.

Concludo con una cosa marginale (ma nemmeno tanto: magari ci scappa in futuro un pezzo ad hoc). Leggevo dal Financial Times che la Germania aveva espresso all’Italia le sue preoccupazioni per l’operazione con Safran su Microtecnica, parlando di possibili ripercussioni sulla catena di fornitura dei componenti per i programmi dei caccia Eurofighter e Tornado. Aggiungo io che esistono da tempo delle tensioni franco-tedesche sulla condivisione di tecnologie e competenze militari: Berlino accusa Parigi di essere un po’ troppo gelosa del suo know-how e di restringerne l’accesso anche agli alleati europei. Insomma, i tedeschi hanno usato gli italiani per danneggiare i francesi…

Basta così, ché già mi sono dilungato troppo e non vorrei aver involontariamente pompato la reputazione di qualche dirigente da Reputation Manager. Ma esiste anche la classifica dei top lobbyists? Sto scherzando, direttore, resisti all’impulso di cercare su Google. Non vorrei che ti impegolassi in una faccenda come quella che sai bene.

Un caro saluto,

Francis Walsingham

6088.- Il punto sul vertice intergovernativo fra Italia e Germania.

Italia Germania
  • Da Startmag, di Pierluigi Mennitti, 23 Novembre 2023

Tutte le sintonie fra Italia e Germania su energia e non solo

Sintonie fra Italia e Germania su energia e non solo grazie alla caparbietà laboriosa della presidente Meloni

Nessuno a Berlino, al momento della formazione del governo di destra-centro italiano, avrebbe immaginato che nel giro di un anno Germania e Italia avrebbero compiuto uno dei passaggi più significativi della reciproca collaborazione politica. Ma la firma apposta al termine della prima consultazione intergovernativa fra i due paesi dopo sette anni, che si è tenuta proprio nella capitale tedesca, ha sancito tale passaggio.

La firma è stata apposta sul Piano d’azione per il rafforzamento della cooperazione bilaterale e in ambito europeo, un ventaglio di iniziative che abbracciano tutti i principali aspetti della cooperazione bilaterale. Da quella politica a quella economica ed energetica, particolarmente sensibile in questa fase storica, dall’ambito europeo con temi come migrazione, finanza e allargamento dell’Unione ai Balcani occidentali e a Ucraina e Moldova, a quella internazionale, dominata dalle questioni della guerra in Ucraina, del conflitto tra Israele e Hamas e delle crisi africane.

Dopo il grande freddo dell’era populista, durante il primo governo di Giuseppe Conte, quando i rapporti istituzionali fra i due paesi e governi furono ridotti al minimo indispensabile, la strada fra Roma e Berlino è tornata pian piano sempre più trafficata. A far salire di livello la qualità della relazione fra i due paesi è stato Mario Draghi, cui si deve la programmazione delle consultazioni intergovernative. Ma si deve alla buona volontà del pragmatismo socialdemocratico di Olaf Scholz e alla caparbietà laboriosa di Giorgia Meloni lo sviluppo di tale rapporto fino al compimento del primo vertice allargato fra i ministri di Italia e Germania.

E, come notano un po’ tutti i media tedeschi, chi con incredulità, chi con sorpresa e chi in tono neutro come fa il tg della tv pubblica tedesca Adr, il fatto è che “la chimica fra i due capi di governo sembra proprio funzionare”, nonostante le differenze di natura politica. Scholz non si è fatto condizionare da giudizi e pregiudizi sul nuovo governo italiano, nonostante la persistente alleanza della Lega salviniana con l’estrema destra di Afd, che tuttavia resta per Berlino un punto di diffidenza. E Meloni, forte anche di un rapporto sempre più sincero con la presidente tedesca della Commissione europea Ursula von der Leyen, pare essere riuscita a scansare il vicolo cieco dell’euroscetticismo di maniera. L’Italia non è né l’Ungheria né la Polonia, il suo status di paese fondatore di quel che in seguito è divenuta l’Unione Europea le impone un ruolo differente, forse più difficile, ma di sicuro più rilevante, a patto di saperlo interpretare. È il consiglio che Draghi affidò a Meloni al momento del passaggio di consegne e la premier italiana sembra averlo interiorizzato.

Il vertice intergovernativo di Berlino ha impegnato i due capi di governo in una serie infinita di colloqui: tra di loro, con i ministri delle rispettive delegazioni, con il mondo delle imprese italiane e tedesche. E con gli altri leader del G-20, con i quali Meloni e Scholz si sono collegati assieme per il Virtual G20 Leaders Summit.

La premier italiana è giunta a Berlino accompagnata da mezzo governo. Il vertice intergovernativo ha visto infatti incontri bilaterali fra i singoli ministri, oltre alla fine l’incontro plenario con i due capi di governo. Per l’Italia erano presenti i ministri di Esteri, Interno, Difesa, Economia e Finanze, Imprese e Made in Italy, Lavoro e Università.

L’obiettivo dichiarato nel piano d’azione firmato è quello di una cooperazione ancora più stretta. Uno dei temi principali è stato quello della sicurezza e della politica estera. È stato definito il varo di un formato “due più due”, ossia incontri regolari tra i ministri degli Esteri e della Difesa, dossier su cui Italia e Germania vanno già nella stessa direzione, come è stato evidente sia nel caso ucraino che da ultimo in quello di Israele.

“Insieme siamo al fianco dell’Ucraina, che sosteniamo politicamente, finanziariamente, umanitariamente e con armi e addestramento militare”, ha detto Scholz. E Meloni, intervenendo in video al G20 ha affermato che “la Russia potrebbe in ogni momento facilmente riportare la pace in Ucraina ritirandosi dai territori illegalmente occupati e ristabilendo la sovranità e la piena integrità territoriale dell’Ucraina”.

Sul piano industriale, un forum annuale è destinato ad accentuare la collaborazione a livello imprenditoriale fra sistemi complementari e già estremamente intrecciati. Gli imprenditori dei due paesi si sono confrontati nell’apposito Forum Business (cui a un certo punto si sono aggregati Meloni e Scholz) e il parterre era composto dai manager delle principali aziende. Per parte italiana Leonardo, Fincantieri, Snam, Cassa Depositi e Prestiti, Marcegaglia, Seda Group, UniCredit, Beltrame Group, ITA Airways, Generali, Gruppo Ferrovie dello Stato italiane, Brembo e Menarini, per quella tedesca Siemens AG, Open Grid Europe GmbH, Bayernets, 50Hertz Transmission GmbH, Deutsche Bank, Deutsche Lufthansa AG, Schaeffler AG, Renk e Deutsche Bahn.

L’impulso politico renderà questi rapporti più solidi, hanno promesso i due leader, ad esempio nel settore automobilistico, della digitalizzazione e della mobilità verde. Un’attenzione particolare potrebbe essere rivolta all’idrogeno verde, per il quale l’Italia ha già avviato numerosi progetti e la Germania ha programmato ingenti investimenti.
Focus centrale – e non poteva essere diversamente – il tema energetico. Sia Roma che Berlino vogliono espandere il loro approvvigionamento energetico, interiorizzando la lezione derivata dai rischi dall’eccessiva dipendenza da un forte fornitore, nel caso specifico dalla Russia per il gas. I progetti tra i due paesi sono stati studiati già nei mesi scorsi e discussi a livello ministeriale nel corso del vertice e includono la costruzione di un idrogenodotto tra il Nord Africa e la Baviera. L’infrastruttura transfrontaliera del gasdotto sarà ampliata per il cosiddetto Corridoio Idrogeno Centro-Sud (SCHC), che dalla Germania meridionale passerà per l’Italia e arriverà in Nord Africa, consentendo l’importazione di dieci milioni di tonnellate di idrogeno entro il 2030.
I paesi del Nord Africa giocano un ruolo importante nella rinnovata collaborazione fra Italia e Germania, come ha rimarcato Meloni durante la visita. Ci sono importanti punti di accordo per quest’area, in cui vi è necessità di avviare subito nuove forme di cooperazione, in particolare con i paesi della regione mediterranea e del Nord Africa, soprattutto sulle questioni energetiche.

L’importazione di energie rinnovabili dal Nord Africa dovrebbe inoltre collegare l’Italia e la Germania con l’Austria e la Svizzera e contribuire alla creazione di una più ampia rete europea dell’idrogeno. A tal fine, la Germania e l’Italia vogliono anche promuovere sulla sponda meridionale del Mediterraneo la produzione di energie rinnovabili, gas naturale e idrogeno.

“L’Italia – ha confermato Meloni – si candida a diventare un ponte con l’Europa per promuovere partenariati reciprocamente vantaggiosi, sostenendo la sicurezza energetica delle nazioni africane e mediterranee e le esportazioni di energia verde verso il resto del Vecchio Continente”.

Investimenti necessari anche per affrontare una delle emergenze che adesso Roma e Berlino avvertono con la stessa urgenza, quella della immigrazione. I toni restano diversi, su questo aspetto Scholz utilizza toni più morbidi, anche se nella sostanza il giro di vite interno proposto nei giorni scorsi costituisce una svolta rispetto alle politiche più aperte dell’era di Merkel. Da parte italiana è sempre forte il fastidio per i soccorritori marittimi tedeschi e Meloni continua a pensare che non ci sia abbastanza sostegno per frenare la migrazione illegale né da parte dell’Ue né da parte tedesca.
Ma sull’accordo Italia-Albania, accolto con forti critiche dall’opposizione di sinistra interna, non c’è stata alcuna presa di distanza da parte tedesca. Anzi, il cancelliere Scholz aveva detto nei giorni scorsi di osservare con attenzione lo sviluppo di tale accordo e, in alcuni settori dello stesso governo tedesco, non si esclude in futuro di poter sperimentare soluzioni simili.

Infine le questioni fiscali, un tempo temi centrali nei turbolenti rapporti italo-tedeschi. I ministri monitorati sono stati quelli delle Finanze, il leghista Giancarlo Giorgetti e il liberaldemocratico Christian Lindner, l’interlocutore presumibilmente più ostico di questo vertice per la controparte italiana, fautore del ritorno al tetto del debito in patria e del rigore finanziario. Il tg di Ard azzarda che proprio il buon feeling fra Scholz e Meloni potrebbe aiutare ad avvicinare le due parti su questi aspetti. In gioco l’intesa sulle nuove regole del patto di stabilità e crescita entro la fine dell’anno, su cui esercita un ruolo anche la triangolazione con la Francia.

6031.- Netanyahu umilia la Francia : meschina, ma non sbaglia, purtroppo

Quanto incidono le religioni sulla Guerra di Gaza e quanto è auspicabile una reciproca tolleranza fra le tre religioni monoteiste. L’articolo 19 della Costituzione italiana riconosce il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa e praticarne il culto, tranne ‘riti contrari al buon costume’, e vieta limitazioni normative nei confronti degli enti ecclesiastici, che possono organizzarsi secondo propri statuti. Netanyahu parla delle periferie di Parigi e delle enclavi terroristiche, e lancia un avvertimento alla Francia: “Hamas non si trova a migliaia di chilometri dalla Francia”.. e gli attentatori passano più o meno tutti da Lampedusa. Gli italiani temono un Natale di sangue? La questione è politica. Possiamo dire che sono più tranquilli i parigini a Parigi dei romani a Roma.

Da Boulevard Voltaire, di Arnaud Florac, 25 octobre 2023

Si è discusso molto, anche nelle colonne di BV, su quanto poco ci fosse da aspettarsi dal viaggio di Macron in Israele. Autoproclamato pacificatore, grande prestigiatore, il Presidente della Repubblica è stato probabilmente l’unico a credere nelle sue capacità negoziali e l’unico a pensare che potesse esserci qualcuno diverso dal capo del protocollo per l’accoglienza in fondo alla la rampa del Falcon. Abbiamo parlato molto, ma alla fine forse ci siamo sbagliati, perché la conferenza stampa di Emmanuel Macron e Benyamin Netanyahu ha riservato una grande sorpresa.

Infatti, quando Netanyahu ha parlato della pericolosità di Hamas, aveva bisogno di qualcosa di concreto affinché il messaggio potesse arrivare fino alla Francia. Anche se i media francesi sono tutti dalla parte di Israele, anche se cominciamo ad avere una comprensione corretta delle atrocità commesse da Hamas (per coloro che ancora dubitavano del suo status di gruppo terroristico), ciò non bastava. Questo è, in ogni caso, ciò che deve aver stimato il primo ministro israeliano. Così, dopo aver ricordato che anche la Francia è stata segnata nella carne dagli attentati, a Nizza in particolare, “Bibi” ha detto la verità. Una verità che stupirà solo i nostri concittadini più ciechi. “Hamas non è a migliaia di chilometri in Europa, Hamas è come Daesh nella periferia di Parigi. A Parigi guidi per venti minuti e arrivi in ​​una periferia ritenuta Daesh. Non possiamo vivere così. »
Netanyahu parla delle periferie di Parigi e delle enclavi terroristiche, e lancia un avvertimento alla Francia: “Hamas non si trova a migliaia di chilometri dalla Francia. Hamas è Daesh nella periferia di Parigi”.
L’ennesimo schiaffo somministrato senza slancio al presidente francese, questa volta dal leader di questo “popolo d’élite, sicuro di sé e dominante”, come ha detto il generale de Gaulle. “Non possiamo vivere così”, ha detto Netanyahu. Certamente. Lo capiamo. Fategli sapere – ma probabilmente lo sa – che anche noi non possiamo, non possiamo più vivere così, ma che alle autorità pubbliche non interessa affatto. Michel Onfray ha parlato di “guerra civile tranquilla” sul suolo francese: forse sarebbe più preciso parlare di una guerra civile nascosta, come gli scioperi della SNCF. Non è una guerra tutti i giorni, ma è regolare. È un 7 ottobre sparso: qui, lo stupro di una giovane donna francese da parte di un immigrato clandestino sotto OQTF; poi l’omicidio di un professore francese da parte di un dossier Singouche; poi ancora uno stupro di due novantenni francesi da parte di un lavoratore illegale ai sensi dell’OQTF; all’inizio dell’anno, stupro e omicidio di una ragazzina di 12 anni da parte di una donna algerina sotto l’OQTF; omicidio di un uomo coraggioso alle feste di Bayonne da parte di un uomo già condannato al carcere per stupro, rilasciato dopo due anni; un pensionato picchiato a morte da tre minatori stranieri… e parliamo solo dei fatti più pubblicizzati. Quindi no, non capita tutti i giorni, e non è sempre in nome dell’Islam, ma è sempre una guerra di stranieri contro i francesi, su una terra che ci appartiene e sulla quale chiediamo solo il diritto di restare in vita. Uccidere qualcuno per quello che è è la definizione di genocidio. In questo senso, il termine “francocidio” inventato da Éric Zemmour è lungi dall’essere scandaloso.

Netanyahu è un ex tenente del Sayeret Matkal, le forze speciali dell’IDF. Ha perso suo fratello in guerra. Sa quanto costa la lotta per la sopravvivenza del suo popolo. La sua frase, probabilmente pensata a lungo, è ingiuriosa, meschina, che dir si voglia… ma tragicamente vera. E non faremo nulla.

Parigi: la polizia ferisce gravemente una donna minacciosa e completamente velata

Velo islámico: diferencias entre hiyab, burka, niqab y chador

31 ottobre

Martedì mattina, a Parigi, si è svolto un episodio di intolleranza religiosa che ha visto protagonista una donna musulmana. Secondo CNews, la polizia di Parigi ha aperto il fuoco su una donna completamente velata che faceva commenti minacciosi sui trasporti pubblici, alla stazione della RER Biblioteca François Mitterrand. Questa donna sarebbe gravemente ferita.

L’episodio è avvenuto su un treno della RER C. Secondo l’accusa, i testimoni hanno riportato che la donna avrebbe gridato al loro indirizzi minacce di morte inframmezzandole al grido di “Allah Akbar”. Le chiamate di soccorso dei passeggeri menzionavano una donna “completamente velata” che “pronunciava minacce” ad alta voce. La polizia è riuscita a isolarla, ma lei “ha rifiutato di obbedire agli ordini della polizia”, ha detto a CNews una fonte che si è trovata vicina al caso. Secondo l’accusa la donna avrebbe minacciato di farsi esplodere. A questo punto, “temendo per la propria incolumità”, la polizia “ha usato la propria arma”, ha aggiunto questa fonte.

5983.- E se sull’Italia stesse per incombere la tempesta perfetta? Scrive Sisci

La guerra ha diviso l’Europa dalla Russia e, ora, la divide dal Medio Oriente e dal Mediterraneo. “L’ingresso dell’esercito israeliano a Gaza è solo una tappa di un processo che è molto più largo e che andrebbe arginato e fermato.”

Da Formiche.net, di Francesco Sisci, 14/10/2023 – 

E se sull’Italia stesse per incombere la tempesta perfetta? Scrive Sisci

La guerra a Gaza, sommata al perdurare della guerra in Ucraina, garantisce il governo. Ma sta emergendo una spaccatura culturale profonda in mezzo all’Europa su quale atteggiamento tenere con Israele e Hamas

È certo vero, come dice Luigi Bisignani, che la guerra a Gaza, sommata al perdurare della guerra in Ucraina, garantisce il governo. Durante la bufera non si cambia il capitano, come del resto accadde al governo di Giuseppe Conte salvato sull’orlo del baratro dal Covid-19.

Ma forse c’è qualcosa di più profondo in gioco, come nota Stefano Folli oggi. C’è una spaccatura culturale profonda in mezzo all’Europa su quale atteggiamento tenere con Israele e Hamas. Ciò poi si innesta sui rigurgiti di antichi pregiudizi antisemiti e su legittime perplessità per le passate azioni di alcuni governi israeliani.

Si compone così una mistura infernale che ingenuamente o surrettiziamente giustificano Hamas e non versano una lacrima sul suo spietato e orrifico attacco terroristico contro civili a casa o in festa.

La mistura non è sola, ma arriva su un’altra spaccatura profonda che sta lacerando l’Europa da un anno e mezzo, quella della guerra in Ucraina.

La divisione di campo coincide spesso, chi è freddo con l’Ucraina è solidale con Hamas e viceversa. Le ragioni sono diverse ma pare che si rinforzino a vicenda. Si approfondisce così il fronte culturale di una nuova guerra fredda dove sì, c’è la Cina, lontano, all’orizzonte, ma ci sono tante battaglie che si combattono intorno al grande Mediterraneo.

Qui c’è il rischio che esplodano di nuovo gli scontri tra Serbia e Kossovo, ma soprattutto l’Italia può tornare campo di battaglia nel cuore dell’Europa.

In Italia, forse come in nessun altro Paese europeo, le spaccature culturali sono gravi e travolgono e inquinano il dibattito pubblico. C’è una fragilità culturale prima che politica che si innesta con una situazione economica molto traballante.

L’esplodere in mezzo mondo di proteste a favore di Hamas forse non è da ridurre a un complotto qualche grande vecchio a Dubai o nella Striscia di Gaza. È da ricondurre, più profondamente e gravemente al contagio culturale di alcune parole d’ordine che si diffondono oggi su Internet molto meglio che ai tempi dei giornali di carta.

Questo contagio culturale è forte in Italia ed appare incontrollato. Quindi forze internazionali, per mille motivi, potrebbero cercare di fare esplodere la situazione italiana spingendo sulla facile leva del debito o delle tante tensioni sociali in ebollizione.

Il paradosso finora è stato che il governo, pur avendo interesse alla propria permanenza al potere, e quindi in teoria a calmare le acque; invece, è stato forse il più forte animatore di ogni tipo di polemica. Tali controversie non colpiscono le opposizioni, che anzi sono legittimate da ciò, ma feriscono per prime il governo di Giorgia Meloni.

Soprattutto tali polemiche creano il carburante altamente infiammabile che nutrono la fiamma della battaglia culturale in corso.

Al di là dei calcoli di breve tempo, il governo dovrebbe cominciare a voltare pagina sul filone delle polemiche incendiarie. L’ingresso dell’esercito israeliano a Gaza è solo una tappa di un processo che è molto più largo e che andrebbe arginato e fermato.

La “conquista” culturale dell’Italia poi è una medaglia preziosa. Culla della civiltà occidentale, dagli antichi greci, passando per Roma e il Rinascimento, fino alle soglie dell’illuminismo, l’Italia è l’àncora culturale profonda della potenza incombente, gli Stati Uniti, ma anche di una potenza concorrente, la Russia, con capitale Mosca, la terza Roma.

Ma questa culla culturale si è quasi desertificata e può essere terra di conquista di ogni estremismo e faciloneria. Da qui vengono gli scossoni più profondi e drammatici per il Paese e il governo.

5971.- SCOTT RITTER: L’enorme fallimento dell’intelligence di Israele

L’ONU ha condannato il blocco agli aiuti umanitari per la popolazione di Gaza. Le decise prese di posizione del presidente Meloni a favore di Israele e contro le crudeltà di Hamas lasciano intendere che l’intelligence dell’Italia abbia la situazione in pugno.

Di Redazione Blog di Sabino Paciolla| 11 Ottobre 2023

Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog l’articolo scritto da Scott Ritter,ex ufficiale dei servizi segreti del Corpo dei Marines degli Stati Uniti,  e pubblicato su Consortium News. Visitate il sito e valutate liberamente le varie opzioni offerte e le eventuali richieste. Ecco l’articolo nella nostra traduzione. 

intelligence spionaggio militare guerra
Army Photo by Maj. Gregg Moore

Le origini del fallimento dell’intelligence israeliana sugli attacchi di Hamas possono essere ricondotte alla decisione di affidarsi all’IA invece che all’analisi contraria nata dal precedente fallimento dell’intelligence nella guerra dello Yom Kippur del 1973.

Man mano che la portata e le dimensioni dell’attacco a sorpresa di Hamas contro Israele diventano più chiare, una domanda emerge più di ogni altra dai detriti del campo di battaglia: Come ha fatto un’impresa così massiccia e complessa a sfuggire all’attenzione dei famosi servizi segreti israeliani? 
Una domanda altrettanto importante è: perché questo attacco non è stato individuato anche dalla comunità di intelligence degli Stati Uniti, visti i massicci investimenti fatti per contrastare il terrorismo dopo gli attacchi terroristici alla patria americana dell’11 settembre 2001? 
Le risposte risiedono nella storia del successo di cui Israele ha goduto nell’identificare e rispondere alle operazioni di Hamas in passato, successo che si è manifestato in una cultura di compiacenza, che ha portato alla morte di centinaia di cittadini israeliani – proprio le persone che i servizi di intelligence erano impegnati a proteggere.
Il fatto che questo attacco sia avvenuto a 50 anni e un giorno da quando Israele ha subito quello che fino a quel momento era stato il più grande fallimento dell’intelligence israeliana, la guerra dello Yom Kippur del 1973, non fa che rafforzare la profondità del fallimento che si è verificato.

I risultati della Commissione Agranat

Nelle settimane successive alla fine della guerra dello Yom Kippur, il governo del Primo Ministro Golda Meir formò una commissione d’inchiesta guidata da Shimon Agranat, il giudice capo della Corte Suprema israeliana. La Commissione Agranat, come fu successivamente chiamata, si concentrò sulle analisi errate condotte dalla direzione dell’intelligence militare israeliana (AMAN), con particolare attenzione a Eli Zeira, il capo del Dipartimento di Ricerca e Analisi dell’AMAN, o RAD.
Zeira fu il principale artefice di quello che divenne noto come “il concetto”, un’adesione dogmatica a un paradigma analitico che, fino all’ottobre 1973, si era dimostrato affidabile negli anni successivi alla vittoria di Israele nella guerra dei sei giorni del 1967. 
Il “concetto” sosteneva che gli eserciti arabi, pur possedendo una limitata capacità di iniziare una guerra con Israele, non erano pronti per una guerra totale, e come tali avrebbero evitato di impegnarsi in azioni che logicamente avrebbero portato a una guerra totale con Israele. 
Gli analisti del RAD sono stati criticati per l’eccessivo affidamento sul ragionamento induttivo e sull’intuizione e per il mancato utilizzo di una metodologia deduttiva strutturata. Una delle conclusioni raggiunte dalla Commissione Agranat fu la necessità di utilizzare le cosiddette tecniche analitiche strutturate, in particolare la cosiddetta “Analisi delle ipotesi concorrenti”.

Ciò si è manifestato con lo sviluppo all’interno dell’AMAN di una cultura del pensiero contrario, costruita intorno al pensiero critico per sfidare le valutazioni unitarie e il pensiero di gruppo. 
Gli Stati Uniti hanno anche esaminato le cause alla radice dei loro fallimenti di intelligence riguardo alla guerra dello Yom Kippur. Una valutazione a più agenzie del fallimento dell’intelligence dell’ottobre 1973, pubblicata dagli Stati Uniti nel dicembre di quell’anno, concludeva che il problema all’epoca non era l’incapacità di raccogliere o anche solo di valutare accuratamente i dati dell’intelligence: infatti, secondo il rapporto, le prove di un attacco a sorpresa da parte degli eserciti di Egitto e Siria erano state “abbondanti, minacciose e spesso accurate” e gli analisti dell’intelligence statunitense avevano discusso e scritto su queste prove. 
Alla fine, però, il rapporto del dicembre 1979 affermava che gli analisti statunitensi – come le loro controparti israeliane – avevano concluso che non ci sarebbe stato alcun attacco, conclusioni che, come si legge nel post-mortem, “erano semplicemente, ovviamente e clamorosamente sbagliate”.
Alcune delle criticità emerse da questa valutazione sono state: l’eccessiva fiducia degli analisti statunitensi nel fatto che Israele conosca la propria posizione di sicurezza; il fatto che gli analisti avessero sposato nozioni preconcette sulle capacità militari arabe; la tendenza a interpretare in modo plausibile le stesse prove; l’incapacità degli analisti di sfidare la fallacia dell’”attore razionale”.

Israele e Stati Uniti ai ferri corti

Negli anni successivi alla guerra dello Yom Kippur, le comunità di intelligence di Israele e degli Stati Uniti hanno stabilito una propria “attrazione” gravitazionale, con Israele che ha utilizzato una metodologia di previsione e valutazione delle minacce che ha sostenuto le decisioni di intervenire militarmente in Libano, mettendosi spesso in contrasto con i responsabili politici statunitensi. 
La politica di Washington si basava sui briefing degli analisti dell’intelligence statunitense, che avevano sviluppato una cultura di minimizzazione dell’intelligence israeliana a favore della propria. Il conseguente divario negli approcci analitici e nelle conclusioni ha portato alla crisi dell’intelligence del 1990-1991 sulla minaccia rappresentata dai missili SCUD iracheni.
Questa crisi si basava sulle diverse priorità attribuite alla minaccia SCUD, sia nella fase di preparazione che in quella di esecuzione (a prescindere dagli obiettivi militari) dell’Operazione Desert Storm, la campagna guidata dagli Stati Uniti per sgomberare le forze irachene dal Kuwait condotta nel gennaio-febbraio 1991. 
Queste differenze si sono esacerbate solo negli anni successivi alla fine di quel conflitto, quando sia gli Stati Uniti che Israele hanno lottato su come rispondere al meglio alla minaccia delle armi di distruzione di massa irachene, compresi i missili SCUD.
In quel periodo sono stato al centro della controversia tra Stati Uniti e Israele in materia di intelligence, essendo stato coinvolto nelle Nazioni Unite per creare una capacità di intelligence indipendente a sostegno dello sforzo di disarmo dell’Iraq basato sulle ispezioni.

Dal 1991 al 1998, ho svolto un delicato lavoro di collegamento sia con la C.I.A. che con l’AMAN, trovandomi spesso nel mezzo dello scontro culturale che si era creato tra le due organizzazioni. 
Questo scontro a volte assumeva la forma di una commedia da vaudeville, come quella volta che dovetti essere accompagnato fuori dalla porta sul retro di un edificio dell’AMAN per evitare di essere visto dal capo della stazione della C.I.A., che era arrivato per scoprire quali informazioni gli israeliani stavano condividendo con me. 
In un’altra occasione, mi ero imbattuto per le strade di Tel Aviv in un gruppo di analisti della C.I.A. che mi avevano dato consigli su una particolare ispezione in corso di pianificazione. Erano critici nei confronti dell’intelligence israeliana che stavo usando per sostenere questa missione. 
Lo scopo della loro visita era quello di fare pressione su Israele affinché interrompesse il flusso di informazioni alle Nazioni Unite attraverso di me, sostenendo che, in quanto cittadino statunitense, avrei dovuto ottenere le informazioni da fonti statunitensi e che quindi Israele avrebbe dovuto trasmettermi tutte le informazioni attraverso di loro. Il nostro incontro, si è scoperto, non è stato “casuale”, ma piuttosto organizzato dagli israeliani, a mia insaputa, affinché io fossi consapevole della doppiezza delle mie controparti statunitensi.

Questa duplicità ha portato a interazioni di carattere più inquietante, con la C.I.A. che ha dato il via libera a un’indagine dell’F.B.I. sulle accuse di spionaggio per conto di Israele. Le azioni degli Stati Uniti non avevano nulla a che fare con le genuine preoccupazioni di spionaggio da parte mia, ma piuttosto facevano parte di una campagna più ampia volta a minimizzare l’influenza dell’intelligence israeliana su uno sforzo ispettivo delle Nazioni Unite che gli Stati Uniti ritenevano dovesse invece marciare al ritmo di un tamburo dettato dall’intelligence statunitense.

La CIA contro i servizi segreti israeliani

L’astio che esisteva all’interno della C.I.A. nei confronti dell’intelligence israeliana era reale e si basava sui diversi approcci politici adottati dalle due nazioni riguardo al ruolo degli ispettori di armi e alle armi di distruzione di massa irachene. 
Gli Stati Uniti erano impegnati in una politica di cambio di regime in Iraq e utilizzavano le ispezioni sulle armi come veicolo per continuare le sanzioni economiche volte a contenere il governo di Saddam Hussein e come fonte di intelligence unica che avrebbe potuto consentire agli Stati Uniti di effettuare operazioni volte a rimuovere Saddam Hussein dal potere.
Gli israeliani erano concentrati esclusivamente sulla sicurezza di Israele. Sebbene nei primi due anni successivi alla fine di Desert Storm gli israeliani avessero preso in considerazione l’opzione di un cambio di regime, nel 1994 avevano stabilito che il modo migliore di procedere era quello di collaborare con gli ispettori delle Nazioni Unite per ottenere l’eliminazione verificabile delle armi di distruzione di massa irachene, compresi i missili SCUD.
Una delle manifestazioni più evidenti della differenza di approccio tra la C.I.A. e Israele riguardava l’impegno che avevo condotto per la contabilità dell’arsenale missilistico SCUD dell’Iraq. 
Nel novembre 1993, fui convocato alla Casa Bianca per informare un gruppo della C.I.A., guidato da Martin Indyk e Bruce Reidel, sulla mia indagine, che aveva concluso che tutti i missili iracheni erano stati registrati.

La C.I.A. respinse le mie scoperte, dichiarando che la loro valutazione della capacità missilistica SCUD irachena era che l’Iraq manteneva una forza di 12-20 missili insieme a diversi lanciatori, e che questa valutazione non sarebbe mai cambiata, a prescindere dal mio lavoro di ispettore. 
Al contrario, quando mi sono recato in Israele per la prima volta, nell’ottobre 1994, sono stato contattato dal capo dell’AMAN, Uri Saguy, in merito alla mia valutazione sulla contabilità dei missili SCUD dell’Iraq. Ho dato al direttore dell’AMAN lo stesso briefing che ho dato alla C.I.A.
Saguy, accompagnato dall’allora capo della RAD, Yaakov Amidror, accettò in toto le mie conclusioni e le utilizzò per informare il primo ministro israeliano.
La mia esperienza con l’intelligence israeliana è molto più rivelatrice della mia contemporanea esperienza con la C.I.A., se non altro perché gli israeliani stavano cercando di risolvere un problema di intelligence (quale fosse il reale stato delle armi di distruzione di massa irachene), mentre gli Stati Uniti stavano cercando di attuare una decisione politica riguardante il cambio di regime in Iraq.
Tra il 1994 e il 1998, ho effettuato 14 viaggi in Israele dove ho lavorato a stretto contatto con l’AMAN, informando personalmente due direttori (Saguy e, dal 1995, Moshe Ya’alon), due capi del RAD (Yaakov Amidror e Amos Gilad) e sviluppando uno stretto rapporto di lavoro con analisti e operatori di diverse organizzazioni di intelligence israeliane, tra cui la leggendaria Unità 8200 – l’unità di intelligence dei segnali di Israele.

Un attore razionale

Gli israeliani mi hanno informato ampiamente sulla loro metodologia post-guerra dello Yom Kippur, in particolare sul loro nuovo approccio contrario all’analisi. Uno degli aspetti più interessanti di questo approccio è stata la creazione di una postazione, nota all’interno dell’AMAN come “il Tommaso dubbioso” (derivata dal Nuovo Testamento della Bibbia, quando Tommaso – uno dei 12 apostoli di Gesù – non avrebbe creduto che Gesù fosse tornato dalla morte finché non lo avesse visto). 
Mi è stato presentato il colonnello che aveva questo ingrato compito, spiegandomi che riceveva ogni briefing prima che fosse consegnato al direttore e procedeva a mettere in discussione conclusioni e affermazioni. Le sue domande dovevano avere una risposta soddisfacente prima che il briefing potesse essere trasmesso. 
Fu questo colonnello che contribuì a formulare la conclusione israeliana secondo cui Saddam Hussein era un attore razionale che non avrebbe cercato un conflitto più ampio con Israele che avrebbe potuto portare alla distruzione della sua nazione – ironicamente abbracciando le stesse conclusioni da “attore razionale” che erano state erroneamente raggiunte nel periodo precedente la guerra dello Yom Kippur. In questa occasione, l’analisi era corretta.
L’analisi prodotta dal “Tommaso dubbioso” ha permesso agli israeliani di considerare la possibilità di un cambiamento di approccio nei confronti di Saddam Hussein. Tuttavia, non ha ridotto la vigilanza dell’intelligence israeliana nel garantire che questa valutazione fosse e rimanesse accurata.

Ho lavorato a stretto contatto con l’AMAN e l’Unità 8200 per mettere a punto un piano di raccolta di informazioni che utilizzasse immagini, informazioni tecniche, umane e segnali per accertare le capacità e le intenzioni irachene. Sono stato personalmente testimone della diligenza con cui gli analisti e i raccoglitori israeliani hanno portato avanti la loro missione. Letteralmente, nessuna pietra è stata lasciata intentata, nessuna tesi è stata lasciata inesplorata. 
Alla fine, gli israeliani sono stati in grado di corroborare le conclusioni di Uri Saguy del 1994 sulla contabilità dei missili SCUD iracheni con la loro analisi dettagliata derivata dall’intelligence raccolta con i loro mezzi e da quella raccolta grazie alla collaborazione con me e altri ispettori delle Nazioni Unite.
Questo successo si è rivelato fatale per Israele e ha contribuito al fallimento dell’intelligence statunitense e israeliana nel prevedere gli attacchi di Hamas del 2023, simili a quelli dello Yom Kippur. 
Nel 1998 Yaakov Amidror fu sostituito alla guida del RAD da Amos Gilad. Mentre Amidror abbracciava pienamente l’approccio contrario adottato da RAD e AMAN quando si trattava di produrre analisi di intelligence, Gilad aveva una mentalità diversa, ritenendo che il rapporto della Commissione Agranat avesse limitato l’intelligence israeliana dall’adattarsi alle nuove sfide. 
Riteneva che il trauma dello Yom Kippur avesse portato l’AMAN ad adottare un approccio analitico conservatore e minimalista, concentrandosi sull’analisi delle capacità e trascurando le intenzioni, con conseguenti conclusioni troppo caute.

Non un attore razionale

Gilad era più incline ad abbracciare le valutazioni della C.I.A. sulla minaccia rappresentata da Saddam Hussein e lavorò con la C.I.A. per smantellare la collaborazione tra gli ispettori delle Nazioni Unite e l’AMAN. 
All’indomani degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti, Gilad aveva gettato via la precedente conclusione che Saddam era un attore razionale e, in quanto tale, non aveva rappresentato una minaccia per Israele (una valutazione sostenuta dalla conclusione raggiunta attraverso l’ampia cooperazione tra gli ispettori delle Nazioni Unite e l’AMAN che l’Iraq non possedeva quantità vitali di armi di distruzione di massa e che non c’era alcuno sforzo da parte dell’Iraq per ricostituire in modo significativo la capacità industriale di produrre armi di distruzione di massa). 
Invece, Gilad ha dipinto un quadro privo di fatti che postula Saddam come una minaccia degna di un intervento militare, contribuendo così a sostenere l’intelligence statunitense che ha giustificato un’invasione dell’Iraq guidata dagli Stati Uniti.
Il fatto che l’intelligence sulle capacità irachene di distruzione di massa, utilizzata per giustificare l’invasione statunitense dell’Iraq, si sia poi rivelata sbagliata, non ha minato il ritrovato ardore tra l’intelligence statunitense e quella israeliana. 
L’obiettivo politico di un cambio di regime era stato raggiunto, e come tale non importava che il prodotto analitico su cui si era fatto affidamento per le valutazioni errate fosse sbagliato.

Nel periodo precedente la guerra dello Yom Kippur del 1973, l’AMAN aveva ignorato una pletora di rapporti di intelligence che prevedevano gli attacchi arabi. Poiché le conseguenze di questo errore avevano provocato un imbarazzo politico israeliano, è stata chiamata in causa e si è cercato di porvi rimedio.

Nessun imbarazzo, a differenza dello Yom Kippur

Il periodo che ha preceduto l’invasione dell’Iraq nel 2003 è stato diverso. L’AMAN aveva ignorato il proprio considerevole corpo di prove, accumulato in anni di stretta collaborazione con gli ispettori delle Nazioni Unite, che dimostravano che l’Iraq non possedeva quantità significative di armi di distruzione di massa, né il desiderio di ricostituire le capacità produttive necessarie per il loro riacquisto. 
Ma poiché le conseguenze di questo fallimento non si sono manifestate in un imbarazzo politico in Israele, a differenza dello Yom Kippur, questo fallimento è stato ignorato.
Anzi, il principale responsabile di questo fallimento, Amos Gilad, è stato elevato nel 2003 a capo del potente Ufficio Affari politico-militari, posizione che ha ricoperto fino al 2017. Durante il suo mandato, si dice che Gilad abbia avuto più influenza sulla politica di chiunque altro. Ha contribuito a rafforzare i legami tra le comunità di intelligence statunitensi e israeliane e ha riportato Israele alla prassi precedente alla guerra dello Yom Kippur, che prevedeva un eccessivo affidamento sul ragionamento induttivo e sull’intuizione, privo di una metodologia deduttiva strutturata.
Una delle principali conseguenze del lungo mandato di Gilad a capo dell’Ufficio politico-militare è stata la risubordinazione della comunità di intelligence statunitense ai giudizi analitici israeliani, sulla base del fatto che Israele conosceva meglio di chiunque altro le minacce che doveva affrontare. 

Questa realtà si è manifestata nelle parole del consigliere per la sicurezza nazionale statunitense Jake Sullivan, intervenuto al The Atlantic Festival una settimana prima degli attacchi di Hamas, quando ha concluso ottimisticamente che “la regione mediorientale è più tranquilla oggi di quanto non lo sia stata negli ultimi vent’anni”, aggiungendo che “la quantità di tempo che devo dedicare alle crisi e ai conflitti in Medio Oriente oggi, rispetto a tutti i miei predecessori che risalgono all’11 settembre, è significativamente ridotta”.
Il fondamento dell’ottimismo errante di Sullivan sembrava essere una politica congiunta USA-Israele che cercava la normalizzazione delle relazioni tra Israele e il mondo arabo, in primo luogo con l’Arabia Saudita. 
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che per più di tre decenni è stato il manifesto della sicurezza israeliana, ha creduto nell’idea della normalizzazione con i sauditi come componente chiave di un riallineamento strategico del potere in Medio Oriente lontano dall’Iran e verso Israele. 
Questa fede nell’imperativo della normalizzazione è stata una vivida dimostrazione di come la nuova enfasi di Israele sulle intenzioni rispetto alle capacità lo abbia reso cieco di fronte alla realtà delle minacce provenienti da Gaza. 
Allo stesso modo, il fatto che gli Stati Uniti avessero ancora una volta subordinato la loro analisi delle minacce alle conclusioni israeliane – specialmente in circostanze in cui Israele non vedeva alcun pericolo immediato – significava che gli Stati Uniti non dedicavano troppo tempo alla ricerca di indicazioni che potessero contraddire le conclusioni israeliane.

Superare l’intelligenza artificiale

Ma forse la fonte maggiore del fallimento dell’intelligence israeliana riguardo ad Hamas è stata l’eccessiva fiducia che Israele ha riposto nella raccolta e nell’analisi dell’intelligence stessa. Gaza e Hamas sono stati per anni una spina nel fianco di Israele e come tali hanno attirato l’attenzione dei servizi di sicurezza e di intelligence israeliani.
Israele ha perfezionato l’arte dell’intelligence umana contro l’obiettivo di Hamas con una comprovata esperienza nel collocare agenti in profondità nella gerarchia decisionale di Hamas. 
L’Unità 8200, inoltre, ha speso miliardi di dollari per creare capacità di raccolta di informazioni che aspirano ogni singolo dato digitale proveniente da Gaza: telefonate, e-mail e SMS. Gaza è il luogo più fotografato del pianeta e, tra immagini satellitari, droni e telecamere a circuito chiuso, si stima che ogni metro quadrato di Gaza venga ripreso ogni 10 minuti.
Questa quantità di dati è eccessiva per le tecniche di analisi standard che si affidano alla mente umana. Per compensare questa situazione, Israele ha sviluppato un’enorme capacità di intelligenza artificiale (AI) che ha poi armato contro Hamas nel breve ma mortale conflitto di 11 giorni con Hamas nel 2021, chiamato Guardian of the Walls. 
L’Unità 8200 ha sviluppato diversi algoritmi unici che hanno utilizzato immensi database derivati da anni di dati di intelligence grezzi raccolti da ogni possibile fonte di informazione.

Basandosi sui concetti di apprendimento automatico e di guerra basata su algoritmi che sono stati all’avanguardia nella ricerca e nello sviluppo militare israeliano per decenni, l’intelligence israeliana è stata in grado di utilizzare l’intelligenza artificiale non solo per selezionare gli obiettivi, ma anche per anticipare le azioni di Hamas. 
Questa capacità di prevedere il futuro, per così dire, ha contribuito a plasmare le valutazioni israeliane sulle intenzioni di Hamas in vista degli attacchi dello Yom Kippur del 2023.
L’errore fatale di Israele è stato quello di vantarsi apertamente del ruolo svolto dall’AI nell’operazione Guardian of the Walls. Hamas è stato apparentemente in grado di prendere il controllo del flusso di informazioni raccolte da Israele. 
Si è speculato molto sul fatto che Hamas avrebbe “oscurato” l’uso di telefoni cellulari e computer per negare a Israele i dati contenuti in questi mezzi di comunicazione. Ma il “buio” sarebbe stato, di per sé, un indicatore di intelligenza, che l’IA avrebbe certamente colto.

È invece molto probabile che Hamas abbia mantenuto un elaborato piano di inganno sulle comunicazioni, mantenendo un livello di comunicazioni sufficiente in quantità e qualità per evitare di essere individuato dall’IA – e dagli analisti israeliani che si discostano dalla norma.
Allo stesso modo, Hamas avrebbe probabilmente mantenuto il suo profilo fisico di movimento e attività per far sì che gli algoritmi dell’IA israeliana fossero convinti che non ci fosse nulla di strano. 
Ciò significava anche che qualsiasi attività – come l’addestramento relativo al parapendio o alle operazioni anfibie – che avrebbe potuto essere rilevata e segnalata dall’IA israeliana, veniva svolta per evitare il rilevamento.
Gli israeliani erano diventati prigionieri dei loro stessi successi nella raccolta di informazioni. 
Producendo una quantità di dati superiore a quella che le metodologie analitiche standard basate sull’uomo potevano gestire, gli israeliani si sono rivolti all’IA per ottenere assistenza e, a causa del successo dell’IA durante le operazioni del 2021 contro Gaza, hanno sviluppato un’eccessiva fiducia negli algoritmi basati su computer per scopi operativi e analitici.

Passaggio dal Contrario

Le origini dell’enorme fallimento dell’intelligence israeliana riguardo agli attacchi di Hamas dello Yom Kippur del 2023 possono essere rintracciate nella decisione di Amod Gilad di separarsi dall’eredità dell’analisi contraria nata dal fallimento dell’intelligence della Guerra dello Yom Kippur del 1973, che ha prodotto lo stesso eccessivo affidamento sul ragionamento induttivo e sull’intuizione, che ha portato al fallimento iniziale.
L’intelligenza artificiale è buona solo quanto i dati e gli algoritmi utilizzati per produrre i rapporti. Se la componente umana dell’IA – coloro che programmano gli algoritmi – è corrotta da metodologie analitiche errate, lo sarà anche il prodotto dell’IA, che replica queste metodologie su scala più ampia. 
Nel primo volume di The Gathering Storm, la storia completa della Seconda guerra mondiale di Winston Churchill, il leader britannico della Seconda guerra mondiale dice: “È una battuta in Gran Bretagna dire che il War Office si prepara sempre per l’ultima guerra”. 
Dato che la natura umana è quella che è, la stessa battuta può essere tragicamente applicata ai servizi militari e di intelligence israeliani in vista degli attacchi di Hamas dello Yom Kippur del 2023. Sembra che gli israeliani fossero singolarmente concentrati sui successi ottenuti nell’Operazione Guardian Walls del 2021 e sul ruolo svolto dall’IA nel conseguire tale successo.

Negando il beneficio dell’approccio contrario all’analisi messo in atto all’indomani della Commissione Agranat, Israele si è preparato al fallimento non immaginando uno scenario in cui Hamas avrebbe capitalizzato l’eccessivo affidamento israeliano sull’IA, corrompendo gli algoritmi in modo tale da accecare i computer, e i loro programmatori umani, sulle vere intenzioni e capacità di Hamas. 
Hamas è stato in grado di generare un vero e proprio fantasma nella macchina, corrompendo l’IA israeliana e preparando il popolo e le forze armate israeliane a uno dei capitoli più tragici della storia della nazione israeliana.

Scott Ritter

5922.- Perché Salvini sbraita sul Brennero

Divieto di circolazione TIR sul Brennero

Sul Brennero le ordinanze dell’Austria istituiscono divieti di transito per motivi ambientali ai Tir con l’intento di ridurre l’inquinamento, ma creano molti disagi sopratutto sullo scambio di merci tra Italia e Germania. Il divieto vale nella tratta dell’autostrada Inntal A 12, dal chilometro 6,35 (comune di Langkampfen), fino al chilometro 72,00 (comune di Ampass). Mentre l’Austria moltiplica le ordinanze per abbattere il flusso di Tir, da qualche mese Matteo Salvini si è fatto paladino del libero passaggio.

Divieto di circolazione Tir sul Brennero in vigore sull'Autostrada Inntal A12
L’Autostrada Inntal A12

La circolazione sull’autostrada è vietata, in ambo i sensi di marcia e con alcune deroghe agli autocarri con questa tipologia di carico:

  1. Tutti i rifiuti che rientrano nel catalogo europeo dei rifiuti (ai sensi della delibera della Commissione sul catalogo dei rifiuti, 2000/532/CE, nell’ultima versione emendata secondo la delibera della Commissione 2014/955/UE)
  2. Pietre, terra e scavi
  3. Legname sotto forma di tronchi e sughero
  4. Veicoli delle categorie e sotto categorie L1e, L2e, L3e, L4e, L5e, L6e, L7e, M1, M2 e N1 ai sensi dell’§ 3 comma 1 della Legge sui veicoli del 1967
  5. Minerali ferrosi e non ferrosi
  6. Acciaio, ad eccezione di armature e acciaio da costruzione per la fornitura a cantieri
  7. Marmo e travertino
  8. Piastrelle di ceramica e a decorrere dal 1° gennaio 2020
  9. Carta e cartone
  10. Prodotti a base d’oli minerali fluidi
  11. Cemento, calce e gesso
  12. Tubature e profilati cavi
  13. Cereali

Una situazione critica con grandi attese per selezionare chi può transitare e chi no, sta generando caos, traffico e code chilometriche.

Si confrontano opposte esigenze. Per l’Italia il Brennero non può essere un imbuto: è la porta d’Europa. Mentre von der Leyen non ha aperto il procedimento d’infrazione eintende affrontare personalmente la questione, l’Italia accusa una concorrenza sleale agli imprenditori e alle merci italiane e intende aprire egualmente il procedimento d’infrazione.

Da Start Mag, 23 Settembre 2023, Il Taccuino di Federico Guiglia.

Perché Salvini sbraita sul Brennero

È il primo e più importante principio alle fondamenta dell’Unione europea: la libera circolazione delle merci introdotta nel 1957 dal Trattato di Roma, che istituì la Comunità Economica Europea, cioè la fonte materna dei 6 Paesi, Italia inclusa, che oggi sono diventati 27 e adulti.

L’AUSTRIA RESTRINGE IL BRENNERO, E ALLORA L’ITALIA…

Eppure da anni, e con motivazioni di natura ambientale che in realtà danneggiano la competitività italiana, cioè non rispettano un altro dei principi-cardine per i quali l’Europa ha abbattuto le sue frontiere nel comune interesse della crescita e delle esportazioni, l’Austria “restringe” il Brennero. Imponendo nuove limitazioni a quelle, controverse, che già da troppo tempo esistevano al passaggio dei mezzi pesanti.

“La situazione è drammatica, abbiamo code di 50 chilometri in Baviera”, ha protestato anche il ministro dei Trasporti tedesco, Volker Wissing.

Ma adesso, come sollecitavano le associazioni di categorie gravemente penalizzate dal blocco dei Tir alla frontiera, l’Italia ha deciso di ricorrere alla Corte di Giustizia europea contro i divieti unilaterali di Vienna.

L’ha annunciato il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, dopo averlo più volte minacciato nella speranza, rivelatasi vana, di trovare un’intesa con la controparte austriaca. Annuncio e polemica, perché Salvini dice che sarebbe toccato alla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, firmare l’avvio della procedura. Ma non l’ha fatto.

“Pontifica sui migranti a Lampedusa, poi permette i blocchi al Brennero”, attacca. E parla di “atto di violenza e arroganza da parte dell’Austria”.

Poi spiega: “L’ambiente non c’entra nulla, è solo concorrenza sleale nei confronti degli imprenditori e autotrasportatori italiani e tedeschi”.

IN COSA CONSISTE IL PROCEDIMENTO D’INFRAZIONE

Il procedimento d’infrazione è rivolto contro il blocco dell’asse portante fra il Nord e il Sud del continente. Un tema che vede insieme Italia e Germania, entrambe vittime della scelta austro-tirolese motivata dagli effetti dei Tir sull’ambiente e dall’invito a usare meno gomma e più rotaia. Obiettivo, peraltro, su cui tutti concordano. Da tempo economia e commercio hanno imboccato la via della sostenibilità ambientale nell’Europa intera. Dunque, anche sul Brennero si possono trovare soluzioni ragionevoli per tutti. Ma Vienna non ci sente.

Toccherà, perciò, alla giustizia europea stabilire come far valere il principio, non negoziabile nell’Ue, della libertà di circolazione.

Per l’Italia il Brennero non può essere un imbuto: è la porta d’Europa.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

5904.- La Francia in allerta su Lampedusa, come uno struzzo.

Come uno struzzo perché, una volta sbarcati in Italia, prima o poi saranno anche in Francia. Il governo tunisino deve onorare igli impegni presi con l’Italia, ma sembra comodare a tutti, in Francia, in Germania, in Italia, ignorare che i migranti sono lasciati partire da Sfax perché il ministero degli Interni della Tunisia non ha i soldi per pagare le sue Forze dell’Ordine. Per fare solidarietà attiva, bisogna mettere mano ai portafogli. Poi, soltanto l’attuazione del Nuovo Piano Mattei potrà far sì che l’invasione retroagisca.

L’Europa deve trasformarsi velocemente in uno stato sovrano, con un suo presidente eletto dai popoli, una sua sovranità, quindi, una sua politica estera e una sua difesa. Altro che eleggere e beneficare altri 705 eurodeputati! Non è in Ucraina che l’Europa difenderà le sue frontiere. Bisogna ridurre il divario economico fra le rive del Mediterraneo, dobbiamo dimenticare il paternalismo colonialista e creare sinergia fra i suoi popoli.

Migranti: il ministro dell’Interno francese ha convocato una riunione su Lampedusa

Darmanin ha convocato la riunione per fare il punto della situazione, cartografare gli impatti sulla Francia e valutare i dispositivi di controllo alla frontiera

15 Settembre 2023, da Agenzia Nova – Riproduzione riservata

Il ministro dell’Interno francese Gerald Darmanin ha convocato una riunione incentrata sulla situazione degli sbarchi di migranti a Lampedusa. Lo riferisce in anteprima l’emittente televisiva “Tf1”. All’incontro saranno presenti rappresentanti delle forze dell’ordine e la Direzione generale degli stranieri in Francia. Darmanin ha convocato la riunione per fare il punto della situazione, cartografare gli impatti sulla Francia e valutare i dispositivi di controllo alla frontiera.

Lampedusa : l’Italia alla prova del fuoco

Parigi, da Boulevard Voltaire, di Marie d’Armagnac, 14 septembre 2023. Traduzione automatica

Tra i 6.000 e i 7.000 immigrati clandestini sono sbarcati in meno di 48 ore, a Lampedusa, su questa piccola isola del Sud Italia che conta appena 6.000 abitanti. Questo confine marittimo italiano è anche la porta d’ingresso verso il Sud Europa e lo sanno bene i trafficanti e gli altri trafficanti che li spediscono dalla Libia, e soprattutto da Sfax, in Tunisia. Sfax dove, sotto gli occhi di tutti, vengono frettolosamente costruite queste barcone di ferro sulle quali verranno trasbordati i clandestini, una volta raggiunte le acque territoriali italiane.

Le immagini colpiscono: l’arrivo di oltre 110 barconi di migranti, il 12 e 13 settembre, verso il porto di Lampedusa, in coda alla banchina, il caos che ne è seguito, le forze di polizia sopraffatte, gli immigrati clandestini – a vedere le immagini, un stragrande maggioranza di giovani – lottare per una bottiglia d’acqua o un pasto (stiamo tranquilli la buona coscienza della sinistra, nessuno è stato privato di acqua e cibo), il clandestino appena sbarcato che mette le mani sul le natiche di un volontario venuto per aiutare a gestire il caos, il flusso continuo di clandestini in fuga dagli hotspot della piccola isola…

Come una rappresentazione delle scene più terribili del Campo dei Santi, questo romanzo tristemente premonitore di Jean Raspail e, soprattutto, un presagio della crisi migratoria in atto e che sembra assumere le stesse dimensioni di quella 2015, con le conseguenze che conosciamo.

Non sono mancate le reazioni dei tenori della maggioranza di governo italiana a queste terribili immagini che, in poche ore, hanno fatto il giro del mondo. Matteo Salvini tuona: “È un esodo di migranti pianificato dalla criminalità organizzata. È un atto di guerra […] quello che sta accadendo a Lampedusa è morte in Europa. Il neonato morto [un bambino di 5 mesi morto per annegamento, ndr] rappresenta la morte politica, culturale, sociale ed etica. […] L’Italia è sola. Francia e Germania? Non so dove sia finita la solidarietà. Se dobbiamo farlo da soli, non possiamo escludere alcuna modalità di intervento. »

Ciò significa che un intervento di tipo militare a difesa dei confini è possibile, data la totale assenza di solidarietà europea? E questa la solidarietà dei Paesi membri dell’Ue, che l’Onu, ma anche Roberta Metsola, presidente maltese del Parlamento europeo (Malta ha sempre rifiutato la minima nave di migranti sulle sue coste, rimandandola sistematicamente in Italia), o anche Antonio Tajani, italiano Ministro degli Affari Esteri, chiedono a gran voce che ciò si traduca in una redistribuzione forzata degli immigrati clandestini in tutta Europa, cosa che Polonia e Ungheria rifiutano, nonostante tutte le minacce di sanzioni finanziarie che fanno.

Chiacchere! Manca il coraggio di dire quanti milioni, quante centinaia di milioni di africani vogliono le comodità delle città europee e l’assistenza per tutta la vita.

Sembra che Giorgia Meloni abbia un’idea leggermente diversa. Intervenendo ieri su questo argomento su Rai 1, ha spiegato: “Avevo avvertito i miei partner europei che […] non avremmo potuto più continuare ad assumerci la responsabilità [della nostra Dublino] se l’Europa non ci avesse dato una mano per difendere la situazione esterna confini e, quindi, di fermare i movimenti primari [partenze dall’Africa, soprattutto Tunisia e Libia, ndr]. […] Per me il problema non è come liberarci del problema da un capo all’altro dell’Europa, l’unico modo per risolvere il problema per tutti è fermarli e fermare gli spostamenti primari [partenze dal continente di origine , ndr] e, quindi, arrivi in ​​Italia, […] e non vedo ancora una risposta concreta da parte dell’UE”…

E questo, nonostante gli accordi siglati su iniziativa del governo italiano tra l’UE e la Tunisia affinché quest’ultima possa organizzare la sorveglianza delle sue coste e impedire alle navi di salpare verso l’Italia. Curiosamente sembra che i soldi promessi ad una Tunisia incruenta e sull’orlo del collasso tarderanno ad arrivare….

Su questo tema Giorgia Meloni gioca evidentemente parte della sua credibilità in Italia: non aveva parlato diffusamente del blocco navale per fermare l’immigrazione clandestina? Per il momento, gli edifici della Marina Militare Italiana vengono utilizzati per alleviare la congestione a Lampedusa e trasportare i nuovi arrivati ​​in altre regioni italiane.

La storia scorre veloce.

Ieri, giovedì Giorgia Meloni, invitata da Viktor Orbán, è intervenuta al Summit sulla Demografia di Budapest: “Dobbiamo difendere la nostra identità, religiosa e familiare. Dobbiamo difendere i nostri diritti. Senza la nostra identità, senza famiglia, siamo numeri. Dobbiamo difendere Dio e le componenti della nostra civiltà. Vogliono convincerci che non apparteniamo al nostro tempo, ma si sbagliano di grosso. »

Intrappolato tra un’Unione Europea deliberatamente passiva e un’immigrazione africana di proporzioni sproporzionate, data la sua galoppante demografia, il governo italiano dovrà, prima o poi, ricorrere all’uso della forza. Altrimenti queste belle parole non saranno altro che parole vuote. A meno che non ci sia un ipotetico risveglio europeo…

Migranti, Von der Leyen tace sugli egoismi di Francia e Germania. FdI: “La Ue batta un colpo”

Da Il Secolo d’Italia, 13 Set 2023 12:28 – di Stefania Campitelli

Immigrazione, ambiente, Green Deal, femminicidi. Nel discorso sullostato dell’Unione del 2023 la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha delineato le priorità e le iniziative strategia per il prossimo anno. Si tratta dell’ultimo discorso di questo mandato legislativo prima delle elezioni europee del 2024. Mentre Lampedusa è di nuovo al collasso von der Leyen assicura sicurezza e umanità sul fronte dell’immigrazione. Ma non dice una parola sui ricatti di Berlino e Parigi,  che di fatto rinnegano gli accordi Ue.

Migranti, silenzio sui ricatti di Germania e Francia

Di fronte al nuovo record di sbarchi nell’isola siciliana con la Germania che chiude gli ingressi ai migranti italiani e la Francia che aumenta i presidi al confine con Ventimiglia la presidente Ue preferisce glissare e auto-incensarsi per l’ottimo lavoro svolto. “Un accordo sul patto non è mai stato così vicino. Dimostriamo che l’Europa può gestire la migrazione in modo efficace e compassionevole”. Così nel suo intervento, lanciando l’organizzazione di una Conferenza internazionale sulla lotta al traffico di esseri umani. Nessun accenno all’egoismo dei due Stati membri che ostacola l’avanzamento delle trattative a cui lavora da mesi il premier Meloni.

Ancora chiacchere! Migranti, domenica a Roma la prima conferenza internazionale del governo con von der Leyen, ma si comincia parlare di soldi: “L’Europa è con voi, tenete botta”. Von der Leyen alla Meloni: “Pronti 6 mld dal Next Generation Eu”

Von der Leyen: sui migranti l’accordo è vicino

Inevitabile la premesse sul prossimo voto per rinnovare il Parlamento di Strasburgo. “Insieme al Parlamento, agli Stati membri e alla mia squadra di commissari abbiamo realizzato oltre il 90% delle linee guidapolitiche che ho presentato nel 2019. Manteniamo gli impegni oggi e prepariamoci per domani”.

Green Deal, “manteniamo la rotto intrapresa”

“Sul Green Deal europeo manteniamo la rotta. Rimaniamo ambiziosi”, ha aggiunto la presidente della Commissione Ue. “Manteniamo la nostra strategia di crescita. E ci impegneremo sempre per una transizione giusta ed equa. Quando parlo con la nuova generazione di giovani, vedo la stessa visione di un futuro migliore. Lo stesso ardente desiderio di costruire qualcosa di migliore”. Poi ha assicurato che entrando nella fase successiva del Green Deal europeo, si continuerà a sostenere l’industria europea.

Cina, al via l’indagine anti-sovvenzioni

Riflettori puntati anche sulla Cina. Von der Leyen ha annunciato l’avvio di un’indagine anti-sovvenzioni nel settore elettrico dei veicoli provenienti dalla Cina. I mercati globali – ha detto – sono inondati di auto elettriche cinesi più economiche, a prezzi mantenuti artificialmente bassi da ingenti sussidi statali. Questo distorce il nostro mercato. E poiché non lo accettiamo dall’interno, non lo accettiamo dall’esterno”.

Il lapsus: “Honourable Member States…”

Infine un passaggio sulla violenza contro le donne. “Mi piacerebbe che fissassimo nella legge il principio che ‘no vuol dire no’. Non ci può essere vera eguaglianza senza libertà dalla violenza”. Infine una nota di colore. Il numero uno di Bruxelles è incappata in un lapsus. “Honourable Member States…”, cioè “cari Stati membri…”, ha detto a un certo punto, invece di ‘Honourable Members…”, “onorevoli deputati”. A rumoreggiare e alle risatine dell’Aula, la presidente ha ripreso subito il discorso. Sottolineando che Stati membri ed eurodeputati servono tutti lo stesso interesse, quello dell’Europa.

FdI: un manifesto elettorale, l’Europa batta un colpo

Sospeso il giudizio di Fratelli d’Italia-Ecr. “La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, nel discorso sullo stato dell’Unione, ha esposto una sorta di manifesto elettorale”, ha detto il capodelegazione Carlo Fidanza. “In parte condivisibile, in parte no, in parte in estremo ritardo”. Per il capogruppo di FdI alla Camera, Tommaso Foti, “quella dei flussi migratori è una situazione molto grave. Che deve avere una risposta in ambito europeo perché l’atteggiamento di Francia e Germania complica le cose. O l’Europa batte un colpo o diversamente lo dovrà battere autonomamente l’Italia. Anche oltre quello che l’Europa sta facendo o non facendo”.

5867.- Francia. Un diverso approccio al contrasto dell’immigrazione

Si diceva una volta “Paese che vai, usanze che trovi.” Ma l’immigrazione di migliaia e migliaia di maschietti, sbragati nei bar, con cellulari e collanine da soldi, toglie ai nostri poveri per dare ai ricchi di altre nazioni, ci fa stranieri in casa nostra e, ora, non solo in Italia, ma in tutta Europa, è un caos ovunque.

Il lassismo sostenuto da una minoranza politica venduta a chi può, si traduce agli occhi dei nuovi venuti in una licenza di fare qualunque nefandezza, a proprio comodo.

Se il cuore anela per il Nuovo Piano Mattei, la mente rifiuta i modelli del disordine e dell’illegalità. Ed è così che, anziché por mente agli investimenti bipartisan fra italiani, europei e africani, siamo costretti dai numeri a organizzare le espulsioni rapide. Era questo che volevano lassù?

Darmanin suggerisce ai sindaci della RN di ospitare centri per migranti!

Da Boulevard Voltaire, di Marc Baudriller 1 septembre 2023. Nostra traduzione libera.

I membri del Raggruppamento Nazionale sono favorevoli alla costruzione di nuovi centri, ma secondo la lettera del ministro dell’Interno nessun sindaco ha avanzato una richiesta ufficiale per ospitarne uno.

Un sasso grezzo lanciato nel giardino del Raduno Nazionale. Il ministro dell’Interno, molto creativo e ambizioso,è autore di una lettera indirizzata ai soli sindaci del Raggruppamento Nazionale, informa Europa 1. Il ministro chiede loro di aprire nella loro città i Centri di Detenzione Amministrativa (CRA), queste strutture accolgono i migranti in attesa di deportazione dal territorio nazionale. La trappola è tesa ai sindaci della RN: Se non proponete il vostro comune, non appoggiate la politica migratoria del governo, impedite alla Francia di espellere i clandestini, vi opponete alla politica che voi stessi raccomandate per il Paese. Se li accetti, i tuoi elettori ti daranno la colpa.

Missiva infuocata

Perché Darmanin stesso è un efficace baluardo contro l’immigrazione. Almeno questo è ciò che intende dimostrare. Al contrario, la destra e, in particolare, la Marina Militare sguazzano nella doppiezza. Il Parlamento ha infatti adottato “una legge di programmazione e orientamento del Ministero dell’Interno che fissa l’obiettivo di 3.000 posti di detenzione entro il 2027, contro i 1.857 di oggi”, ricorda Darmanin ai sindaci RN. Lo Stato dovrà quindi allestire otto nuovi centri da 140 posti ciascuno.

Darmanin ha quindi chiesto ai prefetti di “individuare con gli eletti sindaci i luoghi idonei ad accogliere tali installazioni”. “I miei servizi non hanno ricevuto fino ad oggi alcuna proposta da parte dei comuni guidati dal Raggruppamento Nazionale, continua il ministro in questa missiva particolarmente velenosa, volevo sottolineare personalmente l’importanza di questo programma di costruzione per l’efficacia della nostra politica migratoria. Ci pizzichiamo.

A Darmanin manca tutto tranne la sfacciataggine. Insieme a BV, Louis Aliot, sindaco della RN di Perpignan, alza le spalle. Prima sorpresa: “Abbiamo da tempo una CRA a Perpignan, nuovissima e anche molto costosa per lo Stato”, risponde. Marine Le Pen è venuta a trovarlo durante la campagna presidenziale. Seconda sorpresa: Louis Aliot non ha ricevuto alcuna richiesta da parte del ministro in merito. Sarebbe favorevole ad altre aperture di CRA nel suo Comune? Il sindaco di Perpignan, del resto, ne parla molto bene. Nessuna opposizione di principio, contrariamente a quanto afferma la lettera del Ministro. “Le città RN non rifiutano le CRA, la Francia ne è priva”, ci ha detto. Le CRA sono agenti di polizia aggiuntivi, famiglie che si insediano, bambini nelle scuole. “Il controverso pallone scoppia, appena lanciato…

Sporca inefficienza

L’occasione è troppo buona perché Louis Aliot possa contrattaccare: “Usciamo dai disordini con un record pesante. E la nostra questura è in uno stato pessimo: aspettiamo i finanziamenti. Cosa facciamo ? È meglio che si occupi del suo ministero ”, risponde il sindaco RN. Darmanin potrebbe anche essere preoccupato per i crescenti flussi di immigrati che entrano in Francia. Non sono mai stati così alti come sotto il ministero Darmanin e la presidenza Macron, mentre i tassi di esecuzione degli OQTF, cioè il ritorno al paese d’origine dei migranti condannati al ritorno dalla giustizia francese, non sono mai stati così bassi.

Con una grossolana inefficienza proprio al centro della sua missione, il ministro Darmanin ha, quindi, il coraggio di rimproverarla ai suoi avversari politici. Il Rassemblement national è davvero l’unico responsabile dell’impasse sull’immigrazione in Francia?

Il Rassemblement National, denominato dal 1972 fino al 2018 Front National, è il partito politico francese, fondato nel 1972 da Jean-Marie Le Pen, che ne è stato leader e figura centrale indiscussa fino alle sue dimissioni avvenute nel 2011, a seguito delle quali è diventata presidente la figlia Marine Le Pen.

David Rachline, sindaco di Fréjus, torna alle origini: “Non sono le agenzie di rating ciò di cui la Francia ha bisogno, ma i confini e una riforma del diritto d’asilo. »

L’uomo che ha visto gli inglesi attaccare gli spettatori dello Stade de France può prendere in giro i francesi una volta, forse due volte, ma sempre?

Marc Baudriller

Dall’Italia, il nostro ministro dell’Interno Piantedosi ha chiamato al telefono l’omologo tunisino Fekih.

Non è questione di essere bravi o più bravi, la differenza è anche nei numeri dell’immigrazione e nel senso dello Stato di un popolo.

Migranti: Ocean Viking a Napoli, 254 a bordo - RIPRODUZIONE RISERVATA

Se Il ministro degli Interni e dell’Oltre Mare Gérald Darmanin non teme di perdere la faccia, il nostro ministro Matteo Piantedosi anticipa i piani del Governo per gestire l’emergenza immigrazione e chiama al telefono il suo omologo tunisino Kamel Fekih:

“Piena sintonia di vedute – ha detto Piantedosi – sulla necessità di proseguire a ritmi serrati la cooperazione in corso per contrastare le reti criminali transnazionali che gestiscono il traffico di esseri umani.

Il tavolo operativo Italo tunisino, già riunitosi nei giorni scorsi, ha elaborato un piano operativo per intensificare la lotta ai trafficanti, e tornerà a riunirsi la prossima settimana”. 
   

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