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6127.- Il Niger “caccia” la UE, disfatta europea nel Sahel

Con l’Ue, strada in salita per il Nuovo Piano Mattei e si fa avanti la Russia. Per nostra scelta o no, da 108 anni, stiamo sempre con l’alleato o contro il nemico sbagliato; ma, da soli, dove andiamo? L’aver rotto i rapporti degli Stati europei con la Federazione Russa avrà soddisfatto gli interessi americani, ma non i nostri. Abbiamo visto sventolare le bandiere russe nel Niger. La politica della solidarietà attiva nel Magreb, nel Sahel e in Libia può confrontarsi con le ambizioni di Mosca e di Ankara? Certamente, direi.

Mali, Burkina Faso e Niger hanno dato vita all’”Alleanza degli Stati del Sahel”, la NATO africana. Fino a che le basi USA e italiana in Niger resteranno, sarà importante chiarire i nostri obiettivi nel Sahel. Vedremmo bene un summit a Roma con il leader della giunta nigerina, il generale Abdourahamane Tian, con il leader del Burkina Faso, Capitano Ibrahim Traoré, con il presidente del Mali, colonnello Assimi Goita e sarebbe utile la presenza dei leader della Mauritania, generale Mohamed Ould Ghazouani e del Ciad, presidente Mahamat Idriss Déby Itno. Dopodiché la parola dovrebbe passare agli imprenditori e agli istituti finanziari.

Di seguito, da La Nuova Bussola Quotidiana, l’articolo di Gianandrea Gaiani di oggi 11 dicembre 2023

Dopo aver cacciato le truppe francesi, la giunta militare di Niamey chiude le due missioni militari europee e segue l’esempio di Burkina Faso e Mali. E il posto dell’Europa viene preso dalla Russia.

Sostenitori della giunta golpista in Niger issano una bandiera russa dopo il golpe

Il Sahel continua a staccarsi progressivamente dall’Europa. Dopo aver cacciato le truppe francesi, il 5 dicembre la giunta militare – al potere in Niger dallo scorso luglio – ha annunciato la fine delle due missioni dell’Unione Europea per la sicurezza e la difesa. Il ministero degli Esteri nigerino ha infatti denunciato l’accordo siglato da Niamey con l’Ue riguardante la missione EUCAP Sahel Niger, attiva dal 2012 e ha ritirato «il consenso concesso per il dispiegamento di una missione di partenariato militare dell’Ue in Niger (EUMPM)», varata nel febbraio scorso dal governo guidato dal presidente Mohamed Bazoum deposto dai militari.
Entrambe le missioni avevano il compito di sostenere le forze militari e di sicurezza nigerine nella lotta contro l’insurrezione jihadista.

Il Niger, come anche Burkina Faso e Mali, continua così il processo di emancipazione dall’Occidente anche in termini di difesa e sicurezza avviato con la cacciata dell’ambasciatore e delle forze militari francesi che dovrebbe completarsi nelle prime settimane del 2024 ma, ad aggiungere al danno la beffa, l’annuncio della cacciata delle missioni europee è stato reso noto lo stesso giorno in cui a Niamey è giunta in visita una delegazione russa, guidata dal vice ministro della Difesa, Yunus-Bek Yevkurov.

Uno “schiaffo” all’Europa anche perché si tratta della prima visita ufficiale di un esponente del governo russo in Niger dal golpe del 26 luglio scorso e Mosca non ha neppure un’ambasciata a Niamey. Il vice ministro della Difesa russo è stato ricevuto dal leader della giunta, il generale Abdourahamane Tian e al termine dell’incontro le due parti hanno firmato dei documenti «nell’ambito del rafforzamento» della cooperazione militare, stando a quanto riferito dalle autorità nigerine.

A completare la debacle francese ed europea nel Sahel, il 2 dicembre Niger e Burkina Faso hanno proclamato il ritiro anche dalla forza congiunta G5 Sahel, creata nel 2014 per migliorare il coordinamento tra le diverse nazioni della regione nella lotta contro il terrorismo e finanziata dall’Ue, da cui si era già ritirato il Mali.
Gli altri due membri del G5 Sahel, Mauritania e Ciad, hanno preso atto della situazione decretando lo scioglimento dell’organizzazione G5 Sahel che avrebbe dovuto rafforzare il ruolo europeo nella regione destabilizzata nel 2011 dalla disastrosa guerra dell’Occidente contro la Libia di Muammar Gheddafi.

L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell,ha espresso rammarico per la decisione presa dalla giunta militare del Niger, sebbene l’Unione europea aveva immediatamente sospeso ogni cooperazione in materia di sicurezza e difesa col Niger in seguito al colpo di Stato di luglio. Una decisione che ha posto le basi per la cacciata dalla nazione africana, con i francesi, anche della Ue che non è riuscita negli ultimi quattro mesi ad aprire negoziati concreti con la giunta nigerina per impedire l’uscita di Niamey dagli accordi di cooperazione, compromettendo così il ruolo dell’Europa in questa regione strategica per i nostri interessi. L’intransigenza di Bruxelles nei confronti della giunta militare aveva già visto in novembre il Niger revocare gli inasprimenti di pena approvati nel 2015 per punire il traffico di esseri umani i cui flussi sono diretti in Libia e poi in Italia.

Il disastroso insuccesso europeo coincide con l’ennesimo successo russo in Africa. L’accordo di cooperazione militare firmato in Niger è quindi anche una diretta conseguenza delle iniziative europee e va inserito negli accordi di cooperazione militare ed economica che Mosca ha già stretto con le giunte di Mali e Burkina Faso (nazioni alleate del Niger nell’Alleanza degli Stati del Sahel). Le truppe e soprattutto i contractors russi (della PMC Wagner o di altre compagnie militari private) stanno fornendo un solido contributo alle forze del Mali nella riconquista dei territori caduti in mano ai ribelli Tuareg e alle milizie jihadiste.

Yevkurov è giunto a Niamey nell’ambito della ennesima missione in Africa, inclusa la Cirenaica libica (dove il 2 dicembre ha messo a punto il rinnovo degli accordi di cooperazione militare con il feldmaresciallo Khalifa Haftar), cosa che  evidenzia la meticolosa attenzione con cui Mosca rimarca il suo crescente impegno in Africa, politico, militare ed economico.
Si è trattato del terzo incontro in pochi mesi tra il vice ministro russo e Haftar. A fine settembre Haftar era poi stato a Mosca, dove era stato ricevuto dal presidente russo Vladimir Putin e dal ministro della Difesa, Sergei Shoigu. Stando a quento riferito dal comando delle forze di Haftar, sabato scorso i colloqui sono stati incentrati sulle «modalità di cooperazione congiunta tra Libia e Russia».

Dopo Bengasi, la delegazione russa è volata a Bamako, dove è stata ricevuta dal presidente del governo di transizione maliano, il colonnello Assimi Goita, per colloqui «sulle opportunità per rafforzare la cooperazione». Al termine dell’incontro, il ministro dell’Economia e delle Finanze del Mali, Alousseni Sanou, ha precisato che le discussioni hanno riguardato non solo il settore della sicurezza, ma anche quelli dell’energia e delle infrastrutture.
In un video diffuso dalla presidenza, Sanou ha riferito di colloqui sulla costruzione di una rete ferroviaria e per la creazione di una compagnia aerea regionale oltre a uno stabilimento per la lavorazione dell’oro estratto dalle miniere maliane e un memorandum per realizzare una centrale nucleare
Dopo il Mali, il vice ministro russo si è recato in Burkina Faso, paese con cui sono in valutazione investimenti non solo di tipo militare ma anche economico che comprendono anche a Ouagadougou il progetto di realizzare una centrale nucleare.

La disfatta franco-europea nel Sahel appare quindi senza precedenti anche se restano incognite circa il futuro della presenza militare di USA (1.100 militari in  due basi a Niamey e Agadez) e Italia (250 militari a Niamey) che la giunta non ha finora annunciato di voler espellere.

Tenendo conto delle difficoltà con cui l’Italia è riuscita e schierare una missione di consulenza e addestramento militare in Niger vincendo la resistenza francese e alla luce degli interessi di Roma a cooperare con una nazione di rilevante peso nei flussi migratori illegali, Roma avrebbe tutto l’interesse a dare concretezza proprio in Niger alle tante parole spese sul “Piano Mattei” negoziando con la giunta di Niamey un accordo che permetta la continuazione della missione MISIN.
Gli interessi nazionali impongono oggi all’Italia di affermare un proprio ruolo in Africa e nel Mediterraneo smarcandosi da partner ingombranti ormai detestati in Africa e da un’Unione Europea le cui politiche si sono rivelate anche in Africa velleitarie, fallimentari e inaffidabili.

4516.- Verso la macroarea euromediterranea” per costruire “un’alleanza”.

Relazione della C.I.A. Confederazione Italiana Agricoltori Catania, Ortofrutta: Costruire “un’alleanza” con i Paesi del Mediterraneo, rivedere accordi commerciali bilaterali costruire nuove partnership di “macro-area” per rispondere a sfide clima e mercati

3 LUGLIO 2021

Costruire “un’alleanza del cibo” tra i Paesi del Mediterraneo, con l’ortofrutta al centro, in un’ottica non più di antagonismo ma di integrazione. Obiettivo creare un vero mercato euro-mediterraneo, equo, sostenibile e competitivo; sviluppare nuove partnership commerciali per approcciare in maniera sinergica a piazze strategiche per l’export come il continente asiatico e rispondere insieme alle sfide del cambiamento climatico. Questo il messaggio lanciato da Cia-Agricoltori Italiani in occasione del convegno “L’ortofrutta nel contesto del Mediterraneo” che si è svolto in luglio al dipartimento Di3A dell’università degli Studi di Catania, il terzo degli appuntamenti dedicati al settore per supportare l’Anno Internazionale della Frutta e della Verdura 2021 promosso dalla FAO.

“Il ruolo e il contributo dell’Università  è fondamentale, per portare avanti il percorso di modernizzazione l’agricoltura perché l’agricoltura 4.0 ha bisogno di innovazione, ricerca, e nuovi strumenti”, ha esordito il presidente Cia Sicilia Orientale, Giuseppe Di Silvestro. ..“Il bacino del Mediterraneo sta assumendo una posizione sempre più rilevante negli scambi comunitari, come nuova macro-area economica dove l’ortofrutta è tra le produzioni essenziali – ha esordito– in cui l’Italia, e la Sicilia a maggior ragione, rappresentano già geograficamente il nucleo centrale”.

Forte della sua posizione di leadership nel settore, l’Italia conta 1,2 milioni di ettari coltivati a frutta e verdura, 300 mila aziende coinvolte e un valore di 15 miliardi di euro. Oltre a nicchie di valore aggiunto come la produzione di agrumi biologici, dove l’Italia è prima al mondo, con quasi 40mila ettari e il 99,9% prodotto nelle regioni meridionali.

“Il nostro Paese – ha sottolinea il presidente Cia, Dino Scanavino – può sfruttare questa posizione strategica per essere artefice e protagonista di una nuova politica agricola euro-mediterranea”. 

“Serve, però, una revisione degli accordi commerciali bilaterali tra Ue e Paesi Terzi del Mediterraneo (PTM) – ha sottolineato Giuseppe Di Silvestro, presidente CIA Sicilia Orientale– visto che finora non hanno soddisfatto pienamente l’esigenza di reciproca tutela economica e fitosanitaria, di salvaguardia biunivoca, esigenza ineludibile per prodotti sensibili come gli ortofrutticoli, mancando di garantire concretamente e alla pari tutti i soggetti economici coinvolti”. 

Oggi l’incremento delle importazioni europee di ortofrutta (il Marocco è passato da circa 896 mila tonnellate del 2009 a 1,3 milioni di tonnellate nel 2019, il 52% in più; l’Egitto a quasi 724 mila tonnellate, il 40% in più rispetto a 10 anni prima; la Tunisia a 94 mila tonnellate, il 7% nel 2019 sul 2009) con la pressione sui mercati interni e spesso il crollo dei prezzi, insieme al gap di competitività, rischiano di acuire le contrapposizioni tra i produttori del Mediterraneo. 

“Per questo – ha osservato Di Silvestro – oggi molti accordi, come quello tra Ue e Marocco, o l’accordo Ue-Egitto, significativi per produzioni come gli agrumi, il pomodoro da mensa, l’uva da tavola, andrebbero costantemente monitorati, valutati nel loro impatto e rivisti, per aggiornarli e soprattutto per consentire di operare in un’ottica di reciprocità e complementarità dell’offerta, non di antagonismo spinto, riducendo le forti differenze anche sul fronte dei costi di produzione e manodopera”

D’altra parte, secondo Cia sono necessarie nuove relazioni euro- mediterranee di partnership commerciale e programmazione per approcciare in modo sinergico mercati lontani, in primis quello asiatico. Senza contare che il sistema produttivo ortofrutticolo “allargato” del Mediterraneo affronta sfide analoghe legate all’adattamento e alla mitigazione di cambiamenti climatici, alla riduzione della risorsa idrica, alla degradazione del suolo, all’aggressività delle fitopatie. 

Sfide comuni che richiedono soluzioni comuni a sostegno degli agricoltori, attraverso l’uso di tecnologia e innovazione e l’adozione di buone pratiche, che il CIHEAM di Bari, coinvolto nell’evento di Cia, già promuove nell’area mediterranea (es. irrigazione, gestione avversità colture, agricoltura biologica, agricoltura di precisione), trovando sinergie anche nella promozione globale di sistemi alimentari e consumo sostenibili basati sulla Dieta mediterranea. 

 “L’Italia ha un ruolo strategico nell’area del Mediterraneo non solo per le relazioni legate alla logistica e agli scambi commerciali, che per il settore ortofrutticolo assumono rilevanza sempre crescente – ha evidenziato il presidente nazionale di Cia-Agricoltori Italiani, Dino Scanavino – ma in quanto promotore di dialogo, di ricerca coordinata, di cooperazione sui temi agricoli, di strategie di filiera, di comuni piani di mercato. Il nostro Paese può diventare davvero il pilastro della valorizzazione dell’ortofrutta, consentendo anche trasferimento di know-how e conoscenze aziendali, in una direzione non più orientata per singoli paesi, ma di macroarea euromediterranea”. 

La sfida del Mediterraneo

Tratto da una relazione di Cristina Chirico per la Confederazione Italiana Agricoltori (CIA)

“Grazie alla centralità geografica dell’Italia nel Bacino Mediterraneo, si può considerare vincente la scelta di creare sinergie produttive e commerciali con i Paesi terzi dell’area mediterranea al fine di accrescere la forza competitiva delle produzioni mediterranee nei mercati internazionali attraverso una valorizzazione delle produzioni tipiche delle sponde Nord e Sud.
E’ possibile ipotizzare l’area Euromediterranea non solo come una zona di libero scambio, ma anche come uno “spazio unico di produzione” per le imprese orientate all’esportazione nel quale ottimizzare i punti di complementarità e ridurre i margini di concorrenza? In sintesi: è possibile considerare vantaggioso, anche per le nostre imprese, attivare accordi di filiera per la destinazione internazionale?

Nuova centralità del Mediterraneo

Assistiamo ad una nuova centralità del Mediterraneo. All’Italia, sia per ragioni geografiche che per le relazioni economiche da tempo instaurate, spetta il compito di porsi al centro di questo processo, fondato sui seguenti elementi:

  • la nuova centralità degli obiettivi di Barcellona da parte della Commissione Europea, che ha confermato l’impegno per il raggiungimento dell’area di libero scambio;
  • la nuova Politica di vicinato, improntata ad un approccio bilaterale diversificato tramite i Piani di azione e lo Strumento Europeo di Vicinato e Partenariato (ENPI). Ciò da un lato riduce la portata politica del rapporto tra UE e Paesi del Mediterraneo (che passano allo status di Paesi vicini, alla pari dei Paesi dell’Est europeo non candidati all’adesione), dall’altro accresce il pragmatismo e l’efficacia degli interventi;
  • l’indubbia centralità politica dell’area, per la soluzione dei conflitti storici e nascenti nell’area;
  • la nuova centralità geo-economica del Mediterraneo negli scambi via mare per le produzioni internazionali provenienti dall’Oriente, con destinazione i mercati Nord Europei, dove sono allocati i grandi poli di commercializzazione. Già oggi un settimo delle esportazioni mondiali di prodotti deperibili transita per il Mediterraneo (10 milioni di tonnellate di prodotti, secondo l’Ismea).

L’agricoltura italiana, se sostenuta dal tanto atteso potenziamento della rete infrastrutturale e logistica nel nostro territorio, può trarre vantaggio dalle opportunità che vengono dal mare. Per far sì che l’Italia non sia solo il luogo di transito delle merci e delle persone da Sud a Nord, ma costituisca il luogo della valorizzazione, dell’incorporazione di servizi nel prodotto, in una parola dell’attribuzione di valore aggiunto del prodotto agricolo, anche di altre provenienze, con destinazione verso i mercati internazionali. Gli esperti suggeriscono che per la gestione del trasporto marittimo non occorrono grandi volumi di prodotto, ma è necessario che questo possa essere organizzato in container in grado di avvantaggiarsi dei benefici logistici dell’intermodalità.
Il ruolo-chiave dell’Italia, di carattere logistico e organizzativo, può essere individuato nella creazione di servizi intorno al prodotto, la cui tendenza è verso la personalizzazione e la flessibilità in base alle esigenze del cliente. Ad esempio, la IV gamma, secondo una recente pubblicazione della Commissione europea sugli scenari del consumo alimentare, rappresenta la frontiera del comparto ortofrutticolo fresco, e si attende un suo aumento nelle economie avanzate.

Ruolo chiave dell’agricoltura

L’agricoltura è uno dei motori dello sviluppo economico dei Paesi della sponda sud del Mediterraneo. In molti di questi, come Marocco, Siria, Egitto, il comparto primario rappresenta circa il 20% del Pil e il 30% della forza lavoro occupata. Tali Paesi vivono il problema del deficit alimentare, aggravato dalla crescita demografica e dall’esodo rurale, le cui proiezioni fanno prevedere un rischioso incremento delle importazioni cerealicole nei prossimi decenni.

Le due agricolture

Sia l’Italia che i Paesi Terzi Mediterranei, PTM, pur con caratteristiche profondamente diverse, si caratterizzano per la presenza di due agricolture:

  • la prima, più diffusa, di tipo tradizionale, con una limitata dimensione economica delle imprese, a gestione familiare; è una tipologia produttiva scarsamente legata alle dinamiche di mercato, ma fornitrice di servizi socio-ambientali di estrema significatività;
  • la seconda, innovativa ed orientata al mercato.

Queste due agricolture hanno bisogno di strumenti di intervento diversi, in termini di misure nazionali, comunitarie ed investimenti pubblici e privati. A queste agricolture competono ruoli sociali diversi.

La creazione di una Banca Euromediterranea per creare sviluppo

La liberalizzazione degli scambi, da sola non crea sviluppo; se non è accompagnata da misure interne di sviluppo agricolo va a vantaggio delle imprese già strutturate per le destinazioni internazionali.
Occorre l’integrazione economica, occorrono investimenti strutturali per rafforzarla. La creazione di una Banca Euromediterranea dovrebbe favorire la concessione di un canale di finanziamento privilegiato per le opere infrastrutturali a beneficio dei sistemi agricoli. Non dobbiamo dimenticare, infatti, i gravi limiti strutturali che condizionano il futuro dell’agricoltura mediterranea: tra questi, le risorse idriche scarse e male utilizzate, la salinizzazione e desertificazione dei terreni, l’inidonea rete dei trasporti.

Occorre immaginare il Mediterraneo come macroarea produttiva e di consumo

A livello internazionale vincono le macro aree, i Paesi-continente, grandi produttori e grandi mercati di consumo (Sud America, Cina e India). L’area mediterranea va considerata come grande area geografica, al pari delle macro aree, pienamente inserita nell’economia mondiale.
Si tratta di dar vita ad una delle più grandi realtà economiche del mondo, un insieme di circa 40 Paesi, comprendente, nelle proiezioni demografiche, 600-800 milioni di consumatori. Secondo i dati della Banca Mondiale già al 2003 la popolazione del Mediterraneo (sponda Nord e Sud insieme) era pari ad oltre 450 milioni di persone.
Prendendo a riferimento le prime voci di esportazione agricola, in particolare ortofrutta, di ciascun Paese del Mediterraneo (Nord e Sud), si può giungere ad un valore approssimativo esportato in complesso dall’area di oltre 8,8 miliardi di dollari.
Lo sforzo di immaginare l’area mediterranea nel suo insieme è il presupposto per ipotizzare una strategia produttiva e commerciale vincente per tutti i soggetti che vi partecipano. Gli obiettivi da raggiungere sono: acquisire una posizione migliore sui mercati internazionali e competere con le grandi produzioni delle aree emergenti, partendo da questi presupposti:

  • diversi Paesi mediterranei, come Turchia, Marocco, Tunisia, Israele, sono già oggi grandi produttori agricoli orientati all’esportazione, in particolare nell’ortofrutta fresca;
  • i mercati di destinazione dei prodotti italiani e dei Paesi del Mediterraneo sono spesso coincidenti e si concentrano prevalentemente in Europa;
  • i calendari di commercializzazione per i principali prodotti esportati sono solitamente anticipati di diverse settimane rispetto all’offerta italiana.

Concorrenzialità o similarità

La similarità delle produzioni agricole e delle destinazioni di mercato ha indotto in passato a guardare con diffidenza all’apertura degli scambi. E’ questa anche la filosofia alla base dell’applicazione dei contingenti tariffari previsti dagli Accordi di Associazione in ambito Euromed.
In realtà, se si analizzano gli indici di somiglianza delle esportazioni agricole dell’Italia e degli altri Paesi mediterranei verso il mondo (per tipologia e volume di prodotto esportato), la concorrenza proviene dai produttori europei, Francia, Spagna e la candidata Turchia, piuttosto che dai PTM.

La strategia

Attraverso le varie forme di integrazione con le imprese mediterranee, gli operatori italiani (imprese private e associazioni di produttori), come già avviene per Francia e Spagna, possono trarre diversi vantaggi:

  • aumento della massa critica anche in parziale contro-stagionalità, rispetto al calendario di produzione italiano, e possibilità di una fornitura ininterrotta di approvvigionamento dei canali distributivi internazionali (caratteristica ritenuta fondamentale da parte della GDO nella scelta dei fornitori di prodotto fresco);
  • ampliamento della gamma dei prodotti ortofrutticoli per i mercati esteri.

Per i Paesi del Mediterraneo, l’interazione con le imprese italiane può fornire il necessario apporto tecnologico e di know-how, oltre che un modello organizzativo aziendale necessario al raggiungimento di obiettivi commerciali e l’adeguamento ai parametri qualitativi europei.
E’ evidente come un percorso commerciale comune presuppone, da parte delle imprese partner, il soddisfacimento dei criteri qualitativi e l’allineamento agli standard igienico-sanitari previsti dalla normativa comunitaria. Qualsiasi strategia di filiera implica la realizzazione di investimenti mirati, finanziabili anche all’interno dei Piani di Azione previsti dalla Politica di Vicinato, per omogeneizzare i sistemi di qualità, la certificazione e la tracciabilità dei metodi di produzione.
Le azioni, da realizzare attraverso intese tra produttori italiani e mediterranei, potrebbero ad esempio favorire la gestione concordata dei calendari di produzione e di commercializzazione per le produzioni a destinazione estera. Il successo della vendita di prodotto ortofrutticolo fresco proveniente dall’emisfero Sud (in particolare Sud America e Sud Africa) in periodi dell’anno alternativi all’offerta comunitaria nei grandi mercati del Nord Europa, come Regno Unito e Norvegia, e in Russia è un indicatore della tendenza del mercato comunitario verso il consumo in contro-stagionalità.
Come noto, si può dialogare con la GDO internazionale solo se si garantisce la continuità temporale e qualitativa degli approvvigionamenti. Occorre quindi:

  • accrescere la massa critica del prodotto esportato;
  • valorizzare le produzioni mediterranee in modo unitario e renderle riconoscibili anche attraverso l’attribuzione di marchi commerciali;
  • qualificare il prodotto, esaltare le tipicità, operare la promozione in associazione con l’identità culturale e territoriale del Mediterraneo;
  • adottare strategie di differenziazione della produzione (ad esempio, potenziamento del biologico, massima valorizzazione dei prodotti col marchio di denominazione di origine controllata )”.

4515.- Un piano strategico per il Mediterraneo è la risposta ai flussi migratori.

Stiamo dicendo che sia l’Unione europea sia questo decantato Governo Draghi, sia la sua opposizione, stanno affrontando separatamente i problemi dello sviluppo dei Paesi africani del Fianco Sud allargato, cioè, del Mediterraneo e del Sahel e i flussi migratori. Draghi, partendo dalle politiche agricole, anche quelle comuni dell’Ue, dovrebbe proporre un confronto fra Italia, Francia e Spagna e, poi, almeno con Grecia, Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, per cooptare, infine, Israele, Turchia, Libano e – se Dio vuole – Libia. L’obiettivo potrebbe essere un’area mediterranea di Libero Scambio. Questo quadro consentirebbe di dare un senso e coordinare le politiche economiche ed energetiche del Mare Mediterraneo facendo fronte alle prossime aperture delle rotte commerciali dell’Artico. Consentirebbe anche di affrontare meglio l’azione di penetrazione della Cina.

Niente di nuovo!

Roma è ancora un cammino da seguire.

Verso l’area euromediterranea di produzione e di libero scambio

Il mercato comunitario è il primo importatore mondiale di prodotti agricoli e rappresenta l’obiettivo commerciale delle grandi aree di produzione agricole.
Il mercato comunitario è il primo riferimento di destinazione dell’export agricolo sia per l’Italia che per i Paesi terzi mediterranei (PTM). Entrambi subiscono la concorrenza delle aree emergenti. L’impatto della liberalizzazione potrebbe quindi essere consistente sotto il profilo dell’accesso ai mercati.

L’apertura di un’area di Libero Scambio fra i mercati mediterranei fa crescere le nostre e le loro economie; crea opportunità di investimento nei Paesi africani ed è l’unico vero contrasto possibile all’immigrazione incontrollata e sempre più incontrollabile, come gli avvenimenti di oggi sulle coste italiane e sui confini della Grecia e della Polonia dimostrano. Le cause della migrazione sono numerose e vanno da sicurezza, demografia e diritti umani fino al cambiamento climatico, ma ciò porta gli africani a emigrare è, senz’altro la mancanza di opportunità che fa capo all’attuale sistema di sostegni e di sfruttamento del Fondo Monetario Internazionale: un handicap per le economie africane, che ne limita lo sviluppo. L’Europa possiede le risorse tecnologiche e l’Africa è una terra ricca. Dobbiamo crescere! e l’Italia si faccia capofila di una politica Ue di stretta collaborazione sul piano diplomatico, militare ed economico fra i Paesi mediterranei. Solo una politica attiva dell’UE di libero scambio, di investimenti e di partenariato, attuata fra gli Stati dell’area mediterranea può raggiungere questo obiettivo.

Sbaglia chi vuole blindare ancor di più l’Unione Europea e chiede il blocco navale. Il blocco, sostenuto da alcune parti politiche, è inattuabile, guarda all’emergenza, ma non risponde a una visione aperta in tutti i sensi.

Questo non sta avvenendo, complice l’ignoranza che grava sulla politica. Per governare i flussi migratori dai paesi africani, infatti, è necessario comprendere le cause che li determinano. Quindi, va bene contenere il fenomeno migratorio, ma guardando alle cause e alle possibili soluzioni. L’apparente cecità dei governi europei, invece, avvantaggia i forti interessi delle multinazionali occidentali, ma anche della Cina che, dai primi anni Duemila, è diventato il principale attore in Africa, mirando a un approccio molto concreto: vale a dire, risorse naturali in cambio di infrastrutture essenziali, come strade, dighe, ferrovie, porti, investimenti negoziati a condizioni rischiose per chi li riceve. Va da sé che lasciare che la Cina si impossessi delle risorse e delle infrastrutture africane è un suicidio per l’Africa e per l’Europa.

Se dicessimo che i paesi europei e più in generale i paesi occidentali hanno un impatto sull’economia africana e, perciò, dobbiamo rimodulare le nostre economie coordinandole con quelle africane, saremmo sul giusto binario. Guardando al bilancio Ue, una buona metà è dedicata al sostegno all’agricoltura. Questo costituisce di fatto un freno alle esportazioni africane. Se ora dicessimo che gli agricoltori italiani, francesi, spagnoli devono limitare le loro produzioni per fare spazio a quelle dell’Africa bianca, saremmo accusati di eresia. L’obiettivo da proporsi, allora, è: “Portare gli imprenditori agricoli europei a investire sulle coste africane”. Gli imprenditori italiani hanno dimostrato di saperlo fare, e bene, al tempo delle colonie. L’importante è che, oggi, non arrivino per ultimi. Il Mediterraneo è la nostra storia.

“Aiutiamoci a casa loro”

Lo slogan “Aiutiamoli a casa loro” non sia soltanto un auspicio mosso dalla solidarietà tra stati, o dal mero interesse di ridurre i flussi migratori: impossibile! Lo slogan deve essere “Aiutiamoci a casa loro”. Bisogna e sottolineo “bisogna”, che i “canali” attraverso i quali devono essere gestiti questi aiuti (e i come) non devono essere intergovernativi perché la crescita si rivelerebbe sicuramente fragile, molto legata all’andamento dei mercati, sopratutto, a quelli delle materie prime (Ho presenti le condizioni del Mali, primo produttore mondiale di cotone); sarebbe facilmente frenata da fattori politici.

Bruxelles deve soltanto creare le condizioni affinché gli imprenditori europei, insieme alle istituzioni finanziarie, possano investire le loro risorse in partenariato con gli africani, con obiettivi comuni e con reciproco vantaggio. Ciò dovrebbe segnare il futuro dell’area mediterranea e del Sud Europa, ricordando che i processi di sviluppo sono, per loro natura, lunghi e complessi.

4010.- Un’altra invasione, un altro naufragio, ma l’Europa non può accogliere l’Africa

6mila migranti dal Marocco a Ceuta. E un altro naufragio al largo di Sfax


I.Sol. martedì 18 maggio 2021. Da Avvenire.it

 Sulla spiaggia di Tarajal la Spagna ha schierato l’esercito e usato gas lacrimogeni contro i migranti arrivati via mare. 2.700 sono state rimpatriate. Davanti alla Tunisia almeno 24 dispersi6mila migranti dal Marocco a Ceuta. E un altro naufragio al largo di Sfax

Ma il salvatore di bambini è sempre lui?

L’esercito spagnolo è stato dispiegato a Ceuta, enclave spagnola in Marocco, in seguito all’arrivo di circa 6mila migranti dal Marocco, entrati via mare nelle ultime 24 ore senza che le autorità marocchine intervenissero. “L’esercito spagnolo è sul confine come deterrente, ma ci sono enormi quantità di persone sul lato marocchino pronte a entrare”, ha dichiarato Juan Jesus Vivas, presidente-sindaco di Ceuta, a radio Cadena Ser, parlando di “invasione”. 
Sulla spiaggia di Tarajal sono arrivati veicoli blindati e soldati inviati da Madrid. Nel frattempo, il ministro dell’Interno Fernando Grande-Marlaska ha dichiarato che 2.700 persone sono state rimpatriate sinora in Marocco. Ha promesso “tutte le misure necessarie” per metter fine alla crisi migratoria, assicurando che nessun minore dei 1.500 arrivati nell’enclave è stato rimandato indietro e la loro situazione sarà valutata. Secondo El Pais, il flusso di arrivi iniziato martedì è diminuito, ma via mare continuano ad arrivare persone, spesso con sintomi di ipotermia, fa sapere El Pais.

Stando al ministro dell’Interno, Fernando Grande-Marlaska, solo 86 persone migranti sono riuscite ad entrare nell’enclave spagnola in Marocco.

Reuters

Reuters

Naufragio a largo della Tunisia, almeno 24 dispersi

Almeno 50 migranti sono annegati in un naufragio al largo di Sfax mentre cercavano di attraversare il Mediterraneo dalla Libia all’Italia. 33 persone migranti sono state salvate l’organizzazione umanitaria della Mezzaluna Rossa tunisina.
In un secondo momento il portavoce del ministero della Difesa della Tunisia, Mohamed Zekri, ha aggiunto che altre 33 persone sono state salvate dai lavoratori di una piattaforma petrolifera. La barca, ha spiegato, è affondata al largo di Sfax, dove navi della marina sono state inviate a cercare le persone disperse. 

Flavio Di Giacomo, portavoce dell’ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim, aveva in precedenza parlato di almeno 50 dispersi e solo 33 sopravvissuti, tutti provenienti dal Bangladesh.

Due imbarcazioni con 88 e 95 persone sono a rischio naufragio in zona Sar maltese. A lanciare l’allarme è Mediterranea Saving Humans, spiegando che le due imbarcazioni “distano l’una dall’altra solo 15 miglia nautiche e il mercantile Maridive 230 è a sole 10 miglia nautiche distante da entrambe”. 
“Forte vento, onde alte e mancanza di acqua e cibo da due giorni richiedono un soccorso urgente”, aggiunge l’ong.

Nelle ultime settimane si sono verificati annegamenti al largo delle coste tunisine, con un aumento della frequenza dei viaggi in Europa dalla Tunisia e dalla Libia verso l’Italia a causa del miglioramento del tempo.

Più di 60 migranti sono morti nelle ultime settimane in incidenti simili al largo delle coste tunisine.
L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’Acnur, afferma che quest’anno meno di 23.500 persone hanno attraversato il mare verso l’Europa, con la maggior parte dei nuovi arrivati ​​che sbarcano in Italia e Spagna dalla Tunisia e dall’Algeria.
L’Acnur stima che 633 persone siano morte o disperse in transito quest’anno.

Ansa

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Il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez ha annunciato che andrà nelle enclave di Ceuta e Melilla, dopo che circa 6mila migranti sono entrati in poche ore a Ceuta dal Marocco. Lo ha riferito El Pais. Sanchez, che ha informato il re Felipe VI della situazione, ha avvertito il Marocco che la Spagna difenderà le frontiere nazionali: “Saremo fermi di fronte a qualsiasi sfida, di fronte a qualsiasi eventualità e circostanza”.
Voglio comunicare a tutti gli spagnoli e in particolare a quelli che vivono a Ceuta e Melilla che ristabiliremo l’ordine il più rapidamente possibile“, ha detto Sanchez in conferenza stampa.

“L’integrità di Ceuta come parte della nostra nazione, la nazione spagnola, la sua sicurezza e la tranquillità dei nostri compatrioti e residenti sono garantite dal governo spagnolo con tutti i mezzi disponibili”, ha aggiunto. “In qualità di presidente del governo, ho sempre creduto fermamente che il Marocco sia un paese partner, amico della Spagna, e dovrebbe continuare ad essere così. La cura delle nostre relazioni è sempre stata parte della politica estera spagnola, anche del mio governo. E così dovrebbe continuare a essere. Il mio desiderio è rafforzare ulteriormente questo rapporto di amicizia”, ha aggiunto Sanchez.

Perché è esplosa la crisi umanitaria a Melilla?

Il ministero degli Esteri spagnolo ha convocato l’ambasciatore del Marocco in Spagna Karima Benyaich, dopo l’arrivo massiccio di migranti nelle ultime ore nell’enclave di Ceuta. L’ambasciatrice del Marocco in Spagna ha avvertito Madrid che “ci sono azioni che hanno conseguenze”, nel giorno in cui migliaia di migranti hanno superato la frontiera marocchina e sono entrati nelle enclavi spagnole in Nord Africa di Ceuta e Melilla. La dichiarazione di Benyaich, rilasciata a Europa Press, appare un’allusione all’accoglienza offerta da Madrid a Brahim Ghali, il capo del Fronte Polisario, la milizia che contende al Marocco il Sahara Occidentale, ricoverato a Logrono per curarsi dal Covid-19. “Ci sono azioni che hanno conseguenze e bisogna assumersene la responsabilità”, ha dichiarato Benyaich. “Ci sono atteggiamenti che non si possono accettare”, ha aggiunto la diplomatica, la quale ha sottolineato come le relazioni tra “nazioni vicine e amiche” debbano basarsi sulla “fiducia reciproca, che va costruita e alimentata”. Benyaich ha poi definito “inusuale” la rapidità con la quale è stata convocata e non ha escluso di poter essere richiamata a Rabat, in Marocco, per consultazioni.

La crisi migratoria si somma dunque a quella diplomatica scatenata dall’accoglienza in Spagna del leader del Fronte Polisario, Brahim Ghali, ricoverato a per essere curato dal Covid. Il governo spagnolo aveva addotto spiegazioni di carattere umanitario che però non hanno soddisfatto Rabat che l’8 maggio scorso aveva minacciato di trarre le conseguenze di quanto accaduto e aveva contestato il mancato preavviso.

Dal canto suo il governo spagnolo nega che il Marocco abbia aperto le frontiere ai 6mila migranti che si sono riversati a Ceuta come rappresaglia per aver concesso a Brahim Gali, leader del Fronte Polisario, malato di Covid, di curarsi in Spagna. Lo scorso 27 aprile il ministero degli Esteri di Madrid aveva confermato di aver accolto “per ragioni umanitarie” il capo dei miliziani che contendono al Marocco la regione del Sahara occidentale. Il ministro responsabile delle politiche migratorie, Josè Luis Escriva, ha assicurato che l’arrivo dei migranti non ha nulla a che vedere con il ricovero di Ghali in un ospedale di Logrono. “Le autorità marocchine dicono che non c’è una relazione e io suppongo che credano in quello che dicono”, ha affermato il ministro, il quale ha assicurato che le autorità marocchine avevano collaborato per evitare che venisse superato il muro di Melilla.

Il consiglio dei ministri spagnolo ha approvato il versamento di 30 milioni di euro al Marocco per sostenerlo nel contrasto all’immigrazione illegale. La somma, si legge su El Pais, era già stata stanziata ma il via libera al versamento è arrivato solo oggi, mentre Ceuta è esplosa una crisi umanitaria con 6mila richiedenti asilo giunti nelle ultime 24 ore. Gli aiuti sono destinati a finanziare i costi di pattugliamento e vigilanza delle frontiere marittime e terrestri. Il Marocco sottolinea spesso di non avere mezzi sufficienti per contrastare i flussi migratori irregolari e chiede spesso sostegno economico. Rabat stima in 434 milioni di euro i costi annuali della lotta all’immigrazione clandestina. 

L’appello della commissaria europea agli Affari interni sulla gestione delle crisi migratorie

“Ieri almeno 6mila persone sono arrivate a Ceuta. Dobbiamo fare tutto il possibile per salvare vite ed evitare questi viaggi pericolosi. Abbiamo bisogno del nuovo Patto sull’immigrazione e l’asilo per gestire e salvare vite e mostrare solidarietà con i Paesi coinvolti. Come le 24 imbarcazioni con 2.100 migranti che sono arrivate a Lampedusa soltanto in due giorni la settimana scorsa. Almeno 600 erano minori non accompagnati. Chiedo agli Stati membri di aiutare queste persone e che si aiuti l’Italia con i ricollocamenti. Più di 600 persone sono morte quest’anno nel Mediterraneo”. Lo ha affermato la commissaria europea agli Affari Interni, Ylva Johansson, intervenendo nella plenaria del Parlamento Europeo.© RIPRODUZIONE RISERVATA

4006.- Perché la Spagna ha schierato l’esercito contro i migranti (e l’Italia no)

Premettiamo sempre che una immigrazione fuori controllo, alla Lamorgese, ma fosse solo lei! nuoce alla stabilità e all’ordine sociale degli italiani e degli europei e nuoce e nuocerà anche ai migranti, che solo in pochi possono e vogliono intraprendere un cammino di integrazione.

Queste considerazioni di Alessandro Cipolla sulla crisi di Ceuta che leggerete forniscono il destro alla discussione. I punti focali delle conclusioni sono: Il Governo Draghi, stando ai fatti e ai numeri, favorisce l’immigrazione clandestina e i porti italiani sono aperti alle ONG né più né meno come con il governo precedente. Il messaggio che si vorrebbe far passare è che la Spagna e il Marocco, come l’Italia e la Tunisia, hanno stipulato un accordo sui respingimenti, ma l’Italia e la Libia no. In particolare, tra Spagna e Marocco è in atto una crisi diplomatica perché la Spagna ha ricoverato in un suo ospedale il leader degli indipendentisti marocchini. In primo luogo, con tutta l’assistenza sanitaria data alla Libia, probabilmente a chiunque, con la Missione Ippocrate e a Roma, più che di crisi diplomatica, potremmo parlare di guerra. In secondo luogo, risultano oltre 785 milioni spesi dall’Italia per sostenere un accordo che, senza fermare le morti in mare, ha consentito il respingimento in Libia di 50 mila persone, di cui 12 mila solo nel 2020. … Senza disegnare nessuna soluzione di medio-lungo periodo per costruire canali sicuri di accesso regolare verso l’Italia e l’Europa. L’accordo Gentiloni – al Sarraj, del 2 febbraio 2017 tra i due Paesi, ufficialmente “Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica Italiana”, è stato detto accordo della vergogna, perché la Libia non rispetta alcun diritto umano. Il rappresentante dell’ONU in Libia lo ha confermato proprio quando Mario Draghi il 6 e 7 aprile 2021 si è recato a Tripoli, fra l’altro, per continuare a chiedere il blocco delle partenze dei migranti via mare. Il rapporto dell’ONU parla di torture, stupri e uccisioni, di mercato delle vacche della politica interna e lo dimostra il fatto che il nuovo presidente non riesce ad affermarsi nemmeno con le tangenti. Ricordiamo che l’accordo si raggiunse “nell’ambito della crisi europea dei migranti e della seconda guerra civile in Libia e prevedeva che il governo italiano fornisse aiuti economici e supporto tecnico alle autorità libiche (in particolare alla Guardia costiera), nel tentativo di ridurre il traffico di migranti attraverso il Mar Mediterraneo, mentre in cambio la Libia si impegnava a migliorare le condizioni dei propri centri di accoglienza per migranti”. Sulla Guardia costiera libica e sulle sue collusioni con i trafficanti di uomini molto si è scritto e, di recente, un nostro motopesca è stato fatto segno a raffiche di mitra da una delle motovedette ex Guardia di Finanza che gli donammo. L’accordo, volto al contenimento delle partenze dei migranti, anziché essere aggiornato, si è rinnovato automaticamente per altri tre anni. Le considerazioni che ne possiamo trarre sono che la politica estera è una cosa seria; che dove non c’è stato, non c’è legge e vale l’uso della forza; che non soltanto di una crisi diplomatica con la Libia, dobbiamo parlare, ma di sospensione di ogni forma di cooperazione e di schieramento dell’Esercito e della Marina Militare, senza guardare in faccia a nessuno, libico, turco e trafficante che sia. Diversamente e fino a prova del contrario, così ci piace. Una ultima nota: Erdogan sarà, anzi è, un dittatore, ma conosce quali sono gli interessi in politica estera del popolo turco. Sulla questione democratica, invece, ultimamente non si può dire che i turchi debbano invidiare gli italiani.

La Spagna ha messo in campo l’esercito per riportare in Marocco i migranti arrivati nell’enclave di Ceuta: ecco perché Madrid lo può fare e l’Italia invece no con chi sbarca sulle nostre coste.

Perché la Spagna ha schierato l'esercito contro i migranti (e l'Italia no)

 Di Alessandro Cipolla, Money.it , 19 Maggio 2021

La Spagna ha messo in campo anche l’esercito per fronteggiare gli arrivi record di migranti a Ceuta. Più della metà delle 8.000 persone che hanno varcato il confine, facendo a nuoto i 500 metri che dividono il Marocco dall’enclave di Madrid, sono stati rimandati già indietro.

Emblematica è la foto del neonato salvato in acqua da un membro della Guardia Civil, visto che sarebbero oltre 1.500 i minori giunti a Ceuta. Tutto nasce da un’autentica crisi diplomatica tra la Spagna e il Marocco.

Il Governo marocchino infatti si è detto più che irritato dal ricovero causa Covid in un ospedale spagnolo di Brahim Ghali, leader degli indipendentisti della Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi.

Rabat così potrebbe aver in qualche modo permesso l’arrivo in massa di migranti a Ceuta come in una sorta di ritorsione verso la Spagna, con Madrid che per tutta risposta ha schierato l’esercito a Ceuta per mettere in pratica i respingimenti.

La decisione da parte del Governo spagnolo, guidato dal socialista Pedro Sanchez, in qualche modo cozza con l’obbligo di accoglienza messo in atto dall’Italia quando si verificano sbarchi sulle nostre coste.

Dal punto di vista normativo, l’azione della Spagna è comunque legittima. Nel 1992 Madrid infatti ha siglato con il Marocco un accordo che prevede che i migranti di qualsiasi nazionalità provenienti dal paese africano, possono essere rimandati indietro entro un massimo di dieci giorni.

Da allora i respingimenti sono quindi la prassi, ma questa volta il clamore è dovuto al numero record di afflusso di migranti in poche ore. Non sono mancate però negli anni le critiche da parte di diverse organizzazioni imanitarie, ma una sentenza dello scorso novembre da parte della Corte Costituzionale iberica ha ribadito la legittimità delle espulsioni.

L’Italia questo non lo può fare per i migranti provenienti dalla Libia, che non viene considerata dall’UE un porto sicuro, anche perché manca ancora un accordo del genere con Tripoli: in ballo c’è solo il memorandum del 2017 voluto dall’ex ministro Minniti.

Un accordo bilaterale invece lo abbiamo con la Tunisia, tanto che nel 2019 circa 7.000 migranti sono stati rimpatriati tramite aereo, ma considerando anche i confini nostrani (marittimi e non terrestri) non è possibile per noi schierare l’esercito per respingere chi prova a entrare in Italia.

3273.- Gli sbarchi fantasma dei migranti dalla Tunisia

La procura di Agrigento avrebbe aperto alcune inchieste sul fenomeno degli «sbarchi fantasma», ovvero migliaia di persone, quasi tutte tunisine, che in piena notte o all’alba sbarcano da barche in legno o piccoli pescherecci e fanno perdere le loro tracce, nell’agrigentino, a Lampedusa e Linosa. Di almeno la metà si sono perse le tracce.

Secondo il procuratore titolare dell’inchiesta, tra questi migranti ci potrebbero essere persone legate al terrorismo internazionale, migranti in passato già espulsi dall’Italia o addirittura delinquenti liberati con l’amnistia dalle carceri tunisine. Sembra che durante il viaggio i migranti siano aiutati anche da «navi madri» che facilitano l’approdo in spiagge poco accessibili, prima di raggiungere in alcuni casi dei «basisti» a terra, pronti a trasferirli in altri luoghi. Alla luce delle inchieste avviate in Italia negli ultimi mesi e delle operazioni di salvataggio che l’UE ha messo in atto nel Mediterraneo, può la Commissione chiarire se è a conoscenza di questi «sbarchi fantasma» sulle coste italiane e se intende rapportarsi con la Tunisia al fine di evitare le partenze di immigrati irregolari?

Il Paese nordafricano, per chi viene dall’Africa sub-sahariana, è considerato più sicuro della Libia e consente un passaggio più facile: i porti clandestini lungo la costa sono numerosi e la polizia non riesce a pattugliarli tutti

Nella distribuzione delle domande per Paese di provenienza del lavoratore, ai primi posti risultano il Marocco, l’Ucraina e il Bangladesh per il lavoro domestico e di assistenza alla persona; l’Albania, il Marocco e India per l’agricoltura e l’allevamento. La Lombardia è prima per le richieste presentate per il lavoro domestico e di assistenza alla persona e la Campania per quello agricolo. Foto – See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Migranti-Viminale-oltre-80-mila-domande-di-regolarizzazione-49eb7c9c-4f23-4412-96ec-eb91932069c3.htmlSandro CATANESE / AFP

La paura del coronavirus covid-19 non ha mai veramente fermato gli sbarchi e, anche se i numeri non sono paragonabili a quelli del biennio 2016-2017, sulle coste italiane continuano ad arrivare persone dal Nord Africa.

Negli ultimi giorni, anche a causa del clima favorevole, gli arrivi si sono intensificati; un dettaglio, però, mostra un cambiamento delle rotte della migrazione: nelle ultime 48 ore la maggior parte dei barconi è partita dalla Tunisia e non dalla Libia.

Lunedì, in poche ore, due imbarcazioni sono arrivate in Sardegna, dove gli sbarchi sono sempre stati minimi. Il primo è stato bloccato dalla Guardia di Finanza e condotto al porto di Cagliari. A bordo c’erano 12 uomini di nazionalità algerina.

Il secondo è arrivato nel pomeriggio con 11 persone, salvate al largo di Sant’Antioco.

I migranti hanno raccontato di esser partiti da un porto vicino a Biserta, all’estremità settentrionale della Tunisia, uno dei nuovi punti d’imbarco clandestini del Paese. E da lì la rotta verso la Sardegna è una linea retta verso nord, dall’altro lato del Mediterraneo.

Gli indizi che qualcosa stia cambiando sono apparsi già domenica 24, quando in Sicilia in una sola giornata si sono contati sette sbarchi. Il più numeroso a Palma di Montechiaro, dove sono arrivati circa 400 migranti. Il numero esatto non è stato chiarito, ma la polizia ha individuato solo una settantina di uomini, che sono stati condotti a Porto Empedocle per le prime visite mediche.

Non è chiaro quanti davvero fossero a bordo del peschereccio di 12 metri, recuperato poi a Cala Vicinzina incagliato tra le rocce, ma l’imbarcazione, secondo le autorità, non poteva contenere più di un’ottantina di persone.

Anche i migranti arrivati in Sicilia hanno detto di essere partiti dalla Tunisia, da Monastir in particolare, città costiera della parte meridionale del Paese. E le rotte marittime lo confermano. La zona di Agrigento, infatti, è il primo punto di terraferma che s’incontra lungo quel corridoio.

«La situazione delle partenze clandestine qui sta diventando un grosso problema», racconta un’attivista della Maison du droit et des migrations, associazione tunisina che si sta occupando dei migranti interni.

«Sono aumentate negli ultimi giorni in maniera esponenziale ma non sempre si riesce a bloccarli, anche perché i punti di partenza sono clandestini e i porti lungo la costa sono innumerevoli, sarebbe impossibile pattugliarli tutti».

Il portavoce della Guardia Nazionale, Houssem Eddine Jebabli ha riferito che  le unità della Guardia marittima di Sfax, di Nabeul e di Biserta negli ultimi due giorni, hanno bloccato 4 tentativi partenze irregolari.

A Sfax, 90 persone di diverse nazionalità africane sono state bloccate mentre erano  già quasi a bordo. Nella stessa giornata, la Guardia Nazionale di Biserta ha fermato 15 persone, lo stesso anche nella capitale Tunisi, dove è stata contrastata un’operazione di migrazione irregolare e 7 persone, tra cui una ricercata dalle autorità, sono state arrestate.

Dalla Tunisia, dall’anno scorso, flotte di barchini navigano verso la Sicilia, con a bordo numeri sempre più cospicui di migranti, non solo tunisini, ma anche dall’Africa subsahariana e dalla Siria, invertendo il trend migratorio dalla Libia, fermato grazie agli accordi fra Roma e Tripoli.

Ma perché proprio la Tunisia? In Libia la situazione di guerra rende ogni movimento più complesso. La Tunisia è molto più stabile dal punto di vista politico, anche se alle prese con problemi interni, legati alla crisi economica e alla mancanza di lavoro. Problemi che spesso causano, appunto, le partenze.

Seppur fragile, il piccolo paese nordafricano è considerato meno pericoloso di altri, diventando quindi meta delle migrazioni dall’Africa sub-sahariana. Migranti dal Ciad, Niger, Mali, e dalla Mauritania hanno scelto di attraversare il deserto cercando di evitare la zona meridionale della Libia, in mano a milizie legate ad Aqmi (Al qaeda del Maghreb) all’Isis, o a Boko Haram.

Nelle prossime settimane potrebbero arrivare sulle coste italiane altri migranti provenienti dalla Tunisia, cui si aggiungono in ogni caso le partenze dalla Libia.

Ieri la Guardia costiera libica ha riportato a Tripoli 315 rifugiati e migranti dopo averli intercettati e soccorsi in mare a bordo di diverse imbarcazioni.

Il portavoce dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni, Safa Msehli, ha detto di essere molto preoccupato per la diminuzione della capacità di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale.

Intanto, Alarm Phone, il centralino che raccoglie le richieste d’aiuto dalle barche, continua imperterrita a contestare che i migranti, contro la loro volontà, vengano riportati in un Paese in guerra.

1771.- Quando arrivarono i marocchini

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da L’Undici N. 98 , di Paolo Agnoli

Con “marocchinate” (o “goumiers” nell’accezione francese), termine che ora ci appare davvero orrendo ma ampiamente utilizzato nella cultura del tempo, vengono ancora oggi indicate le vittime (donne, ma anche bambini, uomini e non raramente perfino animali) delle violenze delle truppe d’assalto marocchine, algerine, tunisine e senegalesi del Corps Expeditionnaire Francais (CEF) comandato dal discusso generale Alphonse Juin (nato a Bona in Algeria). O anche, talvolta, le azioni delittuose commesse da quei soldati (identificati genericamente dalle popolazioni locali tutti come marocchini) in Italia centrale, durante il secondo conflitto mondiale. Con barracani, “bourms” (mantelli di lana con cappuccio) e turbante, pugnali alla cintura, gli uomini del CEF venivano arruolati e addestrati soprattutto sulle montagne dell’Atlante, in Marocco.

Seconda-Soldati-del-CEF

La “furia francese”, ovvero gli episodi di brutale violenza che videro protagoniste queste truppe coloniali, sfociò anche, e spesso, in esecuzioni capitali degli abitanti delle zone depredate e raggiunse il massimo della ignominia (come vedremo con qualche dettaglio) durante i giorni successivi allo sfondamento da parte alleata della linea Gustav – una barriera militare di oltre 200 chilometri, voluta da Adolf Hitler, che partiva da Gaeta per arrivare alla foce del Sangro, vicino Pescara – in particolare nelle zone di Esperia e Ausonia, in provincia di Frosinone (sulla catena dei monti Aurunci che separa Montecassino dal mare). Non furono comunque solo gli abitanti degli Aurunci a subire quelle brutalità. Quel tipo di crimini iniziò già dal luglio del ’43 in Sicilia, arrivando poi nel Lazio e quindi in Toscana, e terminò solo con il rimpatrio del CEF in Francia. Di queste violenze furono vittime anche membri della Resistenza italiana, in particolare diversi partigiani toscani come per esempio alcuni giovani della brigata garibaldina Spartaco Lavagnini, raggruppamento molto attivo nella Toscana meridionale. Tra loro c’erano una giovane staffetta, Lidia, e un ragazzo, Paolo. Come testimoniò Pasquale Plantera, arruolato nella Lavagnini, Lidia e Paolo – quest’ultimo per difendere la ragazza – furono disarmati e crudelmente violentati. I primi di tale efferati atti si registrarono sulla statale Licata-Gela, come ricorda lo storico Fabrizio Carloni, per poi proseguire fino a Capizzi, tra Nicosia e Troina. Qui i soldati si abbandonarono a numerosi veri e propri stupri di massa: «Consideravano le donne bottino di guerra e le portavano via sghignazzando …». Le violenze (tra cui anche sadismi con i fucili e evirazioni) furono poi registrate nei paesi di Mastrogiovanni (dove madri e figlie venivano stuprate e poi subito passate per le armi), Lanuvio, Velletri ed Acquafondata, dove ci fu un vero e proprio rastrellamento di donne e bambine. A Siena si registrarono 24 bambine abusate, con gravi lacerazioni interne. All’isola d’Elba oltre 200 stupri e le violenze – con spesso il successivo omicidio – avvennero tra gli altri nei Comuni di Grosseto, Val d’Orcia, Arcidosso, Castel del Piano, Monticello Amiata, Sasso Ombrone. Va detto che nella cultura magrebina di quel tempo non solo la sodomia ma anche la pederastia e la zoofilia erano ampiamente accettate. Scriveva Malek Chebel, psicoanalista e psicopatologo clinico algerino a Parigi: «L’itinerario copulatorio del giovane maghrebino campagnolo comincia spesso nei lombi delle bestie che è incaricato di accompagnare regolarmente…… Per le truppe africane agli ordini di Juin, le donne italiane [come tutte le occidentali] erano … “gahba”, puttane, nel linguaggio franco-arabo».

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Il generale maiale Alphonse Juin.

LO SFONDAMENTO DELLA LINEA GUSTAV

Quando, nel gennaio del ‘44, gli eserciti alleati giunsero di fronte alla linea Gustav il generale britannico Harold Alexander, comandante in capo delle forze alleate in Italia, decise di attaccare direttamente e ripetutamente le difese tedesche nel settore di Cassino (la città ciociara era la congiuntura principale di tutto lo sbarramento difensivo), perdendo senza alcun successo circa 65.000 uomini. L’Abbazia fu rasa al suolo a metà febbraio, dai più massicci bombardamenti mai effettuati, almeno in quel conflitto, contro un singolo edificio. Un mese dopo questi bombardamenti fu rasa al suolo anche la sottostante città e le bombe caddero sino a Minturno: distruzioni imponenti, con oltre 10.000 vittime civili e circa 50.000 militari. Senza risultato: i combattimenti accaniti per snidare gli invasori trincerati tra le rovine risultarono inutili. Visti i gravi insuccessi, Alexander decise di cambiare strategia: passare attraverso i monti Aurunci, nella valle del Liri in Ciociaria. Tale manovra di “strangolamento” si doveva sviluppare partendo da Castelforte, la via Ausonia, il monte Petrella e “la penetrante” Esperia. Obiettivo finale: la via Casilina. A svolgere questo compito, definito da molti suicida, furono chiamate le truppe coloniali perché ci si rese conto che nella zona, considerata la natura impervia del terreno, era più opportuno inviare truppe di montagna anziché divisioni corazzate.

Disprezzati dagli americani, che li consideravano (su questo a torto) anche truppe di qualità scadente, e certo rimasti famosi soprattutto per aver sempre lasciato dietro di loro una scia di crudeltà e sofferenze, quei soldati in realtà si dimostrarono in combattimento uomini di grandi capacità e coraggio. Scrisse di loro lo storico Fred Majdalany: «Agiscono come una marea su una fila di castelli di sabbia. Sono capaci di spingersi ad ondate su un massiccio montano dove truppe regolari non riuscirebbero mai a passare. Attaccano in silenzio qualsiasi avversario si presenti, lo distruggono e tirano via senza occuparsi di quel che accade a destra o a sinistra. Hanno l’abitudine di riportarsi indietro la prova delle vittime uccise; perciò sono nemici con cui non è piacevole aver a che fare». La sera del 14 maggio del ‘44 partì l’attacco: centinaia e centinaia di cannoni diedero inizio ad un progressivo bombardamento e presto i reparti d’assalto “marocchini” cominciarono l’avanzata, denominata in codice “operazione Diadem“. Quei combattenti, attraversando un terreno nei monti Aurunci ritenuto virtualmente insuperabile, riuscirono ad aggirare la rocca di Cassino e le altre linee difensive situate nell’adiacente Valle del Liri, strenuamente difese dai paracadutisti e dai fanti tedeschi, sfondando infine la linea Gustav e aprendo così ai mezzi corazzati del XIII Corpo britannico la via per Frosinone e a tutto l’esercito alleato la strada per Roma. Come nota lo storico Giovanni De Luna, «Nei furibondi combattimenti che si accesero sulla “linea Gustav”, i francesi riuscirono a riconquistare la stima degli angloamericani, facendo dimenticare l’ignavia della capitolazione del giugno del 1940, il collaborazionismo di Vichy, le ambiguità di Giraud e delle truppe rimaste nell’Africa del Nord».

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Il fronte nel 1944. La linea Gustav tenne in scacco per mesi gli alleati.

Gli elementi del CEF (quasi tutti analfabeti e ai quali per mesi, affinché non compissero violenze ai danni dei civili, era stato impedito perfino di uscire dai loro accampamenti che venivano sorvegliati a vista e recintati con filo spinato) erano denominati “goumiers”, in quanto organizzati in “goums”, ossia gruppi composti da uomini legati tra loro da qualche vincolo di parentela. Erano reparti dalle dimensioni assimilabili a quelle di una divisione convenzionale ma inquadrati in modo meno rigoroso e posti al comando di un ufficiale francese (“goum” deriva dalla trascrizione fonologica, in francese, del termine arabo “qum” che indica, appunto, un gruppo o una squadra). In prossimità dell’ora dell’attacco il generale Juin inoltrò a questi uomini un appello. Per quanto, va detto, non esista alcuna prova scritta di questo proclama (la Francia in ogni caso secretò subito gli archivi militari), ci sarebbero testimonianze sulla traduzione del manifestino, scritto in francese e in arabo, consegnato ai “goumiers”. La traduzione che qui presento, come riportato in Wikipedia, è quella dell’Associazione Nazionale Vittime Civili: «Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c’è un vino tra i migliori del mondo, c’è dell’oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all’ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto e promesso mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete».

Va detto che l’ex presidente algerino Ahmed Ben Bella, che fece parte di quei contingenti, in una intervista ad una recente trasmissione della Rai ha affermato che è improbabile che il generale Juin abbia mai rilasciato quel proclama, tantomeno per iscritto. Le eventuali (lui nega infatti di aver mai assistito ad alcuna violenza) brutalità sarebbero nel caso state favorite dagli ufficiali francesi di rango minore, desiderosi di raggiungere i loro specifici obiettivi sul campo e per questo pronti a fare qualsiasi promessa ai propri subordinati. In ogni caso il fatto che nel giugno del ‘44 quei crimini ebbero un carattere davvero “di massa” non può non far pensare a una condiscendenza anche degli ufficiali di rango superiore.

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Il generale britannico Harold Alexander.

VIOLENZE CONTINUATE DI MASSA

Le violenze comunque non durarono solamente 50 ore, e andarono ben oltre il lasso di tempo che sarebbe stato concesso da Juin, anche se quelle prime ore, secondo le testimonianze, furono quelle più atroci. Nei giorni che seguirono la battaglia, terminata il 17 maggio, i “goumiers” sopravvissuti (si consideri che durante la campagna d’Italia queste milizie videro più che dimezzato il loro numero) devastarono, violentarono, uccisero. Quei giorni cancellarono nel ricordo, in quei luoghi, la stessa brutalità delle truppe tedesche. Migliaia di donne, virtualmente di ogni età, vennero stuprate. Furono anche sodomizzati numerosi uomini – intervenuti per salvare mogli, figlie, sorelle e madri – molti dei quali successivamente assassinati tramite impalatura. Qualcuno fu crocefisso. Il parroco di Esperia (Don Alberto Terilli), che provò inutilmente a salvare tre donne da quelle crudeltà, fu sodomizzato tutta la notte, morendo due giorni dopo a causa delle sevizie. A seguito delle violenze sessuali molte persone furono contagiate da malattie veneree, soprattutto sifilide e blenorragia, e solo il miracoloso uso della penicillina statunitense, appena introdotta, evitò una epidemia su vasta scala. Durante le violenze furono distrutti fabbricati e sottratti bestiame, utensili, abiti e denaro. Neanche i conventi furono risparmiati. Lo scrittore inglese Norman Lewis, all’epoca giovane “Field Security Officer” dei servizi segreti alleati a Napoli, narrò gli eventi di cui fu testimone e tra l’altro scrisse: «Tutte le donne di Patrica, Pofi, Isoletta, Supino, e Morolo sono state violentate. A Lenola il 21 maggio hanno stuprato cinquanta donne, e siccome non ce n’erano abbastanza per tutti hanno violentato anche i bambini e i vecchi. I marocchini di solito aggrediscono le donne in due – uno ha un rapporto normale, mentre l’altro la sodomizza». Già nel marzo del ‘44 De Gaulle, durante la sua prima visita al fronte italiano, parlò di rimpatriare i reparti coloniali e impegnarli solo per compiti di ordine pubblico. In quello stesso mese molti ufficiali francesi chiesero insistentemente ai propri vertici di rafforzare il contingente di prostitute al seguito di quelle truppe. Le efferatezze compiute furono comunque sempre giustificate dagli alti comandi francesi, nel dopoguerra, con la necessità assoluta di sfondare il fronte di Cassino.

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Reparti di goumiers.

Come messo in luce dallo storico Tommaso Baris, una nota alla Presidenza del Consiglio del 25 giugno, da parte del comando generale dell’Arma dei Carabinieri dell’Italia liberata, segnalò nei comuni di Giuliano di Roma, Patrica, Ceccano, Supino, Morolo, e Sgurgola, in soli tre giorni (dal 2 al 5 giugno), 418 violenze sessuali, di cui 3 su uomini, con 29 omicidi e 517 furti compiuti dai soldati coloniali, i quali «infuriarono contro quelle popolazioni terrorizzandole. Numerosissime donne, ragazze e bambine (…) vennero violentate, spesso ripetutamente, da soldati in preda a sfrenata esaltazione sessuale e sadica, che molte volte costrinsero con la forza i genitori e i mariti ad assistere a tale scempio. Sempre ad opera dei soldati marocchini vennero rapinati innumerevoli cittadini di tutti i loro averi e del bestiame. Numerose abitazioni vennero saccheggiate e spesso devastate e incendiate». Molte violenze furono attestate proprio da lunghe relazioni dei carabinieri. Baris ricorda che in alcuni memorandum l’atteggiamento degli ufficiali francesi veniva duramente stigmatizzato. Per esempio, in un documento, si leggeva di loro: «Lungi dall’intervenire e dal reprimere tali crimini hanno invece infierito contro la popolazione civile che cercava di opporvisi … [le truppe marocchine] sono state reclutate mediante un patto che accorda loro il diritto di preda e di saccheggio … gli ufficiali lasciano ai marocchini una discreta libertà di azione … e nella generalità dei casi preferiscono ignorare».

DOLOROSE TESTIMONIANZE

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Goumiers a Cassino.

Sempre Baris, che a lungo ha studiato quelle vicende, presenta nelle sue ricerche diverse testimonianze, tra cui per esempio quella di una giovane afflitta: «Li portettero qua a migliaia. Se vedevano scegnere dalla montagna… da luntano erano come alle furmiche …Ma fuiette nu passaggio, in tre iuorni, facettero l’inferno. Erano na razzaccia brutta e spuorca. C’avevano gli ‘recchini agliu nase, certe vesti longhe (…). Pe tutta la muntagna se sentevano strilli e lamienti….». E lo studioso italiano riassume significativamente: «L’impossibilità di una qualsiasi difesa dinanzi al dispiegarsi di una ferocia animalesca (più volte richiamata dall’accostamento dei goumier alle bestie), così feroce da fuoriuscire dalla sfera umana (indemoniati e diavoli sono infatti definiti ripetutamente i marocchini), l’abbandono subìto dalle autorità alleate in cui avevano riposto tanta fiducia, segnarono in maniera indelebile la memoria dei giorni di guerra. L’immagine restituitaci, e dalla documentazione archivistica e dalle testimonianze orali, è quella di un paesaggio infernale». Diverse città laziali, come detto, furono investite da quelle violenze. Nella provincia di Frosinone: Esperia, Castro dei Volsci, Vallemaio, Sant’Apollinare, Ausonia, Giuliano di Roma, Patrica, Ceccano, Supino, San Giorgio a Liri, Coreno Ausonio, Morolo e Sgurgola per citare le maggiori. Nella provincia di Latina (allora Littoria): Lenola, Campodimele, Spigno, Saturnia, Formia, Terracina, San Felice Circeo, Roccagorga, Priverno, Maenza, Sezze e altre piccole località. Gli stupri continuarono ai Castelli romani, soprattutto a Grottaferrata e a Frascati, ed ebbero luogo anche alla periferia di Roma. Se alcuni fatti, e le nefandezze che ne scaturirono, sono stati ricostruiti in una dolorosa memoria comune è proprio grazie alle sconvolgenti testimonianze: del resto la ferocia degli avvenimenti fu tale da averli resi incancellabili nel ricordo di chi fu vittima o testimone di tanti strazi (alcune di queste attestazioni si trovano sul blog dell’Associazione Nazionale Vittime delle Marocchinate). Qui una testimonianza particolarmente toccante raccolta da Stefania Catallo, fondatrice del Centro Antiviolenza “Marie Anne Erize”: «Il giorno prima che succedesse l’inferno, vennero due donne da un paese vicino a supplicarci di scappare, di cercare un rifugio … perché stavano arrivando i marocchini … Il giorno dopo mi alzai all’alba per preparare qualcosa da mangiare … Avevo preparato una cesta con pane e formaggio, e stavo mettendoci dentro qualche mela, quando all’improvviso sentii urlare e sparare. Ricordo ancora i passi di corsa sulla strada, le urla dei marocchini, le donne che piangevano e gridavano … Mia figlia aveva dieci anni. Le aprii la porta che dava sul cortile, dove avevamo il pollaio e la spinsi fuori, dandole la cesta. Non ci fu bisogno di parole. Rimasi davanti al tavolo della cucina, pensando che se mi fossi fatta trovare in casa, mia figlia avrebbe avuto il tempo di fuggire, e si sarebbe salvata. Vuoi sapere cosa pensavo? Niente. Pregavo …. Pregavo, tante Ave Maria mentre non potevo fare altro che piangere e aspettare. Pregavo la Madonna per mia figlia. Pregavo che la violenza … durasse il più a lungo possibile, affinché lei potesse scappare lontano …. La prima cosa che fecero, fu di darmi un calcio violentissimo alla fronte per stordirmi, per rendermi inerme. Poi mi violentarono e picchiarono selvaggiamente. Sembravano impazziti. Credevo che volessero uccidermi. Di loro mi ricordo solo le risate, i loro vestiti lunghi così strani, e le loro parole in una lingua sconosciuta. La loro puzza. Gli orecchini che uno di loro portava al naso e alle orecchie. Poi, il silenzio. Ero piena di sangue …. Il viso graffiato, i capelli strappati alle tempie, i lividi che mi facevano male ….. Quante donne straziate, quanti uomini uccisi! Vedevo le mie amiche con gli occhi sbarrati e vuoti, vedevo tante bambine buttate da una parte come bambole rotte. Mi faceva male tutto. Rientrai in casa e misi una pentola sul fuoco, poi mi lavai con acqua bollente e sapone, fino a diventare tutta rossa. Ma questo non servì a molto. Quando chiudevo gli occhi, vedevo quelle facce e sentivo quelle risate. E’ durato per anni, me li sognavo la notte …. Nessuno ci ha mai chiesto scusa, nessuna autorità è venuta da noi … Siamo state bottino di guerra. Né più né meno di un oggetto rubato».

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Il primo presidente algerino Ben Bella nel 1965.

Il 17 maggio i soldati americani che passarono da Spigno sentirono le urla di dolore di molte donne violentate. Questi soldati, pur impegnati in guerra ormai da tanto tempo, rimasero fortemente impressionati da ciò che videro e scrissero presto rapporti ufficiali in cui si parlava espressamente di donne, ragazze, adolescenti, bambine e fanciulli stuprati, come pure di prigionieri sodomizzati. Quelle denunce rimasero tutte inascoltate dai vertici militari alleati. 
A Pico, come scrive lo storico Michele Strazza, alcuni soldati statunitensi del 351º reggimento fanteria (88ª divisione, i cui appartenenti erano soprannominati “blue devils” per il coraggio mostrato in battaglia) giunsero mentre i “goumiers” stavano compiendo le loro atrocità. Per un po’ si fronteggiarono armati con questi ultimi, molto più numerosi, ma furono infine bloccati dal proprio comandante che, dopo aver colloquiato con gli ufficiali francesi, disse loro: «siete qui per combattere i tedeschi e non i francesi, e del resto quei soldati stanno solo restituendo le violenze perpetrate dai soldati italiani in Africa». Qualcuno ha attestato anche di un episodio in cui truppe americane e canadesi si sarebbero messe a difesa di un paesino proprio per evitare preventivamente l’accesso ai coloniali francesi, preceduti evidentemente dalla loro triste fama. Il cardinale francese Eugène Tisserant, ricorda sempre Strazza, inoltrò più rimostranze a Juin, il quale un po’ ammise, un po’ promise di intervenire, un po’ cercò di sminuire, e infine assicurò «che si era provveduto alla fucilazione di 15 militari, accusati di stupri, colti sul fatto, mentre altri 54, colpevoli di violenze varie e omicidi, erano stati condannati a diverse pene compresi i lavori forzati a vita». Il 18 giugno papa Pio XII chiese a Charles de Gaulle, ricevuto in udienza, di prendere accorgimenti. Ricevette subito una risposta amareggiata, quanto furiosa nei confronti del generale Juin. La zona di Castelgandolfo, per iniziare, venne subito interdetta ai reparti coloniali. Lo storico Pierluigi Guiducci nota come anche il capo del governo italiano, Ivanoe Bonomi, scrisse all’ammiraglio Ellery Wheeler Stone, presidente della Commissione Alleata di Controllo: «Già precedentemente questo governo ha segnalato… le malefatte commesse dalle truppe marocchine e ha avuto affidamento che sarebbe stato fatto il possibile, dando anche i dovuti esempi, per evitarle. Purtroppo le violenze però continuano. Dal 2 al 5 giugno nel territorio della provincia di Frosinone le truppe francesi marocchine hanno consumato 396 violenze carnali, 13 omicidi, 250 rapine, 303 furti».

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Reparti CEF ad Esperia.

Il ministro degli Esteri Alcide De Gasperi scrisse a Tisserant. Evidentemente tutto era reso difficile dal fatto che fino a poco tempo prima l’Italia era stata alleata della Germania. Del resto, come afferma De Luna, «per quasi due anni, dal luglio del 1943 al maggio 1945, subimmo una durissima legge del contrappasso: il fascismo che aveva inseguito i suoi deliri imperiali in terre lontane, portò la guerra sull’uscio delle nostre case, in un turbinio di stragi naziste (15 mila vittime civili), bombardamenti (65 mila vittime civili), rappresaglie, battaglie campali. Invasori, liberatori, occupanti, comunque si chiamassero, le truppe straniere guardarono all’Italia come a un paese vinto. E si comportarono di conseguenza». L’”Osservatore Romano” (es. 28, 30 luglio e 4, 7, 8 ottobre), ci ricorda Guiducci, denunciò nuovi episodi di violenza da parte dei soldati del CEF. Il 28 luglio per esempio riportò le tragiche violenze consumate dai “goumiers” su un treno a Ciampino. A seguito di quel dramma, fu rinvenuto il cadavere di una donna. Accanto, c’erano quattro donne e un bambino in gravissime condizioni. I sopravvissuti furono ricoverati d’urgenza presso l’ospedale San Giovanni. Ma una delle tre donne morì. Cessò di vivere anche il bambino. Il 4 ottobre il giornale vaticano informò anche che Mons. Mario Toccabelli, arcivescovo di Siena, volle incontrare il generale Juin dopo la liberazione della città toscana. Nel colloquio del 13 luglio il cardinale non fu certo prudente: disse a Juin che aveva autorizzato una difesa armata nei casolari a rischio di attacchi da parte dei marocchini, e fece anche vedere delle bombe a mano che teneva personalmente! I soldati coloniali vennero poi fatti tornare in Francia nell’agosto del ’44. Furono successivamente trasferiti sul fronte tedesco, nella Foresta Nera e a Freudenstadt, nell’aprile del ‘45, dove si resero di nuovo responsabili di molteplici episodi di stupro e violenze di diversa natura. La Francia pagò, alla fine della guerra, da un minimo di 30 mila a un massimo di 150 mila lire per ogni stupro, fino al primo agosto del ‘47 (anche se il risultato si concretizzò in pratica solo dopo un estenuante quanto sistematico ginepraio di capziosità burocratiche e gravi ritardi). Da quel momento in poi a pagare fu lo Stato italiano, sottraendo i fondi dai 30 miliardi dovuti alla Francia per i danni di guerra. Le autorità italiane presentarono richieste in verità molto più numerose di quelle infine riconosciute dai francesi che del resto, va detto, misero presto in dubbio le cifre relative alle violenze. Le ricerche in merito sono infatti discordi: molti studi parlano di decine di migliaia di donne stuprate, ma per esempio lo storico francese Jean Christophe Notin, nella trasmissione della Rai citata precedentemente, ha affermato che le violenze documentate in Ciociaria furono solo poche centinaia. In ogni caso in quella stessa trasmissione Rai si mostra una relazione della Direzione Generale della Sanità Pubblica al Ministero dell’Interno del 13 settembre del ‘44 dove si riportano 3100 casi di donne con malattie veneree nella provincia di Frosinone e di Latina, con sintomi apparsi tutti dopo le violenze dei “goumiers”. In verità i dati ufficiali si basano essenzialmente sul numero di richieste di indennizzo avanzate dalle donne italiane (più di 60000), e così la totalità degli stupri e degli omicidi commessi risultano ad oggi difficilmente riassumibili con precisione. L’entità del fenomeno rimane comunque impressionante, considerando anche il brevissimo arco di tempo in cui avvenne e l’estrema ristrettezza del territorio.

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Don Alberto Terilli, ucciso crudelmente dalla furia dei sodati del CEF.

L’INTERVENTO ALLA CAMERA DI MARIA MADDALENA ROSSI

Nella seduta della Camera dei Deputati del 7 aprile 1952 (relegata nella notte!) i tragici avvenimenti fin qui presentati furono con commozione ricordati e denunciati da Maria Maddalena Rossi, deputata del Partito Comunista Italiano. Nata nel 1906 (fu tra le prime laureate in chimica del nostro paese) era allora la presidente dell’Unione Donne Italiane, organizzazione che si attivò presto, dopo la fine del conflitto, per portare alla luce e denunciare quelle atrocità e cercare di ricompensare, almeno economicamente e per quanto possibile, le vittime. Voglio qui sottolineare, in ogni caso, che molta della storiografia di sinistra attuò pian piano un colpevole profilo di silenzio principalmente per non favorire, si ritenne, una presunta forma di pregiudizio razziale: l’argomento fu così, per molti anni almeno, considerato a sinistra politicamente scorretto, quasi un tabù. Va anche sottolineato che tutti i governi italiani per circa 60 anni hanno virtualmente ignorato quei fatti. In ogni caso, per quanto ho potuto appurare, questi ultimi non hanno trovato mai il giusto spazio neppure nei libri della storiografia ufficiale. Laddove invece sarebbe dovere di chi scrive la storia, a mio modesto avviso, anche ripagare chi la storia l’ha dovuta soffrire. Le stesse realtà locali non sono state quasi mai in grado di costruire un ragionamento pubblico su quelle vicende, rimaste presenti spesso soltanto nel ricordo delle vittime, dei testimoni e dei pochi accademici che le studiarono.

Riporto qui la parte iniziale del lungo ed accorato intervento della presidente dell’UDI: «La nostra interpellanza si riferisce dunque ad uno dei drammi più angosciosi, quello delle donne che subirono le violenze delle truppe marocchine … quando queste irruppero nella zona del cassinate. Non so se sia vero quello che si dice…, cioè che il contratto di ingaggio di questi mercenari non escluda o addirittura consenta il diritto al saccheggio e alla violenza …. Comunque, sia stato o meno tollerato, se non concesso, il fatto è che il saccheggio fu compiuto e le violenze ebbero luogo. Il primo paese del cassinate che le truppe marocchine incontrarono nell’aprile 1944 … fu, se non erro, Esperia. I soldati fecero irruzione nelle case, depredarono, saccheggiarono, e violenze innominabili furono compiute su donne e uomini. Perfino il parroco fu legato ad un albero e costretto ad assistere allo spettacolo. Poi anche di lui fu compiuto tale scempio che ne mori. Del resto, a Vallecorsa, non furono risparmiate neppure le suore dell’ordine del Preziosissimo Sangue. A Castro dei Volsci dai registri del comune risultano 42 gli uomini e le donne morti in quei mesi terribili. Come e perché morirono quei 42 cittadini? Ecco alcune informazioni. Molinari Veglia, una ragazza di 17 anni, è violentata sotto gli occhi della madre e poi uccisa con una fucilata; siamo in contrada Monte Lupino, il 27 maggio 1944. Rossi Elisabetta, di circa 50 anni, è sgozzata dai marocchini perché tenta di difendere le sue due figlie, rispettivamente di 17 e 18 anni: la madre muore e le figlie sono violentate; ciò accade in contrada Farneta. Anche Margherita Molinari, di 55 anni, tenta di salvare la figlia Maria, che ne ha 21: è uccisa con cinque fucilate al ventre! Il bambino Serapiglia Remo, di cinque anni, innocente testimone dei delitti che intorno a lui si compiono, dà fastidio: perciò viene lanciato in aria e lasciato ricadere, così che morrà entro le 24 ore successive per le lesioni riportate … Ed ecco alcuni esempi di ciò che accadde a Pastena … Antonini Giuseppe fu Francesco viene ucciso dai marocchini in contrada Santa Croce e nessuno sa dove sia stato sepolto, perché il cadavere è portato via immediatamente dai francesi. Giuseppe Faiola fu Marco è ucciso dai marocchini in contrada Cerviso. A Vallecorsa, Luigi Mauri fu Martino muore il 26 maggio 1944 in contrada Lisano nel tentativo di difendere l’onore della moglie Lauretti Assunta e delle sue quattro figliole. Ancora a Vallecorsa Antonbenedetto Augusto fu Cesare cade il 25 marzo 1944 in contrada Visano per difendere l’onore della moglie Nardoni Margherita. Cade anche Papa Vittorio di Alessandro il 25 maggio 1944, in contrada Santa Lucia, avendo osato difendere la moglie Di Girolamo Rosina di Augusto, ma prima di essere ucciso è egli stesso seviziato … Fatti analoghi a quelli che ho citato accadono a Pontecorvo, a Sant’ Angelo, a San Giorgio Liri, a Pignatari Intermagna, a Ceccano: almeno in una trentina di paesi delle province di Frosinone e di Latina, percorse dalle truppe marocchine. Quante donne abbiano subito violenza da parte delle truppe marocchine nessuno sa con esattezza né forse si saprà mai…». Quelle strazianti vicende furono costellate, come si può facilmente immaginare, anche da successivi e angosciosi interrogativi, come pure da problemi sia fisici che psicologici di diversa natura. Molte donne violentate morirono per le malattie contratte, alcune si suicidarono, altre furono rinchiuse nei “manicomi”, altrettante emigrarono per scappare da un contesto per loro insopportabile. La violenza sessuale è tra i crimini più odiosi e devastanti: denunciare di essere stata stuprata era un’esperienza di per sè terribile, anche se poteva evidentemente essere fonte di denaro.

IL CONTESTO CULTURALE

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L’Abbazia di Montecassino dopo i bombardamenti alleati.

Per le vittime ci fu anche il dolore di vedersi subito emarginate dalla società. Lo stesso Stato italiano non tributò mai, se non in un discorso pubblico del presidente Ciampi a Cassino il 15 marzo 2004, una decorosa e partecipe vicinanza alle vittime, rendendosi di fatto complice dei giudizi più disparati cui queste donne furono sottoposte, anche in seno alle comunità locali alle quali appartenevano. E’ un fatto che alle celebrazioni istituzionali del dopoguerra relative a quelle violenze sessuali fu sempre assegnato un basso profilo ed esse furono pian piano sempre più ignorate. L’angoscia evidentemente andava smaltita in silenzio, in un contesto fatto di umiliazione e condanna, a causa di una “vergogna alla rovescia”, ovvero un vero ribaltamento del sentimento di ignominia, dal persecutore alla vittima. Ricorda una testimone, come documentato negli studi di Baris: «In paese nisciuno ne parlava in faccia, ma tutti ne parlavano sotto sotto. E venivano indicate: è stata chella, è stata chell’ata. E roppo (dopo) cheste donne qui le schifavano un po’ tutti». Per quanto riguarda gli uomini (molti di loro tornati dalla guerra), essi manifestarono presto malessere e addirittura collera verso le mogli violentate. Questo contesto e questa mentalità furono tali da impedire alle nubili di sposarsi e anche di ottenere un’occupazione degna. Molte donne non riuscirono a convivere con questa realtà, arrivando, come ho già detto, perfino a togliersi la vita. Davvero commovente, ma anche istruttiva se così posso dire, una testimonianza riportata sempre nei lavori di Baris: «Mio padre tornò alla fine della guerra e cominciò l’inferno a casa nostra. Mamma piangeva spesso, anche quando lavorava o stava sola. Mio padre incominciette a bere e si arrabbiava pè niente e ce picchiava. La nonna ce voleva bene e cercava di difenderci. Ma se morì subito di crepacuore. Io non riuscivo a capire perché papà diceva tante brutte parole a mamma. Crescemmo, passavano gli anni, sempre a faticare. Quando divenni signurina mio padre, me lo ricordo ancora, me disse: “Vedi adesso di non fa pure tu la fine de tua madre”. La mamma allora dovette quasi spiegarmi, con la forza, tutto chello che gli erano fatto gli marocchini. Capii che gli surdati che m’avevano dato la cioccolata avevano ruvinato per sempre la pace della casa nostra. Mamma me raccontò che l’avevano violentata in cinque. Mi diceva che tutti gli omene sono sporchi ma che i marocchini sono più sporchi di tutti. E così quanno mio padre capì al suo ritorno quello che era successo a mia madre non stette chiù bene, pareva impazzito…..».

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Il cardinale Tisserant.

La psicologa Cinzia Venturoli sottolinea: «Lo stupro prima di essere considerato come una ferita al corpo e all’anima della donna vittima, era vissuto come un’offesa all’onore personale e familiare, un oltraggio rivolto all’onore e ai valori della comunità. A ciò si deve aggiungere il sospetto di collusione e di una responsabilità della donna che non era riuscita a difendersi e, quindi, a evitare la violenza sessuale. Sin dall’età moderna era andata infatti codificandosi, anche a livello giuridico, una tradizione che imponeva alla vittima dello stupro di dimostrare di avere opposto resistenza alla violenza, dando prova di onestà …. affinché su di lei non ricadesse il sospetto di un qualsiasi consenso». Come quindi commenta Baris, «incapaci di affrontare le mille contraddizioni aperte dagli stupri nel loro sistema culturale, gli abitanti dell’area non furono in grado di rapportarsi con la loro storia più recente, preferendo oscurare la vicenda e lasciando ai singoli l’elaborazione della memoria». Singoli che comunque difficilmente nominavano le violenze subite, quasi ne fossero appunto loro stessi i colpevoli. La presidente dell’UDI, sempre nel suo intervento notturno alla Camera, a proposito di molti di questi aspetti commentò: «Molte di queste vecchie donne sono malate: si consumano lentamente a causa dell’ignobile morbo che è stato loro trasmesso dai soldati marocchini. Entrando nei loro poveri tuguri si vedono queste povere donne sui loro giacigli di stracci, con i bambini intorno, con parenti che non sanno o non possono curarle; e queste vecchie parlano, raccontano quello che è loro accaduto. Le giovani no; le giovani, in generale, sono restie a parlarne, e se ne comprende bene il perché. Se per le vecchie l’insulto subito sa quasi di martirio, per le giovani significa qualche cosa di peggio della morte: significa avere di fronte a sé un lungo periodo di vita, una vita non ancora vissuta, ma buia e fredda, in cui non c’è più alcuno spiraglio, alcuna speranza, alcuna luce; perduta la possibilità di avere una famiglia; di avere dei figli; perfino il lavoro é precluso a queste giovani, e la povertà nel loro caso è ancora più tragica, perché il benessere economico, il lavoro potrebbero almeno aiutarle in parte ad uscire da questo terribile isolamento in cui le ha gettate la loro disgrazia …. ».

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Maria Maddalena Rossi, deputata del PCI.

E’ ancora la deputata del PCI a ricordarci poi indirettamente quale fosse l’atteggiamento del governo, ed a testimoniare altresì come i fatti spinsero quelle donne ad un inedito protagonismo, almeno per l’Italia del tempo: «A Pontecorvo il 14 ottobre scorso ebbe luogo un singolare convegno … Non so se sia vero che vi fu da parte del ministro degli Interni o di qualche suo zelante Prefetto il tentativo di impedirlo per ragioni di “carattere morale”, perché questo convegno avrebbe offeso la pubblica moralità. Ad ogni modo il convegno … ebbe luogo, e vi parteciparono le rappresentanti delle 60 mila donne che a suo tempo hanno presentato domande in qualità di vittime civili della guerra, motivate da violenze e danni di vario tipo. Erano 500 delegate. Io ho partecipato a questo Convegno e ho visto le 500 contadine venute dai villaggi e dai paesi della piana e delle montagne circostanti. Molte avevano camminato per ore ed ore a piedi per arrivare in tempo a Pontecorvo, e non avevano certo mai partecipato in vita loro ad una riunione né tanto meno parlato da una tribuna. Né, credo, queste contadine, queste montanare, che ricordano ancora coi loro costumi le ciociare di un tempo, cosi ritrose e fiere, avrebbero mai voluto parlare addirittura in un convegno di fronte a tutti della loro mostruosa disgrazia. Invece, sono state costrette a fare così. E con quale serietà esse hanno esposto i loro casi dolorosi!». Durante quella stessa seduta parlamentare, l’on. Luigi Preti del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani fa alcune considerazioni rivolte all’aula e al rappresentante del governo le quali, a mio avviso, suggeriscono ulteriori riflessioni sulle angosce delle vittime: «Voi pensate che la vita di queste donne sarebbe colpita nella stessa misura se esse avessero perduto uno dei loro cari in guerra? No, non è la stessa cosa. Noi conosciamo le madri che hanno perso i figli, le mogli che hanno perso i mariti: noi le amiamo, le onoriamo, manifestiamo loro la nostra intera solidarietà, sì che esse trovano qualche volta una sorta di conforto nel sapere che il loro lutto è condiviso, che la memoria dei loro cari scomparsi è sacra a milioni di cittadini. Ma queste donne no! Per queste non c’è conforto possibile. Si devono nascondere, come se si sentissero infette anche moralmente! A queste donne si vorrebbe vietare di parlare della loro sventura, di riunirsi, di reclamare, in nome della pubblica moralità! Inoltre, ella ha confrontato questa sventura a quella di una persona che perde un congiunto in una disgrazia automobilistica o non so che altre. Onorevole sottosegretario, se mi permette, questo non lo doveva dire. Non si deve confrontare questa sventura con altre, piccole o grandi che siano, né tanto meno collocarla nella categoria degli “incidenti”. Altrimenti non basta più parlare di insensibilità, perché si tratterebbe di cinismo».

E’ GIUSTO OGGI RICORDARE?

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La Ciociara.

Il Presidente dell’Associazione Nazionale Vittime delle Marocchinate Emiliano Ciotti ha proposto, come riportato in Wikipedia, una stima recente di quegli stupri di massa, con alcune testimonianze relative agli avvenimenti in Sicilia: «Dalle numerose documentazioni raccolte oggi possiamo affermare che ci furono un minimo di 20.000 casi accertati di violenze, numero che comunque non rispecchia la verità; diversi referti medici dell’epoca riferirono che un terzo delle donne violentate, sia per vergogna o pudore, preferì non denunciare. Facendo una valutazione complessiva … possiamo affermare con certezza che ci fu un minimo di 60.000 donne stuprate … I soldati magrebini mediamente stupravano in gruppi da 2 (due) o 3 (tre), ma abbiamo raccolto testimonianze di donne violentate anche da 100, 200 e 300 magrebini. In Sicilia, i goumiers avrebbero avuto scontri molto accesi con la popolazione per questo motivo: si parla del ritrovamento di alcuni goumiers uccisi con i genitali tagliati (secondo alcuni un chiaro segnale). I siciliani, oltre a nascondere le donne in rifugi naturali o artificiali come grotte o pozzi, in diversi casi reagirono, come a Capizzi dove una quindicina di marocchini venne uccisa con l’acquiescenza delle autorità militari alleate; in altri casi gli autori degli stupri vennero uccisi a roncolate o evirati, sbudellati e dati in pasto ai maiali». Il film La ciociara (1962), diretto da Vittorio De Sica (nativo della provincia di Frosinone) e ispirato al romanzo omonimo di Alberto Moravia (1957), finisce proprio con la violenza da parte di alcuni marocchini nei confronti di una madre, Cesira, e di sua figlia Rosetta, ancora bambina. Nel film, uno dei grandi capolavori del cinema neorealista italiano, che non fa sconti ai fascisti ma neppure idolatra i liberatori, è facile ravvisare quindi la volontà di ricordare un passato che molti italiani vollero invece, per motivi diversi, gettarsi alle spalle (e neanche questo film straordinario, purtroppo, ha potuto evidentemente tradursi in consapevolezza storica). La madre (Sophia Loren, che per questo film vinse l’Oscar, la Palma d’oro a Cannes e il David di Donatello) chiama i violentatori “turchi” (antico retaggio dovuto alle storiche scorribande dei cosiddetti saraceni), in un disperato quanto vano appello verso gli ufficiali francesi. Rosetta da allora comincia a concedersi volontariamente a tutti gli uomini che incontra, come se questo comportamento fosse l’unica liberazione possibile. Moravia, nel romanzo, ci ricorda così un ulteriore drammatico esito di quelle storie angoscianti: «Uno dei peggiori effetti delle guerre è di rendere insensibili, di indurire il cuore, di ammazzare la pietà». Per le ragazze come Rosetta la violenza dello stupro, in un contesto sociale caratterizzato da un modo di pensare arretrato, si sommò alla violenza della guerra, cancellando nel modo più crudele l’uscita dalla loro fanciullezza e segnandone drammaticamente il resto dell’esistenza. «Basta soffrire», è una delle battute cult del film. L’interpretazione delle violenze dei combattenti coloniali francesi è ad oggi tutt’altro che chiara. Quei comportamenti sono stati da alcuni attribuiti principalmente alle responsabilità degli ufficiali francesi (che utilizzavano quelle truppe in azioni impossibili promettendo loro “carta bianca” se fossero poi riuscite nell’impresa); da altri sono stati spiegati con gli istinti primordiali e ferini di “quei selvaggi”, o con le condizioni miserevoli delle zone più povere del Maghreb in cui costoro erano cresciuti.

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Copertina del romanzo.

Nella trasmissione Rai precedentemente citata si riassume una intervista al “Mattino” del 1993 del famoso scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, dove i goumiers vengono così descritti: «Era soprattutto gente che viveva sulle montagne, i francesi li rastrellarono, li caricarono sui camion con un’azione violenta, di sopraffazione e li portarono a migliaia di chilometri da casa a compiere altre violenze. Le loro azioni brutali vanno inquadrate in questo contesto…in Marocco ovviamente sono gli eroi di Cassino. I goumiers andavano all’attacco salmodiando la Chahada. Catturavano i tedeschi per rivenderli (500-600 franchi per un soldato semplice, il triplo per un ufficiale superiore) ai militari americani desiderosi di costruirsi una reputazione guerriera senza rischiare». I comportamenti di quelle truppe furono, da altri ancora, ricondotti a ragioni prettamente religiose, citando presunte concezioni della donna e del suo ruolo nel mondo islamico. Non sono mancate ovviamente interpretazioni di carattere “etnico”, per così dire: queste ultime inevitabilmente confuse, fino a configurarsi talvolta come veri e propri pregiudizi razziali. In più va certamente ricordato che in ogni guerra, in ogni epoca, i fenomeni relativi alle violenze sessuali sulle donne (meno, di norma, su uomini e bambini) sono sempre stati numerosi: “Con la vittoria viene il bottino” è stato il grido di guerra più ripetuto per secoli, con le donne degradate a parte della preda. Ognuno di questi fenomeni, se ha avuto qualche causa comune (per esempio l’irrazionale “bestialità” del maschio quando vengono messe a tacere le uniche forze, oltre la sicura punizione, che davvero la limitano, ovvero l’autocontrollo e l’empatia), ha sempre in ogni caso evidenziato anche proprie, distinte e specifiche caratteristiche. Non è questa la sede in ogni caso, per motivi di spazio oltre che di competenza e di pertinenza al tema solo riassuntivo che mi sono inizialmente posto, di riflettere a lungo su questi difficili e controversi temi. Comunque, anche se ad oggi non abbiamo una spiegazione completa universalmente accettata delle azioni dei “goumiers”, è come dicevo mio profondo convincimento che esse debbano in ogni caso essere messe in luce e non nascoste. Sono una persona di sinistra e frequento spesso persone di sinistra. Alcune di loro, sempre pronte giustamente, sottolineo, a rendere noti e denunciare episodi riguardanti violenze a popoli o comunità ritenute “più indifese” di altre (e magari a considerare l’ex tecnico della CIA Edward Snowden un «benefattore dell’umanità» anche solo per aver «rivelato i fatti»), venute a conoscenza del mio impegno per questo contributo mi hanno, anche se cordialmente e amichevolmente, avvertito: «Non c’è il problema che tornando su questi avvenimenti, del resto dopo così tanti anni, rischi, pur non volendo, di alimentare sentimenti razzisti nei confronti di un certo tipo di immigrati?». Non giudico questa loro considerazione irricevibile, pur ritenendola incoerente con le altre ricordate. Contribuire ad accrescere pregiudizi razzisti, sempre odiosi, sarebbe di per sè un risultato disdicevole. Ciononostante non credo che sia nascondendo i fatti che falsi preconcetti xenofobi (il concetto di ‘razza’ non ha nessuna base scientifica, e del resto in passato la cultura araba è stata più avanzata di tante altre) possano essere, nel lungo termine, davvero contrastati. Sono invece assolutamente convinto che è con la conoscenza, l’informazione e la consapevolezza (magari appunto anche di vicende “scomode” e virtualmente oscurate per anni e anni) che si può provare a sperare in un mondo più civile e quindi più pacifico. E’ inoltre lecito avanzare, in campo etico, considerazioni di carattere non prettamente utilitaristico. L’insegnante di scuola media Bruno D’Epiro, figlio della terra esperiana, deportato a sedici anni dai tedeschi perché non volle aderire alla Repubblica Sociale Italiana e insignito da Pertini del “Diploma d’onore di combattente per la libertà 1943/45”, cominciò presto a raccogliere le attestazioni relative alle atrocità subite dalle vittime: «La spinta me l’hanno data le donne di Esperia. Nel 1950, quando si cominciarono a dare i primi miseri indennizzi alle donne violentate, io scrivevo le domande per loro e ne raccoglievo le testimonianze». E’ così, anche pensando alle tante Cesire e Rosette, e a tutti coloro che provarono a difenderle, che ho ritenuto quindi perfino doveroso, oltre che opportuno, dedicare un po’ del mio tempo a produrre questa pur elementare nota riassuntiva, avendo avuto modo in passato di leggere alcuni libri, articoli e documenti su quelle tristi storie, e di parlarne. Per provare a contribuire, con la cortese e fattiva disponibilità de “L’Undici”, a promuovere la conoscenza di eventi infausti avvenuti a pochissimi chilometri da dove sono nato e da dove vivo, in luoghi che conosco benissimo e frequento sin da bambino. E’ mia convinzione che si possano commemorare quelle vittime martoriate anche con l’impegno a far conoscere le violenze da loro subite (e tutto ciò che queste hanno poi causato) attraverso il corretto ricordo, restituendo a quelle nostre sfortunate connazionali, con la pubblicizzazione della verità (nascosta da moralismi di tipo diverso, tra cui anche quello sessuofobico imperante nei decenni passati in Italia), la dignità delle loro pur terribili esperienze. Ciò può anche ristabilire la giusta memoria di una parte rimossa della celebrata storia della Liberazione dall’oppressione nazifascista, ovvero di una parte taciuta della storia del nostro Paese. I soldati coloniali francesi hanno certamente contribuito a combattere i tedeschi che occupavano il nostro suolo e a sconfiggerli. Ma i loro efferati crimini, quali ne siano le interpretazioni, non possono essere cancellati. Soprattutto non devono essere dimenticati.

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Riferimenti

K. D. Askin, War Crimes Against Women: Prosecution in International War Crimes Tribunals

T. Baris, Fra due fuochi, Esperienza e memoria della guerra lungo la linea Gustav

T. Baris, Montecassino 1944, scatenate i marocchini, in “Millenovecento”

F. Carloni, Il corpo di spedizione francese in Italia, 1943-1944

S. Catallo, Marocchinate

M. Chebel, La cultura dell’harem: erotismo e sessualita nel Maghreb

G. De Luna, Il caso delle donne italiane stuprate durante la seconda guerra mondiale al centro di nuove ricerche, La ciociara e le altre, in “La Stampa”

B. D’Epiro, Linea Dora: la battaglia di Esperia

L. Garibaldi, L’assalto alle ciociare, in periodico “Noi”

N. Lewis, Napoli ‘44

M. Lucioli, D. Sabatini, La ciociara e le altre: il corpo di spedizione francese in Italia, 1943-1944

F. Majdalany, La battaglia di Cassino

J. C. Notin, La campagne d’Italie – Les victoires oubliées de la France 1943-1945

A. Petacco, La nostra guerra

A. Riccio, Etnografia della memoria, storie e testimonianze del secondo conflitto mondiale nei Monti Aurunci

A. Riccio, Le violenze dei goumiers

G. Sangiuliano, Quelle marocchinate di cui nessuno parla, in “L’Indipendente”

M. Strazza, Senza via di scampo – Gli stupri nelle guerre mondiali

C. Venturoli, Sulla violenza sessuale in contesti di guerra e di pace, in “Voci dal verbo violare, I libri di Emil”

Atti parlamentari – 37011 – Camera dei Deputati, “Seduta notturna di lunedì 7 aprile 1952″

Le marocchinate, articolo sul sito dell’Istituto Tecnico C.G.P.A.C.L.E. “Luca Pacioli” di Crema (CR)

Rai, Bottino di Guerra – Le donne violentate in Ciociaria, in “La Storia siamo noi”

Sito ufficiale della causa di canonizzazione di Papa Pio XII, Intervista al prof. Guiducci, Pio XII Defensor Civitatis Sito Instoria, Marocchinate

1754.- Che succede in Libia dopo la morte del generale Haftar?

Libia. Voci contrastanti sulla morte del gen. Khalifa Aftar, comandante delle forze armate del Parlamento di Tobruk, non è certo se in seguito a una emorragia cerebrale, o se malato di cancro o colpito da ictus giorni fa e ricoverato, prima in Giordania e, poi, a Parigi. Il decesso del generale è stato confermato al “Libya Observer” da fonti diplomatiche, mentre la tv libica “Alnabaa” ha citato un membro della Camera dei rappresentanti di Tobruk. La notizia è stata data anche dal “Libya Express”, senza citare fonti. La notizia della morta è stata confermata anche da fonti delle autorità di Tripoli all’agenzia di stampa russa Ria: “Siamo stati informati del suo decesso”, hanno spiegato le fonti senza fornire ulteriori dettagli. Contattato dalla Ria, l’Esercito nazionale libico ha tuttavia smentito la notizia della morte, come aveva fatto nei giorni scorsi riguardo al suo ricovero in ospedale a Parigi. La tv AlArabiya, citando fonti libiche, riporta di una telefonata tra l’inviato speciale Onu Ghassan Salame’ e Haftar, che hanno discusso sviluppi crisi libica. La tv smentisce così le notizie su morte del capo dell’Esercito libico. tuttavia, dal giorno dell’annuncio dell’ictus è di fatto iniziata la sua successione. Morto Haftar, rischio caos. Candidati alla successione sono Abdul Razek al-Nadori e Awan al Farjan. Il primo è sponsorizzato dagli Emirati Arabi, mentre il secondo dal Generale AlSisi perché è plastica continuazione di Haftar (suo cugino). La morte del comandante Haftar, signore della guerra in Cirenaica, riapre il caos in Libia, ma non soltanto. A rischio il Magreb e l’Egitto, mentre l’Italia è “in mutande”. Fondamentale cosa succederà alla rotta libica dell’immigrazione.

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L’articolo di Francesco De Palo

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Arriva da twitter la notizia della morte del generale Khalifa Haftar. Lo ha riferito sul proprio account il sito d’informazione Libya Observer. L’uomo forte della Cirenaica era ricoverato presso un ospedale militare parigino dopo un ictus.

Tuttavia altre fonti continuano a confutare la notizia, come l’esercito nazionale libico. Addirittura il capo dell’amministrazione politica dell’Esercito nazionale libico, Hussein al-Obeidi, si è spinto a dire che Haftar aveva lasciato la Francia e che sarebbe rientrato a Bengasi, aggiungendo di aver incontrato personalmente il feldmaresciallo al suo ritorno in Libia, trovandolo in ottimo stato fisico. Il funzionario ha anche negato che Haftar abbia subito un ictus, definendo tali informazioni “voci diffuse dai media supportate dall’Islam politico”.

CHI ERA

Il 75enne Haftar, considerato vicino a Mosca e Il Cairo, è stata figura dominante nella parte orientale della Libia, per un lungo periodo in predicato di assumere il potere nel Paese in contrapposizione a Al-Serraj, sostenuto dall’Onu e dall’occidente.

Haftar a capo dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) si è caratterizzato per una doppia azione operativa: da un lato si è opposto al governo rivale di Tripoli sostenuto a livello internazionale nella capitale, e dall’altro ha avviato una serie di bonifiche di siti Isis in Cirenaica. In contatto diretto e costante con i servizi italiani, ha incontrato più volte il ministro dell’interno Marco Minniti nell’ambito delle interlocuzioni sul dossier migranti e sul tentativo di giungere ad una normalizzazione istituzionale della Libia.

In passato è stato molto vicino a Muammar Gheddafi dopo il golpe del 1969. Poi fino al 1987 capo di Stato Maggiore delle forze libiche ma dopo la guerra in Ciad ecco il divorzio dal Colonnello. Decide quindi di cambiare tutto e si trasferisce negli Usa dove secondo alcuni analisti avrebbe avuto stretti rapporti con Langley. Nel 2011 ecco il suo ritorno a Tobruk dove diventa il comandante in capo dei ribelli nell’est, con lo scorso 5 luglio l’annuncio della liberazione di Bengasi.

SCENARI

Dal giorno dell’annuncio dell’ictus al generale Haftar è di fatto iniziata la sua successione, dal momento che nessuno può permettersi uno scacchiere in Libia che rifletta il “modello” Siria. Il capo dello Stato maggiore libico Abdul Razek al-Nadori ha negato di essere stato promosso capo di stato maggiore (il più alto incarico militare della Libia), in sostituzione del generale Khalifa Haftar.

I profili sono quello di al-Nadori e quello di Awan al Farjan. Il primo è sponsorizzato dagli Emirati Arabi, mentre il secondo dal Generale Al Sisi in persona, perché è plastica continuazione di Haftar a cui era legato da un legame di parentela (erano cugini).

Entrambi sono stati convocati al Cairo per incontrare capi tribù e alti funzionari al fine di essere “valutati” anche in riferimento alle possibili alleanze che intenderanno stringere, ma si fa sempre più insistente la voce che alla fine decideranno sauditi ed egiziani, con questi ultimi che si fanno portavoci delle posizioni russe.

Il figlio di al-Nadori lo scorso dicembre era stato protagonista di una “promozione” a sorpresa: assieme ad altri 38 ufficiali appartenenti ai gruppi armati controllati da Haftar aveva ricevuto un improvviso avanzamento di carriera da parte del presidente della Camera dei rappresentanti (HoR), Aqila Saleh, nella sua veste di “comandante supremo” delle forze militari nella Libia orientale.

Oltre al figlio di Nadori anche il figlio di Haftar, Khaled. Quest’ultimo, assieme a suo fratello Saddam sono civili che non erano mai entrati prima di allora in collegi militari o di sicurezza, ma da quattro mesi sono in possesso di gradi militari e guidano le due più grandi brigate militari nell’est del paese.