Archivi categoria: economia e finanza

6222.- La Russia si sta bloccando. Ed è anche colpa della Cina

Ma la domanda per noi è; “Fino a che punto le sanzioni possono bloccare l’economia russa senza scatenare una catastrofe… in Europa?”

Da Formiche.net, di Gianluca Zapponini, 10/05/2024

Per Mosca è sempre più difficile vendere e comprare beni dai suoi mercati amici, come Cina e Turchia. Con le banche terrorizzate dalle sanzioni, per le imprese è infatti impossibile effettuare gli scambi, come dimostra il crollo dei flussi nel primo trimestre. E così il denaro smette di circolare

Qualcosa scricchiola, pericolosamente, dentro l’economia russa. La propaganda, quella che vuole le finanze dell’ex Urss a prova di bomba, arriva fino a un certo punto (qui l’intervista all’economista Alberto Forchielli). Poi ci sono quei muri che è difficile abbattere e quei muri si chiamano sanzioni. Sono mesi, infatti, che le imprese dei Paesi alleati della Russia, Cina in testa, hanno difficoltà a vendere o comprare le merci di Mosca, per il semplice fatto che le banche si rifiutano di processare i pagamenti per timore di finire invischiate nelle sanzioni.

Tutto questo ha un prezzo, anche perché non c’è solo il fronte cinese per il Cremlino, ma anche quello della Turchia. Oggi, infatti, è molto più difficile spostare denaro dentro e fuori la Russia. I volumi commerciali di Mosca con partner chiave come Turchia e Cina sono infatti letteralmente crollati nel primo trimestre di quest’anno, dopo che gli Stati Uniti hanno preso di mira le banche internazionali che aiutano Mosca a comprare o vendere merci. Il famoso ordine esecutivo statunitense, attuato alla fine dello scorso anno e che prevede la possibilità di colpire con sanzioni tutte quelle imprese o istituti che mantengono rapporti con la Russia, sta insomma dando i suoi frutti.

Al punto, “che è diventato difficile per la Russia accedere ai servizi finanziari di cui ha bisogno per pagare i beni comprati all’estero”, ha affermato Anna Morris, vice segretario ad interim per il finanziamento del terrorismo e i crimini finanziari presso il Tesoro degli Stati Uniti. “L’obiettivo è sicuramente quello di rendere molto più complesso il flusso di quel denaro, di aumentare i costi per i russi l’attrito nel sistema”. E la preoccupazione, come ha rivelato al Financial Times un imprenditore russo, aumenta anche all’interno. “Un mese sono dollari, il mese successivo sono euro: entro sei mesi praticamente non potrai fare nulla. Il logico risultato di ciò è trasformare la Russia in Iran”.

D’altronde, anche sul versante cinese le cose si stanno mettendo male. C’è un dato, diffuso dalle agenzie doganali cinesi, poche settimane fa, che racconta una verità amara per la Cina. E cioè che le esportazioni del Dragone in Russia sono diminuite di quasi il 16% a marzo rispetto all’anno precedente, registrando il peggior calo da inizio 2022, quando le sanzioni contro l’ex Urss non erano ancora scattate. Le esportazioni del Dragone, infatti, si sono contratte a marzo dopo essere cresciute nei primi due mesi dell’anno. I dati doganali poc’anzi citati mostrano che le vendite sono diminuite del 7,5% a marzo rispetto all’anno precedente, mentre le importazioni sono diminuite dell’1,9%. Entrambi i valori sono stati inferiori alle stime. E anche questa non è una buona notizia.

6209.- Putin si prende Ariston ma l’Italia si muove. Ecco come

Leggiamo l’imbarazzo delle aziende dinanzi alla politica estera.

Da Formiche, di Gianluca Zapponini

Il Cremlino, forse sotto pressione per gli effetti delle sanzioni sull’economia russa, reagisce con un gesto di stizza e mette sotto chiave le filiali delle due aziende. Tajani e Urso entrano in azione

27/04/2024

Vladimir Putin aveva da tempo il dito sul pulsante. Perché, come raccontato a più riprese da Formiche.net, erano almeno due anni che il Cremlino era pronto ad azzannare le imprese straniere con filiali in Russia. Quelle rimaste almeno, visto che il grosso delle aziende ha fatto fagotto e lasciato la Russia, prima che scattasse la trappola. Ora però il bottone è stato pigiato. Ma l’Occidente non è stato a guardare, reagendo a quello che ha tutto il sapore di un esproprio di stampo sovietico.

Antefatto. Le filiali russe di Ariston e della tedesca Bosch sono state temporaneamente trasferite al gruppo Gazprom. Ed è stato il presidente Putin a firmare il decreto per il trasferimento delle sussidiarie russe delle due aziende italiana e tedesca a Gazprom Domestic Systems, la società del gruppo statale Gazprom produttrice di elettrodomestici, secondo quanto ha riferito l’agenzia Interfax. Il decreto postato sul portale ufficiale per le informazioni legali riguarda la Ariston Thermo Rus Llc, controllata da Ariston Holding, e la Bsh Household Appliances Llc, controllata da Bsh Hausgerate Gmbh. Non sono stati resi noti i motivi della decisione.

Fin qui i fatti, che raccontano un gesto forse dettato dal nervosismo di Mosca. Giustificato, vista la morsa delle sanzioni, sempre più stretta e i suoi indubbi effetti sull’economia russa. Ma, come detto, l’Occidente e, soprattutto l’Italia, hanno prontamente reagito. Per esempio, Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, ha convocato l’ambasciatore russo in Italia per “chiedere chiarimenti sulla vicenda della nazionalizzazione dell’Ariston Thermo Group, dopo l’inattesa decisione del Cremlino”. Inoltre ha “subito attivato la nostra ambasciata in Russia e parlato con i vertici dell’azienda italiana”. Il governo, ha spiegato ancora, “è al fianco delle imprese, pronto a tutelarle in tutti i mercati internazionali”. E ancora, Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del made In italy, ha avuto una conversazione telefonica con Paolo Merloni, presidente di Ariston, per un confronto sulla situazione in corso e per esprimere la vicinanza del governo, pronto a tutelare l’azienda in ogni sede.

C’è però un precedente. Lo scorso anno Putin aveva firmato un altro decreto per il trasferimento temporaneo della gestione delle filiali russe di Danone e di Carlsberg all’Agenzia federale per la gestione delle proprietà, Rosimushchestvo. Il provvedimento era stato adottato dopo che la società francese e quella danese avevano annunciato l’intenzione di uscire dal mercato russo. Il 98,56% delle azioni del birrificio russo Baltika, appartenente a Carlsberg, e decine di migliaia di azioni appartenenti a Danone erano state poste sotto il controllo dell’Agenzia. Nel caso di Ariston e Borsh, invece, la gestione passa a Gazprom, un altro gruppo industriale, sebbene controllato dal governo.

6172.- Le mani di Meloni nelle nostre tasche

Il bollo dell’auto va pagato anche se si tiene il veicolo fermo in garage perché è una tassa sul possesso; ma, non basta. Ora, è fatto obbligo anche di assicurare le auto incidentate o, comunque, ferme in area privata; e non basta ancora: Ecco l’IVA al 22% sul Gas. Un altro colpo alle famiglie italiane. Silenzio!

Gas: torna l’Iva ordinaria. Costi in aumento del 13% per le famiglie

Gas: torna l’Iva ordinaria. Costi in aumento del 13% per le famiglie

 Da Finanza.com, di Pierpaolo Molinengo, 11 Gennaio 2024

Ad essere stati coinvolti nel passaggio dal mercato tutelato del gas al mercato liberosono qualcosa come 3,5 milioni di utenti. A renderlo noto è stata direttamente l’Arera, ossia l’Autorità Pubblica dell’Energia.

Complessivamente, in Italia, sono 6.027.000 gli utenti del mercato tutelato del gas, su una platea complessiva di 20.430.000. 2,5 milioni di questi sono delle famiglie vulnerabili.

Sono diverse le novità che vanno ad impattare direttamente sulla bolletta del gas proprio da questo mese di gennaio.

Le famiglie, dopo due anni di aliquota agevolata al 5%, si vedranno addebitare l’Iva ordinaria sulle forniture di gas.

Secondo una stima effettuata da Segugio.it l’imposta sul valore aggiunto ripristinato andrà ad impattare direttamente sulle finanze degli utenti causando un aumento del 13% della spesa, annullando l’effetto positivo del calo del prezzo all’ingrosso della materia prima avvenuto tra dicembre 2023 e gennaio 2024.

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Ma entriamo un po’ di più nel dettaglio.

Bolletta del gas: il passaggio al mercato libero

Stando a quanto reso noto direttamente all’Arera, ad essere stati coinvolti dal passaggio dal mercato tutelato al mercato libero sono 3,5 milioni di utenti.

In Italia, complessivamente parlando, ci sono 20.430.000 di utenti, dei quali 6.026.00 fanno parte del mercato tutelato, di questi:

  • 2,5 milioni rientrano tra i soggetti vulnerabili. Sono, in altre parole, in una situazione economica svantaggiata, malati, disabili o risiedono in zone disastrate o nelle isole che non sono interconnesse. O, più semplicemente, hanno più di 75 anni;
  • 3,5 milioni sono gli utenti considerati non vulnerabili.

I primi hanno la possibilità di continuare a rimanere all’interno del mercato tutelato: potranno beneficiare delle tariffe fissate dallo Stato.

I secondi, invece, sono passati al mercato libero, anche se potranno beneficiare delle tariffe Placet: un assaggio del mercato libero, ma sotto la tutela dell’Arera.

Torna l’Iva al 22% sul gas

Il mese di gennaio 2024 è caratterizzato non solo dalla fine del mercato tutelato del gas, ma anche dalla conclusione dell’aliquota dell’Iva agevolata al 5% sulle forniture.

Secondo una stima effettuata da Segugio.it, il ritorno dell’Iva nella misura ordinaria comporterà un aumento del 13% sui consumi medi delle famiglie, andando ad annullare completamente l’effetto positivo del calo del prezzo all’ingrosso del gas, che è avvenuto nel periodo compreso tra il mese di dicembre 2023 e quello di gennaio 2024.

L’Iva ordinaria è arrivata dopo un periodo di due anni nell’arco dei quali sono state introdotte alcune misure di sostegno per le famiglie.

Ricordiamo, infatti, che nel corso del quarto trimestre 2021, mentre arrivavano i primi segnali di una crisi che sarebbe peggiorata nel corso dei mesi seguenti e per tutto il 2022, attraverso il Decreto Taglia Bollette venne ridotta l’Iva al 5% per il gas.

L’agevolazione veniva garantita indipendentemente dagli scaglioni di consumo. L’Iva ridotta è andata, quindi, a sostituire quella ordinaria – pari al 10% fino a 480 Smc di consumo, che saliva al 22% oltre i 480 Smc e al superamento di alcune quote fisse – fino allo scorso mese di dicembre.

Ma il Governo Meloni non ha rinnovato l’agevolazione: a questo punto sulle bollette del gas verrà applicata l’aliquota ordinaria.

Continuando a rimanere fisse tutte le altre condizioni, Segugio ha messo in evidenza che l’Iva ordinaria comporterà una spesa maggiore del 13% per la famiglia tipo, con un consumo annuo pari a 1.400 Smc e con un’utenza attiva nel comune di Milano.

Su una famiglia con consumi ridotti – inferiori ai 400 Smc annui – l’impatto, ovviamente, è minore e si attesta su un +8%.

Situazione diversa, invece, per chi ha attivato una tariffa indicizzata al PSV.

In questo caso è possibile sfruttare, nel corso del primo mese del 2024, un prezzo più basso del gas:

l’indice del mercato all’ingrosso, infatti, è sceso da 45 centesimi a 38 centesimi per Smc, registrando un -15%.

In generale, il prezzo del gas per il 2024 è previsto attualmente a ridosso dei 40 centesimi per Smc, valore simile a luglio 2021, prima della crisi energetica –spiega Segugio.it -. Combinando l’effetto dell’IVA e il calo dei prezzi all’ingrosso, risulta che una famiglia tipo registrerà un rincaro della spesa del +6% (a parità di consumo) tra dicembre 2023 e gennaio 2024.

6147.- Nyt. Aziende occidentali, come Ikea e Toyota, lasciando Putin, hanno perso 103 miliardi

“Il boicottaggio contro Putin è fallito”. Il conto del Nyt: le aziende occidentali hanno perso 103 miliardi

Da Il Secolo d’Italia, 18 Dic 2023, di Laura Ferrari

Mosca, Russia, Putin boicottaggio

“Putin ha trasformato il boicottaggio occidentale in una Bonanza” (una miniera d’oro). Lo scrive il quotidiano New York Times, sottolineando, a due anni dall’inizio della guerra e dell’imponente campagna sanzionatoria dell’Occidente contro la Russia, che «quando un’azienda intende lasciare il Paese, il presidente Putin detta i termini secondo modalità che beneficiano il suo governo, le sue elite e la sua guerra».

Il quotidiano statunitense ricorda come all’origine della campagna di boicottaggio delle grandi aziende occidentali ci sia stato un esplicito appello formulato dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky il 16 marzo 2022: «Lasciate la Russia», aveva dichiarato il presidente ucraino.

“Putin ha trasformato il boicottaggio in una miniera d’oro”

«Assicuratevi che i russi non ricevano neanche un centesimo», aveva detto Zelensky nei suoi appelli. Sollecitate anche dai rispettivi governi, centinaia di società e aziende di tutti i settori – dall’energia, all’elettronica, all’automotive sino ai beni di consumo e alla ristorazione – hanno risposto all’appello di Zelensky nel corso degli ultimi due anni. Politici e attivisti – scrive il New York Times” – hanno salutato per mesi questa ritirata generale dalla Russia come il prodromo di un soffocamento dell’economia di quel Paese, e dunque «dello sforzo bellico del Cremlino« in Ucraina.

Secondo l’indagine dell’autorevole quotidiano Usa, le aziende occidentali che hanno lasciato la Russia hanno messo collettivamente a bilancio perdite per 103 miliardi di dollari dall’inizio della guerra. Putin ha dettato i termini delle liquidazioni, e le ha sottoposte a tassazioni sempre più elevate, «generando almeno 1,25 miliardi di dollari nell’ultimo anno da destinare al forziere di guerra della Russia». Inoltre, sempre secondo il quotidiano, «nessuna trattativa privata è al sicuro».

Ma l’effetto sul lungo periodo potrebbe essere devastante sui conti russi

Il presidente russo – scrivono ancora Paul Sonne e Rebecca Ruiz sul “New York Times” – «ha supervisionato così uno dei più grandi trasferimenti di ricchezza all’interno della Russia dalla caduta dell’Unione Sovietica». Così che «vasti settori industriali, come ascensori, pneumatici, rivestimenti industriali e altri, sono ora in mano ad attori russi sempre più dominanti. In alcuni casi, l’attore in questione è lo Stato: aziende di proprieta’ governativa hanno rilevato ad esempio gli asset di giganti privati come Ikea e Toyota».

Tuttavia, le iniziative adottate da Putin contro il boicottaggio hannoconfermato l’impressione di un ambiente ostile alle imprese internazionali e isolato ulteriormente la Russia a livello internazionale. Un vantaggio provvisorio, dunque che, sul lungo periodo, potrebbe avere un effetto devastante sui conti pubblici russi.

6142.- Putin a Netanyahu: Cessate il fuoco e soluzione di tutti i problemi.

É una settimana che siamo in attesa di conoscere cosa Putin intende fare per giungere al “cessate il fuoco immediato a Gaza e per la soluzione di tutti i problemi fra Israele e la Palestina.” Soluzione senz’altro difficile perché l’ostacolo maggiore non è Hamas e nemmeno Israele, ma un suo pari, Benjamin Netanyahu. Fra i due statisti corre una reciproca stima e in una telefonata durata 50 minuti, fra due buoni intenditori, certamente sono stati trattati tutti i problemi del Medio Oriente. Un altro scacco di Putin a Biden?

Netanyahu sente Putin. Scintille sui legami con l’Iran: “Relazione pericolosa

Da Il Giornale.it, di Filippo Jacopo Carpani, 10 Dicembre 2023

Il premier israeliano ha lasciato la riunione del gabinetto di guerra per parlare con Putin. Netanyahu ha criticato Mosca per le sue relazioni con Teheran e per le parole anti-israeliane pronunciate dall’ambasciatore russo all’Onu

Netanyahu sente Putin. Scintille sui legami con l'Iran: "Relazione pericolosa"

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha abbandonato oggi la riunione di gabinetto per avere un colloqui telefonico con Vladimir Putin. Stando a quanto riferito dall’ufficio di Bibi al Times of Israel, la telefonata è durata circa 50 minuti, durante i quali il leader di Tel Aviv “ha criticato con forza la pericolosa cooperazione tra Russia e Iran” e ha espresso “disappunto” per le parole dell’ambasciatore di Mosca alle Nazioni Unite durante il vertice del Consiglio di sicurezza. Si è trattato della seconda conversazione tra i due leader dall’inizio della guerra tra lo Stato ebraico e Hamas, a distanza di quasi due mesi dalla prima (16 ottobre).

Il pressing dell’Onu per una tregua. Ma Israele non cede, veto degli Usa

Prima di allontanarsi dalla riunione, il primo ministro di Tel Aviv ha riferito anche di colloqui con il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz, a cui ha detto che “non possono da un lato sostenere la distruzione di Hamas e dall’altro fare pressioni su di noi per porre fine alla guerra, cosa che impedirebbe l’eliminazione di Hamas”. Il leader ebraico ha inoltre ribadito che il conflitto “continuerà con intensità maggiore, nel nord e nel sud della Striscia di Gaza, per raggiungere tutti gli obiettivi”. Quest’affermazione, in linea con quanto dichiarato fin dall’inizio delle ostilità dalle autorità di Tel Aviv, rischia di ampliare il solco tra Israele e una parte degli alleati occidentali, che puntano ad una tregua permanente in ragione della situazione umanitaria nell’exclave palestinese, che peggiora di giorno in giorno. Lo Stato ebraico, però, può ancora contare su un supporto totale da parte degli Stati Uniti, fondamentale sia per i rifornimenti bellici in previsione di una campagna militare di almeno altri due mesi, sia per la gestione del fronte delle relazioni internazionali, in particolare in sede Onu.

“È un marchio di Caino”: nuovo scontro tra Israele e Guterres

Per quanto riguarda le relazioni con la Russia, invece, i legami di Mosca con Iran e Siria la pongono in netto contrasto con Tel Aviv. I rapporti sono stati ulteriormente inaspriti dalle dichiarazioni del capo della diplomazia Sergei Lavrov, secondo cui “non è accettabile” utilizzare gli attacchi del 7 ottobre “per giustificare una punizione collettiva del popolo palestinese”, e dalla decisione di Putin di trattare direttamente con Hamas per la liberazione degli ostaggi con doppia cittadinanza russa e israeliana. Il ministero degli Esteri della Federazione ha anche ricevuto una delegazione del gruppo terroristico, un fatto giudicato “inaccettabile” dal governo dello Stato ebraico. Le affermazioni dell’organizzazione palestinese, secondo cui il presidente russo è “un caro amico“, non hanno fatto altro che scavare una frattura ancora più profonda tra i due Paesi.

Lo stallo in America e la “cyberguerra” di Mosca: cosa succede in Ucraina

La situazione è ulteriormente complicata dal suo intrecciarsi con la guerra in Ucraina, che ha portato al deterioramento delle relazioni tra il blocco Nato-Ue, schierato al fianco di Kiev e Tel Aviv, e la Russia. Nel corso dei mesi, Putin ha adottato una retorica marcatamente anti-occidentale, sostenendo che il desiderio dello schieramento guidato dagli Stati Uniti sia la distruzione della Federazione.

Più che la distruzione della Federazione, avere il controllo delle immense risorse della Russia è, da tempo, l’obiettivo del Gotha americano. Lo stesso che finanziò il riarmo del III° Reich, motorizzandolo per superare le steppe. Ricordiamo che la Banca centrale della Federazione Russa è fra le pochissime a non appartenere al Gruppo Edmond de Rothschild.

“Leader occidentali come Angela Merkel e François Hollande hanno provato a indebolire schiacciare la Russia, ma non ci riusciranno mai”, ha dichiarato il leader del Cremlino, secondo cui i due capi di governo “hanno ammesso di non avere intenzione di attuare gli accordi di Minsk e di usarli per preparare l’Ucraina alle ostilità. Niente funzionerà per loro. Mai”. Parole, queste, sostenute anche dal ministro Lavrov: “Il dominio dell’Occidente, durato 500 anni, sta per finire“.

Parole, quelle di Lavrov che sembrano contrastare con il principio cardine del Gruppo Edmond de Rothschild: “La ricchezza come mezzo per costruire il futuro.”

6137.- Il finanziamento occulto della seconda guerra mondiale

Da Tuttostoria, di Yuri Leveratto

Per capire i motivi del perché varie banche e imprese finanziarie del mondo occidentale abbiano direttamente e indirettamente concesso prestiti sia ai bolscevici della rivoluzione d’ottobre di Lenin che ai nazional-socialisti di Hitler bisogna fare un passo indietro di circa cinquant’anni.
Nell’aprile del 1865 la Confederazione sudista firmó la propia resa all’Unione nordista. La guerra civile americana era finita. I capitalisti del nord si erano imposti sui grandi proprietari terrieri del sud. A questo punto successe un fatto importante, l’assassinio del presidente Abramo Lincoln. E’ risaputo che il presidente era favorevole alla stampa di banconote da parte dello stato, per ripianare i debiti di guerra. Erano i cosidetti “greenbacks”. Questa decisione non piacque ai banchieri del nord, perché ovviamente la stampa da parte dello stato di nuove banconote per coprire i debiti avrebbe tolto loro potere.
Secondo alcune tesi complottiste fu questa la ragione dell’assassinio di Lincoln, il 15 aprile del 1865.
In seguito fu bloccata l’emissione dei “greenbacks”, e i capitalisti del nord invasero il sud, comprando a basso prezzo immensi territori e piantagioni. In pochi anni aumentó il numero dei milionari del nord che facevano affari nel sud. I grandi capitalisti che controllavano le banche, le industrie e il petrolio erano: John D. Rockefeller, Andrew Carnegie, Jay Gauld, William Vanderbilt, Edward H. Harriman, John Pierpont Morgan, Jay Coocke, John Jacob Astor.
Nel 1910 il leader republicano Nelson Aldrich viaggió in Germania per studiare il sistema della banca centrale dell’impero teutonico. Aldrich era molto vicino agli interessi di J.P. Morgan e John D. Rockefeller Jr.
Nello stesso anni ci fu la storica riunione dei grandi capitalisti americani presso l’isola Jeckyll, in Georgia. Erano presenti i rappresentanti di: Rockefeller, Kuhn & Loeb Co. J.P. Morgan, oltre a Frank Vanderlip (presidente della National City Bank of New York), Henry Davidson, partner di J.P. Morgan, Charles D. Norton, (presidente della First National Bank of New York), Eduard House, che divenne poi il fondatore del C.F.R., e il banchiere tedesco Paul Warburg.
Il 22 dicembre 1913, in seguito alla riunione di Jekyll Island, fu ufficialmente creata la Federal Reserve Bank, di fatto la banca centrale degliStati Uniti. La facoltá di emettere moneta e di regolare i tassi d’interesse non era piú delegata allo stato ma alla Federal Reserve. Il potere dei banchieri era aumentato notevolmente.
Nell’anno sucessivo, il 1914, ci fu lo scoppio della prima guerra mondiale. Sappiamo che le guerre sono fondamentali per l’alta finanza internazionale, in quanto le nazioni belligeranti hanno bisogno di prestiti per incrementare la produzione industriale e militare. Durante i quattro anni della guerra s’incrementarono i prestiti sia agli imperi centrali, che agli alleati e alla Russia.
Un esempio di finanziamento fu quello dai banchieri tedeschi verso la Russia rivoluzionaria: Alexander Parvus, figura controversa della rivoluzione, convinse i banchieri l’impero tedesco a finanziare le rivolte contro gli zar. Secondo alcune stime il finanziamento tedesco al partito comunista sovietico avrebbe raggiunto complessivamente dal 1915 al 1918 cinquanta milioni di marchi-oro dell’epoca. I fondi partirono dalla Diskonto-Gesellschaft Bank, (che nel 1929 convergerá nella Deutsche Bank), che era la corrispondente della banca Russo-Asiatic di New York e della Nya Bank dello svedese Olof Aschberg, chiamato anche il banchiere dei bolscevici.
Perché mai si tolleró il finanziamento del partito comunista in chiave anti zarista?
Durante la guerra l’impero russo era alleato della Francia e dell’Inghilterra, in contrapposizione agli imperi centrali. Secondo alcuni studiosi la spiegazione di questa contraddizione storica, cioé il finanziamento di un sistema comunista contrario alla proprietá privata da parte di una elite di banchieri internazionali si spiegherebbe con il fatto che l’alta finanza internazionale sarebbe guidata da idee massonico-esoteriche, volte al raggiungimento di un governo mondiale. Il finanziamento della rivoluzione bolscevica sarebbe stato cosí un esperimento di geo-politica che avrebbe avuto come fine ultimo la creazione di un bolscevismo liberale.
Secondo altri studiosi invece, il finanziamento della rivoluzione russa e in seguito del nazional-socialismo di Hitler sarebbe semplicemente servito a creare dei sentimenti di odio opposto che sarebbero poi sfociati in una nuova distruttiva guerra (come in effetti fu: la seconda guerra mondiale). Questa guerra avrebbe ulteriormente indebitato sia l’Europa che la Russia che sarebbero poi stati facile preda di fameliche imprese multinazionali occidentali.
Terminata la prima guerra mondiale i finanziamenti occidentali alla neonata URSS non sono finiti, anzi sono aumentati. Nonostante in URSS si professassero idee contro la proprietá privata e contro la religione, i banchieri internazionali continuavano a finanziare l’industria di questo immenso stato. Cio è una chiara spiegazione del fatto che la finanza internazionale non sia spinta da alcuna ideologia, ma solo da progetti di lucro e dominio.
Nel maggio del 1918 fu creata la lega americana per l’aiuto e la cooperazione con l’URSS.
Nel 1922 viene fondata la RusKomBank, su iniziativa di Olof Aschberg, con l’appoggio della Banca Nazionale di Germania, la Banca d’Inghilterra e il Morgan Guarantee Trust. Si calcola che negli anni successivi alla fondazione dell’Urss le banche statunitensi abbiano investito nel paese sovietico sessantatré miliardi di dollari, con la Chase National Bank dei Morgan e l’Equitable Trust dei Rockefeller in primo piano. Dal 1920 al 1945 circa mille imprese degli USA hanno operato in URSS contribuendo all’elettrificazione e alla creazione del sistema ferroviario del paese.
Spostiamoci in Germania alla fine della prima guerra mondiale. Dopo la caduta dell’impero è iniziata la collaborazione tra l’URSS e la nuova Repubblica di Waimar. Nel trattato di Rapallo del 1922 Mosca rinunciava al pagamento dei danni di guerra da parte dei tedeschi in cambio di una forte collaborazione industriale e militare. Imprese del calibro di Krupp, Yunkers, Dornier, Daimler strinsero accordi per la produzione e collaborazione sul suolo sovietico anche per eludere gli stretti controlli delle nazioni occidentali che erano stati imposti nel trattato di Versailles.
Anche la Repubblica di Waimar e in seguito l’ascesa del nazional-socialismo di Adolf Hitler sono stati finanziati sia dal capitalismo tedesco che da quello anglo-americano.
I tre cartelli industriali tedeschi: Vereinigte Stahlwerke (acciaio), IG-Farben (chimica) e AEG (settore elettrico), vengono finanziati principalmente dalla familia Warburg (Germania), e dalle banche statunitensi National City, Chase Manhattan, Morgan, Kuhn &Loeb che dal 1924 al 1926 trasferirono in Germania un totale di 975 milioni di dollari. Anche l’aiuto materiale all’ascesa bellica della Germania fu notevole: ad esempio la Bendix Aviation controllata dalla Morgan Bank invió migliaia di motori d’aereo in Germania dal 1934 al 1935. Anche altri capitalisti tedeschi, come per esempio Franz Thyssen e Alfred Krupp hanno finanziato l’ascesa di Hitler e le loro imprese hanno continuato ad operare dopo la sconfitta nazista.
Nel 1938 il nazional-socialismo di Hitler raggiunse il culmine della sua ideologia criminale e fanatica, imbevuto di odio razzista. Ma anche la politica expansionista dell’URSS cominció a svilupparsi. Infatti all’invasione della Polonia da parte della Germania nel 1939 seguí l’invasione della Polonia orientale e in seguito degli stati baltici, da parte dell’URSS.
Ormai il gioco era fatto, erano stati finanziati due stati spinti entrambi da ideologie socialiste, che, anche se avevano firmato un patto di non agressione nel 1939, erano destinati a distruggersi uno con l’altro. E cosí fu: la battaglia campale fu quella di Stalingrado (1942-1943), dove morirono circa due milioni di persone tra militari e civili. I due dittatori furono cosí utilizzati per scopi di controllo e dominio da parte dei poteri forti della finanza internazionale.
Una volta che la guerra terminó i banchieri offrirono ulteriori prestiti per la ricostruzione, sia alla Germania, ormai divisa in due e invasa, che all’URSS, vittoriosa, ma provata duramente dal conflitto.

6115.- Per il Piano Mattei serve lanciare l’industria in Africa. Scrive Baldelli

Lanciare l’industria nell’Africa mediterranea, in un ottica di solidarietà attiva, significa creare un’imprenditoria e istituti finanziari compartecipati, costruiti intorno al Piano Mattei.

Da Formiche.net, di Pietro Baldelli | 08/12/2023 – 

Per il Piano Mattei serve lanciare l’industria in Africa. Scrive Baldelli

All’Italia serve una grand strategy nazionale che accorpi i vari progetti strategici settoriali, e nel caso dell’Africa il fulcro può essere l’industria, a cui agganciare l’organizzazione, la distinzione e gli strumenti di cooperazione delle politiche che comporranno il Piano Mattei. L’analisi di Pietro Baldelli, PhD Uni. Perugia, analista per geopolitica.info

Il rinnovato contesto di instabilità internazionale richiederà nei prossimi anni alle medie potenze come l’Italia, incardinate in una chiara cornice di alleanze, di aumentare il proprio attivismo sul piano internazionale. Il Piano Mattei si inserisce in questo contesto come una prima iniziativa da cui poter strutturare una proiezione internazionale diversa rispetto al passato per il Paese, che in termini più generali, per poter cogliere le opportunità e affrontare adeguatamente le minacce, dovrà dotarsi di un rinnovato “spirito caovuriano” in campo internazionale, fatto di attivismo e creatività.

Per far questo sarà necessario anzitutto affiancare a strategie di tipo funzionale o settoriale – il Piano Mattei così come altre recenti iniziative, penso al “Piano del Mare” – una bussola di riferimento di ultima istanza che garantisca verticalità strategica a tanti progetti che fino a questo momento si parlano solo sul piano orizzontale. In altre parole, serve fare un passo in avanti ulteriore, verso la costruzione di una vera e propria “grand strategy nazionale” che possa dare logicità e coordinamento alle diverse strategie settoriali, e possa rendere l’Italia un attore riconoscibile sul piano internazionale agli occhi tanto dei propri partner quanto di attori ostili, in quanto a interessi, strumenti, vincoli e obiettivi della propria azione internazionale.

Per quanto riguarda la strategia africana dell’Italia – appunto il Piano Mattei – prima di riflettere sugli strumenti e le risorse da mettere in campo è necessario prendere consapevolezza su quale sia il contesto in cui si andrà ad operare. Il continente africano, come l’intero sistema internazionale, sta oggi lentamente scivolando verso la logica della competizione tra grandi potenze, che si è riaffermata con forza negli ultimi anni come non succedeva dalla fine della guerra fredda. Si tratta di un nuovo paradigma interpretativo attraverso cui guardare alla realtà internazionale di oggi e dei prossimi decenni, fattore che assommerà a criticità endogene proprie dei singoli quadranti regionali – come quello africano – un quoziente di instabilità ulteriore legato a variabili esogene. Si pensi a quanto i fattori esogeni stiano alimentando focolai di instabilità in Paesi colpiti nell’ultimo triennio da colpi di Stato (8 in 7 diversi Stati africani) a cui si aggiungono Paesi in cui nelle ultime settimane si sono verificate tensioni rilevanti, come in Guinea-Bissau e in Sierra Leone.

Una seconda consapevolezza con cui si deve andare ad operare ha a che fare con la natura gradualmente sempre più conflittuale delle relazioni economiche tra Stati. La dimensione dell’economia si è ormai affermata come frontiera della competizione tra attori, con una progressiva estensione del regno della sicurezza economica e delle azioni di natura coercitiva. Se interpretata sotto questa nuova luce, anche una maggiore presenza di matrice geo-economica dell’Italia in Africa sarà soggetta a elementi di contestazione e frizione da parte di Paesi con strategie potenzialmente divergenti, che devono essere preventivamente considerate.

Alla luce di quanto affermato, ad un livello operativo un piano di rilancio della presenza italiana in Africa non può limitarsi a investire nella dimensione della cooperazione allo sviluppo, ma deve pensare come suo perno la dimensione industriale. Azioni, progetti e iniziative su temi come le infrastrutture, la transizione energetica, l’approvvigionamento di risorse e l’occupazione non può che trovare nella dimensione industriale la sua ragion d’essere intorno alla quale ruotare. Assunta questa prospettiva, anche un altro dossier centrale come quello delle migrazioni dovrà inevitabilmente subire un ripensamento concettuale. Si deve iniziare un investimento graduale sulla popolazione dei Paesi africani intesa non più solamente come fonte di alimentazione di flussi migratori diretti verso l’Europa, ma anzitutto come bacino su cui lavorare per la costruzione del capitale umano del futuro, da impiegare anzitutto nei Paesi d’origine. In questo senso, dovrà essere pensato un ruolo centrale di mondi alternativi rispetto a quelli che abitualmente si occupano di migrazioni: il mondo della formazione, dell’istruzione, dell’università, della ricerca e infine quello delle imprese dovranno giocare un ruolo decisivo su questo fronte.

Basandoci su quanto detto fino ad ora, si può ritenere prioritario focalizzarsi su tre tipi di intervento. Primo, sarà necessaria un’operazione di riorganizzazione razionalizzante dei settori di intervento elencati al comma 2 articolo 1 del DL 161, pensando a un’architettura tridimensionale basata sui seguenti pilastri: cooperazione allo sviluppo, industria, migrazioni (capitale umano). Ciò non vuol dire escludere alcuni settori dell’elenco, ma disporli in una scala gerarchica che eviti sprechi, sovrapposizioni e inefficienze. Secondo, in un secondo momento andrà inserito un principio di distinzione nella scelta dei Paesi in cui intervenire, come suggerito dal comma 3 del medesimo art. 1. In questo senso, vanno individuati sotto-quadranti del continente africano prioritari dal punto di vista italiano, per evitare l’effetto dispersione o, ancor peggio, overstretching. Questi potrebbero essere individuati in Nord Africa, Sahel e Corno d’Africa, nella misura in cui si decidesse di rilanciare una postura internazionale di tipo indo-mediterraneo per l’Italia. In ultima istanza, andrebbe inserito un riferimento alla cooperazione che, attraverso il Piano Mattei, l’Italia cercherà con iniziative affini di partner e alleati. In quest’ultima dimensione andrà valutata la possibilità di integrare la propria strategia africana con quella di altri attori extra-regionali che negli ultimi anni hanno aumentato il loro impegno in Africa. Penso a Paesi come la Turchia, le monarchie del Golfo e l’India. Andranno valutati preventivamente i settori di cooperazione ma anche le possibili aree di frizione con cui, nel rapportarsi con questi Paesi, l’Italia dovrà fare i conti.

6032.- Perché tanta insistenza sul MES?

Chiedere aiuto al Fondo significa ammettere che quel Paese non riesce più a finanziarsi sul mercato: un segnale di debolezza che potrebbe scatenare la speculazione”.

Il Mes: aumenta il rischio di una crisi finanziaria che ci costringa a una pesante “ristrutturazione del debito”.

Uno per tutti: salvataggi banche ma previa tosatura dei clienti.

MAR 22, 2023Giorgia Meloni

Quando ricorrervi per uno Stato significa ammettere la propria debolezza ed esporsi a speculazioni?

La Presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, ha recentemente ribadito, in risposta al question time alla Camera dei Deputati, che l’Italia, sotto la guida del suo governo “non potrebbe mai accedere al MES” – Meccanismo Europeo di Stabilità, lasciando intendere di non volerne ratificare la riforma, nonostante il pressing subito dagli organi della UE. In particolare, in queste ultime settimane in persona del Presidente dell’Eurogruppo (l’organo informale che comprende tutti i 20 Ministri finanziari dei Paesi europei dell’Eurozona, cioè a moneta euro),  l’irlandese Pascal Donohe, e del Direttore generale dello stesso MES, il neonominato già Ministro delle Finanze del Lussemburgo Pierre Gramegna, i quali stanno insistendo perché l’Italia vi provveda, essendo rimasto l’unico Stato a non averlo, appunto, ratificato, in ciò supportati dall’opposizione, segnatamente dal PD – Partito Democratico, il cui esponente, Ministro per gli Affari Europei nella precedente legislatura, Enzo Amendola, ha preteso la calendarizzazione della relativa discussione in Commissione Esteri perché sia il Parlamento, cui spetta l’ultima parola, a pronunciarsi in materia.

Ma perché vi è così tanta pressione per la ratifica ed altrettale resistenza da parte della maggioranza che sostiene il nuovo Governo Meloni?

Richiamati i rilievi già svolti con il precedente intervento , proviamo a soffermarci sulle criticità proprie dello strumento e della riforma dello stesso, che appaiono meno evidenti delle magnifiche e progressive sorti che discenderebbero dalla sua adozione.

 Il MES è frutto di un accordo intergovernativo nel 2012 per contrastare la crisi dei debiti sovrani e consentire accesso ai mercati finanziari a tassi agevolati agli Stati Euro in difficoltà, quindi non direttamente riferibile agli organi della UE né, soprattutto, controllato dal Parlamento europeo, con funzioni però significativamente sovrapponibili a quella della stessa Commissione: ex art. 3, la valutazione della sostenibilità dei debiti pubblici dell’eurozona in funzione dell’analisi della loro situazione macroeconomica e finanziaria, per cui “a tale scopo, il Direttore Generale (del MES) collaborerà con la Commissione UE e con la BCE per assicurare piena consistenza al lavoro propedeutico al coordinamento di politica economica previsto dal TFUE – Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea”.

Dunque, si accentua la deriva centrifuga rispetto al controllo comunitario che era già iniziata nel 2012, con la consacrazione del MES non come Fondo Monetario Europeo, soggetto ai vincoli e controlli della UE, bensì come strumento agganciato unicamente alle esigenze di stabilizzazione finanziaria dei Paesi dell’area Euro. 

 In quanto, poi, finalizzato a finanziare chi tra gli Stati membri dell’Eurozona dovesse farne richiesta perché in difficoltà, il primo problema a riguardo è stato lucidamente posto dal bocconiano prof. Francesco Giavazzi, già consigliere del premier Mario Draghi: “chiedere aiuto al Fondo significa ammettere che quel Paese non riesce più a finanziarsi sul mercato: un segnale di debolezza che potrebbe scatenare la speculazione”.

Tale rischio è ancor più evidente per Paesi come l’Italia, ad alto debito pubblico, che non potrebbero accedere alla linea cd. ‘precauzionale’ del MES, fruibile solo dagli Stati con i ‘fondamentali’ di finanza pubblica in ordine in quanto rispettosi dei parametri di Maastricht (rapporto non superiore al 3% fra PIL e debito pubblico) e del fiscal compact (obbligo di parità di bilancio, procedura di infrazione europea in caso di mancato rispetto, obbligo di abbassare la percentuale di debito pubblico al 60%, pianificazione preventiva di rientro del debito) –seppure non necessariamente anche di quelli del PSE – Procedura per Squilibri Eccessivi, tra cui l’eccesso di surplus commerciale, in cui ‘eccellono’ ordinariamente i ‘frugali’ olandesi e la ‘locomotiva’ tedesca!-; ma solo alla linea cd. ‘rafforzata’, che viene fornita soltanto all’esito della sottoscrizione di un MoU – Memorandum of Undestanding, con cui il Paese richiedente accetta le linee di aggiustamento macroeconomico imposte dalla ‘trojka’ (FMI, BCE e Commissione UE).

Agli inizi di quest’anno, un nutrito gruppo di una trentina di economisti, non tacciabile –almeno in linea di principio- di foga sovranista, ha pubblicato un appello, rilanciato sul blog de ‘La Fionda’, sui rischi del MES, in particolare lamentando il carattere privatistico dell’istituto, di diritto lussemburghese ed al di fuori del quadro giuridico istituzionale comunitario, funzionale al perseguimento dell’interesse dei creditori e non a criteri di politica generale degli Stati, i quali saranno ordinariamente sottoposti a condizionalità macroeconomiche per potere accedere ai prestiti del MES (sotto forma di acquisto di titoli di debito sovrano dello Stato richiedente sui mercati finanziari primari e secondari ovvero vere e proprie linee di credito), imposte da soggetti non rappresentativi di alcuna investitura popolare, neppure di secondo grado, che stabiliranno, di fatto, le linee di politica economica e di bilancio dello Stato membro in luogo dei suoi organi rappresentativi.

Era quest’ultima, peraltro, la censura costituzionale posta all’attenzione della Corte di Karlsruhe, la quale aveva ritardato la ratifica da parte della Germania, infine sopravvenuta dopo il via libera della Corte costituzionale tedesca che ha ritenuto che tale condizionalità economica non lede le prerogative di rappresentatività degli organi parlamentari domestici nella misura in cui i Governatori ed i Direttori generali del MES in rappresentanza dei singoli Stati risponderebbero direttamente, in termini di responsabilità politica, ai rispettivi Parlamenti nazionali, che mantengono nei loro confronti poteri di indirizzo vincolanti quanto alle loro decisioni all’interno del MES stesso. Valutazione, invero, contraddetta quantomeno dalla circostanza della formale indipendenza, ex art. 7, del Direttore Generale del MES, “responsabile solo nei confronti del MES”, e dai suoi rafforzati compiti –anche di affiancamento alla Commissione- ma che, in quanto eleggibile solo con la maggioranza del 80% dei voti, non potrebbe evidentemente mai essere sgradito alla Germania!

Quanto tale pronuncia della Corte delle Leggi germanica dipenda da esigenze di realpolitik è questione che rimanda ad altro aspetto di rilievo, probabilmente a fondamento dell’interesse pressante degli euroburocrati, cioè il progetto di unione bancaria: il backstop introdotto con la riforma del giugno 2019 a beneficio delle banche europee.

Con la riforma del MES, infatti, quest’ultimo potrà finanziare anche il SRF – Single Resolution Fund, istituito con Regolamento UE nel quadro della cd. ‘unione bancaria’ per la risoluzione di banche in fallimento, per il caso in cui gli investitori privati che ne sono i finanziatori ordinari non siano in grado di dotarlo di risorse sufficienti, con obbligo di restituzione entro tre anni che potrebbe però non essere di facile assolvimento nel caso di fallimento non di singolo istituto di credito bensì di crisi sistemica bancaria, tale da trasferire i relativi oneri di copertura a carico delle finanze pubbliche di tutti gli Stati membri.

In tale contesto, le banche italiane, per quanto protette da coefficienti di patrimonialità adeguati e, spesso, migliori di molte della Sparkasse dei Lander tedeschi (a voler tacere della Commerzbank), verrebbero maggiormente esposte al rischio di default a causa della loro esposizone in titoli di Stato italiani, più facilmente oggetto di perdita di appeal sul mercato e di conseguente maggiore spread rispetto ai Bund tedeschi per le ragioni sopra indicate, come anche a causa dell’ulteriore clausola, prevista dalla riforma del MES, cd. single-limb collective action clause, che dovrà essere apposta alla nuova emissione di titoli di Stato nazionali ai fini della loro più rapida ristrutturazione in caso di crisi del debito sovrano, che ovviamente si rifletterà negativamente sulle dinamiche finanziarie di mercato per le obbligazioni degli Stati più in difficoltà.

Ciò, a voler tacere della riforma, pur essa parte del progetto di Unione Bancaria, di Assicurazione Europea sui Depositi, la quale, secondo i desiderata teutonici dovrebbe essere basata su criteri di calcolo del valore a portafoglio delle banche, dei titoli di Stato nazionali, basati sul loro rating, con inevitabile ulteriore deprezzamento dei BOT – Buoni Ordinari delTesoro a vantaggio dei Bund tedeschi e finale danneggiamento dei nostri istituti di credito e della finanza pubblica italiana.

Ulteriore anomalia del sistema è, infine, che il prestatore di ultima istanza è la stessa BCE – Banca Centrale Europea, poiché i prestiti –o comunque l’intervento finanziario- è in euro, moneta che viene battuta da tale organo comunitario che è però privo di responsabilità democratica, nel senso che i componenti del suo direttivo sono scelti fra i governatori delle banche dei singoli Stati dell’eurozona (Bankitalia per l’Italia), a loro volta istituzionalmente sganciati da mandati elettivi per preservare l’indipendenza degli istituti di credito su cui sono chiamati a vigilare.

   Il FMI – Fondo Monetario Internazionale, alle cui funzioni il MES è ispirato, presta invece agli Stati che ne fanno richiesta di intervento finanziario, in valuta estera (precisamente in SDR – Special Drawing Rights, un paniere di più valute che esprime un vaore sintetico di riferimento) e non nazionale dello Stato richiedente, il quale potrebbe altrimenti emettere la propria moneta a debito senza limite, attraverso la propria banca nazionale di emissione, cosa che, appunto, i singoli Stati dell’Eurozona non possono fare perché il potere di battere la moneta ‘euro’ è solo in capo alla BCE medesima, che anzi si fa pagare dagli stessi una commissione di emissione.

  Fino a che l’Unione rimane tale e non evolva in organismo federale, le politiche di bilancio dei singoli Paesi membri saranno sempre soggette alla dialettica distorcente di avere adottato quale corso legale una moneta che viene emessa da un soggetto terzo, più simile ad una valuta estera su cui essi non hanno controllo: il MES aggrava ulteriormente questo dinamismo intestino.

Parla il prof. Mulè

4 mesi fa: 28 giu 2023, (Agenzia Vista) “Il Mes è un meccanismo acefalo. Così com’è è potenzialmente pericoloso perché non risponde a nessuno. Bisogna modificarlo. La ratifica e il regolamento possono andare in parallelo ed essere momenti diversi. Ora vediamo di discuterlo bene in Parlamento”, le parole di Giorgio Mulè, Forza Italia. Fonte: Agenzia Vista / Alexander Jakhnagiev

Borghi: 10 motivi per cui NON dobbiamo ratificare la riforma del MES

Da ImolaOggi  

Il senatore Claudio Borghi (Lega) scrive su Twitter

1) Ratificare la riforma significa APPROVARE SPECIFICAMENTE TUTTO IL TRATTATO, comprese le sue parti più assurde, fatte votare da Monti a un distratto Parlamento nell’estate del 2012

2) La riforma del MES PEGGIORA uno strumento già famigerato perché figlio degli interventi di austerità contro la Grecia. I paesi UE vengono divisi fra “buoni” e “cattivi”. L’Italia è, guarda caso, fra i cattivi.

3) Il MES potrà intervenire nei salvataggi delle banche (nota bene, non dei risparmiatori perché PRIMA va fatto il bail-in) e non si può DECIDERE di non farlo. Se una grande banca tedesca o francese va in crisi il MES interviene e i soldi degli italiani verranno usati per pagare i suoi creditori.

4) Il nuovo trattato MES scrive chiaramente che in caso di intervento sarà possibile prevedere un taglio del valore dei titoli di Stato in mano ai risparmiatori.

5) Il nuovo trattato MES obbliga ad inserire nei titoli di Stato delle clausole (cosiddette CACS) che ne rendano più facile il taglio del valore.

6) Se il MES fosse operativo, in caso di crisi sui mercati, vedi ad esempio durante la pandemia, la BCE non interverrebbe più lasciando invece azionare il MES con tutte le conseguenze del caso.

7) Il MES diventerebbe una specie di “agenzia di rating” con il potere di decidere sulla sostenibilità o meno del debito. In pratica potrebbe CAUSARE una crisi dichiarando a suo piacimento che un debito è insostenibile.

8) I dirigenti del MES, a fronte di questi poteri enormi (il direttore potrebbe chiederci il versamento del capitale impegnato, oltre CENTODIECI MILIARDI ENTRO UNA SETTIMANA), sono ESENTI DA QUALSIASI GIURISDIZIONE (davvero, c’è scritto proprio così). Non gli si potrà far causa, non dovranno rendere conto a nessuno delle loro azioni, nessuna autorità può violare gli uffici del MES, i loro stipendi sono esentasse.

9) La soglia della maggioranza qualificata, 80%, usata per numerose situazioni, è calibrata in modo da lasciare fuori l’Italia (che “pesa” il 17% mentre Germania (27%) e Francia (21% 🙄) guarda caso hanno quote sufficienti per diritto di veto assoluto.

10) Non è vero che si può ratificare ma non usare il MES. Una volta attivate le modifiche esse diventano direttamente impegnative, vedi salvataggi banche, e se l’Italia perdesse l’accesso ai mercati non ci sarebbe nessuna scelta possibile se non farne uso.

In sostanza il MES è uno strumento di dominio e di sottomissione, non porta NESSUN VANTAGGIO per l’Italia, meno che mai nella nuova versione.
Non va ratificato perché non è nell’interesse dell’Italia e la ratifica non è assolutamente un atto dovuto bensì un fondamentale passaggio nell’accettazione di un trattato.

Chi dice: Il Mes è sbagliato, ma lo si deve ratificare

Da Italia Oggi, di Marcello Gualtieri

Il Mes è uno strumento sbagliato, anche nella sua versione modificata (benché migliorativa). Ma questo non vuol dire che esista un modello migliore a cui fare riferimento. Vediamo perché. Il meccanismo dovrebbe garantire un prestito ad uno Stato aderente che si trova in difficoltà finanziarie.

Ma, ovviamente chi presta i soldi allo Stato in crisi, come ogni creditore che aiuta un debitore sull’orlo del default, vuole essere sicuro di rientrare della somma versata. E qui i nodi vengono al pettine, perché se manca questa condizione nessuno è disponibile a utilizzare le tasse dei cittadini dello Stato A per fare beneficenza allo Stato B.

Come uscire, dunque, da questo vicolo cieco? La soluzione è solo una: “prevenire” con largo anticipo la crisi, perché dopo il default (o in sua prossimità) non c’è niente che possa spezzare il circolo vizioso sopra descritto. E, difatti, non è disponibile nessuno strumento migliore o più efficace: le cronache degli ultimi decenni sono piene di crisi di Stati sovrani, con il successivo intervento di un prestatore di ultima istanza (in genere il Fmi) che non ha mai risolto nessun problema strutturale, anzi, ne ha aggiunti altri subordinando l’erogazione del prestito all’adozione di fallimentari pacchetti di riforme standard (il cd Washington consensus).

Perché è indispensabile ratificare la modifica del Trattato. Per due motivi (sorvoliamo sulla figuraccia internazionale).

Il primo è che se non si ratifica la modifica rimane in vigore il vecchio Trattato, che ripropone in maniera ancora più marcata gli errori e le condizionalità dei vecchi interventi.

Il secondo. Può essere utile una cosiddetta “prova di resistenza”, conducendo la posizione del Governo sino alle estreme conseguenze.

L’Italia non ratifica la modifica del Trattato, e per ipotesi (teorica, ma fino ad un certo punto) gli altri Stati aderenti (che hanno già tutti ratificato) potrebbero dire: se l’Italia non ratifica esce dal Mes, si riprende i 14 miliardi che ha versato (sembrano tanti, ma sono circa due mesi di interessi passivi sul debito) e noi andiamo avanti. Cosa succederebbe a questo punto del nostro debito pubblico?

Ps: ma, in fondo, la proposta del Governo, qual è?

5956.- STRAORDINARIO: Un altro paese ha deciso di abbandonare il dollaro

É la volta dell’Iraq a vietare sia le transazioni in dollari contanti sia i prelievi “perché” finanziano in gran parte operazioni illegali. I prelievi saranno consentiti nella valuta locale, al tasso di cambio ufficiale di 1,320 dinari.

 

Da Criptodnes, 6 OTTOBRE 2023

Con una svolta sorprendente degli eventi, l’Iraq ha annunciato ufficialmente la sua intenzione di vietare tutti i prelievi di contanti e le transazioni in dollari statunitensi.

Un funzionario della Banca Centrale del Paese ha rilasciato la dichiarazione nel tentativo di frenare l’uso improprio delle riserve esistenti e contrastare l’elusione delle sanzioni statunitensi.

Secondo un rapporto della Reuters, la proposta di divieto è accompagnata da una spiegazione dettagliata della sua attuazione. Mazen Ahmed, Direttore Generale del Dipartimento”Investimenti e rimesse” presso la Banca Centrale irachena, ha spiegato i fattori trainanti di questa decisione. Nello specifico, ha sottolineato le preoccupazioni sull’uso improprio dei 10 miliardi di dollari che la Federal Reserve di New York fornisce ogni anno al paese.

Seguendo la tendenza globale verso la de-dollarizzazione, l’Iraq ha annunciato il suo piano per fermare tutte le transazioni in contanti e i prelievi di dollari dal 2024 in poi. Hanno anche citato preoccupazioni simili a quelle espresse dai funzionari della Banca Centrale dell’Iran.

Ahmed ha sottolineato che circa la metà delle importazioni di valuta statunitense vengono utilizzate illegalmente, il che ha portato a questa decisione. Inoltre, Ahmed ha chiarito che tutti i dollari depositati prima della fine del 2023 potranno essere ritirati nel 2024. Tuttavia, ha sottolineato che dopo il 2024 i prelievi saranno consentiti solo in valuta locale, in particolare al tasso di cambio ufficiale di 1,320 dinari, come indicato nel rapporto.

Ahmed ha dichiarato:

Se desideri fare una traduzione, puoi farlo. Se hai bisogno di una carta denominata in dollari, è disponibile. Puoi utilizzare la carta in Iraq alla tariffa ufficiale. Allo stesso modo, se hai bisogno di prelevare contanti, lo faremo in dinari al tasso di cambio ufficiale. Ma le discussioni sui dollari in contanti non sono più all’ordine del giorno.

In conclusione Ahmed ha sottolineato che i prelievi di contanti sono oggetto di massicci abusi. Di conseguenza, il Paese ha introdotto norme sui bonifici bancari, un metodo spesso utilizzato per transazioni fraudolente. Ora, con il divieto di prelievo di contanti in vigore, l’Iraq sta cercando di continuare la sua lotta contro gli abusi.

5952.- Perché l’oro degli italiani resta americano

Da Bretton Woods all’impero della carta, nel mondo bipolare della Guerra Fredda, infine, al mondo monopolare, basato sul concetto di gendarme planetario unico. Abbiamo assistito all’abbandono del gold change standard da parte degli Stati Uniti e, in Arabia, stiamo assistendo al tramonto del petrodollaro. Il primato del dollaro ha portato alla materializzazione dell’umanità, ai giganti finanziari, alla abiura dei valori cristiani e delle costituzioni. La globalizzazione, ricetta non più assoluta, ha impoverito sempre di più i paesi poveri ed è alla base dei flussi migratori. La difesa del dominio del dollaro, impossibile, in un mondo sempre più multipolare, ha già portato alla guerra alla Russia in Ucraina. I Brics sono un’avanguardia. Né tutto l’oro di Fort Knox né i 100.000 dollari veri e quelli falsi basteranno per garantire un futuro al privilegio del dollaro. Campeggiano gli interrogativi sul futuro.


Da Quora. Di Carlo Coppola, studioso di Relationi Internazionali

Perché L’oro che appartiene al Italia é depositato negli USA per quale motivo il governo italiano lo lascia ancora nelle mani USA?

Nel 1944, nonostante la guerra fosse ancora in corso, ma oramai aveva esito scontato, i rappresentanti delle Nazioni Alleate si riunirono in una località degli USA, a Bretton Woods.

Senza tediarvi sulle molte decisioni che lì si presero, la principale fu buona parte di tutto l’oro delle riserve auree di moltissimi Paesi che erano debitori con gli USA per le forniture belliche, fu depositato presso il caveau di Fort Knox e da allora in poi il riferimento valutario mondiale diventava il dollaro.

Gli USA garantirono che in qualsiasi momento uno degli Stati aderenti (ed aderirono volenti o nolenti in 44) avesse voluto indietro il suo oro lo avrebbe potuto ricomprare pagando dollari ad un prezzo fisso di 35 dollari l’oncia.

Il sitema funzionò per diversi anni dando ovvi vantaggi all’economia americana ma gli USA cominciaro a stampare dollari in grandi quantità. Gli servivano per finanziare la guerra in Vietnam e dopo un po’ alcune Nazioni, accorgendosi che negli USA non ci poteva essere tanto oro per garantire l’enorme quantità di dollari in circolazione al mondo, richiesero la restituzione del proprio oro in cambio di dollari. Francia e Svizzera furono le prime. Si scatenò un “run”, una corsa a riavere l’oro.

Il sistema collassò in pochi mesi tanto da costringere il presidente americano Nixon a proclamare che il gold change standard veniva, unilateralmente, abolito. Cioè gli americani si rifiutarono di dare oro in cambio di dollari dicendo che gli accordi non valevano più. La cosa provocò uno shock all’economia mondiale, il dollaro perse metà del suo valore in pochissimi mesi. Poi gli americani ricorsero ad una furbata eccezionale: convinsero i Paesi Arabi ad accettare SOLO dollari in cambio del loro petrolio e loro in cambio avrebbero sostenuto militarmente i loro traballanti regimi. Inventarono il petrodollaro.

In sostanza gli Stati non potevano ricomprarsi l’oro ma potevano comprare petrolio con i dollari che avevano e che stavano diventando carta straccia e quindi la valuta americana riprese valore. Questo è quello che viene definito in economia il “l’esorbitante privilegio del dollaro“.

Praticamente se uno Stato bisognoso di risorse petrolifere voleva comprarsele, doveva pagare in dollari ma per avere i dollari doveva procurarseli cedendo agli americani prodotti e risorse mentre detti americani potevano tranquillamente stampare carta al costo di pochi centesimi.

Gli USA sono diventati di gran lunga lo Stato più avanzato e ricco del mondo in questo modo. Stampando carta.

La guerra oggi in corso dipende anche e soprattutto da questo. Gli USA non vogliono rinunciare a questo privilegio e le altre Nazioni del mondo abbastanza forti da farlo non vogliono più concederglielo.

Gli USA hanno in sostanza un debito con tutto il resto del mondo, enorme.

Sapete a quanto ammonta? Fra debito pubblico, dollari circolanti al mondo (USA esclusi naturalmente), e valore di partite di scambio aperte, circa 100.000 miliardi di dollari (centomila miliardi di dollari). Il PIL dell’intero mondo di un anno.

Immaginate se un bel giorno tutti i possessori di dollari del mondo andassero presso la Federal Reserve e dicessero “guarda, questi sono i tuoi dollari, in cambio vogliamo petrolio, minerali, grano, tecnologia, tutto quello che avete”. L’economia americana crollerebbe di colpo. Non basterebbero secoli per produrre il valore da pagare. Ripeto questo è uno dei motivi (e forse il principale) per i quali gli ucraini stanno morendo nelle trincee del Donbass.

L’oro italiano (e non solo) è ancora nelle casseforti americane e non sarà mai restituito.