6226.- [L’ospite] Guillaume Bigot : « La sovranità europea è la morte della democrazia »

La nostra premessa

Dalla Comunità Economica Europea all’Unione europea. Il primo novembre del 1993 entrò in vigore il trattato di Maastricht e nacque l’Unione Europea come la conosciamo oggi. Fu il trattato che stabilì l’Unione Europea con il nome odierno e gran parte delle istituzioni comunitarie che conosciamo. Trasformò le finalità delle precedenti organizzazioni, come la Comunità Economica Europea, da un’unione solo economica a un’unione politica. Pose le basi della creazione della Banca Centrale Europea e dell’introduzione dell’euro. Il trattato, insieme a vari emendamenti, dichiarazioni e altri trattati sottoscritti negli anni successivi, forma il corpo giuridico che costituisce l’Unione, cioè i Trattati dell’Unione Europea, o, semplicemente, i “Trattati fondamentali”.

Oggi, si parla e parliamo sempre più spesso di difesa comune e di esercito europeo, ma perché questi si realizzino e possano operare bisogna avere una politica estera comune, che, a sua volta, presuppone uno Stato sovrano. Per Bigot, la sovranità europea è la morte della democrazia, quindi?

In sintesi,

Eravamo orgogliosi di appartenere alla Comunità Economica Europea. Il tradimento di Lisbona non è stato un incidente, ma il logico risultato della costruzione europea, come è stata voluta dal suo nemico numero uno. Il segretario di Stato USA Mike Pompeo disse “è stato un errore.”

L’Unione Europea è una truffa in cui, alla fine, chiediamo alle persone elette al potere di rinunciare a questo potere. La rinuncia incide anche sul potere del successore. Al massimo, l’Ue è un’illusione di protezione economica, sanitaria e sociale con una falsa idea che, alla fine, è quella del gregge di pecore, che, cioè, siamo più forti come masse che come nazioni libere.

Ci sono pochi politici che stanno iniziando a opporsi a questa Ue, ma ne servono altri. Oggi chi la gestisce è un ladro e un suddito di alcuni paesi che non ne fanno più parte o – peggio – non ne sono mai stati parte.

L’Ue deve favorire i paesi che la compongono e preoccuparsi soprattutto del bene dei cittadini europei. Soprattutto, perché questo avvenga, dovete votare in massa per eleggere coloro che avranno il coraggio di lottare per il nostro Paese, la sua gente, le nostre imprese e i nostri agricoltori.

  • L’artocolo di Gabrielle Cluzel è tratto da Boulevard Voltaire dell’ 11 maggio 2024. La nostra è una traduzione libera che chiudiamo con una domanda: “E l’Italia?” 
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Guillaume Bigot è un politologo, editorialista di CNews e Sud Radio. Ha appena pubblicato, con Éditions L’Artilleur, un libro scritto in collaborazione con l’avvocato Ghislain Benhessa. Il titolo, “Camminiamo sulle nostre teste”, è ovviamente ispirato al famoso slogan dei contadini arrabbiati, vittime emblematiche, dopo i gilet gialli, di questa Unione europea. Per lui l’UE è una camicia di forza che imprigiona le persone, ma i politici non osano ammettere la propria impotenza. Poiché i francesi lo sanno, l’astensione alle loro elezioni è massiccia. Il tradimento di Lisbona non è un incidente ma il logico risultato della costruzione europea. Punta sulla responsabilità dei giudici: “La gente dice no, i giudici dicono sì. »Ma nulla è irrimediabile, Guillaume Bigot apre a possibili soluzioni.

Assolutamente da vedere prima delle Elezioni Europee!

Gabrielle Cluzel  Directrice de la rédaction de BV, éditorialiste 

I VOSTRI COMMENTI AL LIBRO DI GUILLAUME BIGOT E GHISLAIN BENHESSA, “CAMMINIAMO SULLE NOSTRE TESTE”.

  1. AvatarBernard 34dit :
    Bertold Brecht
  2. ALFRED Germaindit :Non è un caso che il “distruttore” Macron parli solo di Europa. Gli inglesi hanno capito che bisogna uscire da questa camicia di forza globalista che impedisce alle nazioni di respirare.
  3. Jean Aymardit :Per avere la certezza di essere tradito a Lisbona, l’elettorato di destra ha dovuto votare per Sarkozy. Lo so: ero lì e da allora mi mordo le labbra. Quindi, non mi attira più la Democrazia che può generare tali mostri!
  4. STEINER Yolandedit :Ci sono politici che stanno iniziando a opporsi a questa UE, ma ne servono altri. Oggi chi la gestisce è un ladro e suddito di alcuni paesi che non ne fanno più parte o non ne sono mai stati parte. L’UE deve favorire i paesi che la compongono e preoccuparsi soprattutto del bene dei cittadini europei. Soprattutto, dovete votare in massa per eleggere coloro che avranno il coraggio di lottare per il nostro Paese, la sua gente, le nostre imprese e i nostri agricoltori.
  5. Roswalldit :Il libro del signor Bigot è importante. Il signor Bigot parla di vizio originario _ ed estende il problema al sindaco, il cui potere è ormai diluito ecc. _ ma non dà per il momento la sua visione di soluzione (in risposta alla domanda). Ciò che resta è la pedagogia di un nuovo Presidente…, per rinsavire?
    • Waspdit :L’Europa è una truffa in cui, alla fine, chiediamo alle persone elette al potere di rinunciare a questo potere. La rinuncia incide sul potere del successore. Quindi ognuno ha minato o minerà il potere dell’eletto successivo. Abbiamo una sola soluzione: darsi ammalati e gettarsi nelle barelle, se c’è ancora tempo.
  6. Cyrano24dit :Sì, l’UE è un’istituzione essenzialmente totalitaria. Devi negarlo per rifiutarti di vederlo. Ciò non significa che i francesi voteranno per la Frexit. Per me è semplice da capire: i francesi hanno paura di arrogarsi la libertà. Preferiscono scambiarla con un’illusione di protezione economica, sanitaria e sociale con questa falsa idea che è quella del gregge di pecore, che siamo più forti come masse che come nazione libera. I paesi più ricchi d’Europa? Svizzera, Norvegia e Islanda (15 milioni di abitanti in totale) tutte nazioni extra UE.
  7. Michele Berges ci dice : il 12 maggio 2024 alle 13:12Dimostrazione lampante, ma… tutto crolla negli ultimi minuti. Un prigioniero non può chiedere al suo carceriere di liberarlo. Cambiare la Costituzione? “Un’altra Europa”? Il serpente si morde la coda! Decideranno solo le elezioni presidenziali. Votare per un finto parlamento? È condonare la PRIGIONE, la millefoglie, le CATENE. L’urgenza è uscirne. Da 16 anni, l’UPR di Asselineau mette in pratica il metodo d’insegnamento annunciato. Tuttavia non viene citato da BIGOT e rimane imbavagliato. Per quello ?
  8. Se ci dice : 12 maggio 2024 alle 12:34 Quante verità dette e ben dette. Non è diventando prigionieri che ci diamo i mezzi per agire, tutt’altro. Un solo punto di disaccordo: Frexit immediata! I francesi, drogati, possono risvegliarsi dal torpore con un’improvvisa consapevolezza della realtà. A me è successo circa vent’anni fa, mi sono svegliato europeista, la sera ero fervente sostenitore del Frexit: ho aperto gli occhi e ho lasciato la mia stessa negazione. Può succedere a chiunque.
  9. Louli014 ci dice : 12 maggio 2024 alle 12:05. Grazie caro Guillaume per questa luminosa analisi. Solo un dettaglio: non confondere Maurice Schumann, grande partigiano e gollista, con Robert Schuman, europeista franco-tedesco-lussemburghese.
  10. Jean Louis Mazières dice : 12 maggio 2024 alle 11:35 I giudici ricevono ordini e hanno ordini, tutti i giudici lo sanno.
  11. Johnny Croipa dice : 12 maggio 2024 alle 11:11 Bella la dimostrazione da parte di Guillaume Bigot di questo processo di autodistruzione programmata di un sistema politico che, legato alle cellule umane, si chiama apoptosi. Allo stesso modo in cui la creazione di nuove cellule contribuisce alla sostenibilità della vita, attraverso il suo mantenimento e sviluppo, arriva un momento in cui quest’opera benefica, virtuosa e salutare viene corrotta, e se questa rigenerazione non avvenisse più, l’intero organismo diventerebbe canceroso attraverso la proliferazione di cellule che sono diventate dannose. Lo stesso vale per le costruzioni umane.
  12. Oanellig dice : 12 maggio 2024 alle 10:44 “La gente dice di no ~ I giudici dicono di sì, obbediscono!” » Bisogna quindi eliminare i giudici. Queste persone non sono i rappresentanti eletti del popolo. Sono antidemocratici. È allora necessario riformare l’UE affinché questi inutili malfattori vengano rimossi da tutti gli ingranaggi del potere che appartiene al Parlamento.
  13. Nico42 dice : 12 maggio 2024 alle 9:21 Ricorda: l’Europa sarà il mercato unico! ma quello era prima! ora questo mercato unico riguarda il Sud America e il Canada. Non sto parlando dei paesi dell’Est. Tutto questo per “proteggere” i nostri agricoltori! Il presidente non vuole più essere quello dei francesi ma quello dell’Europa. Bene la Brexit, Brava Gran Bretagna!
  14. CARAMELLA ci dice : 12 maggio 2024 alle 8:56 Guillaume Bigot, come al solito, ha prodotto un’ottima analisi! Dal 1968, la FRANCIA continua ad affondare, ad essere distrutta da una sinistra che vuole essere socialista, ma totalitaria e da una pseudo destra che pensa solo al potere e al denaro!
  15. Ed io, Mario Donnini Vi chiedo: “E l’Italia?”

6225.- L’EUROPA CHE VERRÀ

Dal Notiziario del Centro Studi Rosario Livatino, MAG 6, 2024

Le prospettive di riforma dell’Unione Europea in vista delle prossime elezioni, tra diritti fondamentali e limiti strutturali. Note a margine della Risoluzione del Parlamento Europeo sull’inclusione del diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali della UE.

Il dibattito che si è accompagnato al voto del Parlamento di Bruxelles del 11 aprile 2024 sulla inclusione del diritto all’aborto tra i diritti fondamentali della UE va ampliato aldilà del merito, relativo a materia forse troppo sensibile, in quanto legata, da un lato, alla pretesa autodeterminazione della donna, dall’altro, alla tutela della vita del nascituro, per consentire valutazioni più propriamente giuridiche e quindi sottratte al clamore della propaganda ideologica, ma non meno di rilevanza politica.

Eppure la risoluzione, votata con il voto favorevole di 336 deputati, quello contrario di 163 e 39 astensioni, quindi con maggioranza semplice e non quella assoluta della metà + uno degli aventi diritto, con cui il Consiglio europeo è stato invitato ad inserire l’aborto tra i diritti fondamentali di cui alla Carta di Nizza, modificandone l’art. 3 (con l’inserimento di un comma 2 bis che reciti: “Ogni persona ha diritto all’autonomia del corpo e all’accesso libero, informato, pieno e universale alla salute sessuale e riproduttiva e relativi diritti, come pure a tutti i servizi di assistenza sanitaria correlati, senza discriminazioni, compreso l’accesso a un aborto sicuro e legale”), ammette valutazioni che vanno addirittura oltre la pur rilevante importanza della questione specifica ed impattano, appunto, profili istituzionali di carattere generale della UE, oggetto di proposte di riforma collegate ai possibili futuri assetti conseguenti alle elezioni del prossimo 9 giugno ed ai relativi equilibri politici fra le forze rappresentate nel nuovo Parlamento.  

I. Il primo aspetto, invero non nascosto neppure dai promotori della risoluzione, è che la stessa non ha carattere vincolante ma svolge solo funzione di sprone affinchè il Consiglio, rappresentativo degli Stati membri, in composizione di un rappresentante per Paese, accolga l’invito all’inserimento del diritto all’aborto nella Carta dei Diritti fondamentali della UE, approvata a Nizza il 7 dicembre 2000 e poi resa, tra le fonti di rango primario del diritto unionale, parametro di legittimità degli atti degli organi della UE  dal Trattato di Lisbona, in vigore dal dicembre 2009, ex art. 6 TUE.

Ciò che è meno sbandierato è che, nonostante l’inserimento della Carta di Nizza tra le fonti del diritto vigente a livello UE, insieme appunto al TUE – Trattato dell’Unione Europea, ed al TFUE – Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, il medesimo art. 6 TUE espressamente ne limita, al paragrafo 1 comma 2, la valenza quoad obiectum, prevedendo che le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione, tali da consentire a quest’ultima di legiferare in materia di diritti umani, in lesione del principio di attribuzione, che non prevede appunto tale oggetto ricompreso tra le competenze nè esclusive nè concorrenti della UE rispetto agli Stati nazionali che vi aderiscono.

Al comma 3, poi, si precisa che le medesime disposizioni devono essere interpretate in conformità a quanto dispone la stessa Carta, il che porta ad escludere che il suo valore possa essere indebitamente esteso.

In particolare si deve tenere conto dell’art. 51 della Carta in virtù del quale la Carta si applica alle istituzioni, agli organi, agli organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà. Soprattutto poi la disposizione in questione precisa che la Carta si applica agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione europea. Gli Stati membri sono quindi tenuti a rispettare la Carta soltanto quando agiscono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. la Carta, pertanto, non rappresenta una sorta di diritto costituzionale federale in tema di diritti fondamentali, che si sostituisce alle tradizioni proprie dei singoli ordinamenti nazionali. Né, tantomeno il circuito decisionale dell’UE accentra in sé le scelte normative in ordine al grado di tutela dei singoli diritti, al contemperamento tra gli stessi, al bilanciamento con l’interesse generale” (Manuale Breve Diritto dell’Unione Europea, Calamia – Di Filippo – Marinai, Milano 2020, pp. 100-101).

II. Dunque, non solo v’è la necessità, ai fini dell’invocato inserimento del diritto all’aborto all’interno della Carta dei Diritti Fondamentali, che la risoluzione parlamentare sia adottata con la complessa procedura, ex art. 48 TUE, di revisione ordinaria dei Trattati, cui la Carta va oggi equiparata in conseguenza del suo recepimento ex art. 6 TUE (la quale impone, dopo il voto favorevole del Consiglio europeo, la convocazione da parte del Presidente del Consiglio della Convenzione –organismo composto sia dai rappresentanti degli Stati membri che delle istituzioni della UE- e, quindi, all’esito del consensus di questa, della CIG – Conferenza Intergovernativa, che, infine, licenzia il testo di revisione che dovrà poi essere sottoscritto da tutti gli Stati membri e, da ultimo, ratificato dai singoli Parlamenti nazionali), il che rende la Risoluzione pressocchè una mera …provocazione, stante la assai improbabile disponibilità al riguardo di tutti i Paesi membri, alcuni dei quali nominativamente tacciati, nel testo della delibera, di essere de iure (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Malta) o quantomeno de facto (tra cui l’Italia, per la previsione del diritto all’obiezione di coscienza dei medici non abortisti), favorevoli alla restrizione all’accesso alla interruzione volontaria di gravidanza.

Ma va anche osservato, in contrario avviso al “considerando C” della Risoluzione (“considerando che la Carta sancisce i principali diritti e le principali libertà fondamentali per le persone che vivono nell’UE; che la protezione dell’assistenza per un aborto sicuro e legale ha implicazioni dirette per l’esercizio effettivo dei diritti riconosciuti dalla Carta, quali la dignità umana, l’autonomia personale, l’uguaglianza, la salute e l’integrità fisica e mentale; che la privazione dell’accesso all’assistenza all’aborto costituisce una violazione di tali diritti fondamentali”), che vi sarebbe in ogni caso un ostacolo strutturale alla assunzione del diritto all’aborto fra i criteri ispiratori dell’ordinamento giuridico della UE, rappresentato appunto dal rispetto dei princìpi di attribuzione e di sussidiarietà, che impedisce comunque l’adozione fra i diritti fondamentali della UE di materia che esula dal campo di azione della medesima: come ha detto David Casa, premier maltese, a commento della Risoluzione del 11 aprile, “l’aborto rimane una competenza nazionale”.

III. Di tanto sembrano, del resto, essere consapevoli anche i promotori della Risoluzione, la quale, nella parte finale, segnatamente al punto 14, in modo solo apparentemente erratico, dopo avere “invitato l’UE ad agire come sostenitore e a fare del riconoscimento di tale diritto una priorità fondamentale nei negoziati in seno alle istituzioni internazionali e in altri consessi multilaterali quali il Consiglio d’Europa e le Nazioni Unite; chiede che l’UE ratifichi la Convenzione europea dei diritti dell’uomo”.

La CEDU è un trattato internazionale adottato nel 1950, nell’ambito del Consiglio d’Europa, cui aderiscono 47 Paesi europei (di fatto pressocché tutti e, comunque, ben più dei 27 che costituiscono la UE), ad oggetto la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, affidata alla giurisdizione della Corte di Strasburgo -che è diversa e distinta dalla CGUE (la Corte di Giustizia della Unione Europea, organo della UE con sede a Lussemburgo)-, cui può rivolgersi qualsiasi cittadino europeo che vanti la lesione di un suo diritto fondamentale da parte del proprio Stato di appartenenza.

L’invito della Risoluzione alla UE a sottoscriverne l’adesione significa, allora, il tentativo surrettizio di imporre, in termini di vincolatività derivata dall’efficacia del trattato internazionale con cui l’Unione Europea aderirebbe alla CEDU, anche il diritto all’aborto, se non espressamente previsto dal Trattato CEDU quantomeno ricompreso nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, vero motore immobile dei ‘nuovi diritti’ (tra cui certamente quello alla salute riproduttiva ed alla libera autodeterminazione delle donne).

Se è vero che gli accordi internazionali sottoscritti dalla UE sono fonti intermedie tra le fonti primarie (i Trattati e la Carta di Nizza) e le fonti di diritto derivato (i regolamenti e le direttive), per cui non possono contrastare con i Trattati medesimi –come implicitamente afferma l’art. 218 par. 11 TFUE-, nondimeno l’art. 6 TUE afferma che la UE aderisce alla CEDU anche se precisa che tale adesione non modifica le competenze dell’Unione, riconoscendo che i diritti fondamentali della CEDU fanno parte dell’ordinamento UE quali princìpi generali ma purchè siano risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.

I negoziati avviati in seno al Consiglio d’Europa nel luglio 2010, dopo avere portato alla redazione di un progetto di accordo di adesione della UE alla CEDU, si sono arenati, dopo lo stop imposto dalla CGUE (parere n° 2/13 del 18.12.2014), preoccupata di salvaguardare l’autonomia dell’ordinamento unionale da possibili interferenze esterne, ed infine sono stancamente ripresi solo da qualche anno ma senza auspici di prossimo successo.

IV. È significativo che la spinta all’adesione alla CEDU si accompagni ai proclami elettorali per dei rinnovati ‘Stati Uniti d’Europa’ (non il partito della Bonino e di Renzi, ma il programma politico di Mario Draghi, cui -pure- il primo si ispira), che, aldilà della suggestiva formula, implicano piuttosto uno scivolamento subdolo verso la progressiva erosione delle competenze e prerogative degli Stati nazionali, in rottura dell’equilibrio originario fra essi e le istituzioni della UE, sempre più immaginata come un superstato distinto ed autonomo dai Paesi membri, in spregio al disegno del legislatore dei Trattati, con conseguente accrescimento del deficit democratico che già oggi i popoli europei lamentano e/o comunque patiscono.

Forse, oltre che verificare quali sono i gruppi parlamentari europei che intendono promuovere l’aborto fra i diritti ‘umani’, occorre che nell’urna del 9 giugno si tenga conto anche del progetto d’Europa che vi si accompagna.

                                                                         Renato Veneruso

6224.- UCRAINA: gli aiuti Nato non bastano, il fronte inizia a cedere

La Nato ha perso la guerra del Donbass. L’Ucraina non ha sufficienti riserve umane né di munizioni. 31 carri armati americani M1A1 Abrams sono stati ritirati dal fronte, d’ordine del Pentagono, dopo che 5-6 erano stati distrutti dai drone e uno era stato catturato dai russi, intatto. Ma i I bellicosi Macron e Cameron alimentano le loro ambizioni con minacce impossibili.

Questi due tomi hanno il consenso di Bruxelles per fornire all’Ucraina missili in grado di attaccare obiettivi all’interno del territorio russo? Fino a quando gli europei e, per quanto ci riguarda, gli italiani dovranno contare per la loro vita sulla saggezza di Vladimir Putin?

Da Pagine Esteri, di Marco Santopadre | 10 Maggio 2024

UCRAINA: gli aiuti Nato non bastano, il fronte inizia a cedere

di Marco Santopadre*

Il 24 aprile il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha firmato il pacchetto da 95 miliardi di aiuti militari a lungo bloccato al parlamento statunitense, di cui 61 formalmente destinati all’Ucraina. In realtà solo 15 serviranno per acquistare armi da inviare in Ucraina (foraggiando ovviamente l’apparato militare-industriale di Washington) ma si tratta comunque di una grossa boccata d’ossigeno per Kiev che da mesi attendeva con ansia che il Pentagono riprendesse le consegne di armi al suo esercito sempre più sfiancato e alle prese con una cronica mancanza di munizioni.

L’avanzata russa prosegue
Le consegne di armi (anche a lunga gittata) e munizioni statunitensi sono riprese immediatamente ma con il contagocce, sortendo finora scarsi effetti sul campo. Nelle ultime due settimane, infatti, le truppe russe hanno continuato ad avanzare e a conquistare territori soprattutto nell’Ucraina orientale, impossessandosi di una decina di villaggi e cittadine. La perdita di Chasiv Yar, strategica cittadina dell’oblast di Donetsk nel frattempo ridotta in macerie, sembra inoltre inevitabile.

I comandi militari ucraini continuano a temere che la sostenuta pressione militare russa degli ultimi mesi si tramuti improvvisamente in una possente offensiva concentrata su alcuni dei punti più deboli di un fronte che sembra sul punto di cedere. I bombardamenti di Mosca sulle infrastrutture militari ed energetiche non sono mai calati di intensità e continuano a mettere in seria difficoltà le retrovie ucraine. Al fronte le cose non vanno meglio, con le unità di Kiev costrette a indietreggiare per evitare l’annientamento, bersagliate dall’artiglieria e dai droni russi.
Le sortite ucraine, con i droni o i missili a lunga gittata lanciati in profondità nel territorio russo a colpire le infrastrutture o le città, non sembrano impensierire più di tanto Mosca e sicuramente, al momento, non riescono a indebolire il meccanismo offensivo russo.

Quest’ultimo sembra puntare alla conquista di Sloviansk e Kramatorsk, le due maggiori città del Donetsk ancora sotto controllo ucraino, per poi proseguire fino alla sponda orientale del fiume Dnepr. Allo scopo i russi starebbero costruendo una base aerea nell’area di Belgorod, a circa 70 km dal confine.

Zelensky al fronte

Il fronte è sul punto di cedere?
Da più parti si segnala il rischio imminente di un cedimento del fronte. Gli inviati dell’agenzia di stampa Reuters, che seguono la 93ª Brigata meccanizzata ucraina, testimoniano che «le forze ucraine si sono assottigliate e si trovano in inferiorità di armi, di fronte a un nemico meglio equipaggiato».

La ritirata continua delle prime linee ucraine mette a dura prova gli apparati logistici e i rifornimenti destinati alle truppe, così come la realizzazione delle infrastrutture difensive che vengono spesso bypassate dai russi prima ancora di diventare del tutto operative. Nel frattempo, Kiev ha dovuto ritirare dal fronte 31 carri armati statunitensi Abrams che si sono rivelati troppo vulnerabili agli attacchi dei droni da bombardamento russi.

In questo quadro, il pacchetto di aiuti statunitensi potrebbe essere sufficiente solo a evitare il completo collasso ucraino, ma non a imprimere alla situazione un’inversione di tendenza, almeno non nei prossimi mesi. «La situazione al fronte è peggiorata» ha riconosciuto nei giorni scorsi il capo dell’esercito ucraino, Oleksandr Syrskyi, subentrato l’8 febbraio al generale Valery Zaluzhny. Quest’ultimo, inviso al presidente Zelensky, è stato ora del tutto esonerato dalle forze armate con un decreto ad hoc che giustifica la misura con presunti “problemi di salute”.

Kiev mobilita i detenuti
Le consegne di aiuti statunitensi procedono a rilento e comunque le truppe ucraine scontano parecchi mesi di razionamento delle munizioni, oltre a una cronica mancanza di ricambi nonostante l’approvazione, da parte della Rada, dei provvedimenti diretti ad allargare la coscrizione obbligatoria. Ora, nel tentativo di rimpinguare le prime linee, il parlamento di Kiev ha approvato mercoledì un disegno di legge sulla mobilitazione volontaria dei detenuti, che però esclude coloro che sono stati condannati per reati gravi. Agli altri, se si arruoleranno, i tribunali potranno concedere la condizionale. Il governo di Kiev ha anche chiesto agli alleati europei di “incoraggiare” i rifugiati ucraini a tornare in patria per combattere.

Si combatte in vista del negoziato
Kiev sta tentando in ogni modo di frenare l’avanzata russa, cosciente che presto o tardi dovrà intavolare serie trattative con Mosca e accettare dei duri compromessi. Ormai, che i due eserciti stiano combattendo in vista di una trattativa alla quale giungere nella posizione più favorevole possibile, viene riconosciuto pubblicamente anche dall’establishment ucraino.

Lo ha fatto, ad esempio, il generale Vadim Skibitski, vice direttore dell’intelligence militare ucraina (Gur), in un’intervista al settimanale britannico “The Economist”. Secondo Skibitski, però, negoziati realmente significativi potrebbero iniziare solo nella seconda metà del 2025. A meno che l’esercito russo – che per il vice direttore del Gur opera ora «come un corpo unico, con un piano chiaro e sotto un unico comando» – non riescano nelle prossime settimane a sfondare in profondità nel territorio ucraino.

I russi sfondano a Kharkiv
Nei giorni scorsi il generale Skibitski aveva avvertito che la Russia si stava preparando per un assalto contro le regioni di Kharkiv e Sumy, nel nord est del Paese. L’attacco, previsto tra un mese circa, sembra invece essere già iniziato.
Già stamattina decine di migliaia di soldati russi, supportati dall’artiglieria e dai blindati, sono penetrati all’interno dell’oblast di Kharkiv dopo che per dieci ore le installazioni vicine alla città e al confine erano state martellate dai bombardamenti.

Le truppe di Mosca sono penetrate in territorio ucraino per circa un chilometro in prossimità della cittadina di Vovchansk, precedute da gruppi di sabotatori. Contemporaneamente i reparti russi hanno sfondato una quarantina di km più a ovest, sempre nell’oblast di Kharkiv, conquistando i villaggi di Streleche, Krasne, Pylna e Borysivka.

Il fronte all’8 maggio

Macron: “servono truppe Nato”
Il netto squilibrio delle forze e la possibilità di un crollo del fronte orientale ucraino sembrano preoccupare soprattutto la Francia, il cui presidente Macron continua da mesi a evocare la necessità di un intervento militare occidentale sul campo per impedire che le truppe di Mosca dilaghino nel paese invaso.

L’inquilino dell’Eliseo è tornato nei giorni scorsi a ribadire, in un’intervista sempre a “The Economist”, che un invio di truppe in Ucraina non è escluso nel caso in cui la Russia dovesse «bucare le linee del fronte» e nel caso in cui «Kiev lo richiedesse». Macron, che sembra cercare un rischioso protagonismo francese nel momento in cui l’impegno statunitense a sostegno di Kiev sembra ridimensionarsi, ha affermato che scartare a priori l’ipotesi di un intervento militare diretto occidentale «significa non trarre insegnamento dagli ultimi due anni», durante i quali i paesi della Nato hanno inviato a Kiev sistemi d’arma che inizialmente avevano escluso.

Nessun altro capo di stato dell’Alleanza Atlantica – esclusi i baltici – ha dato corda a Macron, e anzi in molti si sono affrettati a giurare alle proprie opinioni pubbliche che nessun soldato europeo metterà piede in Ucraina.
Intanto però, nel corso di una visita a Kiev, il ministro degli esteri britannico David Cameron ha promesso un invio rapido dei potenti missili Storm Shadow con una gittata di 500 km, affermando che l’Ucraina gode del consenso di Londra per attaccare obiettivi all’interno del territorio russo.

Russia e Bielorussia testano l’arsenale nucleare tattico
Vladimir Putin, che ha appena iniziato il suo quinto mandato alla guida della Federazione Russa, ha voluto reagire ricordando che i paesi europei potrebbero pagare molto caro un coinvolgimento diretto nel conflitto.
La Russia ha avvisato che «si sente obbligata» a rafforzare il deterrente nucleare a causa di quella che considera una “escalation”, ha detto ieri il vice ministro degli Esteri di Mosca Sergei Ryabkov.

Già lunedì il Cremlino aveva annunciato l’avvio a breve di una serie di esercitazioni, che coinvolgeranno Marina e Aviazione, all’uso delle armi nucleari tattiche nei pressi del confine con l’Ucraina. Subito dopo, anche l’esercito bielorusso ha avvisato di aver avviato un’esercitazione per verificare il grado di “preparazione” dei suoi lanciatori tattici dei missili a testata nucleare schierati nel paese da Mosca nel 2023.

Intanto l’Unione Europea ha deciso, dopo un lungo dibattito interno, di utilizzare i proventi derivanti dai capitali russi sequestrati nella primavera del 2022 per finanziare lo sforzo bellico ucraino. Secondo i rappresentanti dei 27 membri dell’UE riuniti a Bruxelles, gli asset della Banca Centrale della Federazione Russa requisiti – per un valore di circa 210 miliardi di euro – dovrebbero generare dai 2,5 ai 3 miliardi di euro l’anno. Gli USA chiedevano invece la completa confisca dei beni russi congelati. Pagine Esteri

6223.- ANALISI. Artificiali i dissensi tra Biden e Netanyahu. Israele ha armi Usa sufficienti per colpire Rafah

Le minacce di Biden portano soltanto a incrementare l’industria bellica israeliana già molto sviluppata.

Da Pagine Esteri, di Michele Giorgio | 10 Maggio 2024 

ANALISI. Artificiali i dissensi tra Biden e Netanyahu. Israele ha armi Usa sufficienti per colpire Rafah

di Michele Giorgio

Una tempesta in un bicchiere d’acqua o, peggio, un inganno mediatico volto a rappresentare un “aspro dissenso” tra Stati uniti e Israele che è solo nelle parole e non nei fatti. Così occorre interpretare i contrasti tra Joe Biden e Benyamin Netanyahu emersi più nettamente negli ultimi giorni dopo la decisione, peraltro non ancora definitiva, dell’Amministrazione americana di ritardare le forniture di alcuni tipi di bombe made in Usa che Israele potrebbe o dovrebbe usare durante il suo assalto alla città palestinese di Rafah, sul confine tra Gaza e l’Egitto.

Il clamore per l’annuncio di Biden è stato enorme nelle ultime ore. Netanyahu ha prima replicato affermando che Israele “si difenderà con le unghie” e continuerà a combattere “anche da solo”. Poi, in una intervista di qualche ora fa, ha ammorbidito i toni dicendo che dissensi con gli Usa ci sono stati anche in passato, ma sono “superabili” e che l’alleanza tra i due paesi è sempre solida e non è stata messa in discussione da questa vicenda.

Da parte sua la Casa Bianca già getta acqua sul fuoco e precisa, attraverso la portavoce dell’Amministrazione, Karine Jean-Pierre, che Biden “continuerà a fornire a Israele tutte le capacità di cui ha bisogno per difendersi, ma non vuole che alcune categorie di armi americane vengano utilizzate in un particolare tipo di operazione in un determinato luogo” (Rafah). A conferma che gli Usa non intendono aggravare i dissensi con Israele, il segretario di Stato Blinken, nel rapporto che si accinge a presentare oggi al Congresso, pur criticando lo Stato ebraico, afferma che l’uso da parte di Tel Aviv delle armi americane contro Gaza è in linea con la legge internazionale. Una posizione fortemente contestata dalle Ong per i diritti umani e dagli esperti di diritto internazionale.

Davvero Biden impedirà l’utilizzo di bombe Usa contro Rafah? Nulla di più lontano dalla realtà. Il tipo di bombe ad alto potenziale che Washington non ha ancora consegnato a Tel Aviv, è già largamente presente negli arsenali israeliani, perché nei passati 7 mesi Biden non ha fatto mancare a Israele alcuno strumento di morte da utilizzare contro Gaza. Non a caso il ministro della Difesa Yoav Gallant, che vanta ottimi rapporti con gli Usa, ha ribadito che “Israele raggiungerà i suoi obiettivi a sud (a Gaza) e a nord (con gli Hezbollah)”.  Certo, dovessero gli Usa bloccare o limitare le forniture di bombe ed altre armi, Israele dovrebbe adottare “un’economia degli armamenti”, quindi conservare le munizioni in modo che queste non finiscano o procurarsele altrove. Ma è una prospettiva remota. Il portavoce militare di Israele, Daniel Hagari, ha detto che le forze israeliane hanno munizioni sufficienti per l’attacco a Rafah e per altre operazioni pianificate.

“Quando parliamo di difficoltà all’interno delle forze di difesa israeliane, è a lungo o medio raggio”, ha spiegato Yaakov Amidror, ex generale dell’esercito e consigliere per la sicurezza nazionale di Netanyahu. “Per la guerra a Gaza – ha aggiunto – o per la possibile guerra aperta di domani in Libano, la decisione degli Stati Uniti non farà alcuna differenza”.  L’industria bellica israeliana è molto sviluppata e vanta risorse prodotte internamente come il sistema di difesa missilistico Iron Dome. “Abbiamo notevoli capacità, ma ci sono campi in cui, anche se non dipendessimo dagli aiuti militari americani, dovremmo comunque comprare armi da altri paesi”, ha detto alla radio israeliana Avi Dadon, ex capo del Dipartimento acquisti e produzione del Ministero della Difesa.

Il vero effetto pratico dell’annuncio di Biden è quello di spingere Israele a rafforzare la sua industria militare. “È chiaro che investiremo molti soldi per essere in una posizione migliore e produrre in futuro ciò di cui abbiamo bisogno”, ha aggiunto Amidor.

6222.- La Russia si sta bloccando. Ed è anche colpa della Cina

Ma la domanda per noi è; “Fino a che punto le sanzioni possono bloccare l’economia russa senza scatenare una catastrofe… in Europa?”

Da Formiche.net, di Gianluca Zapponini, 10/05/2024

Per Mosca è sempre più difficile vendere e comprare beni dai suoi mercati amici, come Cina e Turchia. Con le banche terrorizzate dalle sanzioni, per le imprese è infatti impossibile effettuare gli scambi, come dimostra il crollo dei flussi nel primo trimestre. E così il denaro smette di circolare

Qualcosa scricchiola, pericolosamente, dentro l’economia russa. La propaganda, quella che vuole le finanze dell’ex Urss a prova di bomba, arriva fino a un certo punto (qui l’intervista all’economista Alberto Forchielli). Poi ci sono quei muri che è difficile abbattere e quei muri si chiamano sanzioni. Sono mesi, infatti, che le imprese dei Paesi alleati della Russia, Cina in testa, hanno difficoltà a vendere o comprare le merci di Mosca, per il semplice fatto che le banche si rifiutano di processare i pagamenti per timore di finire invischiate nelle sanzioni.

Tutto questo ha un prezzo, anche perché non c’è solo il fronte cinese per il Cremlino, ma anche quello della Turchia. Oggi, infatti, è molto più difficile spostare denaro dentro e fuori la Russia. I volumi commerciali di Mosca con partner chiave come Turchia e Cina sono infatti letteralmente crollati nel primo trimestre di quest’anno, dopo che gli Stati Uniti hanno preso di mira le banche internazionali che aiutano Mosca a comprare o vendere merci. Il famoso ordine esecutivo statunitense, attuato alla fine dello scorso anno e che prevede la possibilità di colpire con sanzioni tutte quelle imprese o istituti che mantengono rapporti con la Russia, sta insomma dando i suoi frutti.

Al punto, “che è diventato difficile per la Russia accedere ai servizi finanziari di cui ha bisogno per pagare i beni comprati all’estero”, ha affermato Anna Morris, vice segretario ad interim per il finanziamento del terrorismo e i crimini finanziari presso il Tesoro degli Stati Uniti. “L’obiettivo è sicuramente quello di rendere molto più complesso il flusso di quel denaro, di aumentare i costi per i russi l’attrito nel sistema”. E la preoccupazione, come ha rivelato al Financial Times un imprenditore russo, aumenta anche all’interno. “Un mese sono dollari, il mese successivo sono euro: entro sei mesi praticamente non potrai fare nulla. Il logico risultato di ciò è trasformare la Russia in Iran”.

D’altronde, anche sul versante cinese le cose si stanno mettendo male. C’è un dato, diffuso dalle agenzie doganali cinesi, poche settimane fa, che racconta una verità amara per la Cina. E cioè che le esportazioni del Dragone in Russia sono diminuite di quasi il 16% a marzo rispetto all’anno precedente, registrando il peggior calo da inizio 2022, quando le sanzioni contro l’ex Urss non erano ancora scattate. Le esportazioni del Dragone, infatti, si sono contratte a marzo dopo essere cresciute nei primi due mesi dell’anno. I dati doganali poc’anzi citati mostrano che le vendite sono diminuite del 7,5% a marzo rispetto all’anno precedente, mentre le importazioni sono diminuite dell’1,9%. Entrambi i valori sono stati inferiori alle stime. E anche questa non è una buona notizia.

6221.- Proteggere Israele è il compito numero uno di Washington

Cui prodest confondere l’antisionismo con l’antisemitismo? Ai sionisti, naturalmente; quindi …. C’è stato un tempo in cui gli Stati Uniti erano un simbolo di libertà e opportunità. Ora sono diventati motivo di imbarazzo a livello internazionale.

Di Philip Giraldi, pubblicato da The Unz Review l’8 maggio 2024

La Casa Bianca e il Congresso sono una sola cosa attorno alla bandiera della Stella di David

Immagine da ISPI

Quando, come previsto, il presidente Joe Biden approverà l’Antisemitism Awareness Act, il Dipartimento dell’Istruzione avrà il potere di inviare i cosiddetti osservatori dell’antisemitismo per far rispettare la legge sui diritti civili nelle scuole pubbliche e nelle università per osservare e riferire sui livelli di ostilità. nei confronti degli ebrei. I rapporti degli osservatori alla fine finiranno al Congresso che potrà proporre i rimedi necessari, incluso il taglio dei finanziamenti e la raccomandazione di accuse sui diritti civili in casi estremi. Una delle caratteristiche più deplorevoli della legge è che accetta la definizione di antisemitismo dell’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto applicata allo stato di Israele, criticando ipso facto l’antisemitismo dello stato ebraico. Il suo testo include il “prendere di mira lo Stato di Israele, concepito come collettività ebraica” come atto antisemita. In realtà, tuttavia, l’antisemitismo vero e proprio non è così diffuso come sostengono i partigiani israeliani. La maggior parte di ciò che chiamano antisemitismo è semplicemente una critica allo “Stato ebraico” dell’apartheid, legalmente autoproclamato, e gran parte dell’animosità che Israele sperimenta è l’opposizione al trattamento brutale riservato ai palestinesi. Dare una sanzione legale a questa presunzione secondo cui Israele deve essere protetto dai bigotti significa che gli Stati Uniti sono sulla buona strada per vietare del tutto qualsiasi critica nei confronti di Israele. Gli americani possono criticare il proprio paese o le proprie nazioni in Europa, o almeno sono in grado di farlo attualmente, ma parlare male di Israele potrebbe presto costituire un reato penale.

L’Antisemitism Awareness Act è solo un aspetto di come il potere dei gruppi ebraici organizzati sul governo e sui media sta plasmando il tipo di società in cui vivranno gli americani nel prossimo futuro. Sarà una società privata di numerosi diritti costituzionali fondamentali, come la libertà di parola, a causa del rispetto delle preferenze di un piccolo gruppo demografico. E l’aspetto più interessante di quel potere è il modo in cui è riuscito a nascondere con successo il fatto di esistere, diffondendo allo stesso tempo il mito secondo cui gli ebrei e Israele meritano una considerazione speciale perché sono spesso o addirittura sempre percepiti come vittime, un’estensione della il mito dell’olocausto.

In effetti, negli ultimi tempi Israele è sempre presente nelle notizie e molto spesso completamente protetto dai media e dagli elementi parlanti, soprattutto se ci si limita a guardare Fox o leggere il Wall Street Journal, il New York Times o il Washington Post. Anche il ripugnante Benjamin Netanyahu ottiene spesso una buona stampa, mentre i manifestanti pacifisti studenteschi non violenti sono invariabilmente descritti come terroristi anti-israeliani o pro-Hamas anche quando vengono aggrediti da delinquenti sionisti guidati da un ufficiale delle operazioni speciali israeliane e finanziati e armati da miliardari ebrei, come è accaduto. recentemente a Los Angeles.

Tuttavia, a volte qualcosa sfugge alle difese e rivela fin troppo chiaramente cosa sta succedendo. Recentemente, rispondendo alla domanda di un giornalista, il Segretario di Stato Anthony Blinken ha fatto un’affermazione alla quale non crederà assolutamente nessuno che abbia trascorso del tempo a Washington. Il giornalista aveva chiesto se il governo federale, nelle sue decisioni di politica estera, tendesse a favorire e/o scusare il comportamento di alcuni paesi condannandone altri esattamente per le stesse azioni. Blinken ha risposto “Applichiamo lo stesso standard a tutti. E ciò non cambia se il Paese in questione sia un avversario, un concorrente, un amico o un alleato”.

Tutti nella stanza capivano molto chiaramente che Blinken non stava dicendo la verità e stava cercando di preservare la finzione secondo cui gli Stati Uniti vincolano alleati e clienti allo stesso standard di “ordine internazionale basato su regole” che usa per altri, in particolare le nazioni concorrenti. come Russia e Cina o avversari come l’Iran. Nessuno prende sul serio ciò che dice Blinken in ogni caso, e non aiuta la sua credibilità generale quando si sente obbligato a mentire senza alcun motivo.

Vorrei che qualcuno nella stanza avesse avuto l’ardire di citare uno dei commenti più vergognosamente partigiani di Blinken, il suo saluto al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla pista dell’aeroporto Ben Gurion poco dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Ha detto: “Vengo davanti a voi come ebreo. Capisco a livello personale gli echi strazianti che i massacri di Hamas portano per gli ebrei israeliani – anzi, per gli ebrei di tutto il mondo”. Ciò ha spinto qualcuno a mormorare: “No Anthony, tu sei il Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America. Sei lì per rappresentare gli interessi americani volti ad evitare una grande guerra in Medio Oriente, non per rappresentare gli interessi della tua tribù dichiarandoti uno di loro”.

L’incontro di Blinken con Netanyahu è stato particolarmente significativo poiché pochi a Washington dubiterebbero che la Casa Bianca e il Congresso di Joe Biden si siano arresi totalmente agli interessi israeliani invece di servire i bisogni dei loro elettori negli Stati Uniti. Paul Craig Roberts lo descrive come “Il Congresso degli Stati Uniti è diventato un’estensione del governo israeliano”. Per rispondere onestamente alla domanda del giornalista, Blinken avrebbe dovuto ammettere che il governo Biden è pienamente impegnato a proteggere Israele e anche i suoi interessi percepiti quando sono in conflitto con la normale politica statunitense. Mercoledì l’amministrazione Biden ha dichiarato di aver ritardato indefinitamente un rapporto richiesto che indagava sui potenziali crimini di guerra israeliani a Gaza che avrebbe dovuto essere pubblicato dal Dipartimento di Stato americano. Se il rapporto avesse concluso, come avrebbe dovuto, che Israele ha violato il diritto internazionale umanitario, gli Stati Uniti avrebbero dovuto smettere di inviare aiuti esteri a causa della Legge Leahy, che rende illegale per il governo americano fornire aiuti a qualsiasi forza di sicurezza straniera trovata commettere “gravi violazioni dei diritti umani”. Così Joe Biden e Anthony Blinken hanno deciso di approfondire il rapporto invece di proteggere Israele infrangendo la legge statunitense, anche se secondo quanto riferito hanno ritardato una spedizione di bombe per paura che venissero usate sui civili a Rafah. Tuttavia, Biden intende chiaramente quello che dice quando ripetutamente inciampa nel confermare che le garanzie di sicurezza degli Stati Uniti nei confronti di Israele sono “corazzate”. In effetti, il legame con lo Stato ebraico va ben oltre ciò che generalmente è dovuto a chiunque venga descritto come un alleato, cosa che Israele, anche se non è una democrazia, non è in ogni caso, poiché un’alleanza richiede sia reciprocità che una precisa comprensione delle linee rosse nella relazione.

Niente illustra meglio la totale sottomissione di Washington a Israele di come gli Stati Uniti si stiano inutilmente coinvolgendo in una discussione che potrebbe rivelarsi un grave imbarazzo, oltre che un problema, nelle relazioni dell’America con molti stati stranieri. E, come spesso accade, si tratta di Israele. Ci sono notizie confermate secondo cui la Corte Penale Internazionale (CPI) dell’Aia si sta preparando a emettere mandati di arresto per Netanyahu e altri due alti funzionari israeliani in relazione a crimini di guerra legati al genocidio in corso contro gli abitanti di Gaza. Secondo quanto riferito, Netanyahu si sta rivolgendo selvaggiamente ai suoi numerosi “amici” per impedire un simile sviluppo. E, in linea con la convinzione di Washington e Gerusalemme secondo cui ogni buona crisi merita un uso eccessivo della forza o addirittura una soluzione militare, ci sono già rapporti secondo cui pressioni, comprese minacce, vengono esercitate sia da Israele che dagli Stati Uniti contro i giuristi del tribunale. e diretti anche contro le loro famiglie. Il governo israeliano ha avvertito l’amministrazione Biden che se la Corte penale internazionale emetterà mandati di arresto contro i leader israeliani, adotterà misure di ritorsione contro l’Autorità palestinese che potrebbero portare al suo collasso, destabilizzando ulteriormente la regione. Israele sta anche conducendo canali diplomatici paralleli in Europa per convincere i governi locali ad avvisare i loro rappresentanti in tribunale che sarebbe auspicabile sopprimere le sue indagini.

Netanyahu, che ha chiamato il presidente Joe Biden e chiesto aiuto, in risposta alle notizie ha twittato che Israele “non accetterà mai alcun tentativo da parte della Corte penale internazionale di minare il suo diritto intrinseco all’autodifesa. La minaccia di sequestrare i soldati e i funzionari dell’unica democrazia del Medio Oriente e dell’unico stato ebraico al mondo è scandalosa. Non ci piegheremo”. Netanyahu ha anche denunciato i possibili mandati come un “crimine di odio antisemita senza precedenti”. Dato che le deliberazioni della Corte penale internazionale sono segrete, sembrerebbe che un giurista americano o britannico debba aver fatto trapelare la storia per consentire a Netanyahu di organizzare una campagna contro di essa. La Casa Bianca e il Congresso si stanno già muovendo a tutta velocità per far sparire i mandati e stanno esplorando opzioni per affrontare direttamente e screditare la corte nel caso in cui gli israeliani venissero effettivamente puniti.

Gli Stati Uniti non hanno nulla da guadagnare e molto da perdere nel confronto con la Corte penale internazionale, poiché la Corte è generalmente molto rispettata. E altri potrebbero arrivare. Ci sono rapporti secondo cui i pubblici ministeri della Corte penale internazionale hanno intervistato il personale medico di due dei più grandi ospedali di Gaza nelle loro indagini su altri possibili crimini di guerra commessi da Israele in relazione alle fosse comuni recentemente scoperte. La Corte penale internazionale è stata fondata nel 2002 come tribunale di ultima istanza per affrontare i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità che non sarebbero stati altrimenti affrontabili. La Corte è stata istituita dallo Statuto di Roma della Corte penale internazionale (Statuto di Roma). Israele non è parte dello Statuto di Roma e non riconosce la giurisdizione della Corte penale internazionale. Tuttavia, se dovesse essere emesso un mandato a nome di Netanyahu, i suoi viaggi potrebbero essere limitati, poiché i 123 paesi che riconoscono la corte potrebbero considerarsi obbligati ad arrestarlo.

Nel marzo 2023 c’erano 123 Stati membri della Corte. Gli Stati Uniti non ne sono più membri perché il 6 maggio 2002 gli Stati Uniti, dopo aver firmato in precedenza lo Statuto di Roma, hanno formalmente ritirato la propria firma e hanno indicato che non intendevano ratificare l’accordo. Un altro stato che ha ritirato la propria firma è il Sudan, mentre tra gli stati che non sono mai diventati parti dello Statuto di Roma figurano l’India, l’Indonesia e la Cina. La politica degli Stati Uniti riguardo alla Corte penale internazionale è variata a seconda dell’amministrazione. L’amministrazione Clinton ha firmato lo Statuto di Roma nel 2000, ma non lo ha sottoposto alla ratifica del Senato. L’amministrazione George W. Bush, che era l’amministrazione statunitense al momento della fondazione della CPI, dichiarò che non avrebbe aderito alla CPI. L’amministrazione Obama ha successivamente ristabilito un rapporto di lavoro con la Corte in qualità di osservatore. Da quel momento non vi è stato alcun cambiamento nello status, ma la relazione è considerata inattiva.

Cosa faranno gli Stati Uniti per salvare ancora una volta Israele? Ha già reso nota la sua posizione. La portavoce della Casa Bianca Karine Jean-Pierre ha dichiarato: “Siamo stati molto chiari riguardo all’indagine della Corte penale internazionale. Non lo supportiamo. Non crediamo che abbiano la giurisdizione”. Il vice portavoce Vedant Patel ha ribadito la sua posizione dichiarando: “La nostra posizione è chiara. Continuiamo a credere che la Corte penale internazionale non abbia giurisdizione sulla situazione palestinese”. Alla Casa Bianca si unirono i principali repubblicani del Congresso. Il presidente sionista della Camera Mike Johnson ha fatto pressioni sulla Casa Bianca e sul Dipartimento di Stato affinché “usassero ogni strumento disponibile per prevenire un simile abominio”, spiegando come ammettere il punto alla CPI “minerebbe direttamente gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Se incontrastata dall’amministrazione Biden, la Corte penale internazionale potrebbe creare e assumere un potere senza precedenti per emettere mandati di arresto contro leader politici americani, diplomatici americani e personale militare americano”.

Esiste un precedente nell’azione degli Stati Uniti contro la Corte penale internazionale. Il 2 settembre 2020, il governo degli Stati Uniti ha imposto sanzioni al procuratore della CPI, Fatou Bensouda, in risposta a un’indagine della corte sui crimini di guerra statunitensi in Afghanistan, quindi c’è una certa sensibilità al fatto che, poiché gli Stati Uniti sono il paese più grande del mondo principale fonte di crimini di guerra, sarebbe saggio delegittimare le agenzie che esaminano troppo in profondità questo fatto. Ma la Corte penale internazionale a volte ha la sua utilità, come quando l’amministrazione Biden ha accolto pubblicamente con favore un’indagine sui crimini di guerra condotta dalla Corte penale internazionale contro il presidente russo Vladimir Putin sulla guerra in Ucraina. Alla domanda sul perché gli Stati Uniti abbiano sostenuto un’indagine della Corte penale internazionale sui funzionari russi, Patel ha dichiarato che “non esiste alcuna equivalenza morale tra il tipo di cose che vediamo [il presidente russo Vladimir Putin] e il Cremlino intraprendere rispetto al governo israeliano”. dimostrando ancora una volta che ciò che Blinken ha detto al giornalista non aveva senso.

Il Partito Repubblicano sta cercando di superare la Casa Bianca nel dimostrare il suo amore per Israele. Una lettera firmata da dodici senatori repubblicani è stata inviata a Karim Khan, procuratore capo della Corte penale internazionale. La lettera minaccia i membri della corte sulla possibile incriminazione di Netanyahu e soci. Il gruppo di 12 senatori repubblicani che mi piace chiamare la “sporca dozzina” a causa degli ampi contributi politici che ricevono da fonti filo-israeliane, ha inviato una lettera al procuratore capo della Corte penale internazionale (CPI) Karim Khan in cui affermava che minaccia “sanzioni severe” se la corte andrà avanti con il piano di emettere mandati di arresto per Netanyahu, il suo ministro della Difesa e un altro alto funzionario. La lettera, datata 24 aprile, faceva riferimento all’American Service-Members’ Protection Act, una legge che autorizza il presidente a utilizzare qualsiasi mezzo per liberare il personale statunitense detenuto dalla Corte penale internazionale, anche se non si applica a Israele. Dice, in modo ridicolo, che “Se emettete un mandato di arresto contro un israeliano, lo interpreteremo non solo come una minaccia alla sovranità di Israele ma come una minaccia alla sovranità degli Stati Uniti” e continua negando che il La CPI ha giurisdizione anche per emettere mandati poiché Israele non è un membro della corte. L’apparente redattore, il senatore Tom Cotton, apparentemente non era a conoscenza del fatto che la Palestina è un membro della Corte penale internazionale e che i mandati di arresto sarebbero basati su crimini di guerra commessi da Israele sul suo territorio nominale, Gaza e Cisgiordania.

La lettera si conclude con una minaccia pesante: “Gli Stati Uniti non tollereranno attacchi politicizzati da parte della Corte penale internazionale contro i nostri alleati. Prendi di mira Israele e noi prenderemo di mira te. Se andrai avanti con le misure indicate in questo rapporto, ci muoveremo per porre fine a tutto il sostegno americano alla CPI, sanzioneremo i tuoi dipendenti e associati e escluderai te e la tua famiglia dagli Stati Uniti. Sei stato avvertito.” Pochi giorni dopo, la Corte penale internazionale ha rilasciato una dichiarazione in cui condanna le minacce rivolte alla corte e afferma che i tentativi di “impedire, intimidire o influenzare in modo improprio” i funzionari della Corte penale internazionale devono “cessare immediatamente”. I 12 senatori repubblicani che hanno firmato la lettera includono Mitch McConnell, Tom Cotton, Marsha Blackburn, Katie Boyd Britt, Ted Budd, Kevin Cramer, Ted Cruz, Bill Hagerty, Pete Ricketts, Marco Rubio, Rick Scott e Tim Scott. Mancava solo Lindsay Graham, probabilmente impegnato a raccogliere sostegno per il suo piano di “distruggere i nemici dello Stato di Israele”. Cotton, che ha raccomandato alle persone disturbate dai manifestanti di affrontarli e picchiarli, ha anche introdotto una legislazione che nega l’agevolazione del prestito universitario agli studenti che hanno dovuto affrontare accuse statali o federali mentre manifestavano contro le morti a Gaza. Alcuni altri deputati repubblicani a corto di cellule cerebrali ma forti nei confronti di Israele stanno cercando di far deportare i manifestanti “condannati per attività illegali nel campus di un’università americana dal 7 ottobre 2023” per svolgere sei mesi di servizio comunitario a Gaza, anche se ciò potrebbe essere implementato non è chiaro. Il deputato Randy Weber del Texas ha spiegato: “Se sostieni un’organizzazione terroristica e partecipi ad attività illegali nei campus, dovresti assaggiare la tua stessa medicina. Scommetto che questi sostenitori di Hamas non durerebbero un giorno, ma diamo loro l’opportunità”.

Quindi gli Stati Uniti si batteranno nuovamente per Israele e Israele ignorerà ciò che verrà fuori ed eviterà qualsiasi conseguenza. I veri perdenti in questo processo saranno il popolo americano, che più chiaramente che mai vedrà e, si spera, riconoscerà di avere un governo che spende moltissimo tempo e denaro per Israele e fa cose promosse da gruppi ebraici. Abbiamo un potere legislativo ed esecutivo che sono stati corrotti e compromessi da cima a fondo, facendo sempre ciò che è sbagliato per le ragioni più egoistiche, spesso per lealtà verso governi stranieri come Israele a cui potrebbe importare di meno. Gli Stati Uniti una volta erano un simbolo di libertà e opportunità. Ora è diventato motivo di imbarazzo a livello internazionale.

6220.- Alta Tensione. Ministro degli esteri russo convoca ambasciatori di Francia e Regno Unito, mentre lo Stato maggiore ha dichiarato l’inizio delle esercitazioni delle forze nucleari tattiche. – AFV

La domanda che da convinti europeisti ci poniamo è: A quale titolo il presidente Emmanuel Macron e il ministro David Cameron hanno impegnato l’Unione europea e la Nato con dichiarazioni bellicistiche e con forniture di missili superficie – superficie Storm Shadow/Scalp? La miglior difesa è l’attacco, ma la domanda vale anche per la Casa Bianca che ha confermato l’invio di missili a lunga gittata AtacMS a Kiev, per rispondere agli attacchi di Mosca. E, come leggeremo, l’Italia sembra non essere da meno.

Da nova-project, di Micheli Fabrizio, 7 maggio 2024

Oggi pomeriggio sia l’ambasciatore britannico Nigel Casey (nella foto, non felicissimo) che l’ambasciatore francese Pierre Levy sono stati convocati al Ministero degli Esteri a Mosca, dove sono rimasti rispettivamente per trenta e quaranta minuti. Non hanno rilasciato dichiarazioni, ma ci ha pensato il Ministero degli Esteri russo. All’ambasciatore inglese è stato chiesto conto delle parole di David Cameron, secondo il quale l’Ucraina è autorizzata a usare armi britanniche per colpire il territorio russo, e gli è stato notificato che il governo russo le considera un’escalation molto seria: se dovesse verificarsi un’eventualità del genere, la Russia si riserva il diritto di colpire obiettivi militari inglesi “sia sul territorio dell’Ucraina che altrove”. Non sembra invece che all’ambasciatore francese siano stati fatti discorsi di obiettivi militari da colpire, ma poco dopo Macron ha dichiarato che la Francia sostiene l’Ucraina ma non è in guerra né con la Russia né col popolo russo, e non cerca un cambio di regime a Mosca.
Per dare un po’ più di sostanza al discorso fatto agli ambasciatori, ad ogni modo, poco prima del loro ingresso al Ministero lo Stato maggiore russo ha dichiarato che, su ordine di Putin, ha iniziato le preparazioni per esercitazioni delle forze nucleari non-strategiche (cioè tattiche) “nel prossimo futuro”, nel Distretto Militare Meridionale (che comprende Russia meridionale, territori annessi e Crimea) e con la partecipazione della flotta (ovvero, che le esercitazioni in questione saranno condotte nel Mar Nero). Le esercitazioni, continua lo Stato Maggiore, sono effettuate in risposta alle “affermazioni provocatorie e alle minacce di certi funzionari occidentali” nei confronti della Federazione Russa.
È chiaro che le esercitazioni non saranno condotte con missili nucleari, ma che verranno testati solo i meccanismi di dispiegamento, comando e controllo. Ad ogni modo è un’escalation seria, che viene in risposta a una serie di escalation altrettanto serie da parte di Francia e Gran Bretagla – da cui appunto la convocazione degli ambasciatori. Le dichiarazioni di Macron potrebbero lasciare intendere che il messaggio è stato recepito, considerando anche che, a quanto pare, i colloqui con Xi Jinping non hanno portato ai risultati da lui sperati (quanto queste speranze poi fossero fondate ognuno può immaginarlo): se nei prossimi giorni dalla Francia non si parlerà più di inviare le truppe, la collaudata (ma un po’ rischiosa) tattica “escalate to de-escalate” potrebbe essersi rivelata vincente.
Per quanto riguarda le testate tattiche, visto che se ne parla come fossero fuochi d’artificio solo un po’ più rumorosi: non si sa quante la Russia ne abbia, perché non sono regolate da nessun trattato. Sono certamente meno potenti delle armi nucleari strategiche, ma vanno comunque da un minimo di uno a un massimo di 50 chilotoni, che non è poi pochissimo – per mettere le cose in prospettiva, la bomba di Hiroshima era di 15 chilotoni. Sappiamo con certezza che nell’arsenale russo ci sono testate nucleari tattiche per gli Iskander, per i Kh-59M (lanciati dai Su-24M, Su-30, Su-34 e Su-35S), per i Kalibr (probabilmente), per le bombe a caduta libera (il cui impiego ormai non è più ipotizzabile)e anche proiettili per l’artiglieria da 1 a 3 chilotoni: i 3BV1 da 180 mm, i 3BV2 da 203 mm, i 3BV3 da 152 mm e i 3BV4 da 240 mm. Buona parte dei proiettili nucleari per l’artiglieria è stata deattivata e distrutta, ma sicuramente qualcosa è rimasto, e non è difficilissimo farne di nuovi.

PS – tanto per andare sul sicuro, Tajani ha detto che l’Italia non ha mandato armi che possono colpire il territorio russo.

Francesco Dall’Aglio

Ma sia i missili anglo-francesi sia quelli americani sia, infine, quelli eventualmente italiani non risolveranno la crisi di uomini combattenti di Kiev. Malgrado ciò, dal Il Fatto Quotidiano del 1° maggio si legge: …

“L’Italia invia a Kiev un Samp-T e anche i missili da crociera”

Samp/T e Storm Shadow. L’Italia supera due altre linee rosse negli aiuti – che mai avrebbe inviato, parola di ministri della Difesa e degli Esteri – a Kiev. Il sistema di difesa aerea richiesto dal premier Zelensky infatti sta per essere trasferito all’Ucraina nel nono pacchetto italiano che il ministro Guido Crosetto sta per firmare. Eppure lui stesso aveva negato questa possibilità all’alleato per non lasciare sguarnito il nostro Paese che di Samp/T ne ha solo 5. Di questi, dopo la distruzione a gennaio da parte di un raid russo della batteria inviata in Ucraina appena 7 mesi prima, l’Italia ne avrebbe solo uno nel nostro Paese: uno sarebbe in Kuwait, uno in Romania e uno in Slovacchia.

A “muoversi” verso Kiev sarebbe proprio la batteria slovacca, dislocata nel distretto di Bratislava, per il rafforzamento del fianco orientale della Nato nell’ambito della crisi ucraina, tanto che il premier di Praga se n’è già lamentato. A darne notizia il sito Aktuality che ha riportato l’indignazione di Robert Fico: “Ho ricevuto un messaggio dal governo italiano che il sistema di difesa sarà ritirato dalla Slovacchia perché ne hanno bisogno altrove”, ha dichiarato lasciando intendere che arriverebbe a Kiev e lanciando l’allarme sulla mancanza di protezione delle strutture strategiche del suo Paese nonché delle centrali nucleari. La Slovacchia, infatti, ha trasferito i suoi sistemi anti-aerei S-300 all’Ucraina.

Lamentele slovacche a parte, il Samp/T sarà fornito di non molti missili: pare sotto la decina. Questo perché, se di sistemi di difesa richiesti da Zelensky – frutto del programma franco-italiano Mamba1 sviluppato da Thales e Mbda Italia e Francia – non siamo molto forniti, dato anche il costo (si va dai 500 milioni a batteria), di munizioni in giro per l’Europa se ne trovano sempre meno. E i Samp/T montano i missili Aster30 che hanno un raggio d’azione di 100 km per l’intercettazione di aerei e 25 km per quella dei missili e che vanno da un minimo di 8 a un massimo di 48 a batteria per un costo medio di 1 milione di euro.

A proposito di collaborazione, il ministero della Difesa italiano persevera nel segreto sulle armi inviate a Kiev. Ma la conferma della partecipazione italiana alla produzione dei missili a lungo raggio Storm Shadow anglo-francese destinati a Kiev secondo il vanto del ministro inglese Grant Shapps in un’intervista al Times, arriva dalla relazione annuale dell’Unità di controllo sull’invio degli armamenti (Uama). Nel report 2023, infatti, tra i programmi di co-produzione internazionale approvati campeggia “Storm Shadow – Sistema di armamento aria/superficie”. Paesi produttori: Italia, Gran Bretagna, Francia. Imprese coinvolte: Mbda Italia-Leonardo. I missili da caccia in grado di raggiungere il suolo dai 250 ai 300 km hanno anche il marchio italiano, quindi, come dichiarato dal ministro britannico. “Penso che lo Storm Shadow sia un’arma straordinaria”, si è detto convinto Shapps mentre faceva da cicerone al sito di produzione della Mbda vicino Londra. “Sono il Regno Unito, la Francia e l’Italia che stanno posizionando queste armi per l’uso, in particolare in Crimea – ha detto – sottolineando come “queste stanno facendo la differenza”.

L’Italia non ha mandato armi che possono colpire il territorio russo; ma attenzione! Quando i piccoli giocano con i grandi rischiano sempre di farsi male.

Il programma congiunto a cui l’Italia si è aggiunta a giugno 2023, nella fase iniziale prevedeva un investimento di 100 milioni di euro con l’obiettivo proprio di svecchiare i primi Storm Shadow. Stando alla relazione dell’Uama, le aziende italiane avrebbero dedicato al programma 12 milioni. Ma scorrendo l’elenco di armamenti inviati, il nome del missile da crociera della Mbda compare più volte sotto forma di pezzi di ricambio, serbatoi o altre componenti, e anche di missili da addestramento. Il destinatario finale non è specificato. E la Difesa italiana non conferma che sia Kiev. L’Italia ha acquistato per la prima volta 200 Storm Shadow dalla Mbda nel 1999 e li ha utilizzati in Libia nel 2011. Ma le parole di Shapps – che puntavano a convincere la Germania a inviare a Kiev i Taurus – non paiono campate in aria. Sul suolo ucraino, infatti, Storm Shadow francesi ci sono già arrivati, colpendo la Crimea.

6219.- “Nessuno vuole la guerra”.

L’Art. 11? Banalità di un impegno:

“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”

“Nessuno vuole la guerra”. Sicuri? | Left

Da nova-project, di Michele Fabrizio, 26 Aprile 2024

L’Ucraina è diventato il secondo più importante cliente dell’industria bellica italiana. La “solidarietà al popolo ucraino” è solo un ormone per gonfiare i bilanci delle industrie delle armi. È scritto nero su bianco. Con buona pace della litania ripetuta sui giornali, in radio e in tivù del “nessuno vuole la guerra”

Ospite due giorni fa di una trasmissione televisiva mentre si discuteva della guerra in Ucraina mi sono ritrovato di fronte alla solita affermazione appoggiata come se fosse definitiva: «nessuno vorrebbe le guerre», mi hanno detto. È falso, falsissimo, da sempre. Le guerre sono il pane per l’industria bellica e per i suoi prodromi nelle istituzioni.

Questa mattina su Repubblica Gianluca Di Feo smaschera l’Italia “al fianco dell’Ucraina” nelle dichiarazioni ufficiali della presidente del Consiglio, sempre concentrata a simulare un atlantismo e un europeismo che sono la negazione di tutto ciò che ha sempre detto fino a un minuto prima di salire a Palazzo Chigi.

Per semplificare basta sapere che dal 2023 l’Italia ha fornito all’Ucraina solo armi vetuste, poco efficaci e in sensibile calo rispetto agli anni precedenti. Il governo Meloni è tra gli ultimi in Europa nell’invio di armi doppiato addirittura dalla Danimarca.

In compenso l’Ucraina è diventato il secondo più importante cliente dell’industria bellica italiana. Nel 2023 ci sono state forniture per 400 milioni di euro verso Kiev (a pagamento, mica “solidali”) e le spedizioni comprendono anche armi offensive nonostante nessuno in Parlamento abbia mai annunciato il cambio di linea di quel famoso “solo armi difensive” pronunciato tempo fa.

La “solidarietà al popolo ucraino” è quindi solo un ormone per gonfiare i bilanci delle industrie delle armi. È scritto nero su bianco. Con buona pace della litania ripetuta sui giornali, in radio e in tivù del “nessuno vuole la guerra”.

Buon venerdì.

Nella foto: la presidente del Consiglio Meloni e il presidente Zelensky, Kyiv,

6218.- Presidente Meloni, Piano Mattei

Presidente, grazie.

Meloni in Libia, patto con Haftar: lotta senza tregua ai trafficanti di esseri umani

Da Il Secolo d’Italia del 7 Mag 2024 – di Redazione

Meloni Haftar


Una missione a tutto campo, quella della Meloni in Libia – accompagnata dai ministri dell’Università e Ricerca, Anna Maria Bernini, della Salute, Orazio Schillaci, e per lo Sport e i Giovani,Andrea Abodi – sotto il profilo geo-politico e della cooperazione internazionale. Il Presidente del Consiglio, in visita oggi a Tripoli, ha incontrato il Presidente del Consiglio Presidenziale Al-Menfi e il Primo Ministro del Governo di Unità Nazionale libico, Dabaiba. Al termine dell’incontro sono state firmate delle dichiarazioni di intenti in materia di cooperazione universitaria e ricerca, salute, sport e giovani nella cornice del Piano Mattei per l’Africa.

Meloni in Libia: i bilaterali con Dabaiba e Haftar

Il Presidente Meloni, come rendono noto fonti di Palazzo Chigi, ha ribadito l’impegno a lavorare con la Libia in tutti gli ambiti di interesse comune, attraverso un partenariato su base paritaria fondato su progetti concreti. In particolare nel settore energetico e infrastrutturale. Al fine di approfondire ulteriormente le opportunità di investimenti, nel corso del colloquio – sottolineano le stesse fonti – il Presidente Meloni e il Primo Ministro Dabaiba hanno deciso di organizzare un business forum italo-libico entro la fine dell’anno.

La cooperazione tra Libia e Unione Europea

Non solo. Con i suoi interlocutori, il Presidente del Consiglio ha discusso anche dell’importanza di indire le elezioni libiche presidenziali e parlamentari, nel quadro della mediazione delle Nazioni Unite che va rilanciata. L’Italia, in tal senso, continuerà a lavorare per assicurare una maggiore unità di intenti della Comunità internazionale. E per promuovere la cooperazione tra Libia e Unione Europea.

Meloni e Haftar sulla ricostruzione di Derna, le iniziative sull’agricoltura e sulla sanità

Nel pomeriggio, poi, il Presidente Meloni si è quindi recata a Bengasi, dove ha incontrato il Maresciallo Khalifa Haftar, con cui ha discusso, tra l’altro, delle iniziative italiane nel settore dell’agricoltura e della salute che interessano anche l’area della Cirenaica. Oltre a ribadire la disponibilità dell’Italia a contribuire, anche attraverso le competenze specifiche del nostro settore privato, alla ricostruzione di Derna, colpita lo scorso anno da una drammatica alluvione, in linea con l’impegno a tutto campo che l’Italia aveva messo in campo subito dopo la tragedia. Aspetto, quello della ricostruzione, condiviso anche con il Presidente Al-Menfi che ha voluto ricordare il generoso impegno dell’Italia.

«Intensificare gli sforzi nella lotta al traffico di esseri umani»

Nel corso della missione, infine, il Presidente del Consiglio ha espresso apprezzamento per i risultati raggiunti dalla cooperazione tra le due Nazioni in ambito migratorio. In questa prospettiva, per il Presidente Meloni permane fondamentale intensificare gli sforzi in materia di contrasto al traffico di esseri umani, anche in un’ottica regionale. E in linea con l’attenzione specifica che l’Italia sta dedicando a questa sfida globale nell’ambito della sua Presidenza G7.

Libia e Piano Mattei, il binomio funziona. La visita di Meloni a Tripoli secondo Checchia

Da Formiche.net, di Francesco De Palo, 8 maggio 2024

L’ambasciatore Checchia: “L’Italia è punta di lancia d’Europa nel continente africano. Con il Piano Mattei sosterremo l’area del Sahel, dopo il passo indietro francese. La visita porta in grembo il ritrovato peso dell’Italia nello scacchiere mediterraneo, con iniziative di alta visibilità e ripetute missioni in Paesi per noi partner strategici, penso ad Algeria, Egitto, Tunisia, Libia, Libano e Marocco”

07/05/2024

Un altro tassello di quel puzzle geopolitico chiamato Piano Mattei è stato posizionato oggi in Libia dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ha incontrato il primo ministro del Governo di Unità Nazionale libico, Abdul Hamid Mohammed Dabaiba, il presidente del Consiglio presidenziale libico Mohammed Yunis Ahmed Al-Menfi e il generale Khalifa Haftar. Un viaggio strutturato, come dimostra la presenza di tre ministri del governo che hanno plasticamente disteso la strategia italiana in loco, siglando accordi con gli omologhi libici in settori cardine delle istituzioni e della società. Nell’occasione è stato annunciato il Forum economico italo-libico a Tripoli per fine ottobre al fine di sostenere il settore privato di entrambi i Paesi. Non sfugge che il quadro libico, caratterizzato da un crollo delle partenze migratorie, si fonde con il contributo italiano alla normalizzazione istituzionale del Paese (che porti ad elezioni) e con il dossier energetico che vede l’Eni protagonista.

Dichiarazioni di intenti

Ricerca, università, sanità e sport sono le quattro macro aree protagoniste delle dichiarazioni di Intenti siglate in Libia, in occasione del viaggio del premier accompagnata da tre ministri del governo: Andrea Abodi (Sport), Orazio Schillaci (Salute), Anna Maria Bernini (Università e ricerca). Alla voce università si segnala la nascita di una cooperazione bilaterale tra istituzioni della formazione superiore dei due Paesi, per approfondire i principali programmi multilaterali, come ad esempio Erasmus+. In questo senso verranno facilitati gli scambi tra studenti, professori, ricercatori e personale tecnico amministrativo, ma anche i dottorati in co-tutela, e i corsi di studio finalizzati al rilascio di titoli congiunti o doppi.

Circa la ricerca scientifica la partnership sarà ad ampio spettro, abbracciando settori significativi come energie rinnovabili, mari e oceani, economia blu, sostenibile e produttiva, con particolare attinenza ai settori delle risorse ittiche e degli ecosistemi marini. Grande attenzione all’agri-food e alle biotecnologie nell’ambito dei cambiamenti climatici: tutte iniziative che saranno supportate da workshop e meeting di carattere scientifico.

Altro capitolo rilevante è dedicato alla salute, con una comune collaborazione tecnico-scientifica che permetta di favorire l’accesso alle terapie in ospedali italiani a cittadini libici, soprattutto in età pediatrica, ai quali non risulti possibile assicurare trattamenti adeguati in Libia. Anche lo spot rientra in questa formula di partenariato strutturato, con la riqualificazione delle infrastrutture sportive nelle comunità libiche e la costruzione di programmi di volontariato e servizio per promuovere l’inclusione sociale giovanile.

Italia punta di lancia dell’Ue

L’Italia è la punta di lancia dell’Ue in Africa, dice a Formiche.net Gabriele Checchia,già ambasciatore italiano in Libano, presso la Nato e presso le Organizzazioni Internazionali Ocse, Esa, Aie secondo cui questa visita strutturata del premier a Tripoli con tre ministri racconta di una narrativa più ampia. “In primo luogo è il ritrovato peso dell’Italia nello scacchiere mediterraneo, con iniziative di alta visibilità e ripetute missioni in Paesi per noi partner strategici, penso ad Algeria, Egitto, Tunisia, Angola, Libia, Libano e Marocco. È un dato geopolitico rilevante che con l’attuale governo abbiamo ritrovato, ovviamente costruendo anche sulle basi poste da precedenti esecutivi a cominciare dall’esecutivo Draghi. Non si è costruito tutto questo dal nulla, ma c’è stato decisamente un cambio di passo che ci pone come attore primario nello scacchiere mediterraneo, cosa che per alcuni anni non siamo stati, lasciando l’iniziativa piuttosto a Paesi amici come la Francia”.

Una tela più ampia

Il secondo elemento per il diplomatico italiano va ritrovato nella serietà con cui il Governo, a cominciare dal Presidente del Consiglio, sta affrontando la messa in atto del Piano Mattei, perché sono tutti tasselli di una tela più ampia della quale il piano costituisce, se vogliamo, la cornice complessiva. “Governo e premier si stanno muovendo sul piano multilaterale a mio avviso in maniera impeccabile. Cito a riguardo la Conferenza su sviluppo e migrazione tenutasi a Roma lo scorso luglio, con il lancio del processo di Roma per approfondire le radici e le ragioni di fondo dei fenomeni migratori dall’Africa subsahariana. E ancora con la Conferenza Italia-Africa dello scorso gennaio che ha costituito un grande successo: eventi che hanno anche portato ad accreditare un’Italia che si configura come riferimento di una strategia veramente europea”.

Il riferimento è al Team Europe quando la presidente del Consiglio Meloni, con la presidente della Commissione von der Leyen e il presidente del Consiglio Michel sono stati in visita in Paesi chiave come l’Egitto.

La prospettiva del Piano Mattei 

Uno dei motivi di fondo che ha portato al concepimento del Piano Mattei, secondo l’ambasciatore Checchia, è anche contenere le pressioni migratorie che giungono proprio dal Sahel, “un Sahel nel quale purtroppo al ritiro progressivo delle forze francesi non fa ancora riscontro una stabilizzazione politica”. I ripetuti colpi di Stato, che non depongono certo a favore della stabilità, necessitano di una risposta corale e quindi, con il Piano Mattei “noi dovremmo creare le condizioni di sviluppo nell’Africa, nel Nord Africa ma anche nei Paesi del Sahel che poco a poco consentano alle popolazioni di quell’area di avere, non solo come ha sottolineato la presidente Meloni, il diritto a emigrare che nessuno può contestare, ma anche il diritto a non emigrare, cioè restare e farsi una vita nei Paesi di origine”.

Il Sahel presenta una specificità particolare, è ancora covo di focolai jihadisti, come dimostrano i massacri di popolazioni da parte di gruppi armati che si ispirano a un islamismo militante. Ma è chiaro che Nord Africa, Libia, Tunisia, Egitto rappresentano dei punti di passaggio privilegiati verso l’Europa, aggiunge. “Quindi vedo il Piano Mattei come tassello di una più ampia strategia europea volta a contenere l’immigrazione illegale. Inoltre fa piacere constatare leggendo i nostri quotidiani che tra il maggio 2023 e il maggio 2024 c’è stato un calo consistente di afflussi dal Nord Africa: siamo passati da 40.000 a poco più di 17.000. Questo è un risultato che il governo Meloni può legittimamente portare a suo credito”.

Elezioni in Libia?

Infine, il contributo italiano alla normalizzazione istituzionale della Libia, che porti a elezioni libere e democratiche. In questo senso il ruolo di Roma quale può essere, oltre a quello di mettere insieme le esigenze di tutte le aree del Paese? “Certamente può essere quello di far arrivare ai nostri interlocutori libici la voce di un Paese autorevole e fondatore dell’Unione europea, membro importante dell’Alleanza atlantica, amico da sempre dei Paesi dell’area nordafricana che non ha agende nascoste, quindi che non persegue secondi fini o fini non dichiarati, ma è sinceramente e semplicemente interessato al benessere di quelle popolazioni, oltre che alla tutela degli interessi nazionali, per esempio in campo energetico”.

E aggiunge: “È chiaro che la visita di Meloni si colloca in un momento delicatissimo a poche settimane dalle dimissioni dell’inviato Onu per la Libia che ha gettato la spugna non essendo riuscito ad avere avallate, credo soprattutto da parte del generale Haftar, le sue proposte di modifica della legge costituzionale e delle leggi elettorali, né il progetto di nuova Costituzione. Siamo ancora purtroppo tornati al punto di partenza ma il premier si farà interprete di questo pressante appello europeo perché finalmente si superi lo stallo politico in Libia e si riesca a ritrovare quel percorso verso assetti istituzionali davvero unitari sulla base di una legge elettorale trasparente che porti a un Parlamento credibile e ad una elezione credibile del prossimo Presidente della Repubblica”.

Da Capri all’Unione Africana

Due i richiami conclusivi che secondo l’ambasciatore Checchia non possono mancare: ovvero il G7 a Capri che, alla presenza del ministro degli Esteri Antonio Tajani, ha visto il tema del Piano Mattei rappresentare la principale novità programmatica dinanzi ai ministri intervenuti “e l’ulteriore successo della premier nel quadro della sua strategia nord-africana, rappresentato dal decisivo contributo fornito alla concretizzazione della proposta emersa al vertice G20 di Delhi dello scorso anno di avere l’Unione Africana ormai come membro a pieno titolo del G20, due passaggi che ritengo fondamentali per completare il quadro analitico”, conclude.

Meloni e Michel lavorano all’agenda strategica dell’Ue. Ecco come

Di Francesco De Palo

Il presidente del Consiglio europeo riconosce al governo italiano il ruolo di partner nelle delicate trattative con Paesi extra Ue: sul tavolo non solo la sfida del nuovo patto di migrazione e asilo, ma anche il Mediterraneo e il fronte sud

11/04/2024

“Con Giorgia Meloni e con l’Italia stiamo lavorando sodo per stringere rapporti con i Paesi terzi extra Ue per essere preparati anche nel campo della migrazione”. Questo uno dei passaggi più salienti della visita a palazzo Chigi del presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, in vista del Consiglio europeo della prossima settimana a Bruxelles. Un’occasione sia per fare il punto sui dossier maggiormente urgenti sul tavolo europeo (Kyiv su tutti), sia per chiudere idealmente il cerchio del suo mandato alla luce delle proiezioni future, come Intelligenza artificiale, cooperazione allargata, Mediterraneo e fronte sud.

Ucraina a difesa Ue

Primo punto discusso, le decisioni dell’ultimo Consiglio europeo che ha avallato l’invio di più fondi e investimenti all’Ucraina, conseguenza di una decisione unitaria che mette al centro il costante supporto a Kyiv in un’ottica di allargamento. Michel sottolinea ancora una volta che l’Ue è determinata a sostenere l’Ucraina “più che possiamo, stanno combattendo per la loro terra, per la libertà, per il futuro e per i nostri valori democratici”.

Si dice certo che oggi l’Ue è diversa, più unita e più forte di prima, si tratta di “un effetto collaterale della guerra lanciata dalla Russia, un altro effetto è che la Nato è diventata più grande perché abbiamo preso decisioni”. Ed ecco il secondo punto, che si intreccia sia con l’Ucraina, perché mosso proprio dall’evoluzione del fronte bellico, sia con i progetti futuri legati alla difesa comune e al commissario europeo ad hoc. “Abbiamo compiuto enormi progressi nel settore della cooperazione nella difesa – aggiunge – . Si tratta di una cosa inedita e faremo di più anche in termini di investimenti: la Bei ad esempio, sta diventando uno strumento molto potente per facilitare più investimenti e più cooperazione del settore della difesa”.

Unità e futuro

Per Michel la chiave di volta per ragionare della nuova Ue si chiama unità, e il caso ucraino lo dimostra ampiamente. “Stiamo difendendo la nostra stessa sicurezza dando il nostro sostegno all’Ucraina e fornendo equipaggiamento militare. La Russia ha deciso di mettere il mondo a rischio, è in palese violazione del diritto internazionale e un’unica posizione è possibile: sostenere l’Ucraina più che possiamo ed è quello che stiamo facendo con il sostegno dei 27″.

Ulteriore dimostrazione di questa posizione è nei grandi progressi compiuti dagli Stati membri in uno spazio di tempo limitato in termini di munizioni ed equipaggiamento militare. Le politiche di aiuto all’Ucraina infatti rappresentano una primizia assoluta per l’Ue, dal momento che per la prima volta nella storia continentale “abbiamo deciso di fornire equipaggiamento militare, una decisione che abbiamo preso in pochi giorni dopo l’invasione”.

Qui Chigi

Secondo Meloni tra le future priorità d’azione dell’Unione Europea c’è il rafforzamento della competitività e della resilienza economica europea, la gestione comune del fenomeno migratorio, la collaborazione in ambito sicurezza e difesa nonché la politica di allargamento. Il Presidente Meloni ha inoltre sottolineato, quale precondizione per raggiungere questi obiettivi, la necessità di assicurare risorse comuni adeguate a sostegno dei relativi investimenti.

Una nota: Al “Grazie presidente Meloni!” Aggiungiamo una nota: Si sta conducendo l’Unione a rivestire il ruolo che “ci” spetta in ambito internazionale. Marciamo verso la sovranità? L’evoluzione dell’Ue verso uno Stato sovrano, membro attivo dello Nato, è possibile con l’impegno, anzitutto, dei suoi fondatori e chiama prodromicamente alla collaborazione in ambito sicurezza e difesa. La politica di allargamento ulteriore dell’Ue, per esempio, nei Balcani, presuppone ed ha per condizione necessaria l’avvenuta realizzazione della sovranità europea. Stiamo combattendo in questa presidenza italiana del G7, come a Sparta: “Con lo scudo o sullo scudo!” Questo Stato sovrano: l’Europa, rafforzerà la Nato quale soggetto euroatlantico, con due gambe e faciliterà una politica per l’area mediterranea, allargata, ispirata alla solidarietà attiva che distingue il Piano Mattei. ndr

Tra le risorse competitive dell’Unione su cui investire, il Presidente Meloni ha indicato il settore agricolo auspicando allo stesso tempo una rapida attuazione della revisione della Politica Agricola Comune e delle misure volte ad alleviare la pressione finanziaria sugli agricoltori concordate al Consiglio Europeo di marzo. Sono state inoltre discusse le ulteriori iniziative che l’Unione Europea potrà intraprendere a sostegno della stabilità del Libano, tema che il Consiglio Europeo della prossima settima affronterà su richiesta italiana.

Le nuove sfide

Tra le nuove sfide senza dubbio c’è la competitività, definita da Michel un capitolo importante della nostra agenda, ovvero il capital market unit, più investimenti in Ue: “Dobbiamo affrontare il cambiamento climatico e la rivoluzione digitale per sviluppare opportunità economiche. Ovviamente abbiamo parlato di temi internazionali che saranno in agenda, come la migrazione”. Ieri infatti il Parlamento europeo ha approvato il patto sui migranti (“Un passo avanti per essere in controllo della situazione”) e l’obiettivo per Michel è rafforzare i partenariati con i paesi terzi, “anche attraverso opportunità di migrazione legale”.

Sul punto va segnalata la visita che Giorgia Meloni effettuerà in Tunisia in chiave fronte sud la prossima settimana assieme alla ministra dell’Università e della ricerca Anna Maria Bernini e al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, per una missione legata al Piano Mattei. Verrà siglato un memorandum d’intesa per rafforzare la cooperazione accademica e scientifica tra i due Paesi, favorire lo scambio di know how tra le istituzioni e gli enti di ricerca, promuovere l’insegnamento di lingue e culture di entrambi i Paesi. La premier è attesa a Cartagine mercoledì 17 aprile.

6217.- Putin avvia esercitazioni nucleari vicino l’Ucraina: “Pronti a colpire dopo le minacce occidentali”

Mai quanto Macron, ma Joe Biden fa il gradasso. Ha inviato missili balistici AtacMS MGM-140 a Kiev, ma non doveva e non fermerà i russi con le armi. Putin avverte sempre. E vale per tutti. Biden ha perso anche in Ucraina, ma non può ammetterlo, come non vuole ammetterlo Londra che due anni fa fece saltare l’accordo già siglato da russį e ucrāini. Con Biden, non solo gli Stati Uniti hanno perso la faccia, ma anche noi membri di un’alleanza non più difensiva abbiamo perso. Quanto ancora dovremo perdere? Sui missili balistici, il ministero degli Esteri russo ha convocato l’ambasciatore britannico a Mosca. Convocherà anche l’ambasciatore USA o si limiterà ad abbattere i missili? Speriamo in Donald Trump.

Da Il Secolo d’Italia del 6 Mag 2024 13:28 – di Robert Perdicchi

Alta tensione tra Europa, Nato e Russia nel giorno in cui il presidente francese, Macron, autore dell’annuncio sul possibile invio di truppe europee in Ucraina, riceve il presidente cinese Xi. Mosca, per reazione a quelle che considera delle minacce, si prepara a compiere esercitazioni con armi nucleari al confine con l’Ucraina. Attraverso il ministero della Difesa, ha infatti annunciato i preparativi per le esercitazioni militari che includeranno l’uso di “armi nucleari non strategiche” a fronte di quelle che descrive come “dichiarazioni e minacce provocatorie” da parte di “funzionari occidentali”. Le esercitazioni coinvolgeranno “formazioni missilistiche del Distretto Militare Meridionale” ed è ipotizzabile quindi che le manovre avverranno non lontano dal confine con l’Ucraina.

La reazione di Putin alle dichiarazioni di Macron

In una dichiarazione pubblicata sul suo account Telegram, il ministero della Difesa russo ha affermato che l’esercitazione è stata ordinata dal presidente Vladimir Putin “al fine di aumentare la prontezza delle forze nucleari tattiche a svolgere missioni di combattimento”. “Su istruzioni del Comandante in Capo Supremo delle Forze Armate della Federazione Russa – si legge un comunicato del ministero della Difesa di Mosca – lo Stato Maggiore Generale ha iniziato i preparativi per lo svolgimento di esercitazioni nel prossimo futuro, con formazioni missilistiche del Distretto Militare Meridionale e con il coinvolgimento dell’aviazione e delle forze navali”.

“Durante le manovre saranno svolte una serie di attività per esercitarsi nella preparazione e nell’uso di armi nucleari non strategiche”, ha dichiarato, prima di sottolineare che l’obiettivo è quello di “mantenere la prontezza del personale e delle attrezzature” per “garantire incondizionatamente l’integrità territoriale e la sovranità dello Stato russo”.

La dotazione della Russia per le esercitazioni nucleari

Il presidente russo Vladimir Putin ha incaricato lo Stato Maggiore Generale di avviare esercitazioni sull’uso di armi nucleari non strategiche. Le esercitazioni saranno dedicate “ai preparativi e al dispiegamento” di armi nucleari tattiche e hanno come obiettivo quello di “garantire l’integrità territoriale e la sovranità dello Stato russo”, in risposta a “dichiarazioni provocatorie e minacce contro la Russia da parte di certe personalità occidentali”. Ma quante armi nucleari ha la Russia e chi le controlla? Ecco i punti chiave sull’arsenale nucleare russo.

Quante armi nucleari ha la Russia?

La Russia, che ha ereditato le armi nucleari dell’Unione Sovietica, possiede il più grande deposito di testate nucleari al mondo. Secondo la Federation of American Scientists, Putin controlla circa 5.580 testate nucleari.

Di queste, circa 1.200 sono state ritirate ma sono ancora in gran parte intatte attendono lo smantellamento, mentre sono circa 4.380 quelle immagazzinate per essere utilizzate da lanciatori strategici a lungo raggio e forze nucleari tattiche a corto raggio.

Delle testate accumulate, 1.710 sono quelle strategiche schierate: circa 870 su missili balistici terrestri, circa 640 su missili balisticilanciati da sottomarini e forse 200 su basi di bombardieri pesanti. Circa altre 1.112 testate strategiche sono immagazzinate, insieme a circa 1.558 testate non strategiche. “In futuro, tuttavia, il numero di testate assegnate alle forze strategiche russe potrebbe aumentare man mano che i missili a testata singola verranno sostituiti con missili dotati di testate multiple”, ha affermato la Fas.

I missili balistici intercontinentali (Icbm) in possesso della Russia hanno la capacità di raggiungere e distruggere le principali città del mondo come Londra o Washington. Tale missili possono raggiungere il Regno Unito in solo 20 minuti una volta lanciati dalla Russia.

In quali circostanze verrebbero utilizzate?

Con il decreto del 2 giugno 2020, Putin ha aggiornato le linee guida per l’impiego dell’arsenale atomico. Il documento, reso pubblico per la prima volta nella storia, stabilisce le condizioni per le quali un presidente russo prenderebbe in considerazione l’uso di un’arma nucleare: in generale come risposta a un attacco che utilizza armi nucleari o altre armi di distruzione di massa, o all’uso di armi convenzionali contro la Russia “quando l’esistenza dello Stato è messa in pericolo”.

La Russia effettuerà un test nucleare?

Putin ha detto che la Russia prenderebbe in considerazione la possibilità di testare un’arma nucleare se lo facessero gli Stati Uniti. L’anno scorso ha firmato una legge che revoca la ratifica da parte della Russia del Trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari (CTBT).

Dal crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, secondo l’Arms Control Association, solo pochi paesi hanno testato armi nucleari: gli Stati Uniti l’ultima volta hanno effettuato test nel 1992, Cina e Francia nel 1996, India e Pakistan nel 1998 e Corea del Nord nel 2017. L’Unione Sovietica ha effettuato l’ultimo test nel 1990. Il Trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari è stato firmato dalla Russia nel 1996 e ratificato nel 2000. Gli Stati Uniti hanno firmato il trattato nel 1996 ma non lo hanno ancora ratificato.

Chi darebbe l’ordine di lancio russo?

Il presidente russo è l’ultimo a decidere sull’uso delle armi nucleari russe. La cosiddetta valigetta nucleare, o “Cheget” (dal nome del monte Cheget nelle montagne del Caucaso), è sempre con il presidente. Si ritiene che anche il ministro della Difesa russo, attualmente Sergei Shoigu, e il capo di stato maggiore delle forze armate, attualmente Valery Gerasimov, abbiano tali valigette. Essenzialmente, la valigetta è uno strumento di comunicazione che collega il presidente ai suoi vertici militari e quindi alle forze missilistiche attraverso la segretissima rete elettronica di comando e controllo “Kazbek”. Kazbek supporta un altro sistema noto come “Kavkaz”.

Filmato mostrato dalla televisione russa Zvezda nel 2019, ha mostrato quella che si diceva fosse una delle valigette con una serie di pulsanti. In una sezione chiamata “comando” sono presenti due pulsanti: un pulsante bianco “avvia” e un pulsante rosso “annulla”. La valigetta viene attivata da una flashcard speciale, secondo Zvezda.

Se la Russia pensasse di dover affrontare un attacco nucleare strategico, il presidente, tramite le valigette, invierebbe un ordine di lancio diretto alle unità di comando e di riserva dello stato maggiore che detengono codici nucleari. Tali ordini si riversano rapidamente attraverso diversi sistemi di comunicazione alle unità missilistiche strategiche, che poi lancerebbero i missili contro gli Stati Uniti e l’Europa.

Se fosse confermato un attacco nucleare, Putin potrebbe attivare la cosiddetta ‘Dead Hand’ o ‘Perimeter’, un sistema automatico per la rappresaglia termonucleare gestito da Intelligenza Artificiale di ultima istanza: essenzialmente i computer, dopo aver scansionato il territorio russo e valutato attraverso una moltitudine di fattori se è in corso un attacco nucleare, lancerebbero un missile di comando che ordinerebbe attacchi nucleari da tutto il vasto arsenale della Russia.