6209.- Putin si prende Ariston ma l’Italia si muove. Ecco come

Leggiamo l’imbarazzo delle aziende dinanzi alla politica estera.

Da Formiche, di Gianluca Zapponini

Il Cremlino, forse sotto pressione per gli effetti delle sanzioni sull’economia russa, reagisce con un gesto di stizza e mette sotto chiave le filiali delle due aziende. Tajani e Urso entrano in azione

27/04/2024

Vladimir Putin aveva da tempo il dito sul pulsante. Perché, come raccontato a più riprese da Formiche.net, erano almeno due anni che il Cremlino era pronto ad azzannare le imprese straniere con filiali in Russia. Quelle rimaste almeno, visto che il grosso delle aziende ha fatto fagotto e lasciato la Russia, prima che scattasse la trappola. Ora però il bottone è stato pigiato. Ma l’Occidente non è stato a guardare, reagendo a quello che ha tutto il sapore di un esproprio di stampo sovietico.

Antefatto. Le filiali russe di Ariston e della tedesca Bosch sono state temporaneamente trasferite al gruppo Gazprom. Ed è stato il presidente Putin a firmare il decreto per il trasferimento delle sussidiarie russe delle due aziende italiana e tedesca a Gazprom Domestic Systems, la società del gruppo statale Gazprom produttrice di elettrodomestici, secondo quanto ha riferito l’agenzia Interfax. Il decreto postato sul portale ufficiale per le informazioni legali riguarda la Ariston Thermo Rus Llc, controllata da Ariston Holding, e la Bsh Household Appliances Llc, controllata da Bsh Hausgerate Gmbh. Non sono stati resi noti i motivi della decisione.

Fin qui i fatti, che raccontano un gesto forse dettato dal nervosismo di Mosca. Giustificato, vista la morsa delle sanzioni, sempre più stretta e i suoi indubbi effetti sull’economia russa. Ma, come detto, l’Occidente e, soprattutto l’Italia, hanno prontamente reagito. Per esempio, Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, ha convocato l’ambasciatore russo in Italia per “chiedere chiarimenti sulla vicenda della nazionalizzazione dell’Ariston Thermo Group, dopo l’inattesa decisione del Cremlino”. Inoltre ha “subito attivato la nostra ambasciata in Russia e parlato con i vertici dell’azienda italiana”. Il governo, ha spiegato ancora, “è al fianco delle imprese, pronto a tutelarle in tutti i mercati internazionali”. E ancora, Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del made In italy, ha avuto una conversazione telefonica con Paolo Merloni, presidente di Ariston, per un confronto sulla situazione in corso e per esprimere la vicinanza del governo, pronto a tutelare l’azienda in ogni sede.

C’è però un precedente. Lo scorso anno Putin aveva firmato un altro decreto per il trasferimento temporaneo della gestione delle filiali russe di Danone e di Carlsberg all’Agenzia federale per la gestione delle proprietà, Rosimushchestvo. Il provvedimento era stato adottato dopo che la società francese e quella danese avevano annunciato l’intenzione di uscire dal mercato russo. Il 98,56% delle azioni del birrificio russo Baltika, appartenente a Carlsberg, e decine di migliaia di azioni appartenenti a Danone erano state poste sotto il controllo dell’Agenzia. Nel caso di Ariston e Borsh, invece, la gestione passa a Gazprom, un altro gruppo industriale, sebbene controllato dal governo.

6208.- Balcani in Ue, la ricetta di Tremonti per l’Europa di domani

Grande mossa di Giulio Tremonti, che surclassa sia Joe Biden sia Jens Stoltenberg: Da un lato, come isolare la Federazione Russa con una semplice mossa geopolitica; da un altro, come usare il potenziale geopolitico europeo senza dover fondare uno Stato sovrano, anzi, rafforzandone con l’ulteriore allargamento la debolezza in politica estera. Infine, una mano non da poco all’Erdoğan balcanico. Rispetto alle dichiarazioni sul disarmo europeo a pro di Kiev di Stoltenberg possiamo esprimere differenti pareri. Mario Donnini

Da Formiche.net, articolo di Francesco De Palo

L’ex ministro dell’Economia, dal palco della convention pescarese di Fratelli d’Italia, sostiene che per evitare nuovi sconvolgimenti globali all’Europa occorre un’accelerazione sulle politiche di allargamento con il coinvolgimento dell’intero costone balcanico

26/04/2024

Tutti i Paesi del costone balcanico entrino domattina in Europa: solo in questo modo l’Ue farebbe una mossa geopolitica di lungo periodo. Lo ha detto il presidente della Commissione Esteri della Camera, Giulio Tremonti, dal palco della conferenza programmatica di FdI in corso a Pescara. L’occasione è una riflessione sulla difesa europea dinanzi ai fronti bellici in atto, ma non solo, visto il coinvolgimento oggettivo tanto della cybersicurezza, quanto delle frizioni sul Mar Rosso accanto ai fronti caldi di Kyiv e Gaza. Ma proprio le prospettive di reazione europea rappresentano, da un lato, il vero elemento di novità di questa fase di guerre e, dall’altro, il possibile terreno comune dove iniziare a costruire politiche europee davvero unitarie.

Riunificazione balcanica

Perché un’accelerazione europea nei Balcani significa sanare potenziali nuovi fronti di tensione? Secondo Tremonti quando finirà la guerra in Ucraina non inizierà al contempo la pace. Ovvero i problemi dell’Europa non saranno risolti semplicemente con il cessate il fuoco, dal momento che i luoghi di contrasto restano quelli fuori dai sicuri confini dell’Ue. E cita un nome su tutti, i Balcani, che secondo Churchill sono luoghi in cui si fabbrica più storia di quanta ce ne sia. “Un’ipotesi plausibile secondo me è che dobbiamo accettare tutti i Balcani ora nell’Ue, salvo l’obbligo di adempiere a tutti i criteri. Sarebbe una rivoluzione”, spiega l’ex ministro dell’economia. Ovviamente un attimo dopo bisognerà modificare i criteri di voto, “ma sarebbe una mossa lungimirante, non puoi cancellare la democrazia, ma cambiare le maggioranze di governo sì”.

Un passaggio, quello della riunificazione balcanica, da sempre oggetto delle riflessioni europee di Giorgia Meloni soprattutto in merito alle politiche di allargamento, in un settore dove l’Italia può agire da pivot.

E aggiunge che al netto delle difficoltà di questa scelta, difficile e dura, non vi sono alternative dato il progressivo spiazzamento che l’Europa ha rispetto al resto del mondo, “dopo 20 anni di gestione fatta da tecnici non eletti”. Ragionare sulle politiche per l’Europa, secondo Tremonti, è l’unica strada da seguire per evitare di dover affrontare emergenze dopo emergenze sempre con l’acqua alla gola.

Spese per la difesa

Ma come provvedere alla messa in sicurezza di politiche ad hoc se non con maggiori investimenti nella difesa? Lo sottolinea con veemenza il sottosegretario alla Difesa Isabella Rauti, intervenendo al dibattito “Forte, libera e sovrana” quando dice che occorre investire il 2% del Pil in difesa, “un impegno assunto da tutti i Paesi Nato”, dinanzi alla media attuale europea dell’1,5%: “Il ministro Crosetto ha insistito in Europa perché questo impegno venisse svincolato dal Patto di stabilità, si è persa un’occasione non da noi ma da Bruxelles. All’indomani del voto delle prossime elezioni europee mi auguro si delinei una maggioranza diversa che potrà assumere una nuova visione in questa direzione”.

Di cambio di passo ha parlato il presidente di Leonardo Stefano Pontecorvo con riferimento agli investimenti in difesa, panorama che nemmeno la guerra in Ucraina ha cambiato. E cita dei numeri significativi: nel 2023 l’Europa ha investito come acquisizioni di sistema 110 mld di euro, gli americani 250. I nostri 110 miliardi sono stati distribuiti su 30 diverse piattaforme, quelli americani su 12. Il risultato finale è che su ogni piattaforma gli americani investono 20 mld di ricerca, noi 4 mld. Quale sarà il prodotto migliore? Per cui la prospettiva è quella di lavorare tramite aggregazioni europee rispetto ai grandi giganti mondiali russi, cinesi e americani. “Si tratta di un problema di visione”.

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6207.- Al Parlamento europeo, François-Xavier Bellamy guadagna un punto contro la maternità surrogata

Dalla nostra inviata

FX Bellamy

Il 23 aprile il Parlamento europeo ha rivisto la direttiva “relativa alla prevenzione della tratta degli esseri umani e alla lotta contro questo fenomeno nonché alla protezione delle vittime” includendovi la pratica della maternità surrogata (GPA). Un testo ottenuto con un’ampia maggioranza di voti grazie al duro lavoro del deputato François-Xavier Bellamy, capolista della lista LR alle elezioni del 9 giugno per la quale si è battuto per molti mesi. “Il voto di questa mattina è stato un voto unico, incentrato sulla direttiva rivista, quindi non solo sul GPA. I risultati sono 587 favorevoli, 7 respingimenti e 17 astenuti. Se torniamo indietro nella procedura, quando ho presentato in commissione l’emendamento volto a introdurre l’AAP nella discussione, aveva ricevuto il sostegno della sinistra (in particolare i due relatori della sinistra), di alcuni socialisti (in particolare gli spagnoli ), PPE, ECR e ID”, ha comunicato a BV.

Non è la prima volta che il Parlamento europeo prende posizione contro la maternità surrogata. Nell’ambito dei testi contro la violenza contro le donne, l’uguaglianza tra uomini e donne o per quanto riguarda l’impatto della guerra contro l’Ucraina sulle donne, in passato sono state approvate risoluzioni di condanna dell’AAP. Ma senza valore vincolante. Questa volta, la direttiva adottata, frutto della ratifica da parte del Parlamento europeo di un accordo raggiunto tra la Commissione e il Consiglio dell’Unione europea, obbliga, entro due anni, gli Stati membri a recepire il testo nel proprio diritto interno.

6205.- A Kiev per Zelensky è ora di fare le valigie

E ora che il dollaro si è ripreso abbastanza, noi europei possiamo tornare a travagliare?

Da nova-project un Post di Gianluca Napolitano

Alla svelta. DI nascosto. Fino a che è gli possibile.

Dal fronte arrivano notizie di sempre più reparti che si arrendono ai Russi.

Addirittura uno dei battaglioni composti principalmente da fanatici e neo nazisti risulta che si sia rifiutato di combattere, dicendo ai comandanti che è inutile e senza senso andare a morire in questa situazione.

Siamo al punto che il capo di stato maggiore e comandante dell’esercito sirsky ha anche emanato un comunicato ufficiale in cui denuncia la situazione.

Le elezioni sono state rimandate e il Parlamento ucraino non è stato rinnovato nonostante il 40 per cento dei membri eletti nelle elezioni passate abbia dato le dimissioni che sono state però rifiutate.

Il paese in realtà comanda solo la polizia segreta di Kiryll Budanov, contornato dai pochi fedelissimi di zelenski che gli sono stati piazzati intorno.

Ormai la corruzione ha raggiunto livelli parossistici e per qualunque cosa si paga meglio se in valuta straniera, dollari ed euro, e addirittura sono preferibili i rubli russi alla moneta locale.

A Kiev e a Leopoli, nelle regioni che si affacciano a ovest, si respira ancora un’aria di apparente normalità, ma la vita quotidiana è diventata estremamente costosa.

Nel resto dell’Ucraina è particolarmente in quella rurale anche se non è arrivata neanche una bomba e la guerra viene vista solo attraverso il filtro della propaganda è difficile nascondere che manca l’elettricità.

Così come è sempre più difficile nascondere che manca la manodopera.

Praticamente tutti gli uomini disponibili sono stati reclutati nell’esercito. Quantomeno è accaduto a chi non poteva pagare o a chi non è stato abbastanza svelto a nascondersi.

Le perdite e l’esercito ucraino sono state colossali e di un ordine di grandezza superiore a quello dichiarato da Zelensky in televisione, e perfino superiore a quelle che sempre in televisione ha riferito l’ex procuratore generale d’ucraina.

Il governo controlla tutti i media e tutti i media ripetono la propaganda del governo ma ci sono sempre più politici addirittura della stessa partita del presidente che smontano regolarmente la narrazione ufficiale.

In Ucraina in questo momento si respira nuovamente un clima da Unione sovietica dove la gente ha il terrore di parlare, le notizie viaggiano sottobanco, le merci non mancano come ai tempi di Stalin ma mancano i soldi per acquistarle e la gente viene rapita per strada e non se ne sa più nulla.

Addirittura ora vengono negati i rimborsi alle famiglie degli scomparsi in combattimento.

Vengono dichiarati dispersi che equivale a disertori e le famiglie sono lasciate sul lastrico esattamente come sono lasciati a cavarsela da solo i mutilati e i feriti che tornano indietro vivi.

In questo contesto non solo la gente del cerchio magico di zielinski si è fatta d’oro ma anche tutti i gradini intermedi del potere si sono arricchiti in modo vergognoso.

La valanga di morti causati dalla guerra porterà ad un baratro generazionale da cui il paese non si potrà dipendere per decenni sempre ammesso che l’Ucraina continui ad esistere come forma di stato indipendente.

Il problema di come mantenere centinaia di migliaia di famiglie in cui il capofamiglia è diventato un disabile incapace di provvedere neppure a se stesso sarà un fardello che penserà per almeno due generazioni su ciò che rimarrà della società Ucraina.

Tutte le distruzioni sono concentrate nelle regioni separatiste che ovviamente una volta ricostituiti i confini originali non torneranno mai più all’ucraina e quindi il costo è il peso della ricostruzione graverà tutto sulla Russia.

Ma il resto del paese dovrà fare i conti con la distruzione del suo tessuto economico e demografico,

Tutti quelli che hanno potuto sono scappati in occidente e sono lì ormai da oltre due anni ed è estremamente improbabile che ritornino mai a casa.

Oltre a questo bisogna considerare che il governo di Kiev a contratto debiti enormi che non sarà mai in grado di ripagare e se anche sopravvivesse nella sua forma attuale dovrà comunque saltare in qualche modo vendendo tutto ciò che c’è di vendibile nel paese.

Ormai i più informati hanno rapidamente realizzato che all’ucraina conviene che vincano i russi anche se loro non sono russofoni, perché in questo modo si potrà rinnegare il debito colossale con l’occidente.

La nostra propaganda dipingere gli ucraini come eroi preoccupati solo di salvare l’Unità del paese e la purezza etnica Ucraina.

Ma come si è visto nel referendum delle repubbliche e delle regioni del donbass passate alla Russia l’argomento principale che ha permesso delle maggioranze prossime all’unanimità è stato molto più banale

Aderire alla federazione Russa ha significato per tutti gli abitanti di quelle regioni entra a far parte di uno stato sanzionato e che non poteva e non può avere rapporti economici e soprattutto bancari con l’occidente

Questo ha significato che per legge , optando per il distacco dall’ucraina e l’ingresso in Russia, chi aveva un mutuo o un debito con una banca Ucraina se l’è visto cancellato.

Anche significato l’abbandono della valuta ucraina per il Rublo, con i depositi convertiti automaticamente da grivnia alla valuta russa, con un guadagno minimo del 40%, pensioni pagate in rubli e rivalutate accesso alla sanità russa semplicemente con un po’ di turismo sanitario, è un sistema di finanziamento degli enti locali mai sognato prima.

Perché è vero che le rivoluzioni nascono da ideali ma è anche vero che si espandono con la forza delle considerazioni economiche.

Il vero motivo del malcontento delle regioni separatiste non è mai stato etnico e morale ma prevalentemente economico.

Le regioni separatiste ucraine sono paragonabili in Italia a Lombardia, Veneto e Piemonte.

Erano le regioni più produttive di tutto il paese ma anche quelle che ricevevano solamente le briciole dal governo centrale di Kiev.

Basta guardare anche da un satellite lo sviluppo enorme della capitale costellata di quartieri modernissimi e degno di figurare ai primi posti in Europa come sviluppo economico e urbanistico, e confrontarla alla tristezza sovietica delle città industriali del donbas.

È sufficiente vedere gli anelli di tangenziali autostrade che circondano Kiev e le città dell’Ucraina occidentale con le cosiddette autostrade, due estreminzite corsie in mezzo a chilometri di nulla, su cui vedete passare i carri armati oggi.

L’aiuto occidentale non è mai stato minimamente disinteressato.

Quello militare è stato frutto di attenti calcoli di convenienza per finanziare le industrie belliche nazionali, che hanno trovato il modo di riassortire il catalogo di prodotti, e svuotare i magazzini del vecchio Fiume vendendolo a prezzo di nuovo.

I membri della NATO hanno sfruttato l’occasione per svecchiare il magazzino e gli Stati Uniti per riempirli nuovamente di armamenti prodotti in USA

I politici non direttamente coinvolti in questo mercimonio invece sono stati abbagliati dal business della ricostruzione una specie di terremoto degli Irpinia mille volte più remunerativo

Una ricostruzione che contavano di fare a spese nostre, in zone dove ricostruire non c’era nulla E quindi con possibilità di colossali ruberie aiutate anche da una nazione dove la corruzione è endemica e più corrotto di tutti è il governo stesso che arriva e super ampiamente i regimi peggiori africani

La mancanza di una vittoria Ucraina che comporti il ritorno ai confini del 1991 che chissà come mai questa classe dirigenti dementi si era illusa fosse possibile ha cominciato a seminare il dubbio che la colossale abbuffata fosse possibile.

Non solo i territori diventati parte della federazione Russa e repubbliche indipendenti non torneranno mai all’ucraina ma allo stesso accadrà alla Crimea e probabilmente i russi arriveranno fino alle rive del Dnepr, e lasceranno il resto del paese a cavarsela da solo.

Un resto del paese che è dotato già di strutture moderne e di livello europeo dove non ci sono state distruzioni E dove non ci sono né risorse minerarie né industriali da sfruttare

Un resto del paese che è composto principalmente di gente che a quel punto non saprà di cosa vivere e diventerà un fardello da mantenere per i suoi sponsor occidentali

È a causa della presa di coscienza di questa situazione che improvvisamente la spasmodica voglia dell’Occidente e soprattutto delle classi governanti europei di aiutare l’Ucraina si è squagliata come neve al sole.

6204.- Netanyahu e Biden si facciano la guerra da soli

Israele ha attaccato l’Iran: droni su una base militare aerea. “Segnale a Teheran, possiamo colpirli”. Fonti Usa: “Avvisati, da noi nessun ok”

Esfahan

Chi tace, acconsente, ma è difficile non vedere anche la regia di Washington in queste schermaglie d’onore, senza danni dichiarati.

Oppure, i danni ci sono? Tre esplosioni di droni nella base aerea di Isfahan, ma i siti nucleari dell’Isfahan Nuclear Technology Centre e di Natanz non sono stati in pericolo”. All’Agenzia internazionale per l’energia atomica non risultano danni agli impianti nucleari iraniani.

Netanyahu: “Teheran è una minaccia esistenziale”, lui pure. Da Usa e Gran Bretagna nuove sanzioni. Veto degli USA sulla Palestina nell’ONU e, così, il regista si dichiara.

Da Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2024

Il raid alle 4.18 italiane: obiettivo la base vicino alla città di Esfahan, che ospita la flotta di caccia F-14. L’esercito iraniano: “Nessun danno”. In sicurezza le centrali nucleari della Repubblica islamica. Attacchi nella notte anche su Siria e Iraq.

Fonte israeliana: “Segnale all’Iran che possiamo colpirlo”

“Un segnale all’Iran che Israele ha la capacità di colpire all’interno del Paese”. Così una fonte israeliana, citata dal Washington Post, ha commentato l’attacco limitato di stanotte sul territorio iraniano, nei pressi della base aerea di Esfahan. La dichiarazione è stata ripresa anche dal quotidiano israeliano Haaretz.

Raid israeliano in Siria: “Colpita una postazione radar”

“Gli attacchi israeliani hanno preso di mira una postazione radar dell’esercito siriano tra le province di Soueida e Deraa”. Lo ha affermato Rami Abdel Rahman, direttore dell’l’Osservatorio siriano per i diritti umani, in riferimento ai raid condotti da Tel Aviv nella notte. 

  • Esercito iraniano: “Nessun danno dall’attacco”Nessun danno è stato causato nell’attacco notturno di Israele contro l’Iran. Lo ha detto alla tv di stato iraniana Siavosh Mihandoust, comandante dell’esercito di Teheran, aggiungendo che il rumore sentito durante la notte a Esfahan era dovuto ai sistemi di difesa aerea.
  • 38m fa07:49Media: “Usa non coinvolti, avvertiti 24-48 ore prima”Israele aveva avvertito gli Stati Uniti che avrebbe attaccato l’Iran nelle successive 24-48 ore, ma  Washington non è stata coinvolta nell’operazione. Lo scrive l’emittente Nbc citando “una fonte ben informata”. Due funzionari citati a condizione di anonimato da Bloomberg hanno poi affermano che ieri Israele aveva avvisato gli Stati Uniti che intendeva attaccare entro i due giorni successivi.
  • 41m fa07:46Attacchi aerei anche su Siria e IraqRaid aerei hanno preso di mira nella notte siti dell’esercito siriano nei governatorati di As-Suwayda e Daraa, nel sud della Siria. Lo riferiscono fonti siriane citate dal sito di notizie As-Suwayda24. Attacchi aerei anche in Iraq, nell’area di Baghdad e nel governatorato di Babil, come riporta al-Iraq News.
  • 42m fa07:45Media Iran: “Impianti nucleari completamente sicuri”Gli impianti nucleari nella provincia Esfahan, città nel centro dell’Iran colpita dai raid israeliani, sono “completamente sicuri” dopo i raid nella notte. Lo riferisce l’agenzia di stampa Tasnim, citando “fonti affidabili”. Dalla base di Esfahan sono partiti i missili lanciati verso Israele nell’attacco di sabato scorso. 
  • 1h fa07:15Cnn: “Attacco limitato, rispetta auspici degli Usa”Secondo gli analisti della Cnn, l’attacco in Iran attribuito a Israele è stato limitato e rispetta le sollecitazioni di Usa e alleati per non aumentare la tensione nella regione. La loro previsione è che Teheran non risponderà.

6203.- Tutti via dal Niger, l’Italia resta a rifare la moschea

Il Piano Mattei ha seminato.

L’unica rappresentanza occidentale rimasta dopo il golpe è quella italiana. Difficile condividere l’orgoglio dei nostri militari per il rifacimento del luogo di culto islamico della capitale, già teatro di attacchi anticristiani.

La Nuova Bussola Quotidiana, 16_04_2024UFFICIO IMAGOECONOMICA

L’11 aprile il generale Francesco Paolo Figliuolo, durante la sua audizione alle Commissioni affari esteri e difesa di Camera e Senato, ha annunciato che la missione bilaterale italiana di supporto in Niger, Misin, continuerà perchè è di primaria importanza consolidare la presenza italiana nel Paese. A tal fine nei prossimi mesi il personale potrebbe essere raddoppiato e superare le 500 unità (attualmente sono circa 250). Inoltre è prevista la dotazione di altri cinque elicotteri e aerei che si aggiungeranno a quelli già in uso e ai mezzi di terra di cui la missione dispone.

La Misin è iniziata nel 2018 per aiutare a rafforzare il controllo dei territorio, oltre che in Niger, in Mali, Mauritania, Chad e Burkina Faso e per svolgere attività di formazione, addestramento, consulenza e assistenza delle istituzioni governative nigerine. Da allora gli istruttori italiani hanno svolto 381 corsi di formazione ai quali hanno partecipato 9.235 militari nigerini e sono state organizzate diverse attività destinate alla popolazione: donazione di materiale informatico, di attrezzature sanitarie e farmaci, formazione di personale paramedico, donazione di materiale didattico e tecnico per le scuole, contributi alla bonifica di aree a rischio malaria, donazione di attrezzature sportive destinate ai giovani.

Ma il 26 luglio 2023 i militari hanno destituito il presidente Mohamed Bozoum e hanno preso il potere. Nei mesi successivi hanno progressivamente reciso i rapporti con i Paesi europei, con gli Stati Uniti, presenti nel Paese con due basi militari, e con l’Ecowas, la Comunità economica dei Paesi dell’Africa occidentale. Hanno detto di voler d’ora in poi evitare ogni forma di dipendenza dall’Occidente, di voler fare da soli, in collaborazione con gli altri due stati vicini governati dai militari, Mali e Burkina Faso, anch’essi usciti dall’Ecowas che peraltro li aveva già sospesi in seguito ai golpe. Con la Francia – ex madrepatria – hanno interrotto anche i rapporti diplomatici. Entro la fine del 2023 tutti i Paesi europei hanno ritirato le loro truppe e gli Stati Uniti hanno ricevuto ordine di fare altrettanto.

Il Niger è un Paese di importanza strategica. È attraversato da una delle rotte più usate dalle reti criminali che organizzano i viaggi degli emigranti illegali ed è sede di uno dei maggiori hub, la città di Agadez, in cui gli emigranti si concentrano in attesa di provare a entrare in Libia e Algeria, attraversare il deserto del Sahara e raggiungere le coste meridionali del Mediterraneo. Accordi raggiunti con l’Unione Europea avevano ridotto i flussi illegali. Invece a fine 2023 la giunta militare ha abrogato la legge che perseguiva i trafficanti e subito le loro attività sono riprese. In Niger inoltre, nel 2022, la Francia e gli alleati europei avevano trasferito, su invito del presidente Bozoum, la base delle loro operazioni contro i gruppi jihadisti attivi nel Sahel, soprattutto in Mali, Burkina Faso e Niger, che per oltre 10 anni era stata nel vicino Mali, Paese divenuto sempre più inaffidabile da quando nel 2021 i militari hanno compiuto il secondo colpo di Stato.

Adesso quella italiana è l’unica rappresentanza occidentale rimasta, i pochi soldati Usa della base 201 potrebbero lasciare il Niger a giorni. Di qui deriverebbe l’importanza di rafforzare la Misin, d’accordo con gli alleati occidentali, per non lasciare «spazi di manovra all’allargamento della presenza di altri attori nella regione», ha spiegato il generale Figliuolo. «L’Italia è l’interlocutore privilegiato del Paese», ha assicurato. Mai quanto la Russia, però, come dimostrano gli ottimi rapporti stabiliti dalla giunta militare con Mosca, tradottisi nella promessa di aiuti militari, promessa che si è concretizzata il 12 aprile con l’arrivo di un primo gruppo di paramilitari del Russian Expeditionary Corps, incaricati di assistere e addestrare i soldati nigerini. Con loro è arrivato un cargo pieno di attrezzature militari speciali. La televisione di Stato nigerina ne ha ripreso le operazioni di scarico.

Si vedrà presto, già nei prossimi mesi, se l’Italia avrà fatto bene a rimanere in Niger diventando uno dei pochi Stati che legittimano di fatto la giunta militare. La stessa Unione Africana ha sospeso il Niger, come fa con tutti i Paesi in cui le istituzioni democratiche vengono meno. «Le autorità nigerine hanno dichiarato il prossimo avvio del processo di democratizzazione con un piano di transizione per il ritorno all’ordine costituzionale», ha spiegato il generale Figliuolo che è stato in Niger a marzo. Bisogna crederlo se si vuole restare nelle grazie dei militari, ma è quel che dicono tutti. In Sudan è dal golpe del 2019, in Mali da quello del 2020, in Burkina Faso e in Guinea Conakry dal 2022 che si aspetta l’avvio della transizione democratica promessa. In Mali, non solo, l’11 aprile la giunta militare ha sospeso tutte le attività politiche fino a nuovo ordine. Per ripristinare le istituzioni democratiche in Niger non c’è bisogno di un processo di transizione. Basterebbe che i militari liberassero il presidente Bozoum e gli consentissero di riassumere la sua carica. 

Rende ancora più delicata e insidiosa la solitaria missione italiana il problema di come porsi rispetto alla difficile situazione della minoranza cristiana. Il Niger è a maggioranza musulmana e oltre tutto è infestato da gruppi jihadisti. La classifica 2024 dell’onlus Open Doors dei 50 stati in cui i cristiani sono più duramente perseguitati lo colloca al 27 posto, dopo il Bangladesh e prima della Repubblica Centrafricana. Uno dei momenti peggiori per la piccola comunità cristiana fu quando nel 2015 la popolazione si scatenò contro di loro per reazione alla pubblicazione delle vignette satiriche su Maometto che costarono la vita ai redattori della rivista Charlie Hebdo. Attorno alla Grande Moschea della capitale Niamey si radunarono per giorni folle inferocite per poi attaccare e saccheggiare bar, alberghi, negozi e case di cristiani. Sette chiese furono saccheggiate e date alle fiamme.   

Davvero non è facile condividere la soddisfazione e l’orgoglio con cui le autorità militari italiane l’11 aprile hanno annunciato il completamento dei lavori di ristrutturazione della Grande Moschea, realizzati grazie al sostegno promesso dal generale Massimo Marceddu allo sceicco Djibril Djermakoye Karanta, imam della Grande Moschea e presidente dell’Associazione islamica del Niger. «Dal 1° al 29 marzo sono stati eseguiti i lavori di rifacimento di alcune parti della moschea, e sono stati donati sistemi di climatizzazione nelle stanze principali del luogo di culto musulmano – ha dichiarato il generale Marceddu – ogni soldato della Misin mette il cuore in quello che fa per questo bel Paese». 

6202.- La distruzione del centro terroristico nell’ambasciasta iraniana a Damasco era del tutto giustificata

… Ma è stata un atto di guerra!

by Con Coughlin,

  • Iran’s decision to rely on groups such as Hezbollah and Hamas to prosecute its war against Israel has resulted in the Israelis regularly having to retaliate with air strikes against Iranian and Hezbollah targets in Syria and Lebanon in an attempt to disrupt their terrorist infrastructure.
  • Since October 7, the consulate served as Tehran’s main regional command centre, helping to supervise the activities of Iran’s so-called “axis of resistance”.
  • [A]s recent events have indicated, Israel is not just fighting a war against the Iranian-backed Hamas terrorists who committed the terrible atrocities on October 7. It is in an existential battle for survival against the Iranian regime and its many proxies which, if left unchecked, will continue seeking to achieve their ultimate goal of destroying the Jewish state.
The bombing of the Iranian consulate in Damascus, Syria was not, as the Iranians claim, simply an attack on a blameless diplomatic mission. It was a carefully targeted strike on the headquarters of the expansive terrorist network that Tehran has established throughout the Middle East. Pictured: The Iranian Embassy compound in Damascus, Syria on April 1, 2024, following an airstrike that destroyed the consulate building. (Photo by Maher Al Mounes/AFP via Getty Images)

The bombing of the Iranian consulate in Damascus, Syria was not, as the Iranians claim, simply an attack on a blameless diplomatic mission.

It was a carefully targeted strike on the headquarters of the expansive terrorist network that Tehran has established throughout the Middle East.

The real purpose of the Iranian consulate building, an adjunct of the Iranian Embassy in Damascus, was revealed when the Iranians themselves admitted that two senior commanders of the elite Quds Force of Iran’s Islamic Revolutionary Guard Corps (IRGC) were killed in the air strike, which has widely been attributed to the Israeli air force.

The Quds Force, which has direct responsibility for overseeing Iran’s global terrorist operations, reports directly to Iranian Supreme Leader Ayatollah Ali Khamenei, and was established to fulfil the ayatollahs’ ambition of exporting Iran’s Islamic revolution throughout the Muslim world.

In particular, the Quds Force is the main conduit between the IRGC and the network of proxy terrorist groups, such as Hezbollah and Hamas, that Iran uses as frontline units in its constant campaign to attack Israel.

The fact, therefore, that two senior Quds Force commanders were killed in the April 1 strike on the Iranian consulate provides conclusive proof that, far from undertaking basic consulate duties such as issuing visas, the facility was being used as a command and control centre for Iran’s terrorist activities throughout the region.

Among those who died in the attack was Brigadier General Mohammad Reza Zahedi, a senior Quds Force commander, who was responsible for coordinating Iran’s support for its Hezbollah terrorist organisation in neighbouring Lebanon, as well as Tehran’s extensive network of terror groups in Syria. His deputy, General Mohammad Hadi Hajriahimi, was also killed in the attack.

Hezbollah forces, which form part of Iran’s so-called “axis of resistance” against Israel, have been regularly initiating attacks against northern Israel since Iranian-backed Hamas terrorists launched their deadly invasion of Israel on October 7. As a result, large areas of northern Israel have been left desolate as tens of thousands of Israelis have been forced to flee their homes.

Iran’s decision to rely on groups such as Hezbollah and Hamas to prosecute its war against Israel has resulted in the Israelis regularly having to retaliate with air strikes against Iranian and Hezbollah targets in Syria and Lebanon in an attempt to disrupt their terrorist infrastructure.

In particular, the Israel Defence Forces (IDF) have targeted Quds Force commanders who play a key role in supporting Hezbollah’s terrorist activities.

In December, Israeli warplanes were reported to have carried out the assassination of Razi Mousavi, the then head of Quds Force operations in Syria.

Mousavi’s assassination was the highest-profile killing of a senior Quds Force commander since the Trump administration’s liquidation of Qasem Soleimani, the charismatic head of the Quds Force who was killed by a US drone strike in Baghdad, Iraq in January 2020.

It was under Soleimani’s supervision, moreover, that the Iranian consulate in Damascus developed into a key headquarters for Iran’s terrorist network throughout the Middle East.

The consulate’s role in supporting Tehran’s terrorist activities dates back to the early 1980s, when Iran first established Hezbollah in southern Lebanon.

According to Western intelligence sources, it was from this building that Iran oversaw the Lebanon hostage crisis in the mid-1980s, which resulted in scores of American, British and French hostages being taken captive by Islamist terrorists.

Imad Mughniyeh, the Lebanese terrorist mastermind behind a wave of deadly truck bombings including against the US Embassy and US Marines compound in Beirut in 1983, was assassinated by a team of Israeli Mossad agents in 2008 shortly after driving out of the compound where the consulate was located.

More recently, it was used as the nerve centre for Iran’s efforts to keep the regime of Syrian President Bashar al-Assad in power during Syria’s brutal civil war.

Since October 7, the consulate served as Tehran’s main regional command centre, helping to supervise the activities of Iran’s so-called “axis of resistance”.

Zahedi, who died in the April 1 attack on the consulate, had fulfilled the same liaison role previously undertaken by Mughniyeh in coordinating links between Iran and Hezbollah.

Given the consulate’s long history of involvement in running Iran’s terror network, Israel would be perfectly justified in seeking to attack it, especially given its role in supervising the constant barrages of missiles Hezbollah has been launching against northern Israel.

For, as recent events have indicated, Israel is not just fighting a war against the Iranian-backed Hamas terrorists who committed the terrible atrocities on October 7. It is in an existential battle for survival against the Iranian regime and its many proxies which, if left unchecked, will continue seeking to achieve their ultimate goal of destroying the Jewish state.

Con Coughlin is the Telegraph‘s Defence and Foreign Affairs Editor and a Distinguished Senior Fellow at Gatestone Institute.

6201.- Il terrorista tagiko catturato in Italia, segno che l’Isis è vicino

Un altro terrorista arrestato in Italia, a Fiumicino. È il tagiko Ilkhomi Sayrakhmonzoda, jihadista dell’Isis-K, il gruppo terrorista in continua espansione dall’Afghanistan. L’Italia è un punto di snodo.

 Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Souad Sbai, 10_04_2024Carabinieri a Fiumicino (Imago Economica)

Euro in contanti e una taglia sulla testa per terrorismo islamico: questo è quanto emerso quando un individuo, con un passaporto ucraino e sotto il falso nome di Timor Settarov, proveniente dall’Olanda e diretto a Roma, è stato arrestato all’aeroporto di Fiumicino. Un viaggio che ha scatenato una caccia serrata ai suoi contatti italiani e ha dato il via a un’indagine delicata. «Siamo molto curiosi di capire cosa era venuto a fare a Roma», hanno dichiarato gli investigatori della Digos di Roma, mentre si concentrano sul caso di Ilkhomi Sayrakhmonzoda, un tagiko di 32 anni definito “membro attivo dell’Isis”. L’uomo è stato fermato nella mattinata di lunedì mentre si apprestava a salire su un treno diretto verso la Capitale, con le manette che sono scattate grazie a una “red notice” dell’Interpol, richiesta dal Tagikistan. Questo perché Sayrakhmonzoda si era arruolato nelle fila dello Stato Islamico nel 2014 e aveva combattuto in Siria, con un precedente arresto anche in Belgio.

L’individuo, descritto come un uomo tagiko con capelli corti, barba, indossante jeans, maglietta bianca e sneakers, è atterrato a Fiumicino da Eindhoven, nei Paesi Bassi, alle 11:45, sotto falsa identità. Gli agenti hanno rilevato le sue impronte digitali e hanno scoperto la sua vera identità, conducendo poi ulteriori indagini. Nonostante i suoi movimenti siano stati monitorati all’aeroporto, Sayrakhmonzoda si era diretto da solo verso il treno che dall’aeroporto di Fiumicino arriva alla stazione ferroviaria di Roma Termini, ma è stato fermato e arrestato dagli agenti dell’antiterrorismo. Durante la perquisizione sono stati sequestrati il suo cellulare e circa duemila euro in contanti.

La nazionalità del detenuto, in un momento di elevata tensione a causa dei conflitti in corso, ha richiamato l’attenzione sul gruppo terroristico che ha colpito alla Crocus Hall di Mosca il 22 marzo scorso, un attentato rivendicato dall’Isis. Ma al momento la Polizia non ha mai menzionato quanto avvenuto in Russia. Non è chiaro quale Paese abbia emesso il mandato di arresto nei suoi confronti, ma gli investigatori hanno confermato che l’uomo ha utilizzato diverse identità false, originarie da Uzbekistan, Kirghizistan e Ucraina. Si sa inoltre che Sayrakhmonzoda è nato nel 1992 e si è arruolato come combattente straniero per lo Stato Islamico in Siria nel 2014.

Il Tagikistan è una delle nazioni che fornisce un numero consistente di militanti dell’Isis Khorasan (Isis-K), formazione che conterebbe su cellule dormienti anche in Europa. La strategia di “internazionalizzazione” dell’agenda dell’Isis-K – il cui obiettivo è la creazione di un califfato islamico nell’Asia centrale e meridionale – è stata perseguita con rinnovato vigore dal 2021. Ciò è in parte dovuto a un ambiente più permissivo in seguito al ritiro degli Stati Uniti e il successivo crollo del governo afghano. Questo processo di internazionalizzazione dell’agenda dell’Isis-K prevede che il gruppo prenda di mira direttamente i paesi della regione o la loro presenza in Afghanistan. Ad oggi, ciò ha visto gli interessi di Pakistan, India, Uzbekistan, Tagikistan, Cina e Russia presi di mira da attacchi terroristici. Per tale motivo il Governo tagiko ha intensificato gli sforzi antiterrorismo dalla presa del potere dei talebani in Afghanistan nell’agosto 2021, con il quale condivide un confine di 843 miglia. 

Il governo del Tagikistan afferma che il nord dell’Afghanistan è una fonte primaria di attività terroristica e ospita migliaia di estremisti violenti. Le preoccupazioni principali del Tagikistan riguardano l’Isis-K e Jamaat Ansarullah, che opera dall’Afghanistan e cerca di rovesciare il governo tagiko per fondare uno stato islamico.

Le preoccupazioni sul reclutamento di cittadini tagiki nell’Isis-K esistono da tempo, con il trattamento draconiano da parte dei talebani nei confronti delle minoranze afghane, compresi i tagiki, che probabilmente crea un inconsapevole vantaggio di reclutamento per il gruppo terroristico. La crescita notevole dell’Isis-K è stata preceduta solo da pochi anni di rischio di totale annientamento per il gruppo. Allo stesso tempo, la storia del movimento dello Stato Islamico è ricca di esempi di rinascite apparentemente improbabili, con azioni audaci al di là dei confini nazionali. Queste azioni non solo mirano a riconquistare roccaforti locali, ma anche ad espandere l’influenza del gruppo e a stabilire il controllo nelle province vicine e addirittura a livello transnazionale. Le operazioni esterne rappresentano un elemento cruciale attraverso il quale lo Stato Islamico realizza i suoi obiettivi strategici, sia durante fasi di crescita che di regressione, nel corso della sua campagna di insurrezione. Tra il 2022 e il 2023, sono emersi rapporti provenienti da diversi paesi dell’Unione Europea che dettagliano il coinvolgimento dell’Isis-K nelle comunità locali in Austria, Germania e Paesi Bassi per coordinare le operazioni estere. Questo si è verificato contemporaneamente all’esplosione della produzione mediatica dell’Isis-K, passando da meno di una manciata di lingue regionali prima del 2020 a oltre una dozzina di lingue dal 2020 in poi. Un avvenimento degno di nota è stato il lancio, nel gennaio 2022, della sua rivista di punta in lingua inglese, Voice of Khorasan. Questa rivista elogia frequentemente i martiri dei combattenti stranieri nelle operazioni attuali e passate e ha ora pubblicato numerosi articoli di presunti sostenitori italiani e canadesi dell’Isis-K, oltre a diffondere regolarmente commenti che incitano alla violenza in risposta ad eventi attuali, come i roghi del Corano in Svezia, con qualche limitato successo riportato in Turchia.

Dunque, le operazioni esterne dell’Isis-K si sono ampliate dalla sua formazione ufficiale nel 2015 fino a comprendere uno spettro completo di azioni attuali, dalle spedizioni locali alle operazioni coordinate e ispirate dall’estero. Contestualmente, le sue attività mediatiche si sono viste rapidamente espandere per contribuire ad amplificare e sostenere tali operazioni. Anche se alcuni analisti e funzionari potrebbero interpretare l’attuale pausa nelle operazioni complessive dell’Isis-K come un segno di debolezza, la chiara traiettoria ascendente e di espansione del gruppo nel tempo non può essere ignorata. Diversi cittadini tagiki sono stati arrestati perché in procinto di compiere attentati contro obiettivi degli Stati Uniti e della NATO in Germania nell’aprile 2020. Altri membri tagiki dell’Isis-K sono stati fermati dalle autorità tedesche e olandesi nel luglio 2023 come parte di un’operazione per sventare una rete dell’Isis-K che pianificava un attentato ed era intenta nella raccolta fondi.

Episodi che ci fanno tornare in Italia, all’aeroporto di Fiumicino. Perché l’Italia è stata e continua ad essere base e snodo strategico per terroristi. Roma non era dunque una tappa intermedia, ma la destinazione del tagiko affiliato allo Stato islamico. Non aveva infatti un altro biglietto aereo per ripartire. Sayrakhmonzoda era ‘”sconosciuto” alle banche dati delle Forze dell’ordine italiane, non ha dunque precedenti sul territorio nazionale. Ha però numerosi alias con nazionalità e date di nascita diverse, in particolare dell’Uzbekistan, del Kirghizistan e dell’Ucraina. Gli investigatori contano ora attraverso l’analisi del telefonino di risalire ad eventuali contatti italiani dell’uomo.

Già, perché il suo arrivo a Roma apre ad interrogativi inquietanti: programmava un’azione? Doveva reclutare qualcuno? C’era una rete che lo attendeva? Quei 2000 euro a cosa servivano? Non è la prima volta che viene arrestato un terrorista islamico “di passaggio” in Italia.

Se andiamo con la mente alle cronache dello scorso febbraio ricordiamo Sagou Gouno Kassogue, un cittadino maliano di 32 anni, identificato come l’aggressore che ha ferito tre persone con un coltello alla Gare de Lyon di Parigi. È emerso che Kassogue è uno dei più di 180mila migranti che sono sbarcati in Italia nel 2016. Questo episodio si aggiunge a una serie di attacchi terroristici in Europa perpetrati da individui con legami precedenti con l’Italia. Abdesalem Lassoued, un tunisino di 45 anni, ha ucciso due turisti svedesi a Bruxelles lo scorso ottobre. Lassoued, dopo essere sbarcato in Sicilia, ha trascorso del tempo in Italia, tra Bologna e Genova. Lakhdar Benrabah, un algerino, ha aggredito tre poliziotti a Cannes nell’8 novembre 2021. Benrabah è arrivato in Sardegna, è stato poi trasferito a Napoli e ha ottenuto il permesso di soggiorno. Brahim Aoussaoui, anch’egli tunisino, ha ucciso tre persone nella basilica di Notre-Dame a Nizza il 29 ottobre 2020. Aoussaoui è arrivato a Lampedusa poco più di un mese prima, è stato poi trasferito a Bari, dove ha ricevuto un foglio di via con cui ha attraversato clandestinamente il confine.

Anis Amri, anche lui tunisino, ha perpetrato l’attentato di Berlino nel 2016, uccidendo 12 persone. Amri, prima di diventare un terrorista, è stato arrestato in Italia e poi si è spostato in Germania con un foglio di via. Nel 2016, l’algerino Khaled Babouri ha aggredito due poliziotte a Charleroi, in Belgio, e l’attentato è stato rivendicato dall’Isis. Babouri ha attraversato l’Italia prima dell’attacco. Mohamed Lahouaiej Bouhlel, anch’egli tunisino, ha lanciato un autocarro sul lungomare di Nizza nel 2016, uccidendo quasi 90 persone. Bouhlel si spostava spesso tra l’Italia e la Francia. Infine, Ahmed Hanachi, tunisino, ha accoltellato a morte due ragazze alla stazione Saint-Charles di Marsiglia il primo ottobre 2017, ed è stato sposato con un’italiana, vivendo ad Aprilia (Lt) presso i suoceri per un lungo periodo.

Questi casi evidenziano una serie di individui con legami con l’Italia coinvolti in attacchi terroristici in Europa. Lo scorso ottobre il Comitato di analisi strategica antiterrorismo aveva reso noto che negli ultimi otto anni 146 foreign fighters schedati e 711 soggetti pericolosi rimpatriati, di cui 53 solo nel 2023. Nel 2015 si contavano 87 foreign fighters che in qualche modo avevano avuto a che fare con l’Italia. Oggi conviene aggiornare i conti, per non pagarne presto di salati.

6200.- Biden scarica Netanyahu: “Ha sbagliato la gestione della guerra a Gaza, serve una tregua immediata”

La macchina da guerra di Netanyahu va a odio, ma Israele non è Netanyahu.

Da Il secolo d’Italia, 10 Apr 2024 – di Laura Ferrari

Biden Netanyahu

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Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, in un discorso dai toni estremamente duri nei confronti del premier israeliano, ha definito senza mezzi termini “un errore” l’approccio di Benjamin Netanyahu alla guerra a Gaza.

L’intervista di Biden: uno schiaffo alla politica di Netanyahu

Intervistato dalla rete americana in lingua spagnola Univision, tornando sulla strage degli operatori sanitari della World Central Kitchen, Biden ha definito l’accaduto “scandaloso” sottolineando che i mezzi colpiti dai droni non potevano essere scambiati per un convoglio di Hamas. Inoltre “non ci sono scuse” per non inviare aiuti umanitari nell’enclave. “Quello che chiedo – ha detto il numero uno della Casa Bianca – è che gli israeliani accettino semplicemente un cessate il fuoco, consentendo per le prossime sei, otto settimane l’accesso totale a tutto il cibo e le medicine che entrano nel paese. Ho parlato con tutti, dai sauditi ai giordani agli egiziani. Sono pronti a trasferire questo cibo. E penso che non ci siano scuse per non provvedere alle esigenze mediche e alimentari di quelle persone. Dovrebbe essere fatto adesso”.

Il canto del cigno di Netanyahu: “C’è una data per l’attacco a Rafah. Elimineremo Hamas anche lì. Nessuno ci fermerà”. La parola è all’Iran.

Il presidente Usa fa gli auguri agli islamici per la fine del Ramadan

Una presa di distanza nei confronti della politica israeliana che va di pari passo con l’apertura al fronte islamico. In queste ore, sui social, il presidente americano ha anche rivolto un pensiero speciale per i palestinesi della Striscia di Gaza durante i suoi auguri per l’Eid al-Fitr, che segna la fine del mese sacro all’Islam di Ramadan. ”Mentre le famiglie e le comunità musulmane si riuniscono per l’Eid al-Fitr, stanno anche riflettendo anche sul dolore provato da così tanti. I miei pensieri vanno a coloro che in tutto il mondo sopportano conflitti, fame e sfollamenti, anche in luoghi come Gaza e il Sudan’, ha scritto Biden in un post su X. ”Ora è il momento di impegnarsi nuovamente nell’opera di costruzione della pace e di difesa della dignità di tutti”, ha aggiunto.

6199.- La settimana Indo-Pacifica degli US

Da Formiche.net, Indo Pacific Salad, A cura di Emanuele Ros
Non succede frequentemente che la strategia di un Paese si dimostri in modo così esplicito come sta succedendo in questa settima per gli Stati Uniti e la loro visione dell’Indo Pacifico. Quell’insieme di interpretazioni dottrinali e pratiche che compone il pensiero americano si sta mostrando davanti ai nostri occhi. Il concetto di “free and open Indo-Pacific”; la creazione di un network di partnership composto da sistemi di alleanze minilaterali e più informali; il ruolo centrale della collaborazione nell’industria militare e quella in settori super cruciali come le nuove tecnologie; il confronto competitivo con la Cina, i meccanismi di guardrail, i rischi della congiunzione Mosca-Pechino; l’infiammabilità dei flashpoint; la necessità di non far percepire eccessivamente il peso della competizione tra potenze a Paesi terzi, più esterni e interessati a un multi-allineamento tattico e strategico. Sono giorni in cui tutti i temi che di solito riguardano la regione si muovono direttamente nelle cronache.Gli appuntamenti Per la prima volta in nove anni, un premier giapponese torna alla Casa Bianca. Proprio mentre questa newsletter arriva nelle vostre caselle, Kishida Fumio discute con Joe Biden dell’alleanza più solida e strategica che caratterizza la presenza americana nell’Indo Pacifico (da tener a mente: il concetto “free and open Indo-Pacific” che Washington utilizza per definire la propria visione globale della regione è mutuato dal pensiero di Abe Shinzo, predecessore di Kishida). Il cuore del viaggio di Kishida è la decisione di rafforzare la già profonda cooperazione militare nippo-americana: lo definiscono in tanti un evento “storico”. Ma domani i due saranno raggiunti dal presidente filippino, Ferdinand Marcos Jr, per un altro storico, inedito incontro americano-centrico del nuovo minilaterale Manila-Washington-Tokyo. La riunione avviene a pochi giorni dalle prime esercitazioni dei tre, e con l’Australia, nel Mare delle Filippine, dove Pechino sta compiendo azioni aggressive nell’ambito delle rivendicazioni sul bacino del Mar Cinese (la risposta della Repubblica popolare non si è fatta attendere: manovre militari sono state organizzate nello stesso teatro e nello stesso giorno, domenica 7 aprile). Nei giorni scorsi si è parlato anche della possibilità di ampliamento dell’Aukus, con Usa, Regno Unito e Australia che accoglieranno nuovi partner nel quadro del “Pillar 2” dell’alleanza (dove non si parlerà di sottomarini, ma di altre tecnologie di difesa e civili). Il Giappone (con il Canada) è in pole position — tanto che si parla già di “Jaukus” — ma in futuro anche le Filippine potrebbero in qualche misura esserne parte. Sempre nei giorni scorsi è arrivato negli Stati Uniti il capo di Stato maggiore della marina taiwanese, Tang Hua, per parlare di pratiche, tattiche, approvvigionamenti e interoperabilità. A proposito di Taiwan, TSMC, il gigante dei chip, riceverà fondi attraverso il Chips and Science Act nell’ambito dell’accordo di partnership industriale con gli Stati Uniti (che vogliono fornire uno scudo politico ai ritardi della mega fabbrica progettata in Arizona, mentre si torna a parlare di “scudo di silicio”). Restando a Taipei, Xi Jinping — che sempre in questi giorni ha ospitato il presidente degli Stati federati di Micronesia Wesley Simina, in visita di Stato in Cina — e l’ex presidente taiwanese Ma Ying-jeou si sono incontrati con tutti gli onori nella Grande Sala del Popolo (è la prima volta che succede dal 1949 che un leader corrente o ex viene ricevuto con certe attenzioni). Una mossa che pare tesa a mettere in risalto le posizioni più dialoganti presenti a Taipei, spiega Lorenzo Lamperti su China-files. Lamperti, unico giornalista italiano nella capitale taiwanese e tra i massimi esperti del Paese, aggiunge che Pechino sta provando a “squalificare” quelle che considera “forze secessioniste”, a partire da quelle del presidente eletto Lai Ching-te (che si insedierà il prossimo 20 maggio). Non bastasse quanto elencato finora a definire la settimana: nei giorni scorsi Biden ha avuto una conversazione telefonica con Xi, in cui è stato ribadito quella che la Cina chiama “visione di San Francisco” (dal summit di novembre), ma gli Usa insistono di aver dettato i paletti su Taiwan e sulla collaborazione cinese con la Russia. Eppure…I rivali In tutto questo, a Pechino è arrivato Sergei Lavrov. Il ministro degli Esteri russo è stato accolto dal collega Wang Yi (omologo per rango, ma Wang è anche il capo della diplomazia del Partito Comunista Cinese e tra i più diretti confidenti del leader Xi). Attenzione perché la missione di Lavrov non ha solo funzione tecnica di preparazione della visita di Stato di Vladimir Putin (programmata per maggio), ma porta con sé un grande messaggio politico. Sempre in questi giorni, infatti, la capitale cinese ha ospitato una delegazione americana guidata dalla segretaria al Tesoro Janet Yellen, la quale ha avvisato di “serie conseguenze” se l’assistenza militare — tramite l’industria della Difesa — di Pechino all’invasione su larga scala russa dell’Ucraina verrà “confermata” (significa che Washington ha più che un sospetto, ma attende il momento giusto per muoversi?). Contemporaneamente, sempre in questi giorni, una delegazione militare cinese è stata ospitata alle Hawaii dal Comando Indo Pacifico del Pentagono: sono stati i primi scambi del genere, military-to-military, dal 2021. Ossia: la Cina manda segnali, accetta forme di dialogo (innanzitutto quelle economiche, con Yellen e altri segretari dei settori finanziario e commerciale), e ora anche quelle militari (fondamentali per evitare incidenti potenzialmente devastanti in zone di sovrapposizione). Tuttavia, spinge sull’asse con Mosca che indispettisce Washington e indispone l’Europa. Valutazione come sintesi estremizzata di tutto ciò fatta da Matt Pottinger e Mike Gallagher: “Gli Stati Uniti non dovrebbero gestire la competizione con la Cina; dovrebbero vincerla”.Il contesto In tutto questo, va tenuto in mente il contesto tracciato da un lavoro prodotto allo Yusof Ishak Institute di Singapore: dai dati emerge che, per la prima volta nella storia, sempre più persone nel Sudest asiatico preferiscono che i loro Paesi si allineino con la Cina piuttosto che con gli Stati Uniti. La fonte dello studio è autorevole e il risultato è un’indicazione chiave non solo per Washington, ma anche per Paesi teoricamente terzi alla competizione diretta che scelgono di avventurarsi nella strategia indo-pacifica dialogando con gli attori regionali e non solo (perché in qualche modo riguarda una percezione condivisa anche nel Global South, e non solo in quello asiatico).