Archivi categoria: Geopolitica

6209.- Putin si prende Ariston ma l’Italia si muove. Ecco come

Leggiamo l’imbarazzo delle aziende dinanzi alla politica estera.

Da Formiche, di Gianluca Zapponini

Il Cremlino, forse sotto pressione per gli effetti delle sanzioni sull’economia russa, reagisce con un gesto di stizza e mette sotto chiave le filiali delle due aziende. Tajani e Urso entrano in azione

27/04/2024

Vladimir Putin aveva da tempo il dito sul pulsante. Perché, come raccontato a più riprese da Formiche.net, erano almeno due anni che il Cremlino era pronto ad azzannare le imprese straniere con filiali in Russia. Quelle rimaste almeno, visto che il grosso delle aziende ha fatto fagotto e lasciato la Russia, prima che scattasse la trappola. Ora però il bottone è stato pigiato. Ma l’Occidente non è stato a guardare, reagendo a quello che ha tutto il sapore di un esproprio di stampo sovietico.

Antefatto. Le filiali russe di Ariston e della tedesca Bosch sono state temporaneamente trasferite al gruppo Gazprom. Ed è stato il presidente Putin a firmare il decreto per il trasferimento delle sussidiarie russe delle due aziende italiana e tedesca a Gazprom Domestic Systems, la società del gruppo statale Gazprom produttrice di elettrodomestici, secondo quanto ha riferito l’agenzia Interfax. Il decreto postato sul portale ufficiale per le informazioni legali riguarda la Ariston Thermo Rus Llc, controllata da Ariston Holding, e la Bsh Household Appliances Llc, controllata da Bsh Hausgerate Gmbh. Non sono stati resi noti i motivi della decisione.

Fin qui i fatti, che raccontano un gesto forse dettato dal nervosismo di Mosca. Giustificato, vista la morsa delle sanzioni, sempre più stretta e i suoi indubbi effetti sull’economia russa. Ma, come detto, l’Occidente e, soprattutto l’Italia, hanno prontamente reagito. Per esempio, Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, ha convocato l’ambasciatore russo in Italia per “chiedere chiarimenti sulla vicenda della nazionalizzazione dell’Ariston Thermo Group, dopo l’inattesa decisione del Cremlino”. Inoltre ha “subito attivato la nostra ambasciata in Russia e parlato con i vertici dell’azienda italiana”. Il governo, ha spiegato ancora, “è al fianco delle imprese, pronto a tutelarle in tutti i mercati internazionali”. E ancora, Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del made In italy, ha avuto una conversazione telefonica con Paolo Merloni, presidente di Ariston, per un confronto sulla situazione in corso e per esprimere la vicinanza del governo, pronto a tutelare l’azienda in ogni sede.

C’è però un precedente. Lo scorso anno Putin aveva firmato un altro decreto per il trasferimento temporaneo della gestione delle filiali russe di Danone e di Carlsberg all’Agenzia federale per la gestione delle proprietà, Rosimushchestvo. Il provvedimento era stato adottato dopo che la società francese e quella danese avevano annunciato l’intenzione di uscire dal mercato russo. Il 98,56% delle azioni del birrificio russo Baltika, appartenente a Carlsberg, e decine di migliaia di azioni appartenenti a Danone erano state poste sotto il controllo dell’Agenzia. Nel caso di Ariston e Borsh, invece, la gestione passa a Gazprom, un altro gruppo industriale, sebbene controllato dal governo.

6208.- Balcani in Ue, la ricetta di Tremonti per l’Europa di domani

Grande mossa di Giulio Tremonti, che surclassa sia Joe Biden sia Jens Stoltenberg: Da un lato, come isolare la Federazione Russa con una semplice mossa geopolitica; da un altro, come usare il potenziale geopolitico europeo senza dover fondare uno Stato sovrano, anzi, rafforzandone con l’ulteriore allargamento la debolezza in politica estera. Infine, una mano non da poco all’Erdoğan balcanico. Rispetto alle dichiarazioni sul disarmo europeo a pro di Kiev di Stoltenberg possiamo esprimere differenti pareri. Mario Donnini

Da Formiche.net, articolo di Francesco De Palo

L’ex ministro dell’Economia, dal palco della convention pescarese di Fratelli d’Italia, sostiene che per evitare nuovi sconvolgimenti globali all’Europa occorre un’accelerazione sulle politiche di allargamento con il coinvolgimento dell’intero costone balcanico

26/04/2024

Tutti i Paesi del costone balcanico entrino domattina in Europa: solo in questo modo l’Ue farebbe una mossa geopolitica di lungo periodo. Lo ha detto il presidente della Commissione Esteri della Camera, Giulio Tremonti, dal palco della conferenza programmatica di FdI in corso a Pescara. L’occasione è una riflessione sulla difesa europea dinanzi ai fronti bellici in atto, ma non solo, visto il coinvolgimento oggettivo tanto della cybersicurezza, quanto delle frizioni sul Mar Rosso accanto ai fronti caldi di Kyiv e Gaza. Ma proprio le prospettive di reazione europea rappresentano, da un lato, il vero elemento di novità di questa fase di guerre e, dall’altro, il possibile terreno comune dove iniziare a costruire politiche europee davvero unitarie.

Riunificazione balcanica

Perché un’accelerazione europea nei Balcani significa sanare potenziali nuovi fronti di tensione? Secondo Tremonti quando finirà la guerra in Ucraina non inizierà al contempo la pace. Ovvero i problemi dell’Europa non saranno risolti semplicemente con il cessate il fuoco, dal momento che i luoghi di contrasto restano quelli fuori dai sicuri confini dell’Ue. E cita un nome su tutti, i Balcani, che secondo Churchill sono luoghi in cui si fabbrica più storia di quanta ce ne sia. “Un’ipotesi plausibile secondo me è che dobbiamo accettare tutti i Balcani ora nell’Ue, salvo l’obbligo di adempiere a tutti i criteri. Sarebbe una rivoluzione”, spiega l’ex ministro dell’economia. Ovviamente un attimo dopo bisognerà modificare i criteri di voto, “ma sarebbe una mossa lungimirante, non puoi cancellare la democrazia, ma cambiare le maggioranze di governo sì”.

Un passaggio, quello della riunificazione balcanica, da sempre oggetto delle riflessioni europee di Giorgia Meloni soprattutto in merito alle politiche di allargamento, in un settore dove l’Italia può agire da pivot.

E aggiunge che al netto delle difficoltà di questa scelta, difficile e dura, non vi sono alternative dato il progressivo spiazzamento che l’Europa ha rispetto al resto del mondo, “dopo 20 anni di gestione fatta da tecnici non eletti”. Ragionare sulle politiche per l’Europa, secondo Tremonti, è l’unica strada da seguire per evitare di dover affrontare emergenze dopo emergenze sempre con l’acqua alla gola.

Spese per la difesa

Ma come provvedere alla messa in sicurezza di politiche ad hoc se non con maggiori investimenti nella difesa? Lo sottolinea con veemenza il sottosegretario alla Difesa Isabella Rauti, intervenendo al dibattito “Forte, libera e sovrana” quando dice che occorre investire il 2% del Pil in difesa, “un impegno assunto da tutti i Paesi Nato”, dinanzi alla media attuale europea dell’1,5%: “Il ministro Crosetto ha insistito in Europa perché questo impegno venisse svincolato dal Patto di stabilità, si è persa un’occasione non da noi ma da Bruxelles. All’indomani del voto delle prossime elezioni europee mi auguro si delinei una maggioranza diversa che potrà assumere una nuova visione in questa direzione”.

Di cambio di passo ha parlato il presidente di Leonardo Stefano Pontecorvo con riferimento agli investimenti in difesa, panorama che nemmeno la guerra in Ucraina ha cambiato. E cita dei numeri significativi: nel 2023 l’Europa ha investito come acquisizioni di sistema 110 mld di euro, gli americani 250. I nostri 110 miliardi sono stati distribuiti su 30 diverse piattaforme, quelli americani su 12. Il risultato finale è che su ogni piattaforma gli americani investono 20 mld di ricerca, noi 4 mld. Quale sarà il prodotto migliore? Per cui la prospettiva è quella di lavorare tramite aggregazioni europee rispetto ai grandi giganti mondiali russi, cinesi e americani. “Si tratta di un problema di visione”.

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6193.- Futuro e realtà

Con Netanyahu Israele ha gettato la maschera? O è semplicemente alle porte della scena finale?

La scena ci addolora perché Israele è uno di noi, è in Occidente, ma il suo diritto alla vita non vale meno di quello della Palestina; ed ecco riemergere dal Tamigi la genia di quell’impero che volle una spina nel fianco del mondo arabo. Così, come una spina, fu pensato, nei confronti dei palestinesi, questo Stato di Israele e, come tale, fu condotto e armato fino ad oggi, così, dai coloni d’assalto alle forze armate, fra le più efficienti del mondo. La controprova è lì, in quei due milioni di arabi integratisi perfettamente nel nuovo Stato e israeliani di diritto, a tutti gli effetti. E ancora, lo era in quella massa di lavoratori gazesi che ogni mattino varcava il confine d’Israele, per far ritorno alla sera. Poteva essere il motore che avrebbe sviluppato le migliori virtù dei popoli arabi. Non lo fu, non lo è e non lo sarà mai se questa tragica sceneggiata, per molti segni tale e architettata, andrà a compimento. É questo, senza dubbio, il fine ultimo del 7 ottobre: seminare l’odio, il più acerbo e duraturo e, non vorrei vederci un altro fine, costi quel che costi: scalzare il potere degli arabi dalle terre di mezzo fra India, Cina, da una parte e Mediterraneo, Europa, dall’altra e, poi, dalle fonti dell’energia.

Se il costi quel che costi, dovesse prendere forma, noi europei non ne usciremmo indenni. Come con le sanzioni alla Federazione Russa, pagheremmo. Il fuoco acceso in Ucraina è prodromico?

6139.- Il caos in Senegal inguaia ancora Ecowas

Il Nuovo Piano Mattei è la base fondante dell’interconnessione regionale tra MedAtlantic e IndoMed e conferirà autorevolezza alla politica italiana impegnata a valorizzare il capitale umano dell’Africa. A partire dal Magreb, ma in particolare nel Sahel, i problemi di istruzione e la povertà sono importanti quanto quelli dell’economia e la situazione nel Senegal è considerata solo leggermente migliore. Le giunte militari golpiste di Mali, Niger e Burkina Faso e i disordini che scuotono il Senegal non sono gestibili da Ecowas e rappresentano l’esca che agevola la penetrazione neocolonialista russa e cinese. Ecco un motivo per procedere alla rifondazione dell’Unione europea, a farne un soggetto politico sovrano, potente, capace di impegnare le sue risorse in politiche di solidarietà attiva. Lo stimolo dell’economia potrà sostenere la crescita sociale e culturale di questi Paesi e non quella economica di Russia e Cina. Per condurre queste politiche, serve radicarci nella società africana, ma prima di tutto coesione e comunanza di obiettivi nella nostra politica, vista come alfiere di civiltà e non come strumento di potere. Questa è senz’altro una missione degna del Capo dello Stato.

Da di Emanuele Rossi | 18/02/2024 – 

Il caos in Senegal inguaia ancora Ecowas

Mentre il Consiglio costituzionale senegalese ha annullato lo spostamento delle elezioni voluto dal presidente Sall, continua una fase opaca per il Paese, che mette in ulteriore difficoltà Ecowas, organizzazione cardine della regione dell’Africa settentrionale in profonda crisi di autorevolezza

I leader della Economic Community of West African States (nota con l’acronimo Ecowas) si dovevano riunire giovedì per parlare della decisione senza precedenti di lasciare l’organizzazione presa a fine gennaio dalle giunte golpiste di Mali, Niger e Burkina Faso. Invece si sono ritrovati a parlare di una situazione complessa (che però ha avuto diversi precedenti nella storia di Ecowas): il Senegal sta piombando nel caos, perché il suo presidente, Macky Sall, ha deciso di posporre al 15 dicembre le elezioni – che erano programmate per domenica 25 febbraio. Dakar è piombata nel caos, proteste di piazza sotto slogan tipo “Sall è un dittatore”, scontro con le forze di sicurezza che hanno usato le maniere forti e procurato alcune vittime — “scontri provocati dall’arresto ingiustificato del processo elettorale”, che fanno “sanguinare il cuore di ogni democratico”, per dirla come il sindaco della capitale senegalese.

Bola Tinubu, presidente nigeriano che guida Ecowas, doveva recarsi personalmente a palare con Sall, ma le condizioni di sicurezza l’hanno portato a evitare il viaggio, dato che qualsiasi cosa di negativo gli fosse successo avrebbe avuto una eco complessa. L’organizzazione soffre una fase di criticità profonda: per dire, ha invitato il Senegal a “ripristinare urgentemente il calendario elettorale”, ma il blocco è consapevole che la sua influenza è praticamente inesistente. A maggior ragione in un momento in cui tre nazioni guidate da governi militari stanno già sfidando le sue richieste. Ora l’opaca situazione in Senegal la mette ancora più in difficoltà, dato che Dakar è considerata un bastione democratico — senza un golpe o un tentativo di alterazione del processo istituzionale dalla nascita della democrazia, nel 1960.

Nelle ore in cui questa analisi viene scritta, il Consiglio costituzionale senegalese ha annullato il rinvio delle elezioni presidenziali di questo mese, “una decisione storica che apre un campo di incertezza per la nazione tradizionalmente stabile dell’Africa occidentale”, spiega Fabio Carminati su Avvenire. Resta che la posposizione è stata votata da un parlamento assediato dalle forze di sicurezza lealiste, che hanno anche arrestato parlamentari di opposizione. Attenzione: il Consiglio di fatto ha dichiarato “impossibile organizzare le elezioni presidenziali nella data inizialmente prevista”, ma ha invitato “le autorità competenti a tenerle il prima possibile” – ossia non accetta il 15 dicembre, ma è “impossibile” votare il domenica 25 febbraio.

Cosa farà il presidente? Sall cercava un terzo mandato, e senza la possibilità di guidare il Paese ha cercato di spianare la strada a una sua successione a suon di repressione (i suoi oppositori sono stati in più occasioni arrestati nei mesi scorsi con accuse di insurrezione o pretestuose). Secondo i critici, arrivato a ridosso del voto ha percepito che il suo candidato (il primo ministro in carica) non avrebbe avuto una vittoria sicura, e allora ha spostato le elezioni per prendere tempo e aver dieci mesi in più di governo e campagna elettorale — forse addirittura sostituire il candidato.

Le critiche scoppiate per lo slittamento del voto sono frutto di un risentimento già esistente: Salò ha prodotto politiche che molti giovani senegalesi non hanno visto come efficaci nel fornire loro posti di lavoro, e molti hanno cercato rotte di migrazione irregolare verso l’Europa. Il Senegal ha problemi di istruzione, povertà e capitale umano, ed è considerato solo leggermente meglio dei Paesi guidati da giunte militari nel Sahel (e lì le condizioni sono pessime e prive di sbocchi). Sall nega ogni accusa, rivendica una scelta costituzionalmente corretta. Ma la sua mossa non ha solo messo nel caos il Paese, piuttosto ha ulteriormente danneggiato l’immagine dell’organizzazione che si dovrebbe occupare della stabilità in quella articolata regione — i cui effetti si allargano facilmente verso l’Europa in termini di sicurezza (dal terrorismo alle migrazioni, fino ad arrivare agli equilibri con attori rivali e competitivi come la Russia). 

Per dire, quando la scorsa estate il Niger è stato oggetto di un colpo di Stato, Ecowas aveva minacciato un intervento militare che Nigeria e Senegal avrebbero dovuto guidare. Nel frattempo, dopo che Ecowas ha fallito nell’attività di deterrenza e Niamey è rimasta in mano ai golpisti, Niger e Burkina Faso hanno comunicato non solo di abbandonare la Comunità, ma anche la West African Economic and Monetary Union (basata sul franco francese) e stanno pensando a una confederazione alternativa con il Mali.

6163.- La NATO e i governi del Mediterraneo dovranno mettere i punti sulle “i” con Ankara

La Gran Bretagna ha trasferito due navi cacciamine della classe Sandown, che aveva in disarmo (nella foto sotto), alla Marina Ucraina (AFU), nell’ambito di una nuova fornitura militare. L’Italia non partecipa a questa “ricostruzione”, ma aveva addestrato personale della Marina Ucraina e si ventilava la possibilità di cedere a Kiev alcune nostre navi anch’esse in disarmo, ma che è possibile riarmare, come le fregate classe Maestrale, i pattugliatori classe Cassiopea e, sopratutto, i cacciamine classe Lerici. Le unità della Royal Navy verrebbero impiegate per bonificare i fondali davanti a Odessa dalle mine posizionate dai russi, ma la Turchia sta negando loro l’accesso al Mar Nero in base all’articolo 19 della Convenzione di Montreux sul regime degli Stretti, che vieta il passaggio alle navi da guerra delle parti in conflitto”.

La Turchia chiude gli stretti ai cacciamine britannici donati all’Ucraina

Da Redazione Analisi Difesa, 3 gennaio 2024

Due cacciamine inglesi della classe Sandown, l’HMS Grinsby e l’HMS Shoream, ambedue in riserva, forniranno supporto alle forze navali ucraine che, oggi, dispongono solo di motovedette veloci avute dagli USA. Foto Royal Navy

La Turchia ha fatto sapere che non consentirà il passaggio nelle sue acque, gli stretti del Bosforo e Dardanelli, ai due cacciamine ex Royal Navy che Londra ha ceduto alla Marina Ucraina per aiutarne la ricostituzione dopo che le unità navali di Kiev sono state distrutte dai russi.

La nota del Centro per la lotta alla disinformazione della Direzione delle comunicazioni della presidenza turca precisa che “non sono vere le affermazioni da parte di alcuni media secondo cui a dragamine donati all’Ucraina dal Regno Unito è stato autorizzato il passaggio negli stretti Turchi verso il Mar Nero.  La Turchia ha subito classificato l’operazione militare speciale della Russia contro l’Ucraina come una guerra e, in base all’articolo 19 della Convenzione di Montreux riguardo il regime degli Stretti, ha chiuso gli Stretti alle navi da guerra delle parti in conflitto”.

Ankara rivendica di aver attuato “in modo imparziale e diligente dal 1936 la Convenzione di Montreux” e di voler “evitare un’escalation di tensioni nel Mar Nero”. “I nostri alleati sono stati informati che ai dragamine donati all’Ucraina dal Regno Unito non sarà consentito il passaggio dagli Stretti Turchi verso il Mar Nero fin quando continuerà la guerra”, conclude il messaggio.

Come Analisi Difesa aveva segnalato, Il Regno Unito ha annunciato l’11 dicembre il trasferimento di due navi cacciamine della classe Sandown alla Marina Ucraina come parte di una coalizione anglo-norvegese tesa a fornire ulteriore supporto militare a Kiev, incluse unità navali ed equipaggiamenti per ricostituire le forze navali ucraine che oggi dispongono solo di motovedette veloci di fornitura statunitense da quando nel maggio scorso l’ultima unità operativa (un mezzo da sbarco LST) era stata distrutta dai missili russi nel porto di Odessa.

I cacciamine della classe Sandown sono in fase di radiazione dai ranghi della Royal Navy: due sole unità in servizio (HMS Penzance e HMS Bangor) mentre altre 9 unità sono state accantonate (3) o cedute alle Marine di Romania (3) ed Estonia (3). Altri 3 cacciamine vennero costruiti negli amni ’90 per la Marina Saudita. La Marina Ucraina riceverà  i cacciamine Chemihiv (ex Grimsby) e Cerkasy (ex Shoream) .

Il trasferimento dei cacciamine avverrà mentre Londra sta lanciando la sua nuova coalizione sulle capacità marittime con Oslo, aveva aggiunto il governo britannico. “La nuova coalizione sulle capacità marittime rafforzerà il sostegno che il Regno Unito, la Norvegia e altri stanno fornendo all’Ucraina. Questo sarà a lungo termine per aiutare l’Ucraina a trasformare la sua Marina, rendendola più compatibile con gli alleati occidentali, più interoperabile con la NATO e rafforzando la sicurezza nel Mar Nero”, si leggeva nella nota.

Le capacità russe di colpire nuove eventuali unità navali ucraine avrebbe potuto scoraggiare l’invio di navi prima delle cessazione delle ostilità ma la decisione resa nota da Ankara di fatto impedisce a Kiev di ricevere unità navali che non siano piccole motovedette trasportabili via terra, finché il conflitto con la Russia sarà in corso.

Foto Marina Ucraina

Nulla da eccepire. Per quanto riguarda il caso dei cacciamine, la legge del potere marittimo non avrebbe lasciato il Bosforo nelle mani di un autocrate e, comunque, di un singolo stato, ma c’è il trattato di Montreux. Più in generale, ai confini della Turchia c’è una potenza globale, la politica di Ankara deve seguire i propri interessi e la sua alleanza è certa fin dove questa non li contrasta. In realtà, per la sua posizione strategica, per la sua sicurezza e per i suoi obiettivi, Erdoĝan non può rinunciare né alla NATO né all’amicizia di Mosca; inoltre, non dimentichiamo la sua partecipazione all’integralismo islamico. Partendo da questi assunti, chiederei a un caro amico eurodeputato se ancora se la sente di contare sulla fedeltà turca alla NATO in caso di guerra e mi risponderebbe di Sì, ma Voi?

Ecco la doppia mossa di Erdogan su Ucraina e Russia

Da Formiche.net, di Francesco De Palo, 03/01/2024 

Ecco la doppia mossa di Erdogan su Ucraina e Russia

Il presidente turco, sempre più impegnato geopoliticamente in una retorica anti-israeliana, chiude il passaggio attraverso il Bosforo. Ma dietro il Trattato di Montreux c’è il progetto di riposizionamento rispetto ai due conflitti (e al dopo)

C’è l’esigenza tattica di prepararsi ad una serie di possibili cambiamenti dietro la decisione turca di non restare passiva dinanzi a decisioni di altri paesi Nato? Il fil rouge che unisce Mosca ad Ankara, mai sopito, può essere ri-attivato periodicamente in base alle singole esigenze? E come questo comportamento di Recep Tayyip Erdogan potrà inserirsi nelle strategie dell’alleanza atlantica da un lato e dei super players come Russia e Cina dall’altro? La Gran Bretagna vuole sostenere l’Ucraina con due sminatori, ma le navi speciali per il momento non possono raggiungere il Mar Nero per il no della Turchia.

Lo stop

La cronaca racconta della decisione inglese di sostenere le difese di Kyiv tramite la consegna di due due cacciamine della Royal Navy alla Marina ucraina. Si tratta di battelli speciali che verrebbero impiegati per bonificare i fondali dalle mine posizionate dai russi, quindi una mossa che Londra ha inteso attuare nel solco della strategia occidentale di sostegno alla causa ucraina. Ma per il momento non potranno raggiungere il Mar Nero a causa dello stop imposto dalla Turchia: Erdogan ha deciso di rifiutare il passaggio attraverso il Bosforo, invocando il Trattato di Montreux. Il riferimento scelto dal governo turco è agli accordi internazionali sull’attraversamento degli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, che appartengono alla Turchia, in tempo di guerra.

La strategia

Non va dimenticato che la narrazione diffusa dal presidente russo Vladimir Putin riguardo alla guerra tra Israele e Hamas è basata sul fatto che l’Occidente sarebbe il principale responsabile di questo e di altri conflitti regionali, come appunto quello in Ucraina. Mosca insiste nel puntare il dito contro Washington sia per la guerra, sia per il fallimento del processo politico tra Israele e palestinesi: passaggio, questo, che porta in grembo tutta una serie di riflessioni su chi appoggia tali tesi.

La mossa turca sulle due dragamine inglesi rappresenta un ulteriore indizio circa la postura di Erdogan verso il conflitto in corso in Ucraina, mescolate all’altro macro tema che investe la rilevanza del mondo musulmano, unificato, nel far rispettare il nuovo ordine mondiale: tavolo in cui Erdogan è seduto a pieno titolo, come obiettivo dichiarato del suo mandato. Tra l’altro l’elemento che riguarda il ruolo del mondo musulmano a cavallo tra le due guerre è stato spesso utilizzato dal Cremlino per unire idealmente Ucraina e Gaza: il conflitto tra Israele e Hamas come parte della battaglia per il nuovo ordine mondiale, discorso che idealmente potrebbe toccare anche il rapporto tra Taiwan e Cina. E la posizione anti-israeliana assunta dalla Russia dal 7 ottobre si ritrova proprio nelle parole del leader turco.

Altra retorica

Ma non è tutto, perché la retorica turca è tornata a farsi sentire nei primi giorni dell’anno per voce del ministro della Difesa, Yasar Guler, che ha visitato la fregata Gekova in servizio nel Mediterraneo orientale in occasione del nuovo anno. Rivolgendosi all’equipaggio il ministro turco si è congratulato con queste parole: “Le nostre forze navali proteggono con determinazione i nostri diritti e interessi nella nostra Patria Blu, sventolano con onore la nostra gloriosa bandiera dall’Atlantico all’Oceano Indiano e intraprendere missioni internazionali.”

Il riferimento è alla Patria Blu, definizione geografica che aveva dato adito ad una serie di frizioni con i paesi vicini, in primis la Grecia e che invece i leader dei due paesi avevano promesso di stemperare in occasione della firma di uno storico accordo di amicizia tra Ankara e Atene. Il tutto mentre resta in piedi, da un lato, la questione della vendita dei caccia F-16 alla Turchia e, dall’altro, la decisione americana di finalizzare il trasferimento degli F-35 ad Atene: uno sviluppo che potrebbe creare non poche tensioni.

@FDepalo

5891.- Quale ruolo per l’Italia al G20 in India.

Scrive l’amb. Castellaneta

Da Formiche.net, di Giovanni Castellaneta | 09/09/2023 – 

Quale ruolo per l’Italia al G20 in India. Scrive l’amb. Castellaneta

Meloni potrebbe sfruttare l’attuale situazione internazionale per giocare un ruolo da equilibratore: Roma dovrebbe certamente sostenere l’idea di includere l’Unione africana, in vista della prossima presentazione del Piano Mattei del governo attesa a ottobre. Il commento di Giovanni Castellaneta, già consigliere diplomatico a Palazzo Chigi e ambasciatore negli Stati Uniti

Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, è volata in India affiancata dal suo sherpa, l’ambasciatore Luca Ferrari, per scalare e partecipare al summit G20 che si terrà oggi e domani.

Anche se, al posto di India, sarebbe meglio dire “Bharat” dato che il premier (e padrone di casa) Narendra Modi ha deciso di utilizzare in occasione del summit l’antico nome del Paese, che compariva già in antichissime iscrizioni sanscrite e che dunque precede di gran lunga il nome “India” attribuito dai colonizzatori britannici. Ancora non si sa se tale decisione è preludio all’adozione permanente del nome “Bharat”, ma è chiaro che questa azione – dal valore puramente simbolico – si inserisce nelle politiche nazionaliste adottate dal governo Modi. E invia anche un messaggio all’esterno, in linea con il “riscatto” del gigante asiatico nell’ambito del cosiddetto Global South.

In altre parole, il summit G20 di Nuova Delhi sarà l’occasione per vedere una nuova puntata dello scontro in atto tra Occidente (rappresentato in particolare dagli Stati Uniti) ed economie emergenti, peraltro a poche settimane dal vertice dei Brics in Sudafrica di cui l’India fa ovviamente parte. Tuttavia, le aspettative di spettatori e addetti ai lavori rischiano di essere deluse dalle annunciate defezioni di alcuni leader la cui assenza potrebbe ridurre fortemente l’impatto di questo G20. Il presidente cinese Xi Jinping, infatti, non parteciperà (anche a causa di recenti dispute di confine con l’India) delegando al suo posto il primo ministro Li Qiang (figura prestigiosa ma certamente non autorevole quanto il “padre padrone” della Cina). Stesso discorso per il leader russo Vladimir Putin, che anche in questa occasione (come l’anno scorso in Indonesia) non si farà vedere inviando il suo ministro degli Esteri, Serge Lavrov. Il presidente Joe Biden, che ha rischiato di rimanere negli Stati Uniti a causa del Covid contratto dalla moglie Jill, si troverà insomma senza “avversari” al suo livello: così, se da un lato potrà ribadire con più forza i messaggi chiave degli Stati Uniti – soprattutto di condanna dell’aggressione russa nei confronti dell’Ucraina –, dall’altro lato si perderà un’occasione di confronto e dialogo al più alto livello tra Washington e Pechino.

Che cosa attendersi dunque da questo summit? Per l’India – o Barhat che dir si voglia – si tratta di una grande occasione di visibilità internazionale e per rilanciare le proprie ambizioni a livello economico e geopolitico. Dopo essere stata una sorta di “promessa mancata” non riuscendo a imitare l’impressionante percorso di sviluppo compiuto dalla Cina, Nuova Delhi – che è diventata da poco la prima potenza demografica mondiale – è chiamata a recuperare il terreno perduto e a proiettarsi come la più importante economia emergente (dando per scontato che Pechino sia ormai una superpotenza a tutti gli effetti). Per questo motivo, uno dei pochi risultati concreti che ci si potrà aspettare dovrebbe essere l’aggiunta dell’Unione africana come nuovo membro permanente del G20: un segnale di apertura e inclusione verso un continente ancora scarsamente coinvolto nelle dinamiche multilaterali e sotto-rappresentato (a oggi infatti l’unico membro africano del forum è il Sudafrica). Vedremo inoltre se andrà in porto il tentativo degli Stati Uniti di accrescere il ruolo della Banca mondiale come principale prestatore multilaterale ai Paesi in via di sviluppo: anche in questo caso si tratta di un conflitto tra la strategia occidentale, che vede nelle istituzioni di Bretton Woods la pietra angolare per aiutare le economie più povere, e quella orchestrata dalla Cina che mira ad accrescere il ruolo della Nuova Via della Seta e della finanza denominata in yuan per contrastare la supremazia del dollaro.

Che ruolo potrebbe giocare l’Italia? Per Meloni si tratta del secondo G20, dopo la partecipazione al summit indonesiano dello scorso anno (certamente non passato alla storia). In questa occasione la presidente del Consiglio potrebbe sfruttare l’attuale situazione internazionale per giocare un ruolo da equilibratore: l’Italia dovrebbe certamente sostenere l’idea di includere l’Unione africana, in vista della prossima presentazione del Piano Mattei del governo attesa a ottobre. Un ruolo di questo tipo sarebbe certamente sostenuto dagli Stati Uniti, che hanno bisogno di alleati che si facciano maggiormente carico di aumentare la proiezione occidentale in regioni lontane dall’America e che vedono aumentare in maniera minacciosa l’influenza cinese e russa, come appunto l’Africa. Per l’Italia si potrebbe dunque aprire una finestra di opportunità importante che potrebbe offrirci un ruolo più autorevole e solido in un continente cruciale per la sicurezza e l’economia di tutta Europa.

5846.- Dalla NATO atlantica a quella contro la Cina

“La NATO esiste per risolvere i problemi creati dall’Alleanza Atlantica stessa.” E ora punta l’ennesimo nemico: la Cina (C.Johnstone)

C’era, anni fa, la Southeast Asia Treaty Organization (SEATO). Un’organizzazione di difesa per il sud-est asiatico nata con Dwight David Eisenhower e Foster Dulles, con il trattato di Manila del settembre 1954 e cessata il 30 giugno 1977. Comprendeva gli United States, France, Great Britain, New Zealand, Australia, the Philippines, Thailand and Pakistan, ma la Cina di oggi era lontana e anche il mondo multipolare. Oggi abbiamo lo scudo della NATO, ma senza la NATO non ci sarebbe nessuno a proteggere il mondo dalle conseguenze della NATO. Propongo un articolo di Caitlin Johnstone, che, benché datato, la dice tutta, in modo chiaro, sull’importanza di opporsi all’olocausto nucleare quale alternativa alla perdita dell’egemonia unipolare degli Stati Uniti. Il problema è che mentre Putin è sfuggito alle logiche suicide della grande finanza, diciamo americana, i nostri governi sono materialisti, asserviti e assolutamente inidonei e incapaci a immaginare un futuro in un mondo multipolare, diverso.

Dalla redazione de Il Faro di Roma, un articolo di mesi fa, sempre attuale. 04/12/2022

Poniamo il grassetto ai passaggi che riteniamo fondamentali. Dopo un preambolo sull’adesione dell’Ucraina alla NATO… Dave DeCamp di Antiwar scrive: “La città rumena era il luogo in cui la NATO aveva inizialmente fatto la promessa all’Ucraina nel 2008 e, all’epoca, i funzionari statunitensi hanno riconosciuto che il tentativo di portare il paese nell’alleanza avrebbe potuto scatenare una guerra nella regione”. 

“Abbiamo preso la decisione a Bucarest nel 2008 al vertice”, ha detto martedì il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg. “Ero lì… a rappresentare la Norvegia come Primo Ministro. Ricordo molto bene le decisioni. Sosteniamo queste decisioni. La porta della NATO è aperta”. In una dichiarazione congiunta, i ministri degli Esteri della NATO, incluso il Segretario di Stato Antony Blinken, hanno affermato di “riaffermare” le decisioni prese al vertice di Bucarest del 2008. Le precisazioni che l’entrata dell’Ucraina non è prevista nell’immediato ed esclusa in caso che il governo di Kiev (leggi la NATO) perda la Guerra, sono stratagemmi per evitare un confronto diretto e mantenere la Guerra per procura contro la Russia, facendola combattere prevalentemente agli ucraini. Resta tuttavia la volontà NATO di inglobare l’Ucraina, che compromette le necessarie garanzie di sicurezza nazionale per la Russia in un eventuale e auspicabile pace. 

È diventato di moda tra i principali commentatori occidentali affermare che l’invasione russa dell’Ucraina non ha avuto nulla a che fare con l’espansione della NATO, ma come recentemente spiegato da Philippe Lemoine per il Center for the Study of Partisanship and Ideology, questa è una narrazione completamente falsa che richiede un taglio. Molti esperti occidentali hanno avvertito con anni di anticipo che l’espansione della NATO avrebbe portato a un conflitto come quello che stiamo vedendo oggi, e ovviamente avevano ragione. 

La recente spinta ad espandere la NATO in Ucraina insieme a nazioni come la Finlandia e la Svezia come giustificato dall’”aggressione russa” è un buon esempio di ciò che il professor Richard Sakwa ha definito il “fatidico paradosso geografico: che la NATO esiste per gestire i rischi creati dalla sua esistenza .” 

Come spiegò il defunto studioso delle relazioni USA-Russia Stephen Cohen anni prima che scoppiasse la crisi ucraina nel 2014, Mosca vede la NATO come una “sfera di influenza americana” e l’espansione della NATO e dell’influenza della NATO come un’espansione di quella sfera. Mosca reagisce a questo con ostilità proprio come gli Stati Uniti reagirebbero alla Cina o alla Russia che costruiscono alleanze militari aggressive ai suoi confini, e probabilmente con molta più moderazione di quanto farebbero gli Stati Uniti. 

È probabile che altri futuri esempi del fatidico paradosso geografico di Sakwa includano la spinta a riconfigurare la NATO in un’alleanza dedita a “frenare” la Cina, il che ovviamente significa arrestare l’ascesa della Cina sulla scena mondiale e lavorare per balcanizzarla e distruggerla. Un recente articolo del Financial Times intitolato “Washington aumenta la pressione sugli alleati europei per rafforzare la posizione della Cina” fornisce nuovi dettagli a questo programma. 

Gli Stati Uniti stanno spingendo gli alleati europei a prendere una posizione più dura nei confronti di Pechino mentre cercano di sfruttare la loro leadership sull’Ucraina per ottenere maggiore sostegno dai paesi della NATO per i loro sforzi per contrastare la Cina nell’Indo-Pacifico. Secondo persone informate sulle conversazioni tra gli Stati Uniti e i loro alleati Nato, nelle ultime settimane Washington ha esercitato pressioni sui membri dell’Alleanza transatlantica affinché inasprissero il loro linguaggio sulla Cina e iniziassero a lavorare su azioni concrete per frenare Pechino. 

E siamo a dicembre 2022!

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha identificato la lotta alla Cina come il suo principale obiettivo di politica estera all’inizio della sua amministrazione, ma i suoi sforzi sono stati complicati dall’attenzione sull’invasione russa dell’Ucraina a febbraio. Ma con l’invasione del presidente russo Vladimir Putin giunta al suo decimo mese, Washington stava facendo uno sforzo concertato per spingere la Cina a rientrare nell’agenda della Nato, ha detto la gente. 

L’Organizzazione del Trattato del “Nord Atlantico” ha aggiunto la Cina alle sue preoccupazioni per la sicurezza per la prima volta lo scorso giugno 2021, e da allora ha assistito a una folle spinta da parte di Washington per intensificare le aggressioni contro Pechino. Un altro articolo del Financial Times intitolato “La NATO tiene i primi colloqui dedicati sulla minaccia cinese a Taiwan” descrive in dettaglio un incontro tra i membri dell’alleanza lo scorso settembre. « Hanno anche discusso di come la Nato dovrebbe rendere Pechino consapevole delle potenziali ramificazioni di qualsiasi azione militare – un dibattito che ha acquisito significato dopo l’invasione russa dell’Ucraina tra le domande sul fatto che l’Occidente fosse abbastanza duro nei suoi avvertimenti a Mosca ». 

Gli Stati Uniti hanno esortato gli alleati, in particolare in Europa, a concentrarsi maggiormente sulla minaccia a Taiwan, mentre crescono i timori che il presidente cinese Xi Jinping possa ordinare l’uso della forza contro l’isola. Alti ufficiali e funzionari militari statunitensi hanno lanciato diverse possibili tempistiche per l’azione militare, con alcuni desiderosi di aumentare il senso di urgenza per garantire che Washington e i suoi alleati siano preparati. Alcuni stanno notando che l’entusiasmo di Washington di “aumentare il senso di urgenza” su questo fronte può facilmente finire per avere un effetto provocatorio che funge da profezia che si autoavvera. 

Bonnie Glaser, direttrice del programma Asia presso il German Marshall Fund degli Stati Uniti, ha detto a Bloomberg un mese fa che la fretta di Washington di preparare tutti a un altro grande conflitto potrebbe “finire per provocare la guerra che cerchiamo di scoraggiare”. “La NATO dovrebbe essere ribattezzata ASFP: l’Alleanza per le profezie che si autoavverano”, ha twittato il commentatore Arnaud Bertrand delle discussioni dell’alleanza su Taiwan. 

“Un’alleanza difensiva non mira a litigare con un paese in un continente diverso”, ha twittato Branko Marcetic di Jacobin. “Questa è una classica missione insinuata dalla NATO – o, più precisamente, da Washington.” 

Quando ignori tutta la vuota confusione narrativa e la riduci davvero al linguaggio crudo del comportamento reale, l’esistenza della NATO sembra davvero basarsi sul ragionamento circolare secondo cui senza la NATO non ci sarebbe nessuno a proteggere il mondo dalle conseguenze della NATO. Il Patto Atlantico fa di tutto per minacciare nazioni potenti e poi giustifica la sua esistenza con le loro risposte a quelle minacce. È un cono gelato che si lecca da solo. 

E tutto questo sta accadendo quando viene fuori la notizia che le nazioni europee stanno iniziando a notare che stanno sostenendo molto di più del costo della guerra per procura di Washington in Ucraina rispetto agli Stati Uniti, mentre gli Stati Uniti raccolgono tutti i profitti. In un articolo intitolato “L’Europa accusa gli Stati Uniti di trarre profitto dalla guerra”, Politico riporta: « I massimi funzionari europei sono furiosi con l’amministrazione di Joe Biden e ora accusano gli americani di aver fatto fortuna con la guerra, mentre i paesi dell’UE soffrono. » « Il fatto è che, se lo guardi con sobrietà, il paese che trae maggior profitto da questa guerra sono gli Stati Uniti perché vendono più gas e a prezzi più alti, e perché vendono più armi », ha detto a POLITICO un alto funzionario. 

I commenti esplosivi – sostenuti in pubblico e in privato da funzionari, diplomatici e ministri altrove – seguono la crescente rabbia in Europa per i sussidi americani che minacciano di distruggere l’industria europea. La “Commissione geopolitica” e la Bruxelles ufficiale nel suo insieme apparentemente stanno imparando solo ora ciò che i critici hanno affermato fin dall’inizio: « l’America non ha amici o nemici permanenti, solo interessi » – Clare Daly – 30 novembre 2022 

Washington sta correndo rischi estremi e facendo arrabbiare gli alleati in questo momento perché sta arrivando il momento di fare o morire per quanto riguarda la conservazione dell’egemonia unipolare degli Stati Uniti. Come spiega Ted Snider di Antiwar in un recente articolo, la guerra per procura degli Stati Uniti in Ucraina non ha mai riguardato veramente l’Ucraina, e alla fine non ha nemmeno riguardato la Russia. Nel lungo periodo questa situazione di stallo ha sempre riguardato la Cina e la disperata campagna dell’impero statunitense per preservare il suo impareggiabile dominio su questo pianeta. 

“La guerra in Ucraina ha sempre riguardato obiettivi statunitensi più ampi”, scrive Snider. “Si è sempre trattato dell’ambizione americana di mantenere un mondo unipolare in cui fossero l’unica potenza polare al centro e in cima al mondo. Gli eventi in Ucraina nel 2014 hanno segnato la fine del mondo unipolare dell’egemonia americana”, afferma Snider. “La Russia ha tracciato la linea e si è affermata come un nuovo polo in un ordine mondiale multipolare. Ecco perché la guerra è “più grande dell’Ucraina”, secondo le parole del Dipartimento di Stato. È più grande dell’Ucraina perché, agli occhi di Washington, è la battaglia per l’egemonia degli Stati Uniti”. 

“Se l’Ucraina riguarda la Russia, la Russia riguarda la Cina”, scrive Snider. “Il ‘problema Russia’ è sempre stato che è impossibile affrontare la Cina se la Cina ha la Russia: non è auspicabile combattere entrambe le superpotenze contemporaneamente. Quindi, se l’obiettivo a lungo termine è prevenire una sfida al mondo unipolare guidato dagli Stati Uniti dalla Cina, la Russia deve prima essere indebolita”. 

Snider cita Lyle Goldstein, professore in visita presso la Brown University, che afferma che “Per mantenere la sua posizione egemonica, gli Stati Uniti sostengono l’Ucraina per intraprendere una guerra ibrida contro la Russia… Lo scopo è colpire la Russia, contenere l’Europa, rapire gli “alleati”, e minacciare la Cina”. 

Man mano che il mondo diventa più multipolare il controllo totale sembra sempre meno probabile, l’impero americano sta combattendo sempre più come un pugile negli ultimi round che è rimasto in classifica per l’intero combattimento: assumendosi più rischi, lanciando fienili selvaggi, preferendo la possibilità di una sconfitta per KO al certezza di perdere una decisione. 

Siamo al punto più pericoloso della relazione violenta dell’umanità con il dominio unipolare degli Stati Uniti. L’impero è disposto a fare cose terribili e rischiose per mantenere il controllo. “Se non posso averti, nessuno può” è una frase che si può dire a una moglie o al mondo. L’importanza di opporsi a questi megalomani e ai loro giochi di pollo nucleare non è mai stata così alta. 

Caitlin Johnstone per http://www.zerohedge.com

5788.- Occidente contro tutti: effetto-boomerang della linea Biden

Cari Neocon,

la scelta di puntare sul partito democratico e sul candidato Joe Biden, già lesso, ha determinato la fine del primato dell’Occidente. Ormai la Cina è già avanti. Se vincesse Donald Trump dovrebbe battersi in ritirata, a meno di un abbraccio Trump -Putin. Per ora, arrivederci a Johannesburg. 

L’iper-atlantismo di USA, Nato, G7 e UE che ha generato la linea di scontro frontale con la Russia, sta coalizzando tutti i Paesi emergenti almeno in una opposizione chiara ai disegni dei Paesi occidentali. E la Cina emerge sempre più come il Paese catalizzatore.

Da La Nuova Bussola Quotidiana, 17.07.2023. Di Eugenio CapozziI presidenti cinese e russo - Xi e Putin - nel vertice del marzo scorso

Fino a poco tempo fa gli entusiasti cantori della linea di scontro frontale con la Russia tenuta dall’amministrazione Biden, dalla Nato, dal G7, dall’Ue rispetto alla crisi ucraina continuavano a storcere la bocca beffardamente, con aria di superiorità e di commiserazione, davanti a osservatori meno entusiasti e più preoccupati di loro. Preoccupati perché indicavano come questa linea (sostegno militare senza riserve e senza nessun compromesso all’Ucraina, sanzioni durissime a Mosca) non soltanto non guadagnasse alcuna adesione da parte di paesi non alleati, ma al contrario stesse allontanando sempre più dall’Occidente molti paesi del “Sud globale” – compresi alcuni di rilevante peso precedentemente vicini, come India, Sudafrica, Brasile e altri latinoamericani – e stesse sempre più rafforzando la posizione di potenza della Cina. Non solo, il processo vedeva formarsi intorno all’organizzazione dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) un embrione di coalizione multinazionale potenzialmente alternativa e ostile rispetto alle democrazie liberali di mercato di area Nato e G7.

Quei baldanzosi osservatori ultra-atlantisti sostenevano che l’impressione di un isolamento occidentale era sbagliata, frutto della propaganda russa e di una valutazione distorta della situazione. In realtà, secondo loro, l’appoggio cinese a Mosca era solo di facciata, perché Pechino avava bisogno assoluto dei mercati occidentali e presto avrebbe costretto Putin a più miti consigli; l’India si sarebbe presto o tardi aggregata alle posizioni occidentali allentando i legami con la Russia per non favorire la Cina, sua rivale geopolitica principale; i Brics avrebbero continuato a essere un nano politico, internamente minati da divisioni invalicabili.

Ora, indubbiamente non siamo ancora alla nascita di qualcosa di simile al Patto di Varsavia, e nemmeno al Fronte dei Paesi non allineati. E la nuova guerra fredda nata con la bipolarizzazione tra Stati Uniti e Cina rimane a un livello strisciante, tra picchi di tensione (su Taiwan e l’Indo-Pacifico) e consultazioni diplomatiche, aspirazioni al decoupling e persistente interdipendenza economica e tecnologica. Tuttavia, a ormai quasi un anno e mezzo dallo scoppio del conflitto russo-ucraino, i segnali del consolidamento di una situazione che potremmo definire di “Occidente contro resto del mondo” sono sempre più numerosi, evidenti e correlati, e non si individua pressoché alcun indicatore in direzione inversa.

Soltanto nelle ultime settimane se ne sono accumulati molti, su cui, come ormai avviene regolarmente dall’inizio della guerra, il sistema mediatico occidentale, tranne limitate eccezioni tarato ormai su una propaganda a reti unificate, ha fatto calare un imbarazzato silenzio. Ne elenchiamo qui di seguito alcuni. A fine giugno il primo ministro indiano Narendra Modi, incontrando il presidente Joe Biden a Washington, pur stipulando importanti accordi di collaborazione con gli Stati Uniti in campo tecnologico e militare, si è rifiutato ancora una volta (come aveva fatto in occasione della riunione del forum Quad, che unisce Washington, Nuova Dehli, Australia e Giappone) di condannare l’invasione russa o di aderire alle sanzioni contro Putin. I Paesi aderenti alla Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (Celac) in preparazione al vertice tra l’organizzazione e i leader dell’Ue che si terrà oggi e domani (17 e 18 luglio) a Bruxelles hanno respinto la bozza preparatoria inviata dagli europei, chiesto di espungere dalla stessa qualunque presa di posizione unilaterale sulla guerra e posto con decisione il veto all’invito all’incontro del presidente ucraino Volodymir Zelensky.

In vista dell’importante vertice dei Brics che si terrà a Johannesburg dal 22 al 24 agosto, il governo sudafricano guidato da Cyril Ramaphosa, pur aderendo alla convenzione Onu sul tribunale internazionale contro i crimini di guerra, si è rifiutato di dare corso al mandato di arresto pendente contro Wladimir Putin, se questi deciderà di essere presente alla conferenza. Intanto, negli ultimi mesi le richieste di adesione all’organizzazione, sempre più caratterizzata da un profilo apertamente politico di sfida alle politiche occidentali, si sono moltiplicate: aspirano a far parte del forum ben 20 paesi del Medio Oriente, dell’Africa, del Maghreb, del Sudamerica, tra cui Argentina, Indonesia, Nigeria, Etiopia, Iran, e soprattutto Arabia Saudita: Paese tradizionalmente vicino all’Occidente, che dopo gli “Accordi di Abramo” siglati sotto la guida di Trump con Israele, nel marzo scorso ha firmato un’intesa con l’Iran, precedentemente suo nemico numero uno, con la mediazione della Cina.

Infine – notizia degli ultimi giorni – Pechino ha annunciato che alle prossime esercitazioni militari che il suo esercito terrà nel Mar del Giappone (dall’intento esplicitamente intimidatorio contro possibili tentativi di freno da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati, Giappone in primis, di frenare le sue ambizioni egemoniche sulle coste del Pacifico) parteciperanno anche truppe russe. In questo modo si dà seguito concreto e, per gli americani, assai preoccupante a quella “alleanza senza fine” finora non smentita in nessuna sede, nonostante le aspettative di molti osservatori occidentali.

Il tutto in un quadro caratterizzato dall’ormai evidente fallimento totale delle sanzioni anti-russe, che hanno prodotto una vera e propria esplosione delle esportazioni di greggio da parte di Mosca verso Cina, India e paesi latinoamericani, con relativo aggiramento totale dei divieti attraverso triangolazioni da parte di altre nazioni. Insomma, non esiste ancora una “cortina di ferro” tra Occidente e “Sud globale” al seguito di Pechino, con annessione del “satellite” russo, ma sicuramente siamo già di fronte a un vero e proprio “muro di gomma”, sul quale vanno ormai regolarmente a rimbalzare i tentativi degli Stati Uniti, dei loro alleati, dell’Unione europea di attrarre il resto del mondo nella loro orbita e di indirizzarne le scelte politiche ed economiche.

E proprio la strategia aggressiva varata dall’Occidente contro la Russia dal febbraio 2022 ha ottenuto un clamoroso effetto boomerang, fornendo una grande spinta all’aggregazione e collaborazione tra tutti i paesi che non intendono conformarsi all’egemonia occidentale. È nato “un mondo contro”, come lo ha denominato uno studioso di geopolitica non certamente anti-occidentale come Dario Fabbri nel pregevole numero monografico recentemente dedicato al fenomeno dalla sua rivista Domino. Uno schieramento ancora in gran parte virtuale, ma già solidamente esistente nella mente, nei pensieri, nei sentimenti di coloro che ne sono attratti: animati da un latente, e oggi risorgente, spirito di rivincita anticolonialista, sostenuto dalla convinzione di avere il tempo, i numeri, le forze dalla propria parte.

Ci sarebbero molti elementi per interrogarsi serimanete sugli esiti dell’”iper-atlantismo” a base di anabolizzanti incessantemente spacciato da tutto l’establishment occidentale da 15 mesi. Ma sospettiamo che ancora una volta ciò non avverrà, e che si continuerà con le parole d’ordine ideologiche ad oltranza, fino a quando la realtà busserà alla porta con colpi talmente forti da sfondarla.

5782.- Biden il guerrafondaio sfida Putin alla guerra nucleare, ma in Europa.

Ci porta dritti, dritti alla guerra atomica. Questo non è un alleato. Siete disposti a crepare per lui? Ecco il risultato dell’appecoronamento degli europei a Vilnius. Questo ….. americano destina altri 3.000 soldati in Europa al fine di “rafforzare la sicurezza europea” – dice – e ne ha già più di 100.000; dà a Kiev le bombe a grappolo, che soltanto USA, Ucraina e Russia non hanno vietato; invita all’invio di caccia F-16 all’Ucraina, che Putin non vuole; preme con la NATO sulle frontiere russe.

L’Italia è occupata. Ospita più di 110 basi e 20.000 militari USA: ad Aviano, i loro F-16V e, tra Aviano, Ghedi, Pisa e Sigonella, più di un centinaio di testate nucleari … e saremmo alleati! C’è solo da sperare che la Federazione Russa colpisca per prima e non in Europa. Fack Biden! Viva Trump!

Svolta sugli F-16: cade il veto Usa sui caccia occidentali

Da Insideover, di Federico Giuliani , 19 MAGGIO 2023

Via libera degli Stati Uniti agli alleati europei per l’invio dei caccia F-16 all’Ucraina. L’amministrazione guidata da Joe Biden avrebbe comunicato di non opporsi ad un eventuale trasferimento a Kiev dei suddetti jet, in dotazione a varie nazioni dell’Europa. L’indiscrezione, riportata dalla Cnn, è emersa da fonti della delegazione Usa presenti al G7 in corso a Hiroshima in Giappone. 

La mossa della Casa Bianca arriva nel momento in cui l’amministrazione statunitense sta subendo pressioni da parte di Democratici e Repubblicani per aiutare Volodymyr Zelensky a procurarsi aerei in una fase delicata della guerra, mentre gli attacchi russi danno l’impressione di intensificarsi. 

Eppure, fino a poche ore fa, Washington dava l’impressione di essere molto scettica in merito al dinamismo europeo mostrato, in particolare, dal primo ministro britannico, Rishi Sunak, e dal leader olandese, Mark Rutte. Direttamente da Londra, i due leader hanno infatti lanciato una coalizione internazionale per aiutare il governo ucraino a procurarsi gli aerei da combattimento F-16. 

Un’iniziativa rilevante, ma che si sarebbe rivelata inutile senza la fumata bianca di Biden, visto che i jet in questione sono prodotti da Washington, e che i Paesi che li hanno in dotazione (25, per un totale di circa 3mila velivoli) devono ricevere l’autorizzazione Usaprima di trasferirli, eventualmente, all’Ucraina.

La decisione degli Usa su gli F-16

A quanto pare, l’azione congiunta di vari Paesi europei sugli Stati Uniti ha dato i suoi frutti. Washington, autorizzando l’invio degli F-16 all’Ucraina, ha così superato un’altra delle linee rosse che Biden aveva tracciato per evitare una escalation del conflitto. Come se non bastasse, questa mossa è rilevante perché la tecnologia a bordo di questi jet è di fabbricazione americana. 

Nel frattempo, un portavoce del dipartimento della Difesa Usa consultato dal sito Politico ha dichiarato che la Casa Bianca, pur avendo escluso l’invio diretto di aerei da combattimento a Kiev, non si opporrebbe a iniziative in tal senso da parte di Paesi terzi.

Altri passi in avanti potrebbero essere fatti nell’addestramento dei piloti. Secondo quanto riportato da Yahoo News, che ha ottenuto in esclusiva una valutazione interna dell’aeronautica americana, servirebbero solo quattro mesi per addestrare i piloti ucraininell’utilizzo dei caccia F-16, e cioè un lasso di tempo molto più breve di quanto immaginato in un primo momento. 

Il documento conterrebbe una valutazione dettagliata effettuata alla fine di febbraio e all’inizio di marzo presso la Morris Air National Guard Base di Tucson, in Arizona, sede del 162esimo Stormo della US Air Force.

Un F-16 Falcon americano ripreso da una cisterna volante nel 2023. Foto: Daniel Asselta/Us Air Force. 

Le ragioni dell’incertezza

Ci si potrebbe chiedere per quale motivo gli Stati Uniti abbiano cambiato idea sull’invio degli F-16 a Kiev soltanto adesso. L’analista militare Tom Cooper elenca alcune ragioni. 

Innanzitutto, tra le varie analisi, c’è da fare un discorso economico, visto che, a seconda del loro equipaggiamento, gli F-16 revisionati costano 30-40 milioni di dollari ciascuno, mentre un’ora del loro tempo di volo si aggira sui 40-70mila dollari. Sono poi stati concepiti per essere utilizzati con il supporto di agenzie di intelligence e altri supporti, senza i quali la loro utilità rischia di essere ridimensionata. 

Certo è che l’obiettivo dell’Ucraina consiste nel rafforzare il suo sistema di protezione aerea. E gli F-16, agli occhi di Kiev, risultano i mezzi più ideali, visto che sono in grado di intercettare i missili russi o effettuare attacchi mirati.

Sono anche vettori delle bombe nucleari all’idrogeno B-61-12. Attualmente i paesi europei parte del sistema di condivisione nucleare dell’Alleanza Atlantica – Germania, Belgio, Italia, Paesi Bassi e Turchia (?) – ospitano sul loro territorio le testate B61-12.

Fonte immagine: https://www.voltairenet.org/article193231.html

Ad ottobre il piano di sostituzione degli ordigni nucleari statunitensi in Europa è stato accelerato. Le bombe aggiornate dovrebbero già essere state consegnate. ra capite perché gli Stati Uniti le vogliono stanziare in Europa.

Ricordiamo, infine, che Washington e altri Paesi della Nato hanno progressivamente inviato a Zelensky razzi guidati, droni, carri armati, blindati e da ultimo missili a lungo raggio inglesi e francesi. Adesso potrebbe presto arrivare la volta degli F-16.

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L’ordine firmato dal presidente Biden è rimane rilevante perché designa per la prima volta l’”Atlantic Resolve” come un’operazione di emergenza, il che consente al Pentagono di richiamare riservisti e fornire con maggiore velocità assistenza e materiale alle truppe impiegate in Europa.  Già il 29 giugno 2022, il presidente Usa Biden aveva annunciato un rafforzamento delle operazioni militari statunitensi in Europa in occasione del summit di Madrid. Un impegno generale che ha interessato le operazioni di Washington in Polonia, Romania, Paesi baltici, Spagna, Regno Unito, Germania e Italia. Ripeto ITALIA.

Attenzione: Le squadre di combattimento della brigata corazzata Abct, assegnate ad Atlantic Resolve, non sono integrate come parte della Enhanced Forward Presence della Nato, in Polonia o negli Stati Baltici, dipendono direttamente dal Pentagono, quindi non sono forze controllate dal Comando europeo degli Stati Uniti (Eucom)”.

Lavrov: “Gli F-16 saranno considerati una minaccia nucleare”

Il ministro degli Esteri Russo lancia un messaggio agli Usa, sulla possibile fornitura all’Ucraina di aerei da combattimento in grado di trasportare anche armi nucleari. E all’indomani del vertice di Vilnius, fa sapere: Mosca risponderà “con tutti i mezzi” alle “minacce della Nato . Zelensky: ” Kiev più vicina che mai all’Alleanza, ma dovrà vincere la guerra”tempo di lettura: 3 min

Da AGI, di Luca Mariani, aggiornato il 13 luglio 2023

ucraina lavrov caccia f16 possono avere armi nucleari
© John Lamparski / NurPhoto / Afp 
– Sergey Lavrov 

AGI – Il fatto stesso della comparsa in Ucraina di caccia F-16 in grado di trasportare armi nucleari sarà considerato dalla Russia come una minaccia dall’Occidente in ambito nucleare. Lo ha affermato il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov in un’intervista al quotidiano Lenta.ru. La notizia è rilanciata dalla Tass.

“Un esempio di sviluppo estremamente pericoloso è il piano degli Stati Uniti di trasferire aerei da combattimento F-16 al regime di Kiev. Abbiamo informato le potenze nucleari di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia che la Russia non può ignorare la capacità di questi aerei di trasportare armi nucleari armi. L’Ucraina sarà considerata da noi come una minaccia dall’Occidente nella sfera nucleare”, ha sottolineato Lavrov.

Per Lavrov gli Stati Uniti e i suoi satelliti Nato creano il rischio di uno scontro armato diretto con la Russia, che è irto di “conseguenze catastrofiche”. In Occidente, secondo Lavrov, stanno intraprendendo azioni che costringono ripetutamente la Russia a sottolineare i rischi di natura strategica, che sono generati da un’aggressiva politica anti-russa.

ucraina lavrov caccia f16 possono avere armi nucleari
F16 (Afp) 

Per Lavrov “la Russia condivide molte delle proposte dei partner per una soluzione in Ucraina, ma l’Occidente e Kiev rifiutano qualsiasi iniziativa di pace. Condividiamo molte delle proposte dei nostri partner. Ad esempio, come rispettare il diritto internazionale e la Carta delle Nazioni Unite, abbandonare la mentalità della guerra fredda, risolvere la crisi umanitaria, garantire la sicurezza delle centrali nucleari, porre fine alle sanzioni unilaterali, rifiutare l’uso dell’economia mondiale per scopi politici. Il regime di Kiev ha rifiutato direttamente e immediatamente la possibilità di negoziati basati su iniziative di pace proposte da Cina, Brasile e paesi africani”, ha affermato Lavrov.

Secondo il capo del ministero degli Esteri russo, Mosca ha studiato “molto attentamente” tutte le iniziative di pace ricevute. “Abbiamo tenuto consultazioni speciali con un certo numero di partner, discusso le loro idee in dettaglio. A metà giugno, a San Pietroburgo, il presidente Vladimir Putin ha ricevuto i capi di diversi stati africani. Abbiamo avuto un colloquio significativo con l’assistente del presidente del Brasile per gli affari internazionali Celso Amorim, che ha visitato la Russia a fine marzo”, ha aggiunto il ministro russo.

Tuttavia, come ha sottolineato Lavrov, a Kiev non hanno trovato niente di meglio che “chiedere prove di affidabilità a coloro che vorrebbero diventare un mediatore nel processo negoziale. In particolare, il ministro della Difesa ucraino Oleksiy Reznikov ha chiesto alla Cina di convincere la Russia a ritirare le sue truppe dall’Ucraina. Altrimenti, i contatti con i negoziatori cinesi sarebbero, secondo questa figura di Kiev, una perdita di tempo”, ha detto Lavrov.

Putin: “Colpiremo le basi F-16 anche fuori dall’Ucraina”

Di: Redazione Metronews

Colpiremo basi

Il presidente Vladimir Putin ha lasciato intendere che le forze russe potrebbero colpire eventuali basi degli F-16 destinati a Kiev, anche fuori dai confini ucraini.

Se i jet, «saranno in basi fuori dall’Ucraina, vedremo cosa fare di queste basi, come colpirle», ha minacciato Putin parlando al Forum di San Pietroburgo. «Esiste un rischio significativo per la Nato di essere trascinata ulteriormente nel conflitto», ha aggiunto. Riguardo alle forniture occidentali di F-16 all’Ucraina, uno dei temi è individuare basi sicure per il loro decollo, l’atterraggio ed eventuale riparazione, mentre diversi aeroporti ucraini sono stati bombardati dalla Russia. A volte viene menzionata l’idea di stazionare questi aerei nelle basi dei Paesi confinanti, parte dell’alleanza a sostegno di Kiev. «Certamente, la Nato è coinvolta nella guerra in Ucraina. I suoi carri armati, i Leopard bruciano e bruceranno anche gli F-16», ha aggiunto il presidente russo.

Caccia F-16

“Colpiremo basi F-16 ovunque”

«Distruggere un qualsiasi edificio al centro di Kiev non costa nulla, ma non lo facciamo per una serie di considerazioni». Il monito ulteriore arrivato da Putin nel suo intervento a San Pietroburgo. Commentando gli attacchi ucraini sul territorio russo, compresi i droni sul Cremlino a Mosca, Putin li ha definiti come «tentativi di provocare gravi azioni di ritorsione da parte della Russia». «Se abbiamo distrutto cinque complessi Patriot vicino Kiev, cosa ci costa distruggere un qualsiasi edifico o infrastruttura a Kiev?», ha aggiunto. E in effetti sulla capitale ucraina si è scatenato un massiccio attacco. «Così la Russia ha voluto salutare la delegazione africana, arrivata proprio oggi in missione diplomatica a Kiev – ha detto Dmytro Kuleba, ministro degli Esteri ucraino – Putin sta “costruendo fiducia” lanciando il più grande attacco missilistico su Kiev nelle ultime settimane, proprio sullo sfondo della visita dei leader africani nella nostra capitale». La missione vede le delegazioni di sei paesi – Zambia, Senegal, Congo-Brazzaville, Uganda, Egitto e Sudafrica – in visita prima a Kiev e poi a Mosca.

5723.- Basta con lo show del clown ucraino!

Le terre di confine: ucraine, così dette in russo, non sono l’espressione di un popolo radicato su un territorio con le sue affinità, tradizioni, leggi, religione; ma sono state erette in uno Stato da Lenin, Stalin e Kruscev. Questo Stato illegittimo, questa accozzaglia di popoli, è divenuta funzionale agli obiettivi dei neocon di Washington, da sempre, un Partito della Guerra. Sono loro il vero responsabile dei quasi 300 mila morti, comunque europei, di questa guerra, più americana che europea.

La soluzione adottata da Putin, sarebbe di liberare dall’Ucraina le popolazioni russofone delle Repubbliche autonome del Donbass e quelle del Mar Nero sotto un protettorato della Russia, che potrebbe chiamarsi Novorossiya. Ma i finanzieri massoni socialisti globalisti, molto poco americani, sono determinati a mantenere in funzione anti-russa l’Ucraina così com’è, a qualsiasi costo, compreso quello di arrivare all’orlo di una guerra nucleare.

Sarà un caso che, a febbraio 2022 e prima dell’Operazione speciale, il presidente Putin aveva vietato con decreto l’ingresso nella Federazione russa a qualsiasi membro della famiglia Rothschild. Mario Donnini

Basta con lo show del clown ucraino!

Dal blog di Sabino Paciolla, 27 Giugno 2023.

Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog l’articolo scritto da David Stockman e pubblicato su Ron Paul Institute. Visitate il sito e valutate liberamente le varie opzioni offerte e le eventuali richieste. Ecco l’articolo nella mia traduzione. https://www.youtube-nocookie.com/embed/GXTmZbxu19k

A dire il vero, ci stiamo stancando del piccolo pisc…… (beep!, ndr)  che dirige il bacino di corruzione, tirannia, illusione e morte chiamato Ucraina. Questo pagl…… (beep!, ndr) – e questo è il suo vero nome – non riesce a smettere di chiedere a gran voce soldi, armi e sostegno al resto del mondo e di insegnare a tutti a mettersi in riga o altrimenti.

Ai tempi in cui era un vero clown, Volodymyr Zelensky era noto per il numero che segue. Ma quando si tratta dell’Occidente collettivo, quest’ultimo sembra apprezzare il fatto che il presidente ucraino continui a sbatterci contro, scandendo senza sosta una melodia di io, io e ancora io.

Ma ultimamente Zelensky ha davvero esagerato, spacciando l’orrenda balla che se non gli permettiamo di combattere “loro” laggiù con tutto ciò che chiede in termini di denaro e armi, presto moriremo dissanguati contro “loro” qui.

Questa è l’assurdità del “Putin invaderà l’Europa e forse anche l’America”. È un’idiozia senza fondamento, eppure Washington lo tratta come un coraggioso alleato e statista:

“Se un candidato pensa che sostenere l’Ucraina sia troppo costoso, è pronto ad andare in guerra? Sono pronti a combattere? A mandare i loro figli? A morire?”. Ha detto Zelensky. “Dovranno farlo comunque se la NATO entrerà in questa guerra, e se l’Ucraina fallirà e la Russia ci occuperà, si sposteranno nei Baltici o in Polonia o in qualche altro Paese della NATO. E allora gli Stati Uniti dovranno scegliere se mantenere la NATO o entrare in guerra”.

Veniamo al dunque. Nessun soldato americano o della NATO combatterà contro l’esercito di Putin in Polonia, a Berlino o in Belgio, perché l’esercito russo non ci andrà. Neanche tra un mese di domenica.

Vlad Putin non è un principe degli uomini, ma i suoi obiettivi di guerra sono limitati, razionali e chiari come una campana. Per esempio, come ha avvertito per 15 anni, non vuole i missili della NATO alle sue porte in Ucraina, proprio come il Presidente Kennedy insistette sui missili di Kruscev a 100 miglia di distanza a Cuba 61 anni fa.

Allo stesso modo, vuole che le popolazioni russofone della regione orientale del Donbas e del Mar Nero, storicamente note come “Novorossiya” o Nuova Russia, abbiano un’autonomia di governo e una protezione dagli attacchi militari del governo anti-russo di Kiev, come previsto dagli accordi di Minsk. Dopo tutto, questi brutali attacchi, che hanno ucciso più di 14.000 persone, per lo più civili, si sono verificati quasi ininterrottamente per otto anni dopo il colpo di Stato del Maidan, sponsorizzato da Washington, del febbraio 2014. Quest’ultimo aveva installato elementi ostili proto-nazisti nel governo illegale e non eletto istituito a Kiev da Victoria Nuland e dalla sua banda di egemonisti neocon di Washington.

In altre parole, si tratta di una guerra civile scatenata da Washington in un’area che da secoli è vassalla o appendice della Russia e dove il termine “Ucraina” in russo significa “terre di confine”.

E questa non è nemmeno la metà. I confini di queste stesse “terre di confine” non definiscono una nazione o uno Stato che è stato il prodotto di uno sviluppo naturale e di un accrescimento nel corso dei secoli. Al contrario, sono un artefatto del XX secolo creato da tre dei tiranni più sanguinari di tutta la storia dell’umanità: Lenin, Stalin e Kruscev. L’unico collegamento che questi confini, delineati in nero, hanno con la storia dell’area è che sono stati tracciati per ragioni di convenienza amministrativa totalitaria, non come espressione di affinità sociali, etniche, religiose o economiche.

In altre parole, l’Ucraina è uno Stato che non è stato costruito per durare e, di fatto, è sopravvissuto a malapena ai suoi governanti sovietici dopo la loro caduta nel 1991. Per esempio, durante le elezioni presidenziali del 1994 il candidato filorusso Leonid Kuchma ha sconfitto il candidato in carica e strenuo nazionalista ucraino Leonid Kravchuk.

Come mostra la mappa sottostante, tuttavia, Kravchuk ha ottenuto maggioranze schiaccianti dell’89-95% nelle regioni dell’Ucraina occidentale (giallo e arancione), che storicamente avevano fatto parte della Polonia o del Commonwealth polacco-lituano. Allo stesso modo, il filorusso Kuchma ha vinto le elezioni nazionali perché ha ottenuto le stesse maggioranze preponderanti (aree blu) nelle regioni orientali del Donbas e della Novorossiya meridionale. Nella storica provincia russa (dal 1783) della Crimea, infatti, Kuchma ha ottenuto il 90% dei voti.

Mappa elettorale delle elezioni presidenziali del 1994 in Ucraina:

In sostanza, la stessa spaccatura radicale dell’elettorato si è verificata elezione dopo elezione. Durante l’ultima elezione legittima tenutasi all’interno dei vecchi confini comunisti del Paese nel 2010, lo schema sopra descritto è stato replicato. Questa volta il pupillo di Kuchma, Viktor Yanukovich, ha vinto le elezioni per un soffio, grazie a margini sbilanciati nei territori storici russofoni dell’est e del sud (aree blu della mappa).

Dall’altra parte, la nazionalista ucraina ed ex primo ministro, Yulia Tymoshenko, ha ottenuto margini dell’80-90% nel centro e nell’ovest (aree rosse della mappa).

Non sorprende che, quando il vincitore filorusso delle elezioni nelle regioni blu è stato estromesso da Washington nel febbraio 2014, i nazionalisti ucraini dell’area rossa e i loro alleati cripto-nazisti abbiano preso il controllo del governo di Kiev e abbiano proceduto a mettere fuori legge la lingua russa come primo atto di governo; poco dopo hanno lanciato la guerra armata quando le due province del Donbas si sono dichiarate Stati indipendenti.

Alla fine dei conti, il candidato presidenziale del GOP Ron DeSantis (Governatore della Florida, USA, ndr) aveva esattamente ragione. La guerra in Ucraina è in fondo una “disputa territoriale” che non ha assolutamente nulla a che fare con la sicurezza interna dell’America o con la ridicola bugia di Zelensky secondo cui Putin se la prenderà con la NATO.

E certamente non ha alcuna attinenza con astrazioni assurde come lo Stato di diritto e la sacralità dei confini. Dopo tutto, quando si tratta di questi ultimi, Washington è di gran lunga il più grande fuorilegge del dopoguerra che viola i confini e cambia regime.

In un certo senso, la conferenza di pace del dopoguerra si è già tenuta e il verdetto è stato emesso. Ci riferiamo ai referendum ucraini de facto sullo Stato illegittimo che Lenin, Stalin e Kruscev hanno costruito e che i neocon di Washington e il Partito della Guerra sono determinati a mantenere a qualsiasi costo, compreso quello di arrivare all’orlo di una guerra nucleare con la Russia.

Più volte l’elettorato ucraino ha effettivamente votato per la spartizione, come drammaticamente sottolineato dalle mappe elettorali sopra riportate.

Quindi, rimandate Zelensky al suo spettacolo comico e lasciate che gli Stati blu dell’est e del sud dell’Ucraina abbiano i loro Paesi o tornino nel seno della Madre Russia, da cui queste comunità sono emerse durante il XVIII e il XIX secolo.

Questo porrebbe fine alla carneficina in un batter d’occhio e fermerebbe il massacro insensato di ucraini e russi – una catastrofe umana che comincia a rivaleggiare con l’efferata criminalità della guerra di trincea della Prima Guerra Mondiale.

La pace implicita della spartizione, tuttavia, avrebbe un ulteriore aspetto positivo. Smaschererebbe l’assoluta mendacità del Partito della Guerra di Washington e il fatto che è così disperato di governare il mondo che sosterrà persino dei perfetti idioti come Zelensky per continuare a combattere mostri falsamente demonizzati che non sono affatto una minaccia per la reale sicurezza interna dell’America.

Come abbiamo indicato di recente, è ora di tornare a una politica di difesa della Fortezza America, che potrebbe essere finanziata con una frazione degli attuali 900 miliardi di dollari per la difesa. E non dovremmo nemmeno sprecare il nostro tesoro nazionale con idioti inutili come Zelensky.

David Stockman

David Stockman è stato per due mandati deputato del Michigan. È stato anche direttore dell’Ufficio di gestione e bilancio sotto il presidente Ronald Reagan. Dopo aver lasciato la Casa Bianca, Stockman ha avuto una carriera ventennale a Wall Street. È autore di tre libri, Il trionfo della politica: Perché la rivoluzione di Reagan è fallita, La grande deformazione: La corruzione del capitalismo in America, TRUMPED! Una nazione sull’orlo della rovina… e come riportarla indietro, e il recente Great Money Bubble: Protect Yourself From The Coming Inflation Storm. È anche il fondatore del David Stockman’s Contra Corner e del David Stockman’s Bubble Finance Trader.