Archivio mensile:gennaio 2024

6201.- PIANO MATTEI, AFRICA E INDO PACIFICO

Il Piano Mattei è per l’Occidente soltanto il primo scalino da salire, ma si deve essere forti e uniti, gli italiani per primi. Quanto ci penalizza la guerra alla Federazione Russa?

Da Formiche.net, a cura di Emanuele Rossi, 31 gennaio 2024

I Paesi dell’Indo-Pacifico hanno seguito attentamente gli sviluppi della Conferenza Italia-Africa, che Roma ha ospitato domenica 28 gennaio e lunedì 29. Il cosiddetto “Piano Mattei”, quale programma guida per una serie di progetti italiani nel continente africano, suscita notevole interesse nella regione in quanto l’Africa rappresenta un crocevia politico, diplomatico, economico e culturale-demografico a cui le nazioni indo-pacifiche guardano da tempo.

Narrazione, interesse, attenzione In questo ultimo anno, mi sono trovato in molte occasioni in cui ho potuto constatare direttamente – attraverso conversazioni, eventi, studi – come l’interesse indo-pacifico per l’Africa si abbini anche all’iniziativa italiana. Aspetto già positivo: la narrazione messa in piedi da Roma ha funzionato quanto meno nell’attrarre extra-attenzioni internazionali. Ora la sfida è di implementare questo storytelling con progetti concreti, anche se è plausibile pensare che i risultati arrivino rapidamente. Ma questa è una percezione più chiara al di fuori dell’Italia, dove si è portati a ragionamenti di carattere strategico (dunque a lungo termine). Lo è per esempio nell’Indo Pacifico.

L’importanza dei partner Sarà importante per l’Italia comprendere quali potrebbero essere eventuali partner per strutturare cooperazioni negli ambienti terzi africani. Territori dove tutte le potenze hanno rivolto la loro attenzione. L’Africa, ha sottolineato su France24 Antoine Glaser, esperto del continente dell’Institu Montaigne, “ha il mondo intero nella sua sala d’attesa”.

Qui Pechino Ho cercato le razioni cinesi al Piano Mattei, ma non ci sono (per ora) cose di livello. La Cina è interessante perché ha attualmente un ruolo importante, essendo il primo partner commerciale dell’Africa, anche grazie agli investimenti economici e politici. Pechino muove anche una sua narrazione, che vuole rappresentare il proprio modello di cooperazione come il più efficace e funzionale, mentre critica le attività occidentali (macchiate da post-colonialismo, dice). Bisogna fare i conti con questo substrato culturale e (dis)informativo che si sta creando, spinto anche dalla Russia, dall’Iran e da altri Paesi competitor.

Like-minded… Ma ci sono anche altri attori dell’Indo Pacifico, come India, Giappone, Corea del Sud, Australia, Taiwan, Indonesia e Vietnam, che mostrano un crescente interesse per l’Africa, sviluppando progetti e strategie specifiche. Molti di questi sono indicati sovente come “like-minded”, ossia vedono il mondo con le stesse lenti dell’Italia e dell’Occidente. Sono democrazie, sono aperti al libero mercato, sono meno interessati a rivoluzionare l’ordine mondiale di quanto non sia la Cina. Inciso a proposito di questo dal saggio pubblicato su Foreign Affairs dal direttore della CIA William Burns: “La Cina rimane l’unico rivale degli Stati Uniti [che ha] sia l’intento di rimodellare l’ordine internazionale sia il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per farlo”. Chiuso l’inciso.

…significa buoni partner? Una considerazione che mi ha fatto un parlamentare italiano che segue con estrema attenzione la politica internazionale: “Siamo sicuri che effettivamente quei Paesi like-minded poi intendano la proiezione africana come la intendiamo noi? Siamo sicuri che le direttrici di una cooperazione con loro seguano esattamente i nostri interessi? Che tipo di compromessi siamo disposti ad accettare?”.

Aspettiamo e vedremo Sebbene molti di quei Paesi indicati siano sinceramente interessati a comprendere la strategia italiana in Africa – aspettandosi anche input sui principi, cardini e sviluppi futuri del Piano Mattei (magari anche inviti) – attualmente ottenere informazioni dettagliate da loro su cosa ne pensino è complesso (quanto comprensibile). La sfida principale del Piano Mattei, come mi spiegava Arturo Varvelli (Ecfr), è trasformarlo in un paradigma trainante per i progetti europei, inquadrandolo in qualche modo al contesto più ampio del Global Gateway e renderlo ancora più appetibile agli occhi esterni. La forza finanziaria e politico-diplomatica europea supera notevolmente quella di un singolo Paese come l’Italia, ma l’idea strategica italiana può contribuire in qualche modo a direzionarla, ed è per questo che il progetto diventa attraente – e chiaramente sfidante.

E dunque? Ho pensato che, visto la sovrapposizione di interessi, potesse diventare utile fare un recap rapido (certamente non esaustivo, sicuramente basico e poco analitico) di quali sono obiettivi, attività e visioni di alcuni dei grandi attori dell’Indo Pacifico in Africa. E di farlo tramite studi di valore.

DIARIO DALL’INDO MEDITERRANEO
 . Tra gli appunti, parlando di Africa, ci finisce l’intervista fatta da Giulia Pompili del Foglio al primo ministro dell’eSwaitini, a Roma anche lui per la Conferenza. Russell Dlamini è il premier dell’unico stato africano che riconosce Taiwan: “La nostra politica è non avere nemici”, dice.

. A proposito di interviste, anche quella di Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, al presidente della Somalia, ospite di un evento organizzato nella sede di Fondazione Med-Or è interessantissima in ottica indo-mediterranea. “Nel gioco del Mar Rosso serve un accordo tra Cina e Occidente per garantire la stabilità”, propone Hassan Sheikh Mohammud.

. Rispondendo alle notizie uscite su un “enorme deposito” di armi cinesi nei tunnel di Hamas, il portavoce del ministero della Difesa di Pechino ha detto: “La Cina ha sempre adottato un atteggiamento prudente e responsabile nelle esportazioni di armi”. La notizia è qui, ma vi ricordate di quando l’analista militare Zhang Bin, spiegava come la tecnologia dei missili balistici antinave (ASBM) cinesi abbia raggiunto lo Yemen attraverso l’Iran? Ne avevamo parlato in IPS201223.

. Seul e Riad insieme per un jet di Sesta generazione? Girano voci che alti funzionari dell’Agenzia per lo sviluppo della difesa (Add) e del ministero della Difesa sudcoreani abbiano visitato l’Arabia Saudita per incontri teoricamente top secret di qualche giorno fa. Non è chiaro per ora quanto queste voci siano credibili e concrete, vero che la sfera militare fa parte delle relazioni tra i due Paesi, vero altrettanto che gira disinformazioni; inoltre è possibile che sauditi e sudcoreani parlino di armi ma non di quel genere di armi. Riad e Seul sono comunque interessati a un caccia di ultima generazione (entrambi hanno buttato gli occhi sul Gcap, sebbene con letture diverse).
 

A proposito di Africa, la cui costa orientale è considerata parte dell’Indo Mediterraneo (per lo meno nelle visioni indiane, sposate anche in parte dalla lettura geostrategica delle dinamiche in corso), val la pena fare un passo indietro sulla visita – a metà gennaio – del capo della diplomazia cinese, Wang Yi, in quattro Paesi del continente. Nella foto è in Tunisia, ma è stato anche in Egitto, Togo e Burkina Faso (che fa parte della triade golpista anti-occidentale che ha annunciato di voler uscire dall’associazione Ecowas in questi giorni).

E val la pena ricordare che dal 1991 a oggi, il primo viaggio all’estero del ministro degli Esteri cinese è sempre dedicato, ogni anno, all’Africa. Nel 2024 ci sarà anche il Forum sulla Cooperazione Cina-Africa (quello precedente c’era stato nel 2021 a Dakar, in Senegal, e aveva adottato piani per 2022-2024). Wang sta organizzando l’evento e le partecipazioni. Ne ho parlato sul canale Telegram “Indo Pacific Diary”, che curo più o meno quotidianamente da un paio di anni. Qui invece c’è la lettura del viaggio da parte della stampa egiziana e tunisina.
COSA ALTRO LEGGERE
 
Dicevamo che per rendere tutto più funzionale, questa settimana ho pensato di mettere qualche link ad analisi e studi su ruolo e visioni dei big indo-pacifici in Africa. Questa sezione di approfondimento diventa dunque “Cosa altro leggere”. 

CINA
China in Africa, Council on Foreign Relations; China in Sub-Saharan Africa: Reaching far beyond natural resources,Atlantic Council; An allied strategy for China, Atlantic Council; China-Africa relations, Chatham House: The response to debt distress in Africa and the role of China, Chatham House; Grandi ambizioni, risultati limitati: l’ordine globale secondo la Cina, Ecfr; Il risveglio degli Europei dal sogno della Cina, Ecfr; Valori occidentali, economia cinese? La frammentazione globale, Ecfr.

GIAPPONE
Japan in Africa, strategia pubblica del governo di Tokyo; What Japan and Africa can add to Tokyo International Conference on African Development, East Asia Forum; Japan to boost ties with Africa, with eyes on ChinaJapan TimesJapan’s valuable footprint in Africa, Gis; The Japan-Africa dialogue, Atlantic Council.

INDIA
Africa-India Cooperation Sets Benchmark for Partnership. Africa Center For Strategic Studies; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Atlantic Council; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Brookings Institution; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Orf; India eyes Africa in its quest for superpower status, Institute For Security Studies; India is driving change by working together with AfricaAsia Nikkei.

COREA DEL SUD
South Korea’s Engagement with Africa, Springer (libro); Seoul trains its sights on African relations, African Business; Korea and Africa rally additional finance and technology […], African Development Bank Group; The African Continental Free Trade Area: Opportunities and Challenges, Brookings Institution; South Korea’s Role in Africa’s Development: A New Approach, Orf.

AUSTRALIA
Strengthening Australia’s relationships in Africa through education, Aspi; A strategy for Australia’s engagement with Africa, analisi del gruppo di lavoro del dipartimento Affari Esteri e Commercio Estero del governo australiano; Rethinking Australia’s Approach to Africa, Australian Institute For International Affairs; Australia to achieve membership of an African development, DevPolicy Blog; Australia, New Zealand and the African Union, South Africa Institute For International Affairs.

INDONESIA, VIETNAM, TAIWAN
Indonesia Seeks to Deepen Africa RelationsVoice Of AmericaIndonesia’s Jokowi deepens Global South ties in Africa tour, Asia Nikkei; What Can Africa Learn From the Progress Made by Vietnam?, Tony Blair Institute; Vietnam treasures traditional ties with African countriesVientam PlusTaiwan and Africa: a comprehensive overview of diplomatic recognition and derecognition of the RoC, Ceias; Taiwan’s Africa outreach irks China, Orf.

6200.- L’addio all’Ecowas di tre giunte filorusse in Africa interessa anche l’Italia. Ecco perché

Mentre le mani si tendono a sugellare i patti per il futuro fra Italia e Africa le politiche di Washington e di Londra sembra che alimentino le divisioni e, infatti, come non notare le assenze a Roma del Mali, del Niger, del Burkina Faso, del Sudan e della Mauritania e, addirittura, della semibritannica Nigeria, che, solo ieri, faceva proseliti contro la rivolta filo russa nel Niger e non avrà certo cambiato idea. Sappiamo quanto credito abbia concesso Giorgia Meloni a Rishi Sunak e alla sua associazione e dovremo capire quanto la Gran Bretagna sarà a fianco dell’Italia in questo progetto mondiale. Dovremo capire se gli Stati Uniti useranno l’Italia e l’Europa verso l’Africa e contro Russia e Cina per rinsaldare la loro leadership occidentale, ma c’è ancora un Occidente e, in Occidente, c’é ancora un leader mondiale per tutti ? E, poi, di quali Stati Uniti stiamo parlando? É mai possibile avere per leader uno Stato a rischio di secessione? E, infine, saremmo insieme a un leader o sotto un padrone. Il South Stream 2 risponderebbe per noi. Ma se dovessimo dare una collocazione alla Federazione Russa, fra Europa e Asia diremmo: Europa! L’Italia e l’Europa troveranno sempre la Russia sul loro cammino: un fratello tradito o un competitor?

Da Formiche.net, di Emanuele Rossi | 30/01/2024 – 

L’addio all’Ecowas di tre giunte filorusse in Africa interessa anche l’Italia. Ecco perché

Mali, Niger e Burkina Faso annunciano l’uscita dall’Ecowas accusando l’organizzazione di essere al servizio dell’Occidente. È anche contro le narrazioni di queste giunte golpiste e populiste aiutate dalla Russia che si muovono progetti di cooperazione come quello Italia-Africa. L‘auto esclusione potrebbe peggiorare le condizioni economiche di quei Paesi: “Ciò comprometterebbe uno dei principali pilastri del Piano Mattei, ovvero la riduzione della migrazione”, spiega Willeme (Clingendael Institute)

L’annuncio di ieri da parte dei tre Paesi dell’appena costituita Alliance des Etats du Sahel — Mali, Niger, Burkina Faso, tre giunte golpiste in parte legittimate dalla popolazione anche come effetto delle attività ibride russe — “non è sorprendente, data la tensione in corso con il blocco regionale Ecowas/Cedeao”, spiega una fonte diplomatica europea che segue la regione del Sahel. “Tuttavia solleva diverse incertezze per l’intera regione e non solo, e forse non è un caso che arrivi contemporaneamente allo svolgimento della Conferenza Italia-Africa” — che con la presentazione del cosiddetto “Piano Mattei” intende lanciare una nuova visione strategica per la cooperazione con l’Africa.

Non si sa ancora come e quando quel “ritiro immediato”, ma ancora non formalizzato stando all’Ecowas (acronimo inglese di Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale), si tradurrà concretamente in uscita formale — che richiederebbe comunque un anno per entrare in vigore. Fatto sta che Bamako, Ouagadougou e Niamey spingono una narrazione perfettamente in linea con quella diffusa sin da subito dalle rispettive giunte golpiste, che negli ultimi tre anni hanno conquistato il potere nei vari Paesi sull’onda di una stagione particolarmente travagliata, sfruttata anche per attività di influenza strategica da attori nemici dell’Occidente.

Come la Russia, che cerca dossier e ambiti in cui capitalizzare successi nella competizione globale. Mosca ha da sempre sfruttato la situazione, soffiando le insoddisfazioni popolari a proprio vantaggio, penetrando — prima con la Wagner adesso con il neonato Africa Corps — le forze di sicurezza dei golpisti attraverso forme di assistenza che si sono trasformate in campagne ibride. Le unità russe fanno addestramento per militari e polizia locale, ma nel frattempo diffondono narrazione anti-occidentale e si incuneano nel tessuto economico (e sociale).

L’annuncio dei tre Paesi segue una staffetta diplomatica con rappresentanti di Russia, Cina e poi Stati Uniti che hanno viaggiato in Africa e mentre le massime autorità europee erano ospiti a Roma per parlare di nuove relazioni col continente in un “vertice” tra capi di Stato e di governo (espressione che ha valore non solo simbolico-diplomatico per la conferenza). Sullo sfondo si delineano — come già successo con i vari golpe regionali — i contorni della competizione tra potenze. Mentre la ricerca di un’autarchia politica, sicuritaria ed eventualmente economica caratterizza sia l’ambito golpista maliano che nigerino e burkinabé (i golpe ci sono stati nel 2020 in Mali, nel 2022 in Burkina Faso e nel 2023 in Niger).

Anche su questo si basa parte del successo narrativo dei golpisti, che incolpano l’Occidente, gli sfruttamenti coloniali passati e l’inefficacia nel fornire assistenza nel presente, della pessima situazione economica e del divampare dell’insorgenza jihadista sui propri territori. Una retorica emersa anche, in modo più moderato e controllato, in alcuni interventi degli invitati alla conferenza organizzata ieri al Senato — per esempio nelle parole del presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki.

Emergono interrogativi sempre più complessi per l’Ecowas, che, nonostante ultimatum, minacce di interventi militari e sanzioni, non ha ottenuto risultati concreti nelle negoziazioni con le giunte militari. Le quali invece accusano l’organizzazione di agire sotto l’influenza di potenze straniere (occidentali, chiaramente, e il contestassimo uso delle sanzioni ne sarebbe un marker). Sfruttando quel terreno narrativo fertile, pensano però in primo luogo ai propri interessi di mantenimento del potere.

Ecowas, dall’altra parte, si impegna a trovare una “soluzione negoziata all’impasse politica”, sottolinea le complessità burocratiche dell’uscita (che sono sintomo anche della complesse connessioni che l’organizzazione ha creato sin dalla fondazione nel 1975), ma si trova davanti a una sfida senza precedenti — e che potrebbe crearne uno pericoloso.

Diversi cittadini sono scesi in strada in quei tre Paesi per festeggiare l’Ecowas, visto anche altrove come un club esclusivo che preserva gli interessi delle leadership a discapito delle collettività. L’Alleanza degli Stati del Sahel, che le giunte hanno creato a novembre, sta cercando spazi nel contesto regionale per legittimare i governi militari che la compongono e per iniziare deve essere indipendente dall’Ecowas: è una scelta populista che potrebbe portare frutti.

Tuttavia ritirarsi dal blocco in questo modo “è senza precedenti”, spiega un osservatore regionale e visto come “un importante cambiamento”, perché “tutto il lavoro che è stato messo nella costruzione di un meccanismo di sicurezza collettiva si basa sui protocolli che postulano che la democrazia, il buon governo e lo stato di diritto saranno la base per quella sicurezza e per la pace”.

È un problema in più per l’Europa — che nel Sahel ha i suoi confini virtuali — e per l’Italia, che dell’Europa è avamposto esposto a quella regione? “L’Ue è uno dei principali partner e finanziatori dell’Ecowas e l’uscita di Mali, Burkina Faso e Niger ridurrà probabilmente lo spazio di manovra dell’Europa in questi tre Paesi”, risponde Laurens Willeme, esperto di Sahel del Clingendael Institute.

“Tutti e tre i Paesi hanno già abbandonato alcuni accordi bilaterali con l’Ue e con i singoli Stati membri, ma sono rimasti legati agli accordi stipulati dall’Ecowas. Con l’uscita dei tre, questi accordi non saranno più applicabili. Questo potrebbe lasciare spazio ad altri attori internazionali, come Russia, Cina e Turchia, che hanno già aumentato la loro presenza negli ultimi anni”.

Per stare su un tema complesso caro al governo italiano, c’è la possibilità di un aumento della migrazione verso l’Europa? “Certamente, soprattutto se la situazione economica dei tre Paesi si deteriora ulteriormente, cosa non improbabile, considerando che l’Ecowas facilita la libera circolazione di merci e persone. La mancanza di accesso ai porti marittimi diventerà inoltre una sfida economica considerevole per i tre Stati senza sbocco sul mare. Ciò comprometterebbe uno dei principali pilastri del Piano Mattei, ovvero la riduzione della migrazione”.

6199.- Italia-Africa, Meloni: “Siamo qui per scrivere una nuova pagina di storia”. Ecco i pilastri del Piano Mattei

Grazie presidente.

Da Il Secolo d’Italia, 29 Gen 2024, di Viola Longo. vedi 6174.

italia africa meloni

In un’aula del Senato gremita dai rappresentanti delle delegazioni che partecipano al vertice e circondata dalle bandiere degli Stati africani e delle organizzazioni internazionali presenti, il premier Giorgia Meloni ha aperto i lavori di “Itali-Africa. Un ponte per la crescita comune”, imprimendo da subito quell’indirizzo fortemente operativo che il summit vuole avere e illustrando, se pur rapidamente, le azioni che l’Italia ha già messo sul tavolo in ciascuno dei cinque pilastri su cui si fonda il Piano Mattei, il progetto di cui il governo si è fatto promotore per imprimere una svolta ai rapporti di cooperazione con il Continente. Le “direttrici strategiche” sono istruzione e formazione; salute, agricoltura; acqua; energia. Le stesse al centro delle sessioni di lavoro della giornata alla quale partecipano, per la prima volta, i vertici delle nazioni interessate. Perché se è vero che conferenze Italia-Africa ce ne sono già state, è anche vero che questa è la prima volta che i protagonisti non sono i soli ministri degli Esteri, ma i capi di Stato e di governo. Un segno della “centralità e della rilevanza che l’Italia attribuisce al rapporto con gli Stati africani”, ha sottolineato il premier, chiarendo come anche la scelta del Senato come sede del vertice ne sia conferma.

Meloni: “L’Africa ha un posto d’onore nell’agenda di governo”

Circondata dai vertici delle istituzioni europee e dell’Unione africana, Meloni ha voluto sottolineare anche che quello di oggi è “il primo appuntamento della presidenza italiana del G7” ed è frutto “di una politica estera precisa, che porta a riservare all’Africa un posto di onore nell’agenda del governo”. “Vogliamo dimostrare che siamo consapevoli che il destino di Europa e Africa sia interconnesso”, ha aggiunto ancora il premier, rivendicando come l’Italia sia stata anche tra le “primissime nazioni” a sostenere l’ingresso stabile dell’Unione africana nel G20, che si è realizzato quest’anno.

  •  Metsola: Enrico Mattei comprese che le nazioni lavorano meglio insieme, non l’una contro l’altra.

Un nuovo modo di concepire la cooperazione con il Continente

La cornice è quella illustrata più e più volte dal premier da quando è arrivata a Palazzo Chigi: con l’Africa va costruito un rapporto da “pari a pari”, senza più quegli approcci “predatorio” o “caritatevole” che troppo spesso hanno caratterizzato le relazioni con il Continente e che “mal si conciliano con la straordinarie potenzialità” dell’Africa. Per questo per il titolo del vertice parla di “ponte per la crescita comune”, ha chiarito ancora Meloni, ricordando che l’Italia è naturalmente un ponte tra Africa ed Europa e che il nostro Paese ha il vantaggio di poter costruire queste nuove relazioni partendo “non da zero”, ma dalla “lungimiranza di Enrico Mattei”, che quel ponte seppe immaginarlo vedendo la possibilità di “coniugare l’esigenza italiana di rendere sostenibile la sua crescita” con quella delle “nazioni partner” di vivere “una stagione di libertà, sviluppo, progresso”.

Basta con la narrazione dell’Africa come “continente povero”

“A monte bisogna smontare le narrazioni distorte che descrivono l’Africa come un continente povero”, ha ammonito Meloni, ricordando che l’Africa ha il 30% delle risorse minerarie, il 70% delle terre coltivabili, il 60% della popolazione sotto i 25 anni. “Italia, Europa e vorrei dire il mondo intero – ha sottolineato il premier – non possono ragionare di futuro senza tenere nella giusta considerazione l’Africa”. “Noi – ha proseguito – vogliamo fare la nostra parte, avviando un ambizioso programma di interventi capace di aiutare il Continente a crescere e prosperare, partendo dalle sue immense risorse”. “Questa è l’ossatura del Piano Mattei”, ha sottolineato il presidente del Consiglio, parlando degli interventi che si concentreranno su quelle cinque direttrici strategiche, evitando la dispersione in micro-interventi.

Il Piano Mattei e i progetti già messi in campo dell’Italia

Il Piano Mattei, ha chiarito ancora il premier, in ossequio alle sue premesse, non sarà dunque una “scatola chiusa da imporre e calare dall’alto”, come è accaduto in passato. “Anche il metodo deve essere nuovo, di condivisione e collaborazione con le nazioni africane, sia nell’identificazione sia nell’attuazione” dei progetti. E, dunque, eccolo a Roma il primo passo di questo nuovo percorso di confronto e crescita comune al quale l’Italia arriva potendo già presentare alcuni progetti avviati con diversi partner africani in ciascuno dei “5 pilastri”. Fra questi la realizzazione di un centro di eccellenza per la formazione nel campo delle energie rinnovabili in Marocco; la creazione di un progetto per migliorare l’accessibilità ai servizi sanitari primari in Costa d’Avorio, con particolare attenzione ai più fragili, a partire da donne e bambini; i numerosi progetti avviati nel campo cruciale dell’agricoltura, come il centro agroalimentare in Mozambico o il sostegno alla produzione di grano, mais, soia e girasole in Egitto, e che si avvalgono anche di tecnologie innovative, come il monitoraggio satellitare delle colture in Algeria, il potenziamento della stazione di depurazione delle acque non convenzionali per l’irrigazione in Tunisia. E, ancora, per quanto riguarda l’acqua, la costruzione di pozzi e reti di distribuzione con energie rinnovabili in Congo, o i progetti di collaborazione energetica con il Kenya, ricordando sempre che “l’Italia ha le carte in regola per essere l’hub naturale di approvvigionamento energetico per l’Europa”.

Un nuovo strumento finanziario con Cassa depositi e prestiti per agevolare gli investimenti privati

“Abbiamo individuato alcune nazioni africane del quadrante subsahariano e nordafricano”, che sarà poi allargato “seguendo una logica incrementale”, ha spiegato ancora Meloni, sottolineando la concretezza di questi progetti “capaci di generare un impatto per lo sviluppo” e che “intendo seguire personalmente”. Progetti nei quali, ha chiarito ancora Meloni, sarà necessario coinvolgere tutto il sistema Italia, col suo bagaglio di competenze. Il Piano Mattei, ha chiarito Meloni, parte con una dotazione finanziaria di 5,5 miliardi di euro, “ma questo non basta”, per questo l’Italia ha voluto coinvolgere le istituzioni finanziarie internazionali e sottolinea l’importanza del coinvolgimento di altri Stati donatori. Inoltre, ha annunciato il premier, entro un anno sarà creato “un nuovo strumento finanziario con Cassa depositi e prestiti per agevolare gli investimenti privati”.

L’importanza del Piano Mattei anche per garantire il “diritto a non dover emigrare”

Meloni, quindi ha ricordato che il Piano Mattei è anche uno strumento per “garantire il diritto a non dover essere costretti a emigrare”. “L’immigrazione illegale di massa non sarà mai fermata, i trafficanti di vite umane non saranno mai sconfitti se non si affrontano a monte le cause che spingono una persona ad abbandonare la propria casa. È esattamente quello che intendiamo fare: da una parte dichiarando guerra agli scafisti del terzo millennio e dall’altra lavorando per offrire ai popoli africani un’alternativa fatta di opportunità, lavoro, formazione e percorsi di migrazione legale”, ha sottolineato il premier, spiegando che “l’Africa che vediamo noi può e deve stupire”. “Si dice che dall’Africa sorge sempre qualcosa di nuovo, il mio augurio – ha concluso Meloni – è che da questo vertice sorga qualcosa di nuovo, per scrivere una nuova pagina nella storia”.

6198.- Summit Italia-Africa, un cambio di paradigma? Scrive Martini (Ecco)

Da Formiche.net, di Lorena Stella Martini | 28/01/2024 – 

Summit Italia-Africa, un cambio di paradigma? Scrive Martini (Ecco)

Con la presidenza del G7, nel 2024 l’Italia ha lo spazio politico a livello internazionale per portare avanti un cambio di passo che contribuisca davvero a sbloccare le potenzialità del continente. L’analisi di Lorena Stella Martini, policy advisor di politica estera del think tank Ecco

In occasione del Summit Italia-Africa che si terrà a Roma da oggi a domani 29 gennaio, il governo presenterà la cornice politica e le direttive del Piano Mattei per lo sviluppo dei Paesi africani, condividendole con i numerosi leader africani che affolleranno la capitale.

Affinché il Piano renda davvero giustizia al nome che porta e costituisca un approccio paritario al continente africano come promette, all’Italia serve una strategia innovativa e coraggiosa, che definisca un vero e proprio cambio di paradigma rispetto ai modelli del passato. Solo così l’obiettivo ultimo del Piano, ovvero promuovere stabilità e sviluppo in Africa, andando ad agire sulle cause alla radice dei movimenti migratori, potrà essere raggiunto e mantenuto. Ciò anche in considerazione dell’esponenziale crescita demografica del continente e dei sempre più pesanti impatti del cambiamento climatico.

Il focus sull’Africa è fondamentale per la proiezione esterna del nostro Paese sotto diversi punti di vista: sia a livello politico e securitario, sia economico, dove l’energia – o in altre parole, l’approvvigionamento di combustibili fossili – ha sempre giocato un ruolo principe. Ciò, ancor più in seguito alla crisi energetica esacerbata dall’invasione russa dell’Ucraina, quando l’Italia ha portato avanti una massiccia politica di investimenti nei combustibili fossili africani. Un modello che, per svariati motivi, appare oggi obsoleto e non più in linea con gli obiettivi e gli interessi dell’Italia.

Infatti, né l’argomento della sicurezza energetica del nostro Paese – che è già garantita – né un’analisi delle tendenze al ribasso della domanda e dei prezzi del gas a livello italiano ed europeo giustificano nuovi investimenti e garanzie per lo sfruttamento del gas in Africa. Uno sfruttamento che sarebbe peraltro in contraddizione con gli impegni assunti dall’Italia sulla via della decarbonizzazione.

Inoltre, se la volontà è quella di favorire uno sviluppo dei Paesi africani, che sia sostenibile e di lungo termine, è bene riflettere sulla retorica secondo la quale il gas sarebbe veicolo di sviluppo economico-sociale e stabilità politica. L’assaggio dell’instabilità dei mercati internazionali di oil&gas che abbiamo avuto nel corso degli ultimi due anni ha infatti dimostrato come sulle fonti fossili non si possa basare la crescita stabile, costante, sostenibile e inclusiva di cui i Paesi africani hanno bisogno. A ciò si aggiunge l’impatto di un tale modello di sviluppo sul cambiamento climatico, che in Africa corre più veloce che altrove, con risultati sempre più disastrosi: si stima che nel solo 2022 eventi estremi dal punto di vista atmosferico, climatico e idrogeologico abbiano generato in Africa danni per 8.5 miliardi di dollari.

Per diventare un partner davvero strategico per il continente africano sul lungo periodo, l’Italia deve allora guardare altrove, in particolare abbracciando l’opportunità rappresentata dalla crescita verde e dalla transizione energetica. Ciò significa, in primis, focalizzarsi sulle energie rinnovabili, ma anche sulle materie prime critiche, e affiancare alla promozione di politiche di mitigazione anche politiche di adattamento agli impatti del cambiamento climatico.

Sono tutti punti, questi, emersi come centrali nelle dichiarazioni degli stessi leader africani, che all’African Climate Summit dello scorso settembre hanno messo in luce la volontà di orientarsi verso un modello di sviluppo sostenibile basato sulla crescita verde e su un’economia a basse emissioni, lontana da modelli di sfruttamento estrattivi. Rivendicazioni riscontrabili anche in seno alle eterogenee declinazioni della società civile africana, il cui coinvolgimento è imprescindibile al fine di elaborare un Piano che sia davvero co-costruito con i partner africani – laddove i partner non siano solo le élite – e che si configuri come non predatorio e paritario. Ciò implica in ogni settore, anche in quelli più innovativi, allontanarsi da quelle logiche di sfruttamento che tanto a lungo hanno caratterizzato il rapporto con i Paesi africani, per favorire innanzitutto la creazione e la crescita di catene del valore locali, foriere di uno sviluppo africano a 360 gradi.

Complice anche la presidenza del G7, nel 2024 l’Italia ha lo spazio politico a livello internazionale per portare avanti un cambio di passo che contribuisca davvero a sbloccare le potenzialità dell’Africa. Una relazione che deve estendersi anche sul piano finanziario, attraverso la riforma dell’architettura finanziaria internazionale, della quale l’Italia può farsi portavoce in sede G7, e con soluzioni che contribuiscano a fornire un sostegno immediato alla liquidità e a ripristinare la sostenibilità del debito dei Paesi africani. La posta in gioco è alta. Il Piano Mattei saprà essere la giusta cornice per questo cambio di paradigma?

6197.- I blocchi di Trump contro il multilateralismo di Biden. Quale approccio dopo Usa2024

Da Formiche.net, di Duccio Fioretti, 25/01/2024 

I blocchi di Trump contro il multilateralismo di Biden. Quale approccio dopo Usa2024

I due principali candidati alle presidenziali americane propongono approcci diversi per la politica estera di Washington. Ma è probabile che il vincitore dovrà comunque adattarsi alle necessità del pragmatismo. La questione sviscerata durante l’evento “L’America e la leadership mondiale dopo il voto”, tenutosi al Centro Studi Americani. Chi c’era e cosa si è detto

Le elezioni americane previste per il novembre di quest’anno saranno un vero e proprio punto di svolta. L’esito di queste sarà significativo per stabilire quale forma assumerà la politica estera di Washington, che a sua volta giocherà un ruolo importante nell’influenzare la scelta degli elettori americani. Quali sono dunque le prospettive per il futuro del sistema internazionale all’indomani della chiusura delle urne al di là dell’Atlantico?

Proprio su tale questione si è incentrato il dibattito interno all’evento “L’America e la leadership mondiale dopo il voto”, tenutosi al Centro Studi Americani nel pomeriggio del 24 gennaio. Fin dall’inizio emerge subito la centralità degli sviluppi della politica internazionale per gli Stati Uniti in questo particolare momento storico: conflitto in Ucraina, crisi in Medio Oriente e competizione Usa-Cina segnano un punto di rottura con il passato, ed è su questa rottura che andrà rifondato l’ordine internazionale. Sulla base dei diversi approcci promossi da Joe Biden e da Donald Trump, al momento considerati i candidati di punta per l’appuntamento elettorale di quest’autunno. “Da una parte l’ordine liberale globale difeso da Biden, dall’altra c’è la visione trumpiana dei ‘blocchi’, che si discosta dalla tradizione repubblicana classica” commenta Karim MezranResident Senior Fellow del Rafik Hariri Center for the Middle East dell’Atlantic Council, notando però che su determinate questioni entrambi i candidati alle presidenziali seguiranno percorsi molto simili. “Nei confronti della Cina avranno stesso atteggiamento, mentre in Ucraina entrambi si troveranno a dover gestire un ridimensionamento delle pretese di Kyiv. E anche in Medio Oriente i due seguiranno binari paralleli”.

Malgrado le divisioni che caratterizzeranno la campagna elettorale, il prossimo inquilino della Casa Bianca si troverà ad assumere un atteggiamento molto più pragmatico. Rendendo difficile non solo fare delle previsioni, ma anche predire una sorta di continuità. Come d’altronde è già avvenuto con le precedenti amministrazioni, che “hanno smentito tutte le previsioni della vigilia” come ricorda la giornalista Monica Maggioni, “Da un multilateralista come Barack Obama non ci si aspettava un disengagement così forte come quello da lui promosso, segnato dal ritiro dal Medio oriente e dall’assenza americana in Libia. Allo stesso tempo da quel Trump fautore della famosa telefonata a Taiwan, era difficile aspettarsi gli Accordi di Abramo”. Ed è anche difficile fare previsioni certe sul fatto che Biden e Trump siano effettivamente i candidati che si confronteranno in autunno.

Come si posizioneranno dunque gli Stati Uniti nel nuovo ordine internazionale? Secondo Alessandro Colombo, docente di Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Milano, tanto Biden che Trump ritengono che gli Stati Uniti non possano più perseguire il ruolo egemonico come durante “l’epoca d’oro” della presidenza di Bill Clinton. La chiave sta nel trovare la formula giusta per ridurre il proprio impegno senza però perdere credibilità. “La differenza fondamentale è che Biden crede nello strumento multilaterale per mantenere la preminenza di Washington. Trump è invece convinto dell’opposto: crede che tenersi le mani libere sia il modo migliore per reagire al meglio agli sviluppi futuri”.

Colombo si sofferma anche sull’Europa, e sulla sua eventuale reazione al retrenchement statunitense. Il professore denota come non sia affatto detto che un ritiro parziale o totale degli Usa implichi un aumento di assertività e coesione per l’Europa. Anzi, in passato dinamiche simili hanno comportato un aumentato delle tensioni, dovute al bisogno di individuare un nuovo leader in un contesto di interessi interni contrapposti. “La guerra in Ucraina rafforza la tesi dei Paesi centro-settentrionali dell’Europa per cui la sicurezza del continente si gioca a Est; viceversa, la crisi in Medio Oriente conferma la posizione dei Paesi meridionali per cui è a Sud, nel Mediterraneo, che si gioca la partita cruciale. E questa scarsa coesione non aiuta il processo di policy making”.

6196.- Vittoria a metà di Trump nel New Hampshire

Decidessero quale forma di politica estera dovrà attuare Washington.

(Photo by Mario Tama/Getty Images)
Emiliano Battisti ha creato un nuovo post in Caffè Americano

Un possibile problema per Trump. Donald Trump ha vinto anche in New Hampshire, stato considerato molto più moderato rispetto all’Iowa e dove Nikki Haley mirava a finire al massimo staccata di cinque o sei punti percentuali. Tutto bene quindi per l’ex Presidente. In realtà, non proprio. Trump ha vinto il voto degli elettori registrati come repubblicani 74% a 25% mentre Haley ha vinto quello degli indipendenti 58% a 39%. E questi ultimi sono quel tipo di votante che costituisce la maggioranza relativa negli Stati Uniti e di cui Trump avrebbe bisogno a novembre per battere Biden. Le elezioni del 2020 e le midterm del 2022 hanno dimostrato che la sola base cosiddetta MAGA (da Make American Great Again) non basta. Almeno per ora, l’ex Presidente non sembra intenzionato a moderare i toni della sua campagna e si è detto convinto che riuscirà a riconquistare i voti degli indipendenti almeno quanto basta per tornare alla Casa Bianca. La deputata Marjorie Taylor Greene, una delle massime sostenitrici di Trump e del trumpismo ha invece dichiarato che il Partito Repubblicano si sta liberando di quelli e quelle che non aderiscono alle politiche dell’ex Presidente.

6195.- Elezioni in Serbia: ha prevalso un voto di contenimento e resistenza ai diktat occidentali e NATO

Nuova sconfitta per le forze di opposizione filo occidentali e Nato che guadagnano soltanto il 24,23%.

DonetskRussia25 gennaio
L’articolo di attualità a cura di Enrico Vigna, dicembre 2023

Pur tra mille contraddizioni, limiti e gravi incognite sul futuro del paese e della sempre più esplosiva situazione nel Kosovo Metohija, la maggioranza schiacciante è andata ai partiti che hanno finora gestito questa delicata e complessa fase politica interna e internazionale. Mentre le forze filo occidentali e natoidi hanno subito una nuova sconfitta, nonostante gli ingenti investimenti economici e mediatici occidentali. E ora tentano una sorta di rivoluzione colorata/Maidan serba, che è già però fallita nelle piazze.

Il 17 dicembre si sono svolte in Serbia le elezioni parlamentari e locali. Secondo i dati della Commissione elettorale repubblicana del paese, la coalizione del Partito progressista serbo (SPP), al governo in Serbia, con la lista “Aleksandar Vucic – La Serbia non deve fermarsi”, ha vinto le elezioni per il Parlamento della Repubblica avendo ottenuto il 48.02 % dei voti. La coalizione dell’opposizione filo occidentale “Serbia contro la violenza” ha ottenuto il 24.23 %. Al terzo posto si colloca il Partito Socialista Serbo (già in alleanza e nel governo Vucic) con il 6,74 %. Segue NADA/ Alternativa Democratica Nazionale, altra forza di opposizione conservatrice, monarchica ed europeista, con il 5.18 %. La vera sorpresa è stata la lista “NOI. La voce del popolo” guidata dallo stimato dottor Branimir Nestorovic con il 4.82 %, una nuova formazione che si colloca criticamente su alcuni aspetti, ma rifiuta fermamente ingerenze e pressioni per la svendita del paese a interessi stranieri e difende la sovranità nazionale. Oltre alle liste delle minoranze nazionali.
Oltre alle elezioni anticipate del parlamento nazionale, si sono svolte anche elezioni comunali in 65 città e regioni, tra cui Belgrado e la regione autonoma della Vojvodina . Al voto hanno partecipato 6.500.666 elettori registrati, quasi il 60% degli aventi diritto. Ovunque i risultati hanno rispecchiato le elezioni nazionali.

Il 1° novembre il presidente serbo Aleksandar Vucic aveva annunciato lo scioglimento dell’Assemblea nazionale della Serbia e fissato elezioni parlamentari anticipate, sotto la spinta dell’opposizione legata all’occidente, che pensava ad un crollo delle forze di governo.Molto importanti e significativi sono stati i risultati degli elettori del Kosovo, che è il cuore di tutte le problematiche statali e di politica internazionale della Serbia in questa fase. Una questione che riguarda il futuro e il destino della stessa Repubblica Serba.
La lista “Aleksandar Vucic – La Serbia non deve fermarsi” ha ottenuto il 71,56% dei voti dei serbi del Kosovo, nel 2022 aveva ottenuto il 64,04. Il secondo partito più grande tra i serbi in Kosovo, in termini di voti, è il Partito socialista serbo, che ha raccolto il 9,42% dei voti. L’Assemblea nazionale (Dveri e Oathkeepers) ha ottenuto il 2,69%, mentre la coalizione NADA, composta dal Partito della Nuova Democrazia serba e dal Movimento per la restaurazione del Regno di Serbia, ha ottenuto 3,78 voti. La coalizione “Serbia contro la violenza” ha ottenuto il 4,36%, mentre la lista “Noi – la voce del popolo”, guidata dal dottor Nestorovic, ha ricevuto il 2,42%, ovvero 579 voti dai serbi del Kosovo. Tutte le altre liste hanno ottenuto meno dell’1% dei voti.Il giorno dopo le elezioni con i serbi del Kosovo: abbiamo dimostrato che siamo uniti nonostante tutte le sfide
Il giorno dopo, i residenti di Strpce hanno dichiarato a Kosovo Online di essere soddisfatti dei risultati elettorali e di aspettarseli. Aggiungono che è positivo che i risultati delle votazioni siano andati così.
“Vengo dal Kosovo, attualmente non vivo in Kosovo, ma penso che sia una cosa buona. La gente è interessata a vivere meglio e ad essere una nazione serba unita”, dice un residente, mentre un altro aggiunge che i risultati elettorali riflettono effettivamente la volontà del popolo .
“Probabilmente è l’espressione della volontà popolare, non possiamo giudicarla in un modo o nell’altro. Il popolo ha deciso così e ha votato così”.
Sebbene alcuni credano che “tutto tornerà come prima perché ha vinto lo stesso partito”, secondo un residente questi risultati elettorali significano molto per i serbi del Kosovo.
“Bene, significa molto ed è molto meglio per la Serbia”, dicono.
Il fatto che a queste elezioni abbia partecipato un numero maggiore di serbi del Kosovo e di Metohija rispetto all’anno scorso è un chiaro messaggio, nonostante tutte le sfide che abbiamo dovuto affrontare nel frattempo, che i serbi non solo vogliono partecipare al processo elettorale ma indicano anche che tipo di politica sostengono, ha detto Dalibor Jevtic, vicepresidente della Lista Serba, in un’intervista a Kosovo Online.

Un altro messaggio è che come popolo siamo uniti nonostante tutte le sfide che affrontiamo, e penso sia fondamentale sottolinearlo perché l’unità è qualcosa di cui abbiamo bisogno, e quell’unità, nelle attuali condizioni in cui viviamo sul territorio del Kosovo e Metohija, ci sostiene. Inoltre, un messaggio molto importante è che, nonostante la repressione che subiamo come popolo, crediamo ancora solo nel nostro Stato, lo Stato della Serbia”, valuta Jevtic.
Lui ha aggiunto che i messaggi sono diretti a tutti coloro che fanno parte dell’agenda delle pressioni sui serbi nella regione del Kosovo e Metohija.
“E tutti coloro che credevano, applaudivano, volevano qualcosa di diverso, ora hanno ricevuto un messaggio molto chiaro che ciò in cui credono i serbi in Kosovo e Metohija è il presidente Aleksandar Vucic e lo Stato della Serbia, e non c’è alcuna pressione che cambierà la nostra fede e fiducia”, ha concluso Jevtic.
Il capo della circoscrizione del Kosovo e vicepresidente della Lista serba, Srdjan Popovic, ha sottolineato che i serbi del Kosovo hanno dimostrato di non soccombere alle pressioni di Pristina e credono che la politica del presidente serbo Aleksandar Vucic porterà alla pace e alla stabilità. . Lui ha sottolineato online a Kosovo che i serbi del Kosovo hanno dimostrato unità, cosa che obbliga i rappresentanti politici a lavorare ancora di più e meglio in futuro.
“Ancora una volta abbiamo dimostrato l’unità dei serbi nella regione del Kosovo e Metohija. Questi buoni risultati ci obbligano a lavorare ancora di più e meglio per ogni individuo, per ogni famiglia che vive nella regione del Kosovo e Metohija. I serbi di queste zone hanno dimostrato ancora una volta di non soccombere alle pressioni, alle violenze e alle persecuzioni di Pristina, come hanno dimostrato le elezioni di ieri, alle quali hanno partecipato in gran numero i serbi del Kosovo e di Metochia”, ha detto Popovic.
Anche a Mitrovica Nord non ci sono sorprese dopo le elezioni. I cittadini intervistati da Kosovo Online esprimono grande soddisfazione per i risultati.

6194.- Dalla Guerra fredda al disordine globale

Cosa emerge dai documenti desecretati del Dipartimento di Stato americano

Chi c’era e che cosa si è detto alla presentazione di “L’America di Clinton. Dalla Guerra fredda al disordine globale” di Andrea Spiri e Maria Vittoria Lazzarini Merloni.

Da Startmag, 24 Gennaio 2024

“Lavorare sui documenti desecretati del Dipartimento di Stato americano è come sentirsi addosso il fiato della storia”, dice Andrea Spiri, dottore di ricerca in Storia politica all’Università Luiss, durante la presentazione, al Centro studi americani, del suo libro e di Vittoria Lazzarini Merloni. E il fiato della storia che percorre L’America di Clinton – dalla Guerra fredda al disordine globale (Carocci editore) è importante per capire i conflitti dell’oggi in tutta la loro complessità.

Ci sono i dialoghi tra Eltsin e Clinton in cui già emergevano contraddizioni russe con mire egemoniche a Occidente; vengono fuori le prime tendenze – in quella situazione di “unipolarità” Usa, dopo la fine del mondo diviso in blocchi e la dissoluzione dell’impero sovietico – dell’establishment Usa a portare avanti la linea America first. Che sarebbe venuta fuori in modo molto più drastico con Trump. Ma scoppia la crisi dei Balcani, come viene ricordato nel dibattito moderato da Alessandra Sardoni cui partecipano Gianni Riotta, Gaetano Quagliariello e Pier Ferdinando Casini. E a quel punto quel nuovo presidente outsider, ex governatore di un piccolo Stato, l’Arkansas, sceglie di intervenire con la guerra in Kosovo. Seppur già da allora nella politica estera Usa inizi la linea di richiamare gli alleati alle loro responsabilità sulla sicurezza, quello che, ricorda Spiri, il segretario di Stato Madeleine Albright chiamò il “multilateralismo assertivo”. Ovvero un sistema di alleanze con la Nato che veda tutti coinvolti.

Gli anni di Clinton furono visti come gli anni dell’ottimismo, della globalizzazione. Internet espresse il massimo delle potenzialità. In quel cuscinetto di tempo dopo la Guerra fredda iniziarono scelte senza più i punti di riferimento del passato come l’allargamento della Nato a Est, seppur in modo limitato, il tentativo di avvicinare la Russia all’Europa poi drammaticamente naufragato con la guerra russa all’Ucraina. Nonostante Eltsin dipingesse Putin agli occhi di Clinton come “un sincero democratico”. Ma, come dice Casini, “niente di più sbagliato tentare di riscrivere la storia a posteriori”. Sul tavolo dello scenario internazionale emerge ora sempre più la necessità del ruolo dell’Europa “con una sua politica estera e di difesa”, dice Casini che richiama alle parole di De Gasperi verso gli “Stati Uniti d’Europa”.

6193.- Israeliani in rivolta contro Netanyahu. A Gaza non si ferma il massacro

Netanyahu, Biden, due falliti, lordi del sangue dicono di 15.000 bambini innocenti. Mai come oggi dobbiamo stare con entrambe le vittime, israeliani e palestinesi. Mentre aumenta la protesta contro il governo Netanyahu da parte dei parenti degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, a Gaza continua il massacro. Il governo Netanyahu, in oltre cento giorni di combattimenti, di bombardamenti, non è riuscito a riportare a casa gli ostaggi prigionieri, semplicemente, perché se venissero liberati, verrebbe meno l’unica ragione che lo tiene in piedi. Mentre Netanyahu cova il suo potere sui caduti israeliani e sui morti palestinesi nella Striscia di Gaza, alcuni numeri: Dall’inizio della guerra, i morti sono saliti a 26500, a 7000 i dispersi, a fronte di 219 soldati, mentre i feriti superano le 63mila unità.

Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Nicola Scopelliti, 24_01_2024La protesta dei famigliari degli ostaggi (La Presse)

Mentre nella Striscia di Gaza i superstiti scavano tra le macerie in cerca dei loro cari, in Israele i familiari degli ostaggi protestano contro il governo di Benjamin Netanyahu chiedendo le sue dimissioni. Due realtà, ugualmente drammatiche, collocate su due fronti opposti, ma accumunate dalla sofferenza causata da questa guerra fin troppo feroce.

Se gli abitanti di Gaza, e tra loro anche gli anziani, escono dalle loro tende improvvisate, sin dai primi bagliori dell’alba, per andare alla ricerca dei parenti dispersi sotto le rovine delle case distrutte, i ragazzini, invece, girovagano tra i detriti delle abitazioni rase al suolo in cerca di qualche giocattolo o di qualche libro di scuola. Ma oltre questa tragica devastazione, tra gli abitanti della Striscia c’è un esile spiraglio di speranza. Sono quei 20mila bambini nati dopo quel tragico 7 ottobre dello scorso anno. «Ogni 10 minuti nasce un bambino in questa orribile guerra. Diventare madre dovrebbe essere motivo di festa. A Gaza, però, significa che un altro bambino nasce in questo inferno. La sofferenza dei neonati, mentre alcune madri muoiono dissanguate, dovrebbe tenerci svegli la notte», ha dichiarato la portavoce dell’Unicef, Tess Ingram. E ha poi ribadito: «Dovrebbe tenerci svegli anche sapere che due bambini israeliani, rapiti il ​​7 ottobre scorso, non sono ancora stati rilasciati».

Sopra Gaza, sfrecciano gli aerei da guerra, che proseguono nella loro opera distruttrice di quello che ancora resta. Nonostante ciò, il governo guidato da Netanyahu ha ordinato al ministro della Difesa Yoav Gallant di intensificare le operazioni nella parte occidentale di Khan Younis, nel sud della Striscia. L’esercito, appoggiato dall’aeronautica, avanza lasciando dietro di sé un numero impressionante di morti e distruzione. I soldati israeliani hanno anche circondato l’edificio centrale della Mezzaluna Rossa paralizzando così qualsiasi possibile intervento di soccorso ai feriti.

Secondo quanto riferito a Gaza, negli attacchi a Khan Yunis, nelle vicinanze di una scuola della città, sono rimaste uccise almeno 50 persone, mentre i feriti sono oltre 100, molti dei quali in gravi condizioni. Il direttore del reparto chirurgico del principale ospedale di Khan Yunis, il Nasser, ha dichiarato che la maggior parte dei morti sono sfollati che avevano trovato rifugio in quel luogo, caduti sotto gli attacchi aerei, il fuoco dell’artiglieria e i proiettili dei soldati israeliani. Migliaia di residenti hanno iniziato ad evacuare Rafah, città situata nelle vicinanze del confine con l’Egitto, dirigendosi verso altre località.

Ma dove andare? È questa la domanda che si pongono gli abitanti di Gaza. Una risposta, cinica, arriva indirettamente da Israel Katz, neoministro degli Esteri del governo Netanyahu: «Si potrebbe costruire un’isola artificiale al largo della Striscia di Gaza. Un luogo, da oltre cinque miliardi di euro, in cui esiliare definitivamente i palestinesi». La proposta è stata fatta da Katz nel corso della riunione dei ministri degli Esteri dell’Unione Europea, ovviamente accolta con molta freddezza. I ministri europei sono rimasti esterrefatti. Nella sala è sceso il gelo. «Non abbiamo bisogno di nessuna isola, né naturale, né artificiale – è stata la risposta del ministro degli Esteri palestinese, Riyad Al-Malik, che respinge, naturalmente, al mittente l’ipotesi israeliana -. Resteremo nel nostro Paese. La terra di Palestina ci appartiene, è nostra. E non permetteremo a nessuno di pensare il contrario. Chi vuol partire per abitare in isole artificiali o naturali, può tranquillamente andarsene. Noi – ha concluso – ci resteremo e resisteremo per restarci e lotteremo per i nostri diritti, per avere lo Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est». Nel frattempo, i morti nella Striscia di Gaza, dall’inizio della guerra, sono saliti a 26500, 7000 i dispersi, mentre i feriti superano le 63mila unità.

In Israele, i familiari dei 136 ostaggi in mano al gruppo terroristico di Hamas hanno protestato contro il governo che da oltre cento giorni non è riuscito a riportare a casa i prigionieri. Non una semplice protesta, ma una contestazione dura, con la richiesta esplicita delle dimissioni del primo ministro Netanyahu.

Lunedì scorso, i parenti degli ostaggi hanno fatto irruzione nel palazzo della Knesset (il parlamento) e i soldati non sono riusciti a bloccarli. Molti di loro portavano cartelli di protesta con le immagini dei loro cari. «Netanyahu non starai qui mentre i nostri figli muoiono a Gaza», hanno gridato i manifestanti. Ed ancora: «Siamo venuti a far sentire la nostra voce. Non ci fermeremo sin quando i nostri figli non saranno ritornati a casa. Nessuno riuscirà a fermarci».

Il ministro delle Finanze di estrema destra, Bezalel Smotrich, in risposta alle richieste dei familiari degli ostaggi ha affermato che l’unico modo per liberare i prigionieri è aumentare drasticamente l’intensità della guerra e la pressione, con tutti i mezzi, su Hamas e i suoi sostenitori. Itamar Ben-Gvir, anche lui ministro di estrema destra, ha aggiunto, sorprendentemente, che se la guerra finisse, il governo crollerebbe.

Ma Netanyahu ha rincarato la dose sbattendo la porta in faccia a Joe Biden e all’Ue: «Finché sarò premier, non ci sarà nessuno Stato palestinese, tantomeno con potere su Gaza», malgrado le richieste unanimi, in tal senso, di Washington e Bruxelles. Il primo ministro ha però aggiunto che il suo governo ha una proposta per la Striscia, suddivisa in tre momenti: il rilascio delle donne e degli anziani ancora in ostaggio in qualche località segreta di Gaza, seguiranno poi i giovani e i soldati e infine la consegna dei corpi degli ostaggi morti. Il piano prevede inoltre la liberazione di un gruppo di prigionieri palestinesi e prolungate pause dei combattimenti. Una fonte egiziana, però, ha reso noto ieri pomeriggio, 23 gennaio, che Hamas ha respinto la proposta di Israele per un cessate il fuoco di due mesi in cambio del rilascio degli ostaggi israeliani ancora detenuti a Gaza. Hamas chiede, invece, la fine dei combattimenti e il ritiro dalla Striscia dei militari con la Stella di Davide prima che i sequestrati vengano liberati.

Mentre i familiari degli ostaggi chiedono le dimissioni di Netanyahu e stazionano davanti alla sua abitazione a Cesarea, tra la popolazione israeliana cresce il malcontento per la politica intrapresa dal capo del governo.

L’elenco dei soldati israeliani morti a Gaza aumenta giorno dopo giorno. Lunedì scorso è stato per l’esercito israeliano il giorno più nero: ben 21 soldati sono rimasti uccisi in un’esplosione che ha causato il crollo di due edifici nelle vicinanze del confine di Kissufim. «Per quanto ne sappiamo – ha detto il portavoce delle forze di difesa israeliane, Daniel Hagari – i terroristi hanno lanciato un razzo contro un carro armato che proteggeva i soldati impiegati nella battaglia, ma contemporaneamente, si è verificata un’esplosione in due edifici a due piani. Gli stabili sono crollati mentre la maggior parte dei militari era impegnata all’interno e all’esterno delle abitazioni». I militari uccisi, dall’inizio dell’operazione di terra, hanno raggiunto così il numero di 219 unità.

Anche l’Egitto è preoccupato per le posizioni del governo israeliano. Il Cairo ha invitato Israele a rispettare il trattato di pace e a non diffondere “false insinuazioni” secondo le quali l’Egitto non sarebbe in grado di difendere i propri confini. «Queste false accuse – afferma una lunga nota dell’ufficio stampa del governo egiziano – non servono al trattato di pace, che l’Egitto rispetta, e chiede che altrettanto la parte israeliana mostri rispetto e smetta di fare dichiarazioni che metterebbero a dura prova le relazioni bilaterali. Il Cairo non permetterà mai a Israele di controllare l’asse di confine, il cosiddetto “Corridoio Filadelfia” tra l’Egitto e la Striscia di Gaza».

Nel frattempo, nella zona del Mar Rosso non si fermano le azioni militari di americani e inglesi contro gli Houti. La coalizione anglo-americana ha attaccato nuovamente le postazioni delle milizie filoiraniane nello Yemen, per l’ottava volta negli ultimi dieci giorni. I ribelli hanno affermato che gli attacchi hanno colpito anche la capitale, Sana’a, oltre alle città di Taiz, Al-Bayda e Hajjah.

6192.- Netanyahu, le proteste a Tel Aviv e la telefonata con Biden

Da Redazione Affari Internazionali, 22 Gennaio 2024

Netanyahu, le proteste a Tel Aviv e la telefonata con Biden

Sabato 20 gennaio, migliaia di israeliani hanno manifestato a Tel Aviv per chiedere la liberazione degli ostaggi detenuti dal 7 ottobre nella Striscia di Gaza e per chiedere l’allontanamento del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, accusato di continuare la guerra per rimanere al potere. I manifestanti hanno marciato attraverso piazza Habima, alcuni portando cartelli che accusavano Netanyahu con slogan come “il volto del male” e chiedendo “elezioni subito”.

Gli ostaggi e le vittime del 7 ottobre

Netanyahu sta affrontando forti pressioni per ottenere la restituzione degli ostaggi rapiti il 7 ottobre durante l’attacco senza precedenti di Hamas sul suolo israeliano e poi portati nella Striscia di Gaza, dove Israele sta conducendo da allora una guerra contro il movimento palestinese.

Delle circa 250 persone rapite, un centinaio sono state rilasciate in base a una tregua alla fine di novembre, mentre 132 sono ancora a Gaza. Di queste, 27 sono morte senza che i loro corpi siano stati restituiti, secondo un rapporto dell’AFP basato su dati israeliani. “Di questo passo, tutti gli ostaggi moriranno. Non è troppo tardi per liberarli”, ha dichiarato sabato Avi Lulu Shamriz, padre di uno degli ostaggi uccisi a Gaza.

Il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari ha dichiarato che le sue truppe hanno trovato un tunnel a Khan Younès (sud) con “prove di ostaggi” al suo interno, tra cui i disegni di un bambino di cinque anni. “Una ventina di ostaggi” sono stati tenuti lì in vari momenti, “in condizioni difficili, senza luce diurna (…) con poco ossigeno e un’umidità spaventosa”, ha continuato Daniel Hagari.

L’attacco del 7 ottobre ha causato la morte di circa 1.140 persone in Israele, la maggior parte delle quali civili, secondo un conteggio dell’AFP basato su dati ufficiali israeliani. A Gaza, quasi 25.000 persone, per la maggior parte donne, bambini e adolescenti, sono state uccise dai bombardamenti e dalle operazioni militari, secondo il Ministero della Sanità di Hamas.

Le proteste contro Netanyahu

Netanyahu ha dichiarato di voler continuare la guerra finché Hamas non sarà “eliminato”.

“Tutti nel Paese, ad eccezione della sua coalizione tossica, sanno che le sue decisioni non sono prese per il bene del Paese, ma che sta solo cercando di rimanere al potere”, ha criticato sabato Yair Katz, 69 anni. “Tutti vogliamo che si dimetta“.

Il Paese è gestito da criminali che non hanno alcun interesse per il popolo”, ha detto Boaz Sadeh, 46 anni. “Non fanno nulla per liberarli”, ha aggiunto.

A Gerusalemme, circa 250 persone si sono riunite davanti alla residenza del Primo Ministro, portando fiori e cartelli con l’immagine degli ostaggi.

La telefonata tra Biden e Netanyahu

Gli Stati Uniti chiedono ad Israele di limitare il numero di vittime civili, mentre la guerra tra Israele e Hamas continua a infuriare nella Striscia di Gaza. Washington ha anche ribadito il suo sostegno alla creazione di uno Stato palestinese.

In una chiamata, infatti, tra il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden e Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, avvenuta lo scorso venerdì – la prima volta dopo quasi un mese – Biden ha ribadito il suo sostegno alla futura statualità per i palestinesi. “Il Presidente crede ancora nella promessa e nella possibilità di una soluzione a due Stati. Riconosce che ci vorrà molto lavoro”, ha dichiarato ai giornalisti il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale John Kirby.

Netanyahu ha dichiarato di aver ribadito invece la sua opposizione alla “sovranità palestinese” nella Striscia di Gaza, insistendo sulla “necessità” di sicurezza. Durante la conversazione, “il Primo Ministro Netanyahu ha ribadito la sua politica secondo cui, una volta distrutto Hamas, Israele deve mantenere il controllo della sicurezza a Gaza per garantire che Gaza non rappresenti più una minaccia per Israele, una richiesta che contraddice la richiesta palestinese di sovranità”, ha dichiarato l’ufficio del Primo Ministro.

Il giorno precedente, il presidente israeliano aveva già dichiarato che “Israele deve avere il controllo della sicurezza su tutto il territorio a ovest del fiume Giordano. Questa è una condizione necessaria, che contraddice l’idea di sovranità (palestinese)”.

Tuttavia, al termine della loro conversazione, Biden ha affermato che è ancora possibile che Netanyahu accetti una qualche forma di Stato palestinese.

Da parte sua, Hamas ha respinto i commenti del presidente statunitense sulla possibilità di uno Stato palestinese, definendoli una “illusione” che “non inganna” i palestinesi. Biden è “un partner a tutti gli effetti della guerra genocida e il nostro popolo non si aspetta nulla di buono da lui”, ha commentato Izzat al-Richiq, un leader del movimento islamista, criticando “coloro che si considerano i portavoce ufficiali del popolo palestinese e che vogliono decidere per il popolo palestinese che tipo di Paese gli conviene”.

© Agence France-Presse