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6182.- Israele è l’avamposto dell’Occidente nel Mediterraneo Orientale.

C’è l’Iran al centro della politica americana nel Medio Oriente e alle spalle le due grandi potenze asiatiche, Cina e India, due per ora, che si fanno strada fra i Paesi arabi per sboccare in Mediterraneo. In Mar Rosso, gli Houthi godono dell’appoggio dell’Iran e sono contro Israele, contro gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Hanno di fronte l’Arabia Saudita. Ci troviamo in un momento decisivo senza uno stratega e, sul genocidio di Netanyahu, i governi arabi chiedono aiuto alla Cina.

Israele è il numero uno del Mediterraneo Orientale, l’avamposto dell’Occidente, è il “cavallo” per noi europei; ma Netanyahu guarda al suo orto, non guarda lontano, semina morte, odio e la sua guerra chiama l’antisemitismo e la vendetta. Combatte Hamas, stuzzica gli Hezbollah, ma, senza di essi, il suo potere vacillerebbe. Se così è, gli Stati Uniti devono porre un freno a Netanyahu. Gli Accordi di Abramo erano la strada giusta. Ma è l’Arabia Saudita il “re” per noi, per Israele, per il Medio Oriente e il 20–21 maggio Donald Trump incontrerà il re Salman e altri ufficiali sauditi a Riyadh. Dio voglia Donald, che tu sia il presidente e che “re” Mohammad bin Salman veda lontano. Se proseguirà la normalizzazione tra Iran e Arabia Saudita, se ha le carte per ridefinire le dinamiche regionali in Medio Oriente, nel viaggio di Trump c’è molto di più di una nuova alleanza del petrolio con l’Arabia Saudita: Anche la fine della guerra e la stabilità nel Mar Rosso e, perché no? in Libia. E non dimentichiamo che, nel 2018, proprio Trump, da presidente Usa, aveva ritirato unilateralmente gli Stati Uniti dall’accordo nucleare con l’Iran, contro il parere dell’Ue. Affermò che avrebbe negoziato un accordo più forte. Per Israele è importante che questo avvenga. La nostra domanda è, ora: “Saranno Riyadh e Teheran a ridefinire le dinamiche del Medio Oriente?”

Israele deve dialogare con tutto il mondo arabo, ma anche l’Europa deve far sentire il suo peso. Può farlo? e, sopratutto, può farlo con la Germania alla fame, la Francia di Macron in crisi politica, una guerra in Mar Rosso e un’altra con la Russia? Non può farlo e non può contare sul sostegno degli Stati Uniti per l’economia, che hanno privata scientemente del gas e dei mercati russi. Non può contare su Biden per un cessate il fuoco in Ucraina e a Gaza, ma il Mediterraneo ha bisogno di pace, non di Netanyahu, non di Biden e nemmeno di Erdoĝan: Pace!

Fonte Immagine: AP Photo/Vahid Salemi

L’America chiede a Netanyahu una conversione sulla via di Riad

Da Huffpost, di Janiki Cingoli, 16 Gennaio 2024

La missione di Blinken rilancia lo Stato palestinese, per coinvolgere gli arabi nella ricostruzione di Gaza. Il governo di destra si ribellerebbe alla soluzione a due Stati. Ma per Bibi è il costo politico per ottenere il premio della normalizzazione saudita che insegue da anni e del fronte unico contro l’Iran. E per la sua sopravvivenza politica, che oggi appare compromessa.

La missione che Antony Blinken, segretario di Stato americano, ha effettuato in Medio Oriente a inizio gennaio, la quarta dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, è stata giudicata con scetticismo dalla maggior parte degli analisti internazionali. Tuttavia, David Ignatius, editorialista principe del Washington Post, dà una interpretazione differente. Egli sottolinea come l’esponente statunitense abbia rovesciato l’abituale itinerario delle sue missioni, che iniziava da Israele per poi continuare nelle maggiori capitali arabe.

3380.- Il conflitto in Nagorno-Karabakh può portare alla destabilizzazione del Caucaso.

Camilla Canestri: “Ad una settimana di distanza dell’inizio delle ostilità tra le forze azere e armene nella regione contesa tra i due Paesi di Nagorno-Karabakh, la principale città dell’area, Stepanakert, è stata bombardata dall’Azerbaigian, il 3 ottobre. Questo è quanto ha denunciato il portavoce Ministero della Difesa armeno, Artsrun Hovhannisyan, il quale ha affermato che le forze azere stanno colpendo obiettivi civili con i propri missili.

Da parte sua, il Ministero della Difesa di Baku ha invece affermato che le forze armene stanno attaccando con missili lanciati da postazioni a Stepanakert le città di Terter e Horadiz, nel distretto di Fizuli. Oltre a questo, l’Azerbaigian ha anche denunciato che la seconda maggiore città del Paese, Ganja, dove vivono circa 300.000 persone, e altre aree civili sono state colpite da razzi e bombardamenti sferrati dall’Armenia. Quest’ultima ha però smentito l’accusa ma il presidente dell’autoproclamata Repubblica di Nagorno-Karabakh, Arayik Harutyunyan, ha rivelato che sono state le sue forze a distruggere una base militare a Ganja e ha aggiunto che: Le unità permanenti collocate nelle maggiori città dell’Azerbaigian sono, da oggi in poi, un obiettivo dell’esercito di difesa.

Più Paesi e organizzazioni internazionali hanno chiesto alle parti di tornare al dialogo, prima fra tutte la Russia. La Turchia, invece, è stato l’unico Paese ad adottare una posizione risoluta in appoggio all’Azerbaigian ed è stata accusata dall’Armenia e dalla Francia di aver rifornito le forze azere di mezzi, armi e uomini. In particolare, il presidente francese Emmanuel Macron, il 2 ottobre, ha accusato Ankara di aver portato in Azerbaigian militanti jihadisti reclutati in Siria.

l principale centro del Nagorno-Karabakh, Stepanakert, è sotto bombardamento da parte dalle forze azere. Allo stesso modo, la città di Ganja, nell’Ovest dell’Azerbaigian, è stata colpita da razzi e attacchi aerei, ampliando i confini del terreno di guerra. La capitale del Nagorno-Karabach è, nuovamente, senza corrente elettrica.

I mercenari di Erdogan

La RIA Novosti russa lo ha confermato e ha citato fonti informate dell’opposizione siriana secondo cui 93 mercenari siriani sono stati uccisi negli scontri del Karabakh di recente, spingendo un nuovo lotto da inviare in Azerbaigian dalla Turchia.

Una delle fonti ha detto all’agenzia che “i corpi di 53 mercenari sono stati trasferiti in Siria domenica … quindi, il bilancio totale delle vittime dei mercenari siriani ha raggiunto 93”.

Ieri, l’Osservatorio siriano ha indicato che le compagnie di sicurezza turche e l’intelligence turca hanno continuato a trasferire e addestrare un gran numero di membri delle fazioni filo-turche a combattere in Azerbaigian, poiché il numero di elementi in arrivo lì è aumentato a circa 1.200 combattenti.

Secondo il monitor, i mercenari siriani sono stati ingannati sul loro spiegamento, poiché originariamente era stato detto loro che avrebbero protetto i giacimenti petroliferi vicino alla regione del Karabakh. Questi mercenari sono allettati dalla paga maggiore dell’80% rispetto a quella percepita in Siria. “Ho registrato il mio nome più di una settimana fa per andare in Azerbaijan … per uno stipendio di due $ 2.000 al mese per un periodo di tre mesi”, ha detto uno di loro a un’agenzia.

La fonte ha detto che un terzo gruppo di mercenari siriani, compresi 430 membri, è partito sabato scorso per la zona di conflitto in Karabakh.

Da parte loro, Turchia e Azerbaigian hanno negato la presenza di combattenti siriani nel conflitto in Karabakh. Addirittura, il presidente azerbaigiano Ilham Aliyev ha chiesto alla Francia di scusarsi per le dichiarazioni del presidente Emmanuel Macron riguardo al trasferimento di militanti siriani a Baku per partecipare alle ostilità in Karabakh.

Aliyev ha detto in un’intervista ad Al Arabiya: “Non ci sono mercenari … Abbiamo un esercito di 100.000 soldati … Chiedo alla Francia di scusarsi e di essere responsabile”.

Esattamente, In precedenza, il presidente francese aveva dichiarato che 300 militanti siriani erano stati trasportati in aereo, attraverso la città turca di Gaziantep, a Baku.

La NATO chiede un cessate un fuoco in Nagorno-Karabakh

Scrive Maria Grazia Rutigliano per Sicurezza Internazionale: Il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, ha chiesto di imporre un cessate in fuoco in Nagorno-Karabakh, mentre il bilancio delle vittime continua a salire nell’enclave separatista nel Caucaso meridionale. 

La Turchia, nel frattempo, ha sollecitato l’alleanza a chiedere il ritiro delle forze armene dalla regione, che secondo il diritto internazionale rientra nella sovranità dell’Azerbaigian ma è popolata e governata dall’etnia armena. Parlando a fianco del ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ad Ankara, il 5 ottobre, Stoltenberg ha affermato che non esiste una soluzione militare al conflitto sul Nagorno-Karabakh. “È estremamente importante che trasmettiamo un messaggio molto chiaro a tutte le parti, queste dovrebbero smettere immediatamente di combattere, dovremmo sostenere tutti gli sforzi per trovare una soluzione pacifica e negoziata”, ha dichiarato Stoltenberg. La Turchia ha condannato quella che considera l’occupazione armena del Nagorno-Karabakh e ha giurato piena solidarietà con l’etnia turca dell’Azerbaigian. Cavusoglu ha affermato che la NATO dovrebbe anche chiedere il ritiro delle forze armene dalla regione.

I combattimenti nella contesa regione del Caucaso meridionale del Nagorno-Karabakh sono iniziati il 27 settembre, con entrambe le parti che si accusano a vicenda di aver attaccato l’altro. Secondo le autorità locali, 80 militari sono stati uccisi e quasi 120 feriti in Artsakh, il nome ufficiale della repubblica autoproclamata del Nagorno-Karabach, per via dell’attacco azero. Baku, da parte sua, afferma che l’offensiva è una risposta a bombardamenti effettuati dalle forze armene lungo la frontiera, una versione definita “menzognera” dalle autorità armene. L’Armenia sostiene le aspirazioni d’indipendenza dell’Artsakh dall’inizio degli anni ’90. Tale entità statale non è riconosciuta dalla comunità internazionale ed è fortemente osteggiata dall’Azerbaigian e dal suo alleato turco. A seguito degli scontri del 27 settembre l’Artsakh ha imposto la legge marziale e una mobilitazione generale. L’Azerbaigian ha proclamato la mobilitazione parziale e la legge marziale in alcuni dipartimenti e ha chiuso i suoi aeroporti a tutto il traffico internazionale a eccezione della Turchia, che si è impegnata a sostenere Baku.

Ieri, 4 ottobre, l’Azerbaigian ha dichiarato che sarebbe pronto a cessare le sue operazioni nel Nagorno-Karabakh qualora l’Armenia proponesse un programma per il ritiro delle sue truppe dalle città della regione contesa, secondo quanto annunciato dal presidente azero, Ilham Aliyev. “La nostra condizione per un cessate il fuoco è che l’Armenia proponga un’agenda temporanea per il ritiro delle truppe dai territori azeri occupati nel Nagorno-Karabakh, un ritiro non promesso solo a parole, ma attuato nei fatti, specificando quali territori verrebbero liberati e in quali giorni”, ha dichiarato Aliyev. “Condividiamo il punto di vista secondo cui il problema con l’Armenia dovrebbe essere risolto attraverso il dialogo, ma deve esserci un fondamento per questo. Il Primo Ministro armeno deve dichiarare la sua adesione agli accordi precedenti, secondo i quali i territori del Nagorno-Karabakh erano riconosciuti come territori azeri occupati”, ha aggiunto il presidente azero.

Nel caso in cui non si raggiungesse un cessate il fuoco, prosegue Aliyev, le operazioni azere continuerebbero e Baku cercherebbe di stabilire normali relazioni con il popolo armeno dopo aver liberato le sue terre. “Cercheremo di ripristinare le normali relazioni con il popolo armeno dopo la liberazione dei nostri territori occupati. Cercheremo di tornare a rapporti di buon vicinato, anche se non sarà facile”, ha dichiarato il presidente. Il primo ottobre, Pashinyan ha accusato la Turchia di coordinare l’offensiva militare dell’Azerbaigian, suggerendo che Ankara sia tornata nel Caucaso meridionale “per continuare il genocidio armeno”. 

3154.- Mosca sulla Giordania: perché la Russia osserva con interesse l’Arena palestinese

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas cammina con il presidente russo Vladimir Putin presso il quartier generale dell’Autorità palestinese nella città di Betlemme in Cisgiordania, giovedì 23 gennaio 2020 (Credito: Alexander Nemenov, AP).

“Questa è una totale assurdità”, ha detto il vice ministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov all’agenzia di stampa Tass del suo paese in risposta alle voci di una proposta russa per un vertice di pace americano-palestinese. “Trovano ogni sorta di fantasmagoria. È ridicolo, è delirante Fanno finta di niente, fantasticano e poi mi attribuiscono che ho introdotto un qualche tipo di proposta: abbiamo solo una proposta: rispettare la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU sull’insediamento palestinese-israeliano, è tutto ciò che proponiamo “.

I rappresentanti del cosiddetto Quartetto sul processo di pace in Medio Oriente – Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite – si sono infatti riuniti venerdì per un incontro virtuale, ma per quanto si sa, non lo hanno fatto discutere un tale vertice per far avanzare il piano di pace del presidente Donald Trump. La Russia si oppone fermamente al piano, così come i palestinesi, che hanno annunciato che oltre a interrompere il coordinamento della sicurezza con Israele e cessare la cooperazione con Israele in tutte le altre sfere, stanno tagliando i legami con la Central Intelligence Agency statunitense. La portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha confermato che Bogdanov aveva parlato al telefono martedì con l’inviato speciale di Trump, Avi Berkowitz, ma ha detto che durante la chiamata “la Russia ha chiesto di rinnovare i colloqui diretti tra Israele e i palestinesi”.

D’altra parte, mercoledì, in una conversazione telefonica con il nuovo ministro degli Esteri israeliano, Gabi Ashkenazi, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha dichiarato che il suo paese è pronto a svolgere un ruolo nel dialogo israelo-palestinese basato sul diritto internazionale, le decisioni del Quartetto e l’iniziativa di pace araba.
I palestinesi hanno una versione leggermente diversa. Secondo Munib al-Masri, un uomo d’affari palestinese della Cisgiordania e una figura pubblica di spicco, i palestinesi stanno esaminando la convocazione di un vertice internazionale a Mosca e i loro rappresentanti sono “in contatto con tutti i paesi del mondo e sperano che Mosca farà davvero il vertice possibile. Questa è una questione molto importante perché gli Stati Uniti hanno smesso di essere un broker onesto. “

Per anni, la Russia si è astenuta dall’affrontare la questione palestinese, nonostante sia stata membro del Quartetto per il Medio Oriente. Era chiaramente un’arena americana in cui Mosca non giocava un ruolo attivo. A marzo, alti funzionari russi hanno incontrato il capo dell’ala politica di Hamas, Ismail Haniyeh, che ha cercato assistenza russa nella promozione della riconciliazione palestinese interna tra Hamas, che controlla Gaza, e l’autorità palestinese dominata da Fatah in Cisgiordania. Ma finora le impronte digitali della Russia non si possono vedere su questo tema, tranne per i suoi sforzi per far avanzare uno scambio di prigionieri palestinesi e israeliani dispersi, una questione in cui anche altri paesi sono stati coinvolti e che finora non ha dato frutti.

Ora che un governo di unità è stato istituito in Israele, e alla luce della decisione del Primo Ministro Benjamin Netanyahu di andare avanti sull’annessione di porzioni della Cisgiordania a luglio, si è presentata una nuova opportunità per il coinvolgimento di Mosca. Se fino ad ora il governo israeliano aveva parlato con una sola voce dell’annessione, la Russia avrebbe apparentemente identificato un canale parallelo, tramite Ashkenazi e il suo collega del partito Kahol Lavan, il vice primo ministro Benny Gantz, che è anche ministro della difesa.
Un nuovo canale?
Gantz e Ashkenazi hanno ripetutamente affermato di appoggiare il piano di pace di Trump ma che (al momento) si oppongono a passi unilaterali che potrebbero innescare una violenta risposta palestinese e danneggiare irrevocabilmente i legami tra Israele e Giordania, oltre alle relazioni che Israele ha sviluppato con numero di paesi arabi.

La Russia ha espresso la sua ferma opposizione all’annessione pochi giorni fa in una dichiarazione del suo ministero degli Esteri: “La Russia ha ripetutamente messo in guardia i suoi partner israeliani dall’attuazione di piani unilaterali che contraddicono la base legale internazionale per un insediamento in Medio Oriente …. Tale espansionista le azioni di Israele provocheranno un pericoloso ciclo di violenza sulle terre palestinesi e destabilizzeranno la situazione generale in Medio Oriente “.

Mentre e in contrasto con l’Unione Europea, la Russia non ha minacciato o dettagliato le sanzioni che Israele potrebbe subire da Mosca in caso di annessione, il fatto stesso che la Russia abbia adottato una posizione pubblica così dura richiede che Israele consideri le implicazioni dell’annessione insieme e in relazione con Mosca. Questo, in particolare perché Mosca ha le carte in regola per consentire o interdire l’attività militare israeliana in Siria.

L’ipotesi di lavoro di Israele è che la Russia non creerà un collegamento tra le arene siriana e palestinese, perché in Siria, l’azione militare israeliana è al servizio dell’interesse russo a margine dell’Iran e garantisce la sopravvivenza del regime del presidente siriano Bashar al Assad.
Questa ipotesi è supportata anche dalla strategia tradizionale in cui, nei conflitti in Medio Oriente, la Russia ha sempre preferito che il suo coinvolgimento avvenisse in cooperazione con altri paesi, attraverso una coalizione di sostegno, piuttosto che agire unilateralmente.

Di conseguenza, in Libia, la Russia ha lavorato con l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, e in Siria ha collaborato con la Turchia e, in misura limitata, con l’Iran. In entrambe le zone di conflitto, la Russia sta approfittando dell’assenza degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, sta trovando nuovi posti da sfondare in Medio Oriente, anche in paesi chiaramente definiti come partner di Washington.
Di conseguenza, ha fatto sentire la sua influenza in Egitto, firmando un accordo per vendere al Cairo circa 20 caccia Sukhoi-35. È anche un partner di investimento con l’Arabia Saudita, nonostante la guerra petrolifera tra i due paesi.
La Russia sembra guardare all’arena palestinese come un obiettivo non tanto perché Mosca ha un così grande interesse nel risolvere il conflitto dei palestinesi con Israele, ma piuttosto perché è un’altra area in cui la massa degli americani sta affondando, e i palestinesi stanno guardando per un nuovo potente partner.
Chiunque spinga verso l’annessione israeliana in Cisgiordania dovrà tener conto del fatto che, al di là delle pressioni esercitate su Israele, un tale passo potrebbe condurre a una lotta tra le maggiori potenze – tra la Russia e l’Europa da un lato e gli Stati Uniti e Israele dall’altro. Questo non è esattamente il luogo caldo e accogliente in cui Israele vorrebbe essere.

Da Haaretz, 27 maggio 2020, traduzione libera di Mario Donnini

2678.- Rinforzi russi di centinaia di soldati arrivano in Siria per sorvegliare il ritiro curdo

L’invio di nuove truppe russe – mentre i soldati americani, appoggiati dagli elicotteri, si ritirano verso i pozzi di petrolio – sottolinea ulteriormente come la situazione sul terreno in Siria sia cambiata radicalmente con l’invasione della Turchia e le conseguenze che ne sono derivate.

Russian military police near the Syrian town of Amuda, October 24, 2019.
Polizia militare russa vicino alla città siriana di Amuda, 24 ottobre 2019. AFP

Circa 300 poliziotti militari russi della regione meridionale della Cecenia, con 20 veicoli da ricognizione, sono sbarcati dagli aerei da trasporto in Siria, secondo quanto dichiarato oggi dal ministero della Difesa russo e riferito dall’agenzia di stampa Interfax.

Riferisce Interfax, che il ministro della difesa russo, venerdì, ha dichiarato che i rinforzi della polizia militare russa aiuteranno i siriani a pattugliare il confine fra Siria e Turchia e le regioni previste negli accordi fra Mosca e Ankara; inoltre, coopereranno per assicurare che le forze curde e le loro armi si ritirino a 30 chilometri dal confine tra Siria e Turchia.

L’inviato siriano di Trump afferma che i combattenti dell’ISIS sono ancora dispersi e vede prove dei crimini di guerra turchi

Purtroppo, non vedremo una nuova Norimberga. Alla Turchia è stato ora concesso di mantenere il controllo su una parte significativa della Siria Nord-orientale: la striscia di terra al suo confine a Nord-Est che ha invaso il 9 ottobre, insieme a una parte più grande del confine a Nord-Ovest che la Turchia già occupa, catturato nelle precedenti incursioni.

Sempre il ministro russo, venerdì, ha dichiarato che il battaglione di rinforzoo di polizia militare inviato in Siria proviene dalla Cecenia, una regione russa che ha visto due devastanti guerre separatiste, alla fine degli anni ’90 e all’inizio degli anni 2000, prima che Mosca ne riprendesse il controllo. Le truppe dalla Cecenia, note per il loro feroce spirito guerriero, sono state regolarmente inviate in Siria in base alle normali rotazioni fra i reparti, negli ultimi anni.

Russian military police vehicles drive past an equestrian statue of Bassel al-Assad, the late brother of President Bashar al-Assad, in the northeastern Syrian city of Qamishli on October 24, 2019.
Veicoli della polizia militare russa passano davanti a una statua equestre di Bassel al-Assad, defunto fratello del presidente Bashar al-Assad, nella città siriana nord-orientale di Qamishli il 24 ottobre 2019.Delil SOULEIMAN / AFP

L’esercito russo non dichiara il numero totale del suo contingente in Siria e, venerdì, non ha detto quanti uomini saranno coinvoltie nella missione di pattugliamento al confine turco.

In base all’accordo Mosca-Ankara, la Turchia deve mantenere il controllo esclusivo di un’ampia sezione al centro dell’area di confine, la maggior parte delle quali è stata occupata durante la sua invasione questo mese, allo scopo di scacciare le forze curde alleate degli Stati Uniti da una “zona detta di sicurezza” lungo il confine.

Il governo siriano e la polizia militare russa controlleranno il resto del confine Siria-Turchia di 440 chilometri (273 miglia). Devono garantire che i combattenti curdi siriani, che erano alleati degli Stati Uniti nella lotta contro il gruppo dello Stato islamico e che hanno liberato gran parte della regione dall’IS, si allontanino di 30 chilometri (19 miglia) dalla frontiera. Successivamente, Russia e Turchia inizieranno i pattugliamenti congiunti lungo una striscia più stretta direttamente sul confine turco-siriano.

Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha dichiarato che le forze armate russe sono state in stretto contatto con i combattenti curdi siriani, facendo un “delicato lavoro” nel coordinare il loro ritiro dalle aree di confine. Ha osservato che i curdi si sono impegnati a rispettare l’accordo, aggiungendo che la mancata osservanza li metterebbe nei guai.

“Se le unità kurde con le loro armi non verranno ritirate da quella zona, rimpiangeranno purtroppo di essere faccia a faccia con l’esercito turco, perché le guardie di frontiera (siriane) e la polizia militare russa non si interporrebbero fra loro”, ha detto Peskov in una teleconferenza con i giornalisti.

Un grosso cuneo della Siria orientale rimane nelle mani dei combattenti a guida curda. Ciò include la maggior parte dei giacimenti petroliferi della Siria, che priva Damasco del controllo su una risorsa cruciale e conferisce ai curdi siriani un grosso chip di contrattazione. Trump ha affermato che un contingente di truppe statunitensi rimarrà lì per aiutare i curdi a “proteggere” i campi petroliferi.

Mosca ha sostenuto che la presenza delle truppe statunitensi in Siria è illegittima in quanto priva del permesso di Damasco di rimanere. Il viceministro degli Esteri Sergey Ryabkov ha dichiarato che Mosca è “preoccupata dal frequente cambio di segnali da Washington sui suoi piani e intenzioni verso la Siria”.

Members of the Syrian Kurdish Asayish internal security forces during a joint patrol with Russian military police vehicles (behind), in Hasakeh province on October 24, 2019.
Membri delle forze di sicurezza interne dell’asayish curdo siriano durante una pattuglia congiunta con veicoli della polizia militare russa (dietro), nella provincia di Hasakeh il 24 ottobre 2019. Delil SOULEIMAN / AFP

Come sappiamo, i combattenti curdi hanno occupato i principali campi tenuti dal gruppo dello Stato islamico e da allora hanno contribuito a finanziare il loro autogoverno vendendo il greggio, principalmente, al governo siriano.

Ancora Sergei Ryabkov ha suggerito che i nuovi segnali contraddittori che gli Stati Uniti hanno inviato riguardo alla Siria potrebbero indicare il desiderio di Washington di mantenere condizioni che consentano una continua pressione su Damasco.
“Siamo decisamente preoccupati che i segnali della Casa Bianca possano riflettere proprio questo atteggiamento: preservare le condizioni attuali per continuare la pressione multicomponente sulle autorità legittime di Damasco”. E lo ha sottolineato, aggiungendo che “questo è il momento in cui non sono d’accordo e non possiamo essere d’accordo con gli Stati Uniti su tutta la situazione “.

Gli Stati Uniti stanno inviando truppe corazzate nei giacimenti petroliferi siriani. La Russia li censura come “banditi di stato”

Lasciano l’Iraq, che non li vuole, per andare a occupare i campi petroliferi siriani

Il rischieramento di rinforzi nella Siria orientale potrebbe significare l’invio di diverse centinaia di truppe, il che invertirebbe, in parte, la riduzione in corso della presenza di truppe statunitensi in Siria, colmata dalla Russia.

Venerdì, il segretario alla Difesa Mark Esper, ha descritto la forza inviata in rinforzo come “meccanizzata”, il che significa che probabilmente includerà veicoli corazzati come i trasporti della fanteria Bradley e, possibilmente, carri armati M-1 Abrams (30 secondo una fonte), sebbene i dettagli debbano essere ancora elaborati. Questo rischieramento di un reparto corazzato introdurrebbe una nuova dimensione nella presenza militare degli Stati Uniti, che era in gran parte composta da forze dei reparti speciali, che non sono equipaggiate con carri armati o con altri veicoli corazzati.

Esper ha parlato a una conferenza stampa presso il quartier generale della NATO a Bruxelles, dove si è consultato con gli alleati degli americani. Si sfiora l’entrata della NATO nel conflitto siriano, senza che i popoli europei ne siano consapevoli. Trump millanta come una sua vittoria il ritiro dal Rojava, senza fare parola dell’annuncio di Esper.

L’inviato speciale degli Stati Uniti per la Siria, James Jeffrey, ha detto venerdì a Ginevra di aver parlato con un funzionario russo di una questione non specificata sorta nella regione petrolifera siriana.
“Attualmente siamo molto preoccupati per alcuni sviluppi nel Sud, nella zona di Deir el-Zour”, ha detto Jeffrey. “Ne ho parlato con il mio collega russo e stiamo avendo altri contatti con i russi in merito a quella situazione. Pensiamo che ora sia sotto controllo”.
Sebbene Esper non abbia menzionato le dimensioni dei rinforzi statunitensi, potrebbero ammontare a diverse centinaia di soldati perché i carri armati, che consumano molto carburante e gli altri veicoli corazzati dipendono da un ampio reparto di supporto logistico e di rifornimento. Aggiungerei che la loro distruzione avrebbe un forte impatto sull’opinione pubblica.
Un funzionario, che ha discusso della pianificazione a condizione dell’anonimato, perché alcuni dettagli sono rimasti da concordare, ha avvertito che i carri armati potrebbero eventualmente essere eliminati dal mix a causa di problematiche logistiche, incluso il trasporto aereo.
I leader russi e turchi hanno ora stabilito i rispettivi ruoli per la sicurezza nel Nord-Est della Siria in seguito al inatteso ritiro delle truppe di Trump dalla regione di confine tra Turchia e Siria. La mossa americana ha suscitato critiche diffuse sul fatto che l’amministrazione degli Stati Uniti avesse abbandonato i combattenti curdi siriani che hanno combattuto a fianco degli Stati Uniti contro l’ISIS per diversi anni.
L’annuncio di Esper è arrivato anche mentre Trump ha nuovamente indicato nei tweet che la missione militare degli Stati Uniti in Siria è completata. In precedenza ha riconosciuto la volontà di aiutare a proteggere i giacimenti petroliferi nella Siria orientale, suggerendo che potrebbero trarne beneficio i curdi e gli Stati Uniti, sebbene tali risorse appartengano al governo siriano.
“Il petrolio è garantito”, ha twittato Trump venerdì. “I nostri soldati se ne sono andati e stanno lasciando la Siria per altri posti, poi …. RITORNO A CASA! … Quando questi sciocchi esperti che hanno sbagliato a meditare sul Medio Oriente per 20 anni chiedono che cosa stiamo per concludere, io semplicemente dico, “L’OLIO E STIAMO PORTANDO I NOSTRI SOLDATI A CASA, AL SICURO DALL’ISIS! “

Da Mosca, il Maj. Gen. Igor Konashenkov, portavoce del ministero, ha aggiunto che “tutti i depositi di idrocarburi e altri minerali situati nel territorio della Siria non appartengono ai terroristi dell’IS, e ancor meno ai” difensori americani dai terroristi dell’ISIS “, ma esclusivamente alla Repubblica araba siriana”. Ha anche affermato che “né il diritto internazionale, né la legislazione americana stessa possono giustificare l’obiettivo delle truppe statunitensi di proteggere le riserve di idrocarburi siriani dalla Siria stessa e dal suo popolo.

A convoy of U.S. vehicles is seen after withdrawing from northern Syria, on the outskirts of Dohuk, Iraq, October 21, 2019.
Un convoglio di veicoli statunitensi viene visto in Iraq, dopo il ritiro dalla Siria settentrionale, alla periferia di Dohuk il 21 ottobre 2019. REUTERS / Ari Jalal

L’accusa di Ryabkov è che gli Stati Uniti potranno usare la loro presenza di truppe vicino ai giacimenti petroliferi per continuare a esercitare pressioni su Damasco. “Ricordando il caso della petroliera iraniana Grace 1, diretta in Siria e sequestrata, aggiungerei: per privare il popolo siriano di ogni sua fonte di energia.

Tutte le parti hanno promesso di rispettare un cessate il fuoco in base all’accordo russo-turco, ma la SANA statale siriana ha riferito di un attacco di truppe turche e ribelli alleati siriani alle posizioni dell’esercito siriano giovedì, fuori dalla città di Tal Tamr. Tuttavia, le forze democratiche siriane a guida curda hanno detto giovedì che tre dei suoi combattenti sono stati uccisi in combattimenti con forze sostenute dalla Turchia.

Per “ucciso in combattimento” o “neutralizzato” i turchi intendono anche il prigioniero giustiziato

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha rinnovato la sua minaccia, giovedì, di riprendere l’offensiva militare se il suo paese continuasse ad essere “molestato” dalla milizia curda. Ha anche detto che la Turchia “schiaccerà” qualsiasi combattente curdo siriano che i suoi militari incontrano mentre cercano di proteggere le aree sotto il loro controllo.

La Siria afferma che le forze a guida turca hanno attaccato le sue truppe, mentre i turchi reclamano cinque feriti in uno strike curdo

L’agenzia di stampa SANA statale siriana afferma che le truppe turche e i suoi combattenti alleati hanno attaccato posizioni dell’esercito arabo-siriano fuori dalla città di Tal Tamr, rivendicando diversi “martiri”. Se questa non è guerra!

Le forze turche e i loro alleati hanno attaccato giovedì le truppe del governo siriano nella Siria nord-orientale, uccidendo alcuni soldati e si sono, anche, scontrate con combattenti a guida curda, hanno riferito l’agenzia di stampa statale a Damasco e un gruppo di monitoraggio della guerra.

Il ministero della difesa turco ha riferito che cinque militari militari turchi sono stati feriti attorno alla città di confine siriana di Ras al Ain in un attacco effettuato dalla milizia curda YPG giovedì, dopo che la milizia ha accusato Ankara di aver attaccato l’area.

L’attacco è stato condotto usando droni, mortai e armi leggere, ha detto il ministero in una dichiarazione, aggiungendo che le forze turche hanno risposto agli attacchi per autodifesa. Naturalmente.

I combattimenti hanno sottolineato i rischi di escalation della violenza, in quanto forze armate polivalenti e spesso opposte si spingono a occupare nuove posizioni negli stretti quartieri delle città siriane della zona di confine Nord-orientale.

Ciò che più preoccupa è la prospettiva di una collisione, non episodica, tra le forze del governo siriano e quelle irregolari turche, controllate dallo Stato Maggiore della Turchia, che includono combattenti ribelli siriani ed estremisti islamici contrari al presidente Bashar Assad.

I curdi non si lamentassero

Il comandante della forza a guida curda siriana, Mazloum Abdi, ha affermato che Trump gli ha assicurato in una telefonata che le forze americane “rimarranno qui a lungo e che la loro collaborazione con le forze democratiche siriane continuerà a lungo”.

Erdogan, nel frattempo, ha detto alla televisione di stato turca TRT che gli Stati Uniti dovrebbero consegnare Abdi alla Turchia, definendolo un “terrorista” ricercato in Turchia.

Ankara ha giustificato la sua pulizia etnica – tale deve essere definita la sostituzione di un etnia nel suo territorio – affermando che deve salvaguardare il territorio della Turchia e spera di reinsediare i rifugiati arabi-siriani ora ospitati dalla Turchia nell’area di confine.

L’offensiva turca, infatti, ha innescato nuovi flussi di rifugiati. L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’UNHCR, ha affermato che finora oltre 10.100 rifugiati siriani, principalmente donne e bambini, sono entrati in Iraq in cerca di sicurezza. Ha anche stimato che circa 180.000 persone sono state sfollate all’interno del Nord-Est della Siria.

The Associated Press. Traduzione libera commentata.

2635.- SIRIA, CHI SONO I CURDI “TRADITI” DA TRUMP

9 ottobre 2019, di Pagella Politica Di Agi, Agenzia Italia

Come è divisa la popolazione curda in Siria e quali sono le sue rivendicazioni e le sue battaglie nel corso degli ultimi decenni. Cosa c’entra la Turchia e perché si parla tanto dei tweet del presidente americano

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Il 7 ottobre una serie di tweet del presidente mericano Donald Trump avevano dato l’impressione che fosse imminente un completo ritiro delle truppe Usa presenti nel nord della Siria, dando il via libera, di fatto, a un’invasione della Turchia di quell’area. Nella zona operano i curdi-siriani e i loro alleati riuniti nelle Syrian Democratic Forces (Sdf).

La sera dello stesso giorno il Dipartimento per la Difesa americano ha smentito il supporto americano a qualsiasi operazione turca contro i curdi e fonti del Pentagono hanno precisato che non c’è alcun ritiro in corso. Si tratterebbe di una semplice redistribuzione di appena 50-100 soldati, spostati in altre basi militari all’interno della Siria. Una minoranza del contingente americano nel Paese, che secondo le stimedovrebbe essere di circa duemila unità.

Trump, sempre via Twitter, ha dichiarato ancora il 7 ottobre che se la Turchia farà qualsiasi mossa che lui considererà “off limits”, allora «distruggerà» l’economia del Paese anatolico (cosa che, secondo Trump, avrebbe già fatto in passato).

Mentre la Turchia aveva già iniziato a muovere il suo apparato bellico al confine con i territori controllati dai curdi-siriani, la situazione sembra insomma essersi raffreddata. Vedremo nei prossimi giorni come evolverà, ma intanto cerchiamo di capire chi siano i curdi-siriani che Trump avrebbe voluto abbandonare e che la Turchia vorrebbe annientare.

Per prima cosa, vediamo meglio la situazione etnico-religiosa in Siria.

Religione, popolazione e geopolitica della Siria

In Siria, da un punto di vista religioso, la maggioranza della popolazione è sunnita (la corrente maggioritaria all’interno dell’Islam), mentre il regime di Assad è espressione della minoranza (10 per cento) alawita (una corrente assimilabile, in parte, allo sciismo, corrente minoritaria all’interno dell’Islam). Nel Paese vivono poi altre minoranze come i drusi e i cristiani.

Da un punto di vista etnico, poi, la maggioranza dei siriani sono arabi ma esistono numerose minoranze, tra cui i curdi (5 per cento della popolazione siriana). La popolazione curda vive principalmente in quattro Stati: oltra che in Siria, in Iraq, Iran e Turchia. Da un punto di vista religioso, i curdi sono sunniti.

Da un punto di vista geopolitico, il regime siriano è uno storico alleato della Russia (già dai tempi dell’Urss) e dell’Iran, che è lo Stato capofila dell’asse sciita, di cui fa parte anche l’Hezbollah libanese. Anche per questo, la Siria non è invece in buoni rapporti con Israele e con gli Stati Uniti, che – insieme ad altri – considerano Hezbollah un’organizzazione terroristica. Ma, come vedremo, gli ultimi anni hanno ingarbugliato significativamente il quadro.

Un breve riassunto della guerra civile siriana

Lo scenario siriano è estremamente complesso da descrivere. Negli ultimi anni si sono infatti concentrati nel Paese diversi fenomeni geopolitici che hanno interessato l’intero Medio Oriente.

La guerra in Siria iniziò nel 2011 nel contesto più ampio delle Primavere Arabe, quando le manifestazioni popolari contro il regime di Assad vennero brutalmente represse militarmente e presto si trasformarono in insurrezione armata.

A questo punto l’insurrezione siriana, nata come una Primavera Araba, mutò natura e divenne sostanzialmente una proxy war, una “guerra per procura”, tra l’Iran – che si schierò con il regime di Assad, insieme ai propri alleati libanesi di Hezbollah – e diverse potenze sunnite, in particolare Arabia Saudita, Turchia e Qatar (oggi una situazione simile si sta verificando anche in Yemen). Gli Stati Uniti ebbero fin da subito una partecipazione marginale, in supporto ai ribelli, e la Russia intervenne concretamente in supporto del regime solo nel 2015, come vedremo meglio dopo.

Le potenze sunnite erano però divise tra di loro, con l’Arabia Saudita che sosteneva fazioni di ribelli sia laiche sia legate all’estremismo islamico da un lato, e Turchia e Qatar che sostenevano invece fazioni legate alla Fratellanza Musulmana (un movimento politico islamista considerato dai Sauditi e dai propri alleati come un’organizzazione terroristica). Queste divisioni indebolirono fatalmente la ribellione siriana.

In questo scenario già complicato, si inserì poi il fenomeno dell’Isis: nato in Iraq dall’unione di ex uomini dei servizi segreti del regime di Saddam Hussein e di quel che era rimasto di Al-Qaeda in Iraq, l’organizzazione terroristica approfittò del caos in Siria per infiltrarsi nel Paese nel corso del 2012 e per prendere il controllo in diverse zone. Da qui nel 2014 sconfinò anche in Iraq – sempre facendo leva sul malcontento della popolazione sunnita, che in Iraq è minoranza – e, a giugno di quell’anno, con il famoso discorso del “Califfo” al-Baghdadi a Mosul nacque lo Stato Islamico.

La presenza dell’Isis ridusse il già timido supporto occidentale (e in particolare americano) all’insurrezione siriana, per il timore di consegnare il Paese ai fanatici islamici. L’allora presidente americano Obama – in particolare nel 2013, quando fu varcata la “linea rossa” sull’uso di armi chimiche – evitò di dare la spallata al regime di Assad e la Russia trovò lo spazio per intervenire, in primo luogo diplomaticamente.

È in questo contesto che gli Stati Uniti, dopo aver provato – efallito – a supportare militarmente dei ribelli siriani “moderati” e non invisi alla Turchia (Paese alleato della Nato), individuarono come propri alleati sul terreno nella guerra contro l’Isis i curdi siriani dell’Ypg (“Unità di protezione popolare”), la milizia del partito curdo marxista Pyd, legato ideologicamente al Pkk (il Partito curdo dei lavoratori), considerato da Ankara un’organizzazione terroristica (ricordiamo che il leader del Pkk Abdullah Öcalan è in carcere in Turchia dal 1999).

Prima di passare ad approfondire la questione specifica della causa curda, concludiamo la panoramica generale parlando del ruolo della Turchia e della Russia.

La Turchia è stato forse lo Stato sunnita che più degli altri ha supportato l’insurrezione siriana contro Assad, ma quando nel 2015 Mosca è intervenuta nel Paese per puntellare il proprio alleato lo scenario è cambiato. L’iniziale scontro tra Russia e Turchia in Siria si risolse presto a favore del Cremlino. In particolare dopo il fallito golpe in Turchia del 2016, il presidente turco Erdogan – che si sentiva tradito dagli alleati occidentali sia per le reazioni “timide” al golpe stesso che per l’appoggio americano ai curdi-siriani – riallacciò i rapporti con Putin e, sostanzialmente, rinunciò ad abbattere Assad in cambio di un posto al tavolo negoziale.

Questa presenza al tavolo di Astana – il luogo dove si svolgevano gli incontri sulla Siria mediati da Mosca e con presente Teheran – consentì alla Turchia di ottenere alcune concessioni, come ad esempio poter invadere nel 2018 una parte del nord della Siria (il cantone di Afrin) controllata dai curdi-siriani.

La Russia ottenne, così come l’Iran, la vittoria finale di Assad sui ribelli, in gran parte abbandonati da Erdogan. E, soprattutto, riuscì ad allontanare la Turchia dall’Occidente.

Oggi in Siria il regime controlla la maggior dell’ovest e del centro del Paese, è rimasta un’unica sacca ribelle nella provincia di Idlib nel nord-ovest (in parte controllata dalla Turchia), una piccola parte nel nord direttamente occupata da Ankara, una sacca ribelle (controllata di fatto dagli Usa) al confine con l’Iraq e, infine, una vasta area dell’est della Siria che è controllata dai curdi-siriani e dai loro alleati. Lo Stato Islamico, sconfitto come entità territoriale parastatale sia in Sira che in Iraq nel corso del 2017, col decisivo contributo dei curdi-siriani, dell’aviazione americana e – in parte – della Russia, delle milizie iraniane e delle forze di Assad, rimane attivo come organizzazione terroristica che compie attentati e incursioni.

Nella cartina: in rosso i territori controllati dal regime di Assad, in giallo dalle Sdf a guida curda, in grigio-verde la sacca ribelle di Idlib, in verde chiaro la sacca al confine con l’Iraq controllata da ribelli e truppe Usa, in verde contornato l’area di Afrin occupata dalla Turchia, in grigio alcune aree desertiche dove è presente l’Isis, in blu le alture del Golan occupate da Israele

La storia della resistenza curda in Siria

Le fazioni militari dei curdi-siriani, in particolare l’Ypg, nelle fasi iniziali della guerra civile siriana (2012) riuscirono a prendere il controllo dei territori abitati in maggioranza dalla popolazione curda senza incontrare una particolare resistenza da parte delle forze fedeli al regime di Assad.

Questo controllo venne però in larga parte perso quando l’Isis, rafforzatosi grazie alle vittorie militari ottenute in Iraq, scatenòuna massiccia offensiva militare nell’autunno del 2014. La città di Kobane divenne allora il fulcro simbolico dello scontro tra curdi-siriani e Isis. Anche grazie all’aiuto dell’aviazione statunitense, i curdi-siriani dell’Ypg ebbero la meglio e nel gennaio 2015 riuscirono a liberare la città e a riconquistare numerosi villaggi occupati dallo Stato Islamico.

Nel corso del 2015 i guerriglieri curdi – sempre con il supporto Usa – riuscirono a riconquistare i propri territori (noti anche come Rojava, o Kurdistan siriano) che erano stati occupati dall’Isis e riuscirono anche ad espandersi in aree abitate da popolazioni arabe. Di qui la necessità di creare una coalizione ribelle che non fosse esclusivamente di matrice curda: nacquero così a ottobre 2015 le Syrian Democratic Forces, di cui fanno parte oltre all’Ypg curdo anche milizie arabe e di altre etnie.

Negli anni successivi, 2016 e 2017, i curdi-siriani rafforzarono il proprio controllo sul Rojava e contribuirono in modo determinante alla sconfitta finale dell’Isis, in particolare con la conquista della città di Raqqa, capitale dello Stato Islamico in Siria.

Questo rafforzamento tuttavia è sempre stato osteggiato dalla Turchia, che a livello strategico ha sempre temuto la nascita di un’entità curda al proprio confine meridionale, oltretutto guidata da una fazione considerata terroristica per i propri legami con il Pkk. Ankara ha quindi sempre cercato di contrastare il consolidamento curdo nel nord della Siria, prima con la conquista di alcuni territori occupati dall’Isis (Jarablus e aree limitrofe) che separavano i cantoni orientali del Rojava (Kobane e Cizre) da quello occidentale di Afrin, poi – come detto – conquistando direttamente nel 2018 il cantone di Afrin col placet della Russia.

Se, infatti, i cantoni orientali curdi potevano contare sul sostegno militare e diplomatico degli Usa, non altrettanto poteva fare il cantone occidentale di Afrin.

Da ultimo, ad agosto 2019, la Turchia aveva ottenuto dagli Stati Uniti la creazione di una zona cuscinetto di pochi chilometri al confine con la Siria, e quindi coi territori controllati dai curdi-siriani, ma ancora non era ritenuto un risultato sufficiente da parte di Ankara. Erdogan anzi aveva accusato gli Usa di aver creato una “zona franca” per difendere i “terroristi” curdi. Di qui le successive costanti proteste con gli Usa per poter agire direttamente contro i curdi-siriani dell’Ypg.

Caratteristiche della causa curda

La causa curda ha suscitato nel corso degli ultimi anni grandi simpatie presso l’opinione pubblica occidentale, per una serie di motivi.

In primo luogo, sono stati soprattutto i guerriglieri curdi-siriani (e in parte curdi-iracheni) a portare avanti sul terreno la guerra contro l’Isis. In secondo luogo, alcune caratteristiche ideologiche dei curdi-siriani dell’Ypg hanno contribuito a questo gradimento.

La matrice ideologica del movimento è infatti post-marxista, per cui alle donne vengono riconosciuti gli stessi diritti che agli uomini. Esistono anche milizie curdo-siriane composte da donne, come ad esempio l’Ypj (Unità di protezione delle donne), che combattono spesso a capo scoperto contro gli estremisti islamici dell’Isis. Una contrapposizione, anche da un punto di vista visivo, che ha alimentato le simpatie occidentali per la causa curda.

Il Rojava, poi, è stato anche un esperimento politico-sociale, con l’adozione di una Costituzione di stampo democratico, pluralista e liberale, che enfatizza l’ambientalismo e il ruolo delle comunità locali nella gestione del potere.

Diverse centinaia, se non migliaia, di giovani provenienti dall’Occidente – ma non solo – si sono quindi uniti alla causa curda e alcuni, tra cui anche l’italiano Lorenzo Orsetti, hanno perso la vita nei combattimenti.

2630.- TRUMP AGGIUSTA LA ROTTA DEGLI STATI UNITI E DELLA TURCHIA

Siria, Trump: “Lasciamo il Paese, ma non abbandoniamo i curdi”

Siria, Trump: Lasciamo il Paese, ma non abbandoniamo i curdi

Pubblicato da Adnkronos il: 08/10/2019

“Possiamo aver avviato il processo per lasciare la Siria, ma in nessun modo possiamo abbandonare i curdi che sono persone speciali e straordinari combattenti”. Così Donald Trump su Twitter affermando che “stiamo aiutando i curdi finanziariamente e con armi”. Inoltre il presidente ribadisce gli avvertimenti rivolti ieri ad Ankara.

Il giovane Erdogan si è messo le scarpe del nonno

L’intendimento di Trump continuerà ad essere quello di sganciare la politica degli Stati Uniti da questi conflitti regionali

“Le nostre relazioni con la Turchia, un partner Nato e commerciale, sono state molto buone – scrive – la Turchia ha già una popolazione curda molto ampia e comprende a pieno che mentre abbiamo solo 50 soldati rimasti in quella parte della Siria, che stiamo rimuovendo, ogni combattimento non necessario e spontaneo da parte della Turchia sarà devastante per la loro economia e per la loro fragile valuta”.

Una colonna di blindati turchi e statunitensi di pattuglia nel nordest della Siria, al confine con la Turchia, il 4 ottobre 2019. (Baderkhan Ahmad, Ap/Ansa)

Possibili chiavi di lettura del processo decisionale di Trump.

Vogliamo sederci accanto a lui, Trump, e valutare i risultati pratici di questa decisione come è stata presa, direi necessariamente, a spezzoni. Viene da pensare che il Presidente, nel colloquio telefonico di sabato, abbia voluto ingraziarsi l’alleato turco ribelle, altalenante e che questo, a sua volta, abbia voluto accogliere quella disponibilità, progettando un’azione portata sul terreno da militanti e non dall’esercito turco e NATO. A seguire, il Presidente, sospinto dall’opinione pubblica, assolutamente da soddisfare nel suo presente, avrebbe fatto valere le garanzie promesse ai curdi, retrocedendo, apparentemente, come già avvenne alcuni mesi fa, al tempo del gen. Mattis, dissenziente da una consimile iniziativa. Per certo, è innegabile che questi conflitti senza fine vincolano le politiche degli Stati Uniti e della Russia, di volta in volta, con reciproci vantaggi e svantaggi e che meritano l’appellativo di ridicoli, attribuitogli da Trump. Ridicoli, che, però, nel caso dei curdi, sono costati a quel popolo 11.000 morti.

Il problema principale dell’area turco, curdo, siriana, irachena non sono le istanze di autonomia dei curdi e nemmeno tanto le attività dei loro guerriglieri, che potrebbero demordere, ma la politica intransigente di Erdogan, abilissimo nello sfruttare la posizione geopolitica della Turchia e a insinuare le sue ambizioni e le sue possibili soluzioni del problema curdo nell’instabilità dell’area medio-orientale. Possibili soluzioni che dipendono anche dalla situazione interna della Turchia. Qui entrerebbe anche il problema di Israele, della sua sicurezza, come anche, delle sue ambizioni per il Grande Israele.

Il destino del popolo curdo fu scritto con i confini creati dopo la fine sia della prima guerra mondiale sia dell’impero ottomano. L’accordo di Sikes-Picot fra i governi britannico e francese, in qualità di protettori dello Stato arabo, disegnò i confini del Medio Oriente con riga e matita. Uno stato curdo era stato previsto nel Trattato di Sèvres del 1920, ma quando tre anni dopo, il Trattato di Losanna fissò i confini della nuova Turchia, lasciò ai curdi lo status di minoranza. Da qui, le ribellioni e le guerriglie di ispirazione nazionalista e le conseguenti repressioni ed in seguito anche genocidi, particolarmente in Iraq. I curdi vivono nel loro Kurdistan divisi in minoranze fra Turchia Sud orientale, Siria settentrionale, Iran Nord occidentale e Iraq settentrionale. Quest’ultima è l’unica minoranza curda a godere di una certa autonomia, dalla fine di Saddam Hussein.

Per la soluzione del problema curdo non bastano le armi. Non è pensabile, oggi, un genocidio curdo tale e quale a quello del popolo armeno. Necessita stabilizzare il Medio Oriente e raggiungere l’accordo sia fra le grandi potenze sia fra i curdi e i paesi interessati che dovranno concedere autonomie e le rispettive minoranze, ma si potrebbe o, meglio, si dovrebbe rispolverare quel progetto previsto nel Trattato di Sèvres del 1920.

Concludo che l’intendimento di Trump continuerà ad essere quello di sganciare la politica degli Stati Uniti da questi conflitti regionali, in cui le grandi potenze possono fare più danni che bene. Una inversione di qualità della politica americana.

L’ Internazionale.it si esprime duramente sulla manovra politica di Trump. Pierre Haski,  France Inter, Francia, oggi, 8  ottobre 2019 titolano così:

L’abbandono dei curdi sarebbe stato un errore strategico

Era una decisione personale di Donald Trump, presa senza alcuna discussione e contro l’opinione della sua stessa amministrazione e il suo stesso partito. Se fosse stata messa in atto avrebbe avuto delle conseguenze importanti. La scelta del presidente degli Stati Uniti riguarda anche l’Europa, perché Francia e Regno Unito mantengono forze speciali nel nordest della Siria e diverse migliaia di jihadisti stranieri sono prigionieri delle forze curde in Siria, compresi molti europei. 

Per Donald Trump, che ha bisogno di riprendere l’iniziativa in piena procedura di impeachment, la faccenda è semplice: vuole riportare a casa le truppe da una guerra che in un tweet ha definito “ridicola”. Di sicuro i suoi elettori avrebbero apprezzato. Ma anche tra le file repubblicane le proteste erano state considerevoli nel vedere gli Stati Uniti abbandonare i loro alleati curdi che hanno condotto la guerra sul terreno contro il gruppo Stato islamico (Is). 

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Davanti all’ampiezza delle reazioni negative, il presidente ha fatto un voltafaccia: ha affermato, contro ogni evidenza, che non aveva dato il via libera alla Turchia per intervenire in Siria e ha limitato la portata del numero di militari da ritirare. È la seconda volta che si ripete uno scenario simile: già a gennaio il ministro della difesa, il generale Jim Mattis, aveva dato le dimissioni sdegnato per una decisone analoga, poi annullata. 

Come la prima volta, la decisione è arrivata nuovamente dopo una telefonata con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Non è un caso. La Turchia, infatti, vorrebbe veder partire gli statunitensi per intervenire in questa parte della Siria e allontanarne i combattenti curdi. 

Il rischio, prima di tutto, era quello di vedere l’esercito turco prendere di mira le posizioni dei curdi. Fino a poco tempo fa alleati della coalizione internazionale contro i jihadisti, i curdi verrebbero considerati come terroristi dall’esercito di Ankara. “Trump ci ha pugnalato alle spalle”, hanno commentato fonti curde. 

Una situazione del genere avrebbe costretto i curdi a scegliere tra due mali. A questo punto un’alleanza con il regime di Bashar al Assad rischia di essere preferibile allo scontro con il nemico giurato oltre il confine. Di conseguenza potremmo assistere a una svolta da cui Damasco trarrebbe enormi benefici grazie all’indifferenza di Trump. 

L’altro interrogativo, fonte di grande preoccupazione per l’Europa, riguarda i prigionieri. Lunedì il ministro degli esteri francese ha ripetuto che “i combattenti terroristi devono essere giudicati dove hanno commesso i loro crimini”. Ma chi dovrebbe giudicarli? I turchi? Damasco? La situazione rischia di diventare presto insostenibile, tanto più che altri paesi europei, come la Spagna, stanno prendendo una posizione diversa e vorrebbero rimpatriare i combattenti per processarli. 

La decisione di Trump era con tutta evidenza un errore strategico, anche se per il presidente si trattava soltanto di una manovra elettorale. Era un peccato morale nei confronti degli alleati curdi; un errore politico perché avrebbe affidato le chiavi della sicurezza regionale a un personaggio come Erdoğan; infine un errore per la sicurezza, perché alimenta il rischio di una ripresa dell’Is. 

L’uomo solo al comando della Casa Bianca è stato spesso incosciente e incoerente nelle sue decisioni, ma mai così catastrofico come nel caso dei curdi, vittime dell’ennesimo tradimento internazionale (tradimento che, alla fine e, almeno, per la seconda volta, non c’è stato. ndr). 

(Traduzione di Andrea Sparacino)

2536.- RUSSIA ED ERDOGAN SULL’ORLO DI UNA GUERRAdi Maurizio Blondet


Russi e turchi sempre più vicini allo scontro in Siria; ma le ambizioni, anche capricciose di Erdogan non valgono una guerra. Il sogno egemonico di Erdogan si è già ridotto. Pesano la sconfitta elettorale di Istambul, dove è stato sindaco dal 1994 al 1998, l’inflazione al 20%, col precipizio della lira turca svalutata del 35%, i conti dello Stato e le riserve valutarie che si sono assottigliate di 90 miliardi di dollari statunitensi. 
Il vice ministro della Difesa russo, Anatoli Antonov dichiarò: «Il presidente turco e la sua famiglia» nonché «le più alte autorità politiche turche sono coinvolti nel business criminale del traffico illecito di petrolio» proveniente dai territori occupati dall’Isis in Siria e in Iraq. La Russia sostiene anche di avere le prove del traffico di petrolio dai territori controllati dal Califfato verso la Turchia. Antonov ha poi definito la Turchia «il consumatore principale di questo petrolio rubato ai proprietari legittimi della Siria e dell’Iraq». Pronta è arrivata la replica di Ankara. «Gli introiti derivati dalla vendita di petrolio, circa due miliardi di dollari, è una delle più importanti fonti di finanziamento delle attività terroristiche in Siria», aggiunse Antonov. 

Abbiamo già riportato che l’aviazione russa, insieme con la siriana,  ha bombardato un convoglio di  rinforzi che la Turchia stava  mandando ai “ribelli” – terroristi  – asserragliati a Khan Sheikun, ormai ridotti in una sacca che l’esercito di  Damasco sta espugnando: il covo di cinque anni di falsità e terrore  dove fiorivano Elmetti Bianchi e ISIS e “Al Qaeda”, Al Nusrah e  altre AL .

Più precisamente,  le due aviazioni alleate  hanno bombardato  la carrozzabile proprio davanti al convoglio turco, che comprendeva  28 veicoli militari, tra cui carri armati e camion che trasportavano armi e munizioni  destinati a Tahrir al-Sham al-Hay’at (leggi il Fronte di Al-Nusra affiliato ad al-Qaeda). Adesso Gordon Duff (Veterans Today)   aggiunge un altro particolare: i  Sukoi (SU 35) russi  hanno intercettato, e  messo in fuga due   caccia turchi F-16, che erano in missione per attaccare le  forze dell’esercito siriano che sta liberando Khan Sheikun, e erano penetrati per 3-40 chilometri nello spazio nazionale siriano, di cui  Erdogan  continua a non riconoscere il governo .

“Ciò rappresenta anche uno scontro militare diretto tra Russia e Turchia” e ad un passo da una guerra  guerreggiata.

Il fatto sta  ad indicare  che la pazienza russa verso il  doppio gioco di  Erdogan, col quale per tre anni hanno cercato di condividere in Siria  i piani  di contrasto  del terrorismo “islamico” (israelo-americano e saudita) sta arrivando alla fine. Una pazienza eroica: quando nel novembre 2015  Erdogan ha fatto abbattere un Su-24M perché l’inopinato intervento di Mosca a fianco di Assad gli aveva mandato in fumo (letteralmente:  incenerendo  i convogli di autocisterne )  i grassi affari che stava facendo suo figlio con il petrolio siriano che gli vendevano i “liberatori” terroristi islamici, Mosca  ha cercato di coinvolgere il caporione turco in qualche forma di collaborazione verso la de-escalation- affidando alla Turchia  il compito di creare una zona demilitarizzata a Idlib,  sotto la responsabilità delle sue forze armate.

Nei fatti, Edogan ha occupato militarmente una striscia di territorio siriano che intende chiaramente  annettersi;   sostenendo  con armi munizioni e truppe i terroristi che per accordo avrebbe dovuto neutralizzare, fino all’incidente di lunedì dove ha cercato di rifornirli di armamenti.

Il  ministero della Difesa di Ankara ha incolpato la Russia,  sostenendo che il convoglio stava solo trasportando rifornimenti per il suo posto di osservazione militare a Idlib, che è stato istituito in base a un accordo con la Russia lo scorso settembre.  Contemporaneamente, il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu ha avvertito i in una conferenza stampa ad Ankara che Damasco “scherza  col fuoco”.

Vladimir Putin, a Parigi  dove ha incontrato Macron, in conferenza-stampa, a domanda di un giornalista,  ha risposto: prima della creazione di una zona smilitarizzata a Idlib da parte della Turchia, i terroristi avevano controllato il cinquanta percento del   territorio della provincia , ma ora il 90% del territorio di Idlib è sotto il controllo dei gruppi terroristici.

“La Russia ha resistito al doppio  gioco  della Turchia per un anno, ma ora  la pazienza si è esaurita, soprattutto perché la sua base aerea di Hmeymim è costantemente minacciata dagli attacchi terroristici”  dei  protettid da Erdogan, spiega Bhadrakumar (l’ex diplomatico indiano che è stato ambasciatore a Mosca) . Che aggiunge: “La Turchia ha esagerato in Siria. Ma  c’è di più:  sta pagando un prezzo elevato per le sue politiche sbagliate. Non avrebbe mai dovuto essere coinvolta nel progetto guidato dagli Stati Uniti per rovesciare il regime in Siria; la sua relazione con i gruppi terroristici era (e continua ad essere) incomprensibile; la sua proiezione   di forza  in Siria è una violazione del diritto internazionale; e, peggio , non è ancora disposto a riconciliarsi con il governo stabilito a Damasco, sebbene sia chiaro che il regime di Assad rimarrà al potere per un futuro prevedibile.

Nel frattempo, il deterioramento delle relazioni con gli Stati Uniti sta colpendo duramente la Turchia. Washington non ha voglia di soddisfare le preoccupazioni e gli interessi vitali della Turchia di fronte alla questione curda”.

Anche Washington sta facendo il suo doppio gioco, sostenendo militarmente la fazione curda in Siria,  cosa che è uno schiaffo all’ “alleato turco”  nella NATO.

“Dice Bhadrakumar:   La  pretesa  turca – una zona di sicurezza  profonda da 30 a 40 chilometri che si estende per 430 chilometri lungo il confine fino all’Iraq – non  sembra  accettabile per gli Stati Uniti. Ma gli Stati Uniti mantengono la Turchia impegnata nei colloqui per guadagnare tempo mentre la milizia curda appoggiata dagli USA manterrà il controllo”.

Secondo il diplomatico, ci  dovrebbe essere un tacito accordo in Siria fra Usa e Mosca, “ con Mosca che ha voce in capitolo in gran parte sull’area sulla parte occidentale del fiume Eufrate, mentre il lato orientale del fiume dove sono presenti le forze curde rimane sotto il controllo degli Stati Uniti.  Gli Stati Uniti mantengono la loro presenza ad est dell’Eufrate, mentre i territori ad ovest dell’Eufrate sono sottoposti alla “sfera di influenza” russa.

Ed è per questo che “la Russia non deve trattare coi  guanti  Ankara, sebbene la Turchia sia ancora una potenza della NATO. l ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha affermato  che qualsiasi attacco compiuto da gruppi militanti islamici (che la Turchia ospita) nella zona di de-escalation di Idlib sarà “represso con forza”.

Si spera che Bhadrakumar veda giusto –  ma non può vedere nella testa di Erdogan e delle   sue imprevedibili rabbie  improvvise.

Saranno gli americani a frenare Erdogan o i russi?

2483.- Mentre la soluzione dei due stati perde terreno, il progetto di uno stato guadagna popolarità.

How Israel Systematically Hides Evidence of 1948 Expulsion of Arabs. International forces overseeing the evacuation of Iraq al-Manshiyya, near today’s Kiryat Gat, in March, 1949.

Queste note, seguite alla dichiarazione di Trump a favore di Gerusalemme capitale, sono tuttavia ottimistiche, a favore del progetto di uno stato unico. Non lo vedremo mai. Quello favorito da Friedman per i palestinesi non sarà un stato costituzionale, ma l’opportunità di insediare stabilmente le forze armate USA in Palestina e, per Israele, di non fare sconti sulla sua sicurezza, oggi e domani.

Le riflessioni di David M. Halfbinger per il The New York Times, 5 gennaio 2018.

L’insediamento israeliano di Ariel in Cisgiordania. Incoraggiata dalla dichiarazione del presidente Trump su Gerusalemme, la destra israeliana sta apertamente perseguendo il suo scopo di un solo stato dal Giordano al Mediterraneo. Credit Dan Balilty per il New York Times.

La destra israeliana, incoraggiata dal fatto che Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, non è l’unica corrente politica a sostenere la soluzione di un unico stato tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

Anche l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha cominciato a chiedersi se questa possa non essere una idea così cattiva, sebbene abbia una visione radicalmente diversa di come dovrebbe essere questo stato.

Mentre la soluzione dei due stati perde slancio, entrambe le parti stanno riprendendo in considerazione l’idea dello stato unico. Ma questa soluzione è da tempo problematica per entrambe le parti.

Per gli Israeliani, assorbire tre milioni di Palestinesi della Cisgiordania significa o rinunciare alla democrazia o accettare la fine dello stato ebraico. Anche i Palestinesi, che non vogliono vivere in condizioni di sostanziale apartheid o di occupazione militare, vedevano la soluzione dei due stati come la loro migliore speranza.

Ora, per la prima volta da quando, nel 1988, dichiarò il suo appoggio ad uno stato palestinese accanto ad Israele, l’OLP sta seriamente discutendo se abbracciare soluzioni di ripiego, inclusa la realizzazione dell’unico stato.

“Questo sta dominando la discussione”, ha dichiarato Mustafa Barghouti, un medico membro del comitato centrale dell’OLP, che deve farsi carico di possibili mutamenti nella strategia del movimento nazionale nel corso di questo mese.

L’insediamento israeliano di Oranit. La destra israeliana sta facendo pressioni per annettere gli insediamenti ebraici nella Cisgiordania occupata. Credit Dan Balilty per il New York Times.

I sostenitori dei Palestinesi immaginano uno stato con eguali diritti per Palestinesi ed Ebrei. I Palestinesi avrebbero potere politico in proporzione al loro numero e, considerando i trend demografici, sarebbero entro breve tempo la maggioranza, determinando la fine del progetto sionista.

Questo risultato è inaccettabile per la destra israeliana, che sta premendo per annettere i territori della Cisgiordania occupata su cui i coloni israeliani hanno costruito colonie, relegando i Palestinesi nelle aree dove ora vivono.

Gli Israeliani che propongono lo stato unico riconoscono apertamente che le aree palestinesi sarebbero assai meno che uno stato, almeno all’inizio: il primo ministro Benjamin Netanyahu lo ha addirittura chiamato uno “stato minore”. In futuro, dicono, i Palestinesi potrebbero ottenere una statualità in una confederazione con la Giordania o l’Egitto, come parte di Israele, o forse addirittura in modo indipendente, ma non a breve.

Entrambe le parti hanno ufficialmente sostenuto a lungo l’idea dei due stati come soluzione al conflitto, contemporaneamente accusando l’altra parte di covare piani sull’intero territorio. Ma la dichiarazione di Trump su Gerusalemme del mese scorso ha cambiato le carte in tavola.

L’amministrazione Trump non ha sostenuto la soluzione dell’unico stato, e sta lavorando a un suo progetto di pace, insistendo che ogni accordo definitivo, confini inclusi, deve essere negoziato dalle due parti. Ma la decisione presa dal presidente il mese scorso di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, in spregio alla ultradecennale politica statunitense ed al consenso internazionale e senza alcuna menzione delle rivendicazioni palestinesi sulla città, è stata letta come un deliberato spostamento dell’ago della bilancia dalla parte di Israele.

Saeb Erekat, veterano negoziatore palestinese, ha detto che la dichiarazione di Trump ha suonato la campana a morto per la soluzione dei due stati e che i Palestinesi dovrebbero spostare la loro attenzione su “uno stato con uguali diritti”. Da allora la sua posizione ha guadagnato popolarità tra i leader palestinesi.

I Palestinesi si sono scontrati il mese scorso con le forze israeliane in Cisgiordania, durante le proteste contro il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Trump. Alcuni leader palestinesi hanno letto l’annuncio come la fine della soluzione dei due stati. Credit Dan Balilty per il New York Times

In questa prospettiva, il movimento palestinese dovrebbe passare ad una battaglia per l’eguaglianza dei diritti civili, incluse le libertà di movimento, assemblea, manifestazione del pensiero, e il diritto di voto alle elezioni politiche. “Il che significa che un Palestinese potrebbe essere primo ministro”, ha detto Barghouti.

Per i suoi sostenitori palestinesi, l’idea dell’unico stato è un’amara consolazione dopo decenni di battaglie per uno stato sulla base degli accordi di pace di Oslo, che molti ritengono abbiano portato a poco se non a dare copertura, e tempo, all’espansione degli insediamenti israeliani.

“Se sostieni la soluzione dei due stati, sostieni Netanyahu”, ha dichiarato As’as Ghanem, docente di scienze politiche all’Università di Haifa che da tempo lavora con un gruppo di Israeliani e Palestinesi a una strategia basata su un unico stato. “È ora che noi Palestinesi proponiamo un’alternativa”.

Vari sforzi sono in corso. Un gruppo che esiste da una decina d’anni, chiamato Movimento Popolare per uno Stato Unico e Democratico, guidato da Radi Jarai, un ex-leader di Fatah che ha passato 12 anni in un carcere israeliano dopo aver partecipato alla guida dell’Intifada del 1987, sta pianificando una campagna sui media per spiegare l’idea agli abitanti della Cisgiordania.

“Pensano che ciò significhi che i Palestinesi avranno la carta d’identità israeliana e vivranno sotto un regime di apartheid”, ha detto. “Ma la nostra idea è di avere uno stato democratico, con nessun privilegio per gli Ebrei o per alcun altro gruppo etnico o religioso”.

Altri stanno parlando di delineare un prototipo di costituzione per un unico stato o di fondare un partito politico che lo sostenga in Israele e nella Cisgiordania.

La polizia di confine israeliana monta la guardia nel quartiere musulmano della città vecchia di Gerusalemme. I sostenitori palestinesi della soluzione di un unico stato immaginano uno stato con uguali diritti per Palestinesi ed Ebrei. Credit Uriel Sinai per il New York Times.

“Almeno il 30% dei Palestinesi sostiene l’idea dell’unico stato sebbene nessuno ne parli”, ha detto Hamada Jaber, organizzatore di un gruppo chiamato Fondazione per un Unico Stato, “se ci sarà almeno un partito politico da ciascuna parte che ne parla e ne adotta la strategia, il sostegno crescerà”.

L’idea ha un sostegno più ampio tra i giovani, ha detto il sondaggista palestinese Khalid Shikaki, in particolare tra gli studenti e i professionisti che reclamano un mutamento di strategia fin dalla primavera araba del 2011.

“Ho 24 anni”, afferma Mariam Barghouti, scrittrice e attivista coinvolta negli sforzi verso un unico stato, e parente alla lontana di [Mustafa] Barghouti, “Tutto ciò che ho conosciuto è Oslo e il processo di negoziazione per i due stati. Sono stata testimone di come le cose siano solo peggiorate per me e la mia generazione”.

Per la destra israeliana, abbandonare l’obiettivo dei due stati è una cosa buona, una minaccia evitata. Molti infatti guardano a ciò che è successo a Gaza, da cui Israele si è unilateralmente ritirata nel 2005, e immaginano una Cisgiordania controllata allo stesso modo dai militanti di Hamas, con la conseguenza di razzi che piovono sull’aeroporto Ben-Gurion da est, anziché sulle fattorie e sulle scuole da sud.

Ma la destra israeliana non ha pienamente chiarito come il suo unico stato supererebbe il dilemma demografico. Assorbire i quasi tre milioni di Palestinesi della Cisgiordania significherebbe la fine dello stato ebraico, oppure distruggerebbe la democrazia israeliana se ai Palestinesi venissero negati uguali diritti. Anche una risicata maggioranza ebraica non sarebbe politicamente in grado di negare ai Palestinesi piena cittadinanza e pari diritti in un singolo stato sovrano.

“Non darei mai la cittadinanza alle masse della popolazione araba in Giudea e Samaria”, ha dichiarato Yoam Kisch, parlamentare del partito di Netanyahu che sta portando avanti un piano per l’autonomia, usando i nomi biblici per la Cisgiordania.

Lo scorso mese le bandiere israeliana e americana sono state proiettate sulle mura della città vecchia di Gerusalemme, subito prima che Trump riconoscesse Gerusalemme come la capitale di Israele. Credit Uriel Sinai per il New York Times.

In futuro, ha detto, ciò che rimane delle aree palestinesi potrebbe diventare parte della Giordania o dell’Egitto, o diventare una qualche forma di “stato minore” con sovranità limitata. Nel frattempo, Kisch ha dichiarato di voler dare la piena cittadinanza israeliana soltanto a circa 30.000 Palestinesi della Cisgiordania che vivono in aree su cui vuole che Israele affermi la sua sovranità.

Una mossa del genere sarebbe inaccettabile per i Palestinesi.

Ciò che queste due visioni completamente diverse dello stato unico condividono è la convinzione che la soluzione dei due stati sia irraggiungibile.

Certamente l’OLP non sta completamente rinunciando all’idea dei due stati. Sta ancora percorrendo altre vie diplomatiche. Venerdì, per esempio, Erekat ha fatto appello agli stati membri della Lega Araba perché diano corso agli impegni presi in passato di interrompere ogni legame con i paesi che riconoscono Gerusalemme come capitale di Israele.

“Sappiamo che dobbiamo stare attenti che il mondo non ci fraintenda”, ha dichiarato Barghouti in un’intervista. “Se la soluzione dei due stati muore, sarà responsabilità di Israele, non dei Palestinesi. Ma se gli Israeliani la uccidono, che è ciò che stanno facendo ora, purtroppo con l’aiuto dell’amministrazione Trump, allora l’unica opzione per noi sarà quella di combattere il regime di apartheid e farlo crollare, il che significa un unico stato con uguali diritti per tutti”.

Sia i Palestinesi che gli Israeliani sono scettici riguardo alla possibilità che leader palestinesi come Erekat e Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, possano mai veramente abbandonare il processo di Oslo, al quale hanno consacrato le loro carriere e al quale devono il loro sostentamento.

Se e quando in Israele verrà eletto un governo più liberale, potrebbe anche resuscitare il processo di pace basato sui due stati.

Ma i costi e la difficoltà politica di ritirare gli Israeliani dalla Cisgiordania crescono con ogni famiglia di coloni che vi si trasferisce.

Daniel C. Kurtzer, un professore di Princeton che è stato ambasciatore in Egitto con l’amministrazione Clinton e in Israele sotto George W. Bush, ha fatto notare che circa 120.000 lavoratori palestinesi fanno i pendolari in Israele, i servizi di sicurezza palestinesi forniscono aiuto ad Israele nella protezione della sua popolazione e l’Autorità Palestinese solleva Israele dall’obbligo che grava sulla potenza occupante di prendersi cura dei rifugiati.

“Tutti noi diciamo ‘non accadrà mai, torneranno in sé’”, ha detto Kurtzer. “Ma quanto si può andare avanti con lo status quo? Ci sveglieremo un giorno e sarà di fatto un solo stato. È come in ‘Thelma e Louise’. Corri lungo l’autostrada e la vita è fantastica. Ma c’è un precipizio”.

David M. Halfbinger

Rami Nazzal ha contribuito con notizie da Ramallah, Cisgiordania, e Myra Noveck ha fornito ricerche da Gerusalemme.

2482.- L’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele rifiuta di approvare lo stato palestinese e dichiara di sostenere “un’autonomia estesa”

Tramonta il progetto dell’ONU dei due Stati, portato avanti, fra gli altri, da Federica Mogherini.  Una breve scansione:

Il nome “Palestina” fu usato da Erodoto nel V° secolo a.c.. Ufficialmente, fu adottato per la prima volta dall’impero romano, per la provincia di Palestina, appartenuta, poi, all’impero bizantino e, ancora, al califfato arabo omayyade e abbaside. Dopo l’Impero Ottomano, il 16 maggio 1916, con la firma dell’Accordo Sykes-Picot, Francia e Gran Bretagna decidono che il territorio della Palestina ottomana venga assegnato alla fine della guerra al Regno Unito, con mandato di tipo A, sotto controllo della Società delle Nazioni. Il 9 dicembre 1917, le truppe britanniche occupano gerusalemme e l’intera Palestina. Il mandato comincia formalmente nel 1920 e terminerà nel 1947, caratterizzato da varie rivolte da parte dei palestinesi contro la politica britannica nei confronti dell’autorizzazione del Regno Unito all’immigrazione ebraica e delle vendite di terreni ai migranti da parte dei latifondisti arabi. Il 29 novembre 1947, l’Assemblea Generale dell’ONU approva il Piano di partizione della Palestina. Agli arabi viene lasciata la minoranza del territorio dell’ex mandato britannico della Palestina e nel rimanente viene costituito lo Stato di Israele. Il diritto di esistenza di uno Stato di Palestina è riconosciuto da 136 paesi, anche se a vario titolo, dalle Nazioni Unite (secondo la risoluzione del 1948) e dall’Unesco, non dall’Italia.

Ci sono differenti progetti riguardanti un possibile stato palestinese

Il progetto “Sicurezza dei due Stati” (Two State Security), che colonizzerebbe la Palestina sotto il dominio di Israele, nonostante essa vi venga definita un territorio “sovrano”, e sotto l’occupazione USA permanente che sorvegli il fiume Giordano. A Gaza richiederebbe per prima cosa una riaffermazione del governo e del controllo della sicurezza di Gaza da parte dell’Autorità Palestinese, vista come una forza alleata che applichi misure di sicurezza interna in Cisgiordania e Gaza per conto di Israele.

La forma dei “due stati per due popoli”, pura e semplice, come premessa di una pace futura, prevede una obbligatoria “separazione dai palestinesi”, ma è, invece e in realtà, un luogo comune, che presuppone una rinuncia solenne e definitiva di entrambi, israeliani e arabi, a tutte le rivendicazioni sul territorio assegnato a ciascun altro dei due. Nelle trattative Israele ha sempre offerto e chiesto questa clausola “finale” fra le condizioni irrinunciabili e ha sempre ricevuto netti rifiuti. Per Israele questa “pace” sarebbe solo un armistizio svantaggioso. 

Qualcuno, nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e la destra israeliana, incoraggiata dal fatto che Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, comincia a sostenere la soluzione di un unico stato tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

La soluzione porta con se dei problemi di integrazione, che dovrebbero far riflettere quanti, anche tradendo il proprio mandato, sostengono che l’Europa e, sopratutto, l’Italia debbano assorbire milioni di africani, assolutamente privi di qualunque educazione civica e senza valori da poter offrire in contraccambio a quelli ricevuti. Per gli Israeliani, assorbire tre milioni di Palestinesi della Cisgiordania significa, infatti, o rinunciare alla democrazia o accettare la fine dello stato ebraico e della sua identità. Anche per i Palestinesi, significherebbe vivere in condizioni di sostanziale apartheid o di occupazione militare, perciò essi, vedevano con favore la soluzione dei due stati. Comunque, data la situazione di stallo, l’OLP si sta orientando a discutere se abbracciare soluzioni di ripiego, come anche la realizzazione dell’unico stato, rinunciando ad appoggiare uno stato palestinese accanto ad Israele, per la prima volta dal 1988.

Oggi, chiamando in causa problemi per la sicurezza, l’ambasciatore USA a Gerusalemme, Friedman afferma che uno stato palestinese in questa fase “è una minaccia esistenziale per Israele e per la Giordania”. In pratica, resuscita il progetto “Sicurezza dei due Stati”, cioè, la sicurezza prima di tutto – per Israele

La soluzione porta con se dei problemi di integrazione, che dovrebbero far riflettere quanti, anche tradendo il proprio mandato, sostengono che l’Europa e, sopratutto, l’Italia debbano assorbire milioni di africani, assolutamente privi di qualunque educazione civica e senza valori da poter offrire in contraccambio a quelli ricevuti. Per gli Israeliani, assorbire tre milioni di Palestinesi della Cisgiordania significa, infatti, o rinunciare alla democrazia o accettare la fine dello stato ebraico e della sua identità. Anche per i Palestinesi, significherebbe vivere in condizioni di sostanziale apartheid o di occupazione militare, perciò essi, vedevano con favore la soluzione dei due stati. Comunque, data la situazione di stallo, l’OLP si sta orientando a discutere se abbracciare soluzioni di ripiego, come anche la realizzazione dell’unico stato, rinunciando ad appoggiare uno stato palestinese accanto ad Israele, per la prima volta dal 1988.

Questo progetto è stato elaborato dal Forum sulle Politiche di Israele (IPF), un gruppo di pressione con sede a New York fondato nel 1993 su iniziativa del Primo Ministro Yitzhak Rabin al fine di promuovere il processo di pace di Oslo. Poco dopo l’inizio del suo mandato nel 2009, il Presidente Obama adottò la “Roadmap” per il Medio Oriente dell’IPF. Lo abbiamo definito la definitiva colonizzazione della Palestina, perché, tra le raccomandazioni del piano, leggiamo la completa smilitarizzazione della Palestina nonostante essa venga definita un territorio “sovrano”, un’infrastruttura per la sorveglianza delle frontiere ed una presenza militare statunitense permanente che sorvegli il fiume Giordano, non molto distante dall’Iran, molto simile alla presenza USA fra i Curdi.

Friedman rifiuta di approvare lo stato palestinese e dichiara di sostenere “un’autonomia estesa”.

David Friedman
David FriedmanJIM WATSON / AFP

L’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele David Friedman ha dichiarato in un’intervista della CNN che gli Stati Uniti “non sono pronti a parlare dello stato palestinese” poiché costituirebbero una minaccia alla sicurezza esistenziale per Israele e Giordania.
Alla domanda della giornalista Christiane Amanpour se gli Stati Uniti sono impegnati in una soluzione a due stati, Friedman ha dichiarato: “Crediamo nell’autonomia palestinese, crediamo nell’autogoverno palestinese. Crediamo che l’autonomia dovrebbe essere estesa fino al punto in cui interferisce con la sicurezza israeliana “.
Citando preoccupazioni per la sicurezza, Friedman ha affermato che uno stato palestinese in questa fase “è una minaccia esistenziale per Israele, per la Giordania”, sostenendo che sarebbe diventato un hub per i gruppi terroristici.

Trump non darà a Netanyahu la West Bank come regalo di rielezione. A causa dell’Iran

Friedman ha detto: “L’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno è uno stato palestinese fallito. In questo momento il governo palestinese è estremamente debole “, ha aggiunto, che l’amministrazione degli Stati Uniti vuole che i palestinesi abbiano un’economia e si governino da soli.

Friedman ha anche respinto una soluzione a stato unico composto da una unica cittadinanza e con pari diritti per tutti i residenti di Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza. “Non credo che qualcuno responsabile in Israele stia spingendo per una soluzione a uno stato unico… Non penso che ci sia un serio movimento politico in Israele per una soluzione a uno stato, e non credo che nessuno degli atti che Israele ha compiuto o che abbiamo deciso negli ultimi due anni ci sta portando a un tal punto “, ha detto.

 A giugno, l’inviato per il Medio Oriente di Friedman e del presidente Donald Trump Jason Greenblatt ha aperto un tunnel che corre sotto un villaggio palestinese a Gerusalemme est durante una cerimonia che inaugura un progetto archeologico di coloni. 

Sempre a giugno, Friedman ha dichiarato al New York Times che Israele ha il diritto (se lo dice lui! net) di annettere parti della Cisgiordania. Il commento segue la promessa elettorale del primo ministro Benjamin Netanyahu di annettere il territorio, su cui Israele ha mantenuto il controllo da quando è stato conquistato alla Giordania nella guerra del 1967.

2267.- GOLAN: TRUMP HA FIRMATO ! GIORNATA STORICA NEI RAPPORTI USA-ISRAELE, MA NON FINISCE QUI.

The New York Times:

Trump’s Pointless Provocation on the Golan. There was no need to call for recognizing Israel’s annexation of the Syrian territory.

President Trump’s proposed reversal of decades of American policy on the Israeli occupation of the Golan Heights has more to do with Israeli politics than American interests — or good sense. 

On Thursday, he announced on Twitter that the United States should recognize Israeli sovereignty in the disputed Golan Heights, on Israel’s border with Syria, even though no other country has done so. The United Nations has declared that official annexation of the territory would violate international law.

Mr. Trump created a controversy where none needed to exist. Israel has been under no pressure to end the occupation of the Golan, which began during the 1967 Arab-Israeli War with the seizure of some 400 square miles by Israeli troops. 

But Israel’s prime minister, Benjamin Netanyahu, is facing a tough re-election fight, and he has pleaded with Mr. Trump to make the move. The tweet bolsters his claim that he can best keep Israel safe because of his close ties to the White House.

Support for Israeli sovereignty over the Golan Heights would also give Israel’s right-wing parties an opening to argue for Israel’s annexation of the West Bank. Such a move would crush any remaining hope of Palestinian statehood and put Israel’s future as a Jewish democracy at risk. …

Prima, l’ambasciata USA a Gerusalemme, poi, 38 miliardi di dollari di aiuti militari e, ora, il Golan. Gli USA, sconfitti in Siria, si mettono a rimorchio di Israele. Fanno bene? Come reagirà Putin?

Il 25 marzo è una giornata storica nei rapporti Usa-Israele, ma non solo:

il presidente americano Donald Trump ha firmato il riconoscimento della sovranità di Israele sulle alture del Golan. Trump lo aveva annunciato su Twitter : “Dopo 52 anni è tempo per gli Stati Uniti di riconoscere pienamente la sovranità di Israele sulle alture del Golan, tema di importanza strategica e di sicurezza per lo stato di Israele e per la stabilità della regione”.

La decisione del presidente è una mossa contro la presenza iraniana in Siria, vuole rimescolare le carte della vittoria di Putin in Siria e arriva dopo mesi di forti pressioni da parte dello Stato ebraico su Washington per chiedere proprio il riconoscimento della sovranità israeliana. Evidentemente, l’Iran è più importante del Golan. Trump con la sua mossa — che segue il trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme — sta sostenendo anche il premier israeliano. Il 9 aprile, Netanyahu, indebolito dagli scandali, ma con questo appoggio, potrebbe garantirsi un quarto mandato.

In occasione della visita del segretario di Stato degli Stati Uniti, Mike Pompeo, il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva chiesto che la comunità internazionale riconosca la sovranità israeliana sulle alture del Golan.

Chi occupa il Golan è in posizione dominante nella regione

Chi occupa il Golan è in posizione dominante nella regione, dai punti di vista militare, agricolo e dello sfruttamento delle risorse energetiche. Secondo fonti governative statunitensi e israeliane, gli Stati Uniti erano pronti a riconoscere la sovranità di Israele sulle alture del Golan, territorio al confine con la Siria conteso tra Gerusalemme e Damasco e ricchissimo di gas, petrolio e, soprattutto, di acqua.

Già la scorsa settimana si era notato il cambio di prospettiva degli Usa sulla sovranità di Israele sui territori annessi unilateralmente in passato.Il dipartimento di Stato degli Stati Uniti nel suo ultimo rapporto annuale sulla situazione dei diritti umani nel mondo, quindi, in un documento ufficiale, non aveva più definito “territori occupati” sia le alture del Golan, contese con la Siria, definite “controllate da Israele” (rispetto alla precedente dicitura “occupate da Israele”) sia i territori palestinesi non più definiti “occupati” o “sotto occupazione”. Allora, l’ ambasciata statunitense a Gerusalemme e lo stesso Dipartimento avevano precisato di non considerare mutato lo status di Cisgiordania, Gaza e delle alture del Golan.

Firma o non firma di Trump, il territorio delle alture del Golan appartiene giuridicamente alla Siria, ma è occupato da Israele dal 1967, ai tempi della Guerra dei sei giorni. Dopo l’occupazione militare, lo stato ebraico ha preso possesso della regione anche inviando i propri coloni.

Nel 1981 Gerusalemme ha anche annesso unilateralmente le alture nel 1981, ma la sovranità israeliana non è mai stata riconosciuta a livello internazionale.

In passato il governo di Israele ha più volte ventilato la possibilità di restituire il territorio a Damasco per migliorare le relazioni diplomatiche. Lo scoppio della guerra civile in Siria, tuttavia, ha complicato le cose. E ora la presenza delle forze armate iraniane in Siria rende ancora più strategico per lo stato ebraico il controllo di questa regione.

Il premier Netanyahu, invece, è tornato velocemente in patria dopo che – dicono -, nella notte tra il 24 e il 25 marzo 2019, un razzo, lanciato da chissà chi, dalla Striscia di Gaza, ha colpito una casa a Tel Aviv, ferendo leggermente 7 persone.

Secondo quanto riportato dai soccorritori, un 59enne e una donna di 30 anni sono stati ricoverato in condizioni moderate, mentre il marito di lei, e i loro figli, una ragazzina di 12 anni, un bimbo di 3 anni e uno di 6 mesi hanno riportato ferite più lievi: “Di che lieve cagion, che crudele guerra” direbbe il poeta..

 Già nella notte fra il 13 e il 14 marzo A Tel Aviv e in altre località israeliane erano suonate le sirene degli allarmi anti-missilistici. Due razzi provenienti da Gaza erano arrivati sulla città. 

Uno dei due razzi era stato intercettato dall’Iron Dome, il sistema anti-missilistico del paese, mentre il secondo era caduto in un’area aperta. Israele, allora, aveva risposto bombardando pesantemente un centinaio di obiettivi nell’enclave palestinese.

Notte fra il 13 e il 14 marzo A Tel Aviv

“Il paese risponderà con forza”, ha detto, ora, il primo ministroisraeliano Benjamin Netanyahu. “Ho parlato con il capo di Stato maggiore, il capo dello Shin Bet e il capo dell’intelligence. Si tratta di un atto criminale contro lo Stato d’Israele”.

L’attacco deve essere soppesato perché non è stato ancora rivendicato da alcun gruppo presente nella Striscia. Intanto, il leader di Hamas a Gaza, Yahnya Sinwar, ha deciso di cancellare una conferenza stampa prevista nel corso della giornata.

Il razzo di Tel Aviv ha, o avrebbe, fatto interrompere la visita di Netanyahu a Trump.

Ma non è Gaza il problema di oggi. 

Le alture del Golan sono situate al confine tra la Siria e lo Stato d’Israele e il controllo della zona ha una grande valenza strategica e geopolitica.

La storia dello scontro ha inizio nel giugno del 1967, quando durante la guerra arabo-israeliana dei «sei giorni» i militari israeliani occuparono le Alture, che dominano il lago di Tiberiade e quindi la più importante riserva idrica per Israele e iniziarono ad insediare nell’area i propri coloni. Come abbiamo detto, nessun Paese ha mai riconosciuto l’annessione. La Siria e gli Stati arabi fanno riferimento alla risoluzione 242 del Consiglio delle Nazioni Unite che condanna l’acquisizione dei territori con la forza. 

In diverse occasioni il governo israeliano aveva ventilato la possibilità di restituire il territorio alla Siria per migliorare i rapporti con Damasco, ma a causa dello scoppio della guerra civile nel paese siriano e della presenza delle truppe iraniane a Damasco, il controllo dell’area per Israele è diventato fondamentale.

La guerra civile in Siria, e l’intervento di Iran e Israele, ha fatto spesso riemergere in questi anni il tema delle Alture, spesso scenario di scaramucce provocatorie tra gli attori del conflitto. Proprio di recente la stampa israeliana ha riportato la preoccupazione dei vertici dello Stato ebraico per il tentativo con cui il braccio armato del gruppo sciita libanese Hezbollah (10.000 uomini pronti al combattimento e ben comandati), finanziato da Teheran e acerrimo nemico di Israele, cerca di reclutarvi miliziani.

Nell’ottobre 1973: la Siria tenta di riconquistare l’altopiano del Golan e infligge pesanti perdite alle truppe israeliane, e l’anno successivo i due Paesi firmano un armistizio. È solo nel 1981 che, con un’iniziativa che suscita la condanna internazionale, Israele si annette le Alture e offre ai musulmani drusi la possibilità di diventare cittadini israeliani; la gran parte rifiuta l’offerta, che è accettata da 20.000 drusi che ancora vivono sugli altipiani.

Turkish President Recep Tayyip Erdogan

Dopo il riconoscimento di Washington dell’annessione israeliana, sale la tensione. Erdogan: «Non consentiremo la legittimazione dell’ occupazione». 

Sulle Alture immediata è stata la reazione di Siria e Turchia. Non possiamo consentire la legittimazione dell’occupazione delle alture del Golan». Lo ha dichiarato il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, citato dal sito del quotidiano turco Hurriyet, in un discorso tenuto durante una riunione dell’Organizzazione per la cooperazione islamica a Istanbul. «Le infelici osservazioni del presidente sulle alture del Golan – ha aggiunto Erdogan – hanno portato la regione sull’orlo di nuove tensioni». Anche Damasco ha denunciato con forza le dichiarazioni del presidente Usa Donald Trump circa la volontà americana di riconoscere l’annessione israeliana delle Alture del Golan. Riferisce l’agenzia governativa Sana, che cita un comunicato del ministero degli Esteri di Damasco: «Le dichiarazioni di Trump non cambiano la verità, perché il Golan è e rimarrà siriano». La Siria ha denunciato le affermazioni di Trump come «una violazione delle risoluzioni internazionali» circa l’illegittimità della presenza israeliana.

Reazioni negative sono arrivate anche da Teheran, Il Cairo e Bruxelles. «In quanto potenza occupante, Israele non ha alcuna sovranità su nessun territorio arabo o musulmano», ha affermato il portavoce della diplomazia iraniana, Bahram Qasemi, secondo quanto riferisce l’agenzia di stampa «Irna». E anche l’Egitto ha confermato le sue posizioni, confermando di considerare il Golan siriano come un «territorio arabo occupato». E anche una portavoce dell’Unione europea ha affermato di non riconoscere la sovranità di Israele sulle Alture. 

Fonti: TPI, New York Times,Corriere-Redazione Esteri, CBS, CNN, Reuters