Archivio mensile:Maggio 2022

5146.- Minori scomparsi, 30 al giorno solo in Italia

Tra pezzi di ricambio per l’industria dei trapianti e perversioni sessuali non c’è possibilità di difesa per un minore solo. Quello della non tutela dei minori è una emergenza sociale. Destini orribili attendono quelli non accompagnati che vengono fatti sbarcare ogni giorno. Nel mentre, dal Tribunale di Firenze sono spariti i fascicoli del 1985 e del 2015, del Forteto, la comunità degli abusi di Vicchio del Mugello. A quando quelli di Bibbiano?

Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Luca Volontè, 31 maggio 2022.

Allarmano i dati presentati da Missing Children Europe, la Federazione europea per i bambini scomparsi e sfruttati sessualmente. Ogni anno, nell’Ue, spariscono oltre 250.000 minori, per vari motivi, come conflitti, violenze, sfruttamento. Particolarmente drammatico il fenomeno dei migranti minorenni non accompagnati. In Italia, solo nel 2021, sono scomparsi in totale 12.117 minori; 3.589 nel primo quadrimestre del 2022. Ma ai media interessa poco.

Un dramma dimenticato, una tragedia subito cancellata: i bambini, soprattutto se migranti non accompagnati, scompaiono in Italia e in Europa, ma pare non interessi a nessuno. Solo una rete di associazioni accreditate in 26 Paesi, inclusa la Svizzera, si occupa tutto l’anno e da diverso tempo di questa piaga nascosta. Missing Children Europe è la Federazione europea per i bambini scomparsi e sfruttati sessualmente che riunisce 31 organizzazioni di base in 26 Paesi europei.

Ogni anno, nell’Unione europea, oltre 250.000 bambini spariscono. I bambini scompaiono per una vasta gamma di motivi, tra cui conflitti, violenze, abusi e sfruttamento. All’interno di questo fenomeno, ancor più drammatico è quello dei migranti minorenni non accompagnati e senza famiglia che spariscono, pur essendo ospitati da strutture pubbliche e private di assistenza. Più di 18.000 bambini migranti sono scomparsi dopo il loro arrivo in Europa nel periodo 2018-2020. È quanto emerge dai dati – gli ultimi disponibili ad oggi – raccolti da Lost in Europe in 30 Paesi europei. I numeri potrebbero essere molto maggiori, secondo Missing Children Europe, perché “durante gli anni del Covid-19 solo 10 dei 27 Paesi dell’UE hanno fornito i dati [perciò]… il numero effettivo di bambini scomparsi durante la migrazione potrebbe essere molto più alto dei 18.292 calcolati. Diversi Paesi, tra cui Francia e Romania, non hanno registrato i bambini migranti scomparsi nel 2020. I dati di soli 10 dei 27 Stati membri europei mostrano che 5.768 richiedenti asilo minorenni sono scomparsi nel 2020”.

In Italia nel 2020 erano scomparsi 21 minori al giorno, quasi uno ogni ora: poco meno della metà era stato ritrovato ma gli altri erano spariti. La fascia d’età più rilevante era quella compresa tra i 14 e i 17 anni: adolescenti, perlopiù maschi, con una certa autonomia; per molti di essi l’Italia era una tappa intermedia verso altri Paesi. Dove siano finiti nessuno lo sa. Nel 2021 i minori scomparsi sono stati in totale 12.117, di cui 3.324 italiani e 8.793 stranieri. La percentuale dei ritrovamenti è stata del 79,27% per gli italiani e solo del 26,35% per gli stranieri. I minori italiani scomparsi sono spesso vittime di disagi familiari e relazionali come droga, debiti, cyberbullismo, adescamenti sul web, casi di revenge porn.

Gli ultimi dati relativi all’Italia sono stati presentati il 25 maggio 2022, con la celebrazione della Giornata internazionale dei minori scomparsi, istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1983. Ogni giorno scompaiono circa 30 bambini e adolescenti nel nostro Paese, la maggioranza sono stranieri, i più difficili da rintracciare rispetto agli italiani perché entrano nel Paese clandestinamente, vengono poi inseriti nel circuito di protezione da cui spesso si allontanano facendo perdere le tracce. Nel solo primo quadrimestre del 2022 sono stati 3.589 i minori scomparsi: 2.409 stranieri e 1.180 italiani. Importante l’appello della presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza, Licia Ronzulli: “Il fenomeno dei minori scomparsi ha ormai assunto una dimensione estremamente preoccupante” e indica da una parte di rafforzare il patto scuola-famiglia-istituzioni per individuare i casi di forte disagio e prevenire gli allontanamenti, dall’altra di potenziare il sistema di protezione dei minori stranieri che “oltre a essere accolti vanno integrati adeguatamente, così da raggiungere una stabilità che li induca a non abbandonare i centri o le famiglie a cui sono affidati”.

Il pericolo della tratta e dei bambini scomparsi ai confini, le proposte per azioni di contrasto congiunte e transnazionali, il ruolo del 116 000 (numero unico europeo per i minori scomparsi), il monitoraggio dei confini, la gestione degli arrivi a livello europeo e italiano e l’educazione come chiave per prevenire e sensibilizzare sul pericolo della tratta, sono stati i temi principali discussi in un convegno tenutosi a Roma con rappresentanti internazionali che si occupano del fenomeno, coordinati dal presidente di Telefono Azzurro, Ernesto Caffo.

In questi giorni, sono emersi anche dati inquietanti sulla scomparsa di bimbi ucraini che scappano dalla guerra. Durante i primi due mesi di conflitto, l’Ong Magnolia, che gestisce il 116 000 in Ucraina, ha registrato un enorme aumento delle segnalazioni di bambini scomparsi: più di 2100 casi (rispetto ai 182 casi segnalati alla linea telefonica diretta nel 2020). Tra questi casi, ci sono almeno 343 bambini scomparsi sul territorio del Paese e almeno 15 bambini scomparsi mentre cercavano sicurezza ai confini con i Paesi di frontiera dell’UE.

Un numero significativo di casi rimane irrisolto. Queste notizie rimangono poche ore nelle home page dei giornali online, non ne trovate traccia sui quotidiani europei, non interessa riflettere e soprattutto sconfiggere un fenomeno inquietante che dovrebbe allarmare tutti. La distrazione occidentale verso i bambini scomparsi è l’ennesimo segno di un continente marcio, già fiero promotore del sacrificio – attraverso l’aborto – dei bambini concepiti.

5145.- Il mio Occidente va dall’Alaska all’Alaska. Le contraddizioni che ci dividono.

Ci sono due Occidenti. L’inconciliabilità insanabile della cristianità e della sua radice greco-romana, rispetto alle liberal democrazie anglosassoni offre ampi margini di vantaggio alle civiltà asiatiche.

Sul significato di Occidente – Anglosfera, Russia, Cristianità

Di Redazione Blog di Sabino Paciolla|Maggio 31st, 2022

Ricevo dagli amici dell’Osservatorio Card. Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa e volentieri pubblico.

liberalismo statua della libertà
Mentre l’antico colosso di Rodi, con le gambe sulle due sponde simboleggiava l’unità, il messaggio allegorico di libertà e giustizia della Statua della Libertà non ha unito i continenti.

di Samuele Cecotti

Con la Nota del 20 aprile scorso (qui), il nostro Osservatorio ha inteso portare il proprio contributo di chiarificazione attorno al significato di Occidente e, facendo ciò, delineare il quadro culturale per pensare la crisi attuale e una pace stabile e cristiana in Europa.

Secondo la migliore tradizione classico-scolastica si è proceduto, adottando l’explicatio terminorum come premessa ad ogni argomentazione, a denunciare le equivocità e a porre il discorso sulle solide basi di una comprensione definita di ciò che si dice Occidente.

Dalla Nota si può tuttavia, anzi si deve, ricavare anche lo spunto per una riflessione circa l’impegno socio-politico-culturale dei cattolici oggi.

Volendo sintetizzare l’ampio testo della Nota in brevi e nette asserzioni, possiamo iniziare la nostra riflessione con alcune semplici premesse:

– L’Occidente “essenziale” è la Civiltà nata dal provvidenziale incontro tra logos greco, ius romano e Divina Rivelazione ovvero l’Europa (dall’Atlantico agli Urali) + la Magna Europa (le proiezioni europee oltre il continente europeo) nella sua identità classico-cristiana;

– L’Occidente “essenziale”, ovvero la Civiltà cristiana europea, conosce una declinazione latina-romana e una greca-bizantina secondo l’antica divisione in Impero Romano d’Occidente e Impero Romano d’Oriente cui si sovrappone, sul piano teologico-ecclesiale, lo scisma del 1054;

– Il Protestantesimo implica in sé stesso l’impossibilità della Civiltà cristiana e dunque si pone come anti-Occidente “essenziale”[1];

– Comunemente oggi per Occidente si intende il sistema delle liberal-democrazie egemonizzate dall’Anglosfera (Stati Uniti d’America e Regno Unito + Australia, Nuova Zelanda e Canada);

– Tra l’Occidente “essenziale” e ciò che oggi si intende per Occidente vi è una radicale inconciliabilità;

L’inconciliabilità dottrinale tra l’Occidente “essenziale” e ciò che oggi si intende per Occidente è autoevidente appena si abbia compreso l’identità dell’Occidente “essenziale” come Cristianità e l’identità di ciò che oggi si intende per Occidente come il sistema delle liberal-democrazie (a guida anglo-americana) infatti tanto il liberalismo quanto il democraticismo sono ideologie della modernità, duramente condannate dal Magistero della Chiesa[2], che negano in radice l’idea stessa di res publica christiana, tanto sul piano ideale quanto su quello storico fattuale.

L’egemonia esercitata dall’Anglosfera su ciò che si dice oggi Occidente segnala, poi, la matrice protestante del sistema culturale-sociale-politico in oggetto, non nel senso che solo i Paesi (storicamente) protestanti siano oggi considerati Occidente, ma nel senso che è l’eredità filosofico-politica del protestantesimo a definire l’orizzonte ideologico del sistema. I Paesi e i popoli cattolici od ortodossi (ma anche islamici, buddhisti, scintoisti, etc.) ascritti all’Occidente sono così protestantizzati in forme e modi variabili che vanno dal proselitismo diretto (si veda l’azione esercitata negli ultimi cent’anni dagli USA in America Latina per diffondervi le sette protestanti) al mero intervento politico-culturale per ridefinire la politica, il diritto e la cultura locale secondo il paradigma protestante liberale (è ciò che è avvenuto in Italia, ma anche in Giappone, dal ’45 in poi) passando per il tentativo di protestantizzare dall’interno le istituzioni religiose-morali-culturali così da farne strumento del sistema “occidentale” (è innegabile, ad esempio, che la Chiesa Cattolica abbia subito un massiccio processo di protestantizzazione e di “conversione” liberale; analoga considerazione deve essere fatta, per l’universo greco-scismatico, riguardo al Patriarcato di Costantinopoli).

Dove non si opta per una diffusione diretta del protestantesimo si opera ugualmente per una protestantizzazione sistemica del Paese, della sua cultura politica e delle sue istituzioni religiose-morali. Ciò che non è mai consentito è la realizzazione d’un modello sociale-politico altro da quello laico-liberale; il mantenimento o il ristabilimento di una Weltanschauung alternativa a quella protestante liberale.

Sarà consentito in “Occidente” e dallo “Occidente” essere cattolici, ortodossi, ebrei, mussulmani, buddhisti, scintoisti, etc. ma in senso protestante liberale, ovvero come opzione volontaristica e come fatto privato. Non sarà invece mai consentito instaurare una Civiltà metafisicamente fondata, ovvero una Civiltà in senso classico. Non sarà dunque mai consentita la ri-nascita della Cristianità, della res publica christiana.

Compreso ciò, si deve con amarezza concludere che l’Occidente così come inteso oggi è il principale ostacolo alla restaurazione dell’Occidente “essenziale”. È proprio il sistema delle liberal-democrazie guidato dall’Anglosfera a opporsi radicalmente sempre e comunque ad ogni sforzo di instaurazione della res publica christiana. Tale sistema non può che volere e agire così: dalla prospettiva protestante e liberale la res publica christiana e la stessa Cristianità (civiltà e società organica con propria solida dottrina sintesi di Divina Rivelazione, filosofia greca e diritto romano) sono delle mostruosità inaccettabili. Impedirne la rinascita un dovere imperativo!

Carlo Magno redivivo sarebbe immediatamente giudicato come nemico dell’Occidente e così Teodosio il Grande, sant’Enrico Imperatore e tutti i grandi monarchi cristiani, da santo Stefano d’Ungheria sino al beato Carlo d’Asburgo, passando per san Luigi IX di Francia. Per non parlare dei grandi Papi della Cristianità come san Gregorio VII o Innocenzo III. Il Sacro Romano Impero, così come tutto ciò che è classificato Chiesa “costantiniana”, è oggi giudicato autocratico, illiberale e autoritario, teocratico e antidemocratico, ovvero implicitamente (se non esplicitamente) come non-occidentale, contrario ai valori dell’Occidente[3]. Quale Occidente?

L’Occidente inteso come modernità ideologica, quella modernità di cui Lutero fu padre, che da cinque secoli infesta l’Europa e da tre si è imposta, prima culturalmente nelle élites, poi politicamente-giuridicamente al seguito di rivoluzioni e baionette e, in fine, come pensiero comune indiscutibile.

L’odierno “Occidente” a guida anglo-americana ama presentarsi come liberal-democratico e così lo abbiamo inteso nella sua inconciliabile alterità con la Cristianità o Occidente “essenziale”. Sarebbe più giusto però parlare di ciò che si chiama comunemente Occidente come il sistema della modernità/postmodernità ideologica, infatti da Lutero al transumanesimo tutto trova spazio nel sistema “Occidente”. Tutto tranne l’ordine naturale e la res publica christiana.

L’Occidente attuale (in modo particolare l’Anglosfera e l’Europa occidentale che ne dipende più direttamente) si pone ormai come ideologicamente oltre la stessa liberaldemocrazia, si afferma ormai come sistema-processo sintetico di tutte le ideologie della modernità e della postmodernità. Si pensi solamente al marxismo, che trionfa oggi in Occidente nelle forme dello statalismo social-democratico, del neo-socialismo, del marxismo culturale neo-gramsciano e del trotskismo variamente declinato[4].

Durante la crisi-Covid se ne è avuta la prova sperimentale con le libertà liberali sospese e il mito della sovranità popolare sconfessato da una tecnocrazia sovranazionale capace di imporsi sulla quasi totalità del “mondo occidentale”.  L’odierno Occidente resta liberaldemocratico nella sua autorappresentazione ma, pur senza rinnegare l’ideologia liberale e l’ideologia democraticistica che sono poste a fondamento, il sistema giuridico, politico e culturale è già abbondantemente oltre nel processo della Rivoluzione. Per capire il sistema “occidentale” odierno, più che le “vecchie” Costituzioni liberaldemocratiche, urge studiare l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, i documenti programmatici delle Organizzazioni internazionali e dell’UE, le pubblicazioni dei grandi think tank USA, oltre a saggi come La quarta rivoluzione industriale di Klaus Schwab e Homo deus. Breve storia del futuro di Yuval Noah Harari, senza dimenticare maîtres à penser meno pop ma non meno significativi come Jacques Attali o Bernard-Henri Lévy.    

Aggiungo questo messaggio satanico. ndr

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Il nostro Osservatorio ha dedicato il suo 13° Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo a “Il modello cinese: capital-socialismo del controllo sociale” sottolineando come il capital-socialismo del controllo sociale realizzato dal Partito Comunista in Cina sia perseguito, per altra via e con diverse sfumature, non di meno dal sistema occidentale. La Cina in questo si pone come laboratorio sperimentale d’una nuova forma socio-politico-cultural-economica della modernità/postmodernità, non sotto l’aspetto della forma costituzionale (repubblica popolare a partito unico) o dell’ideologia manifesta (comunismo marx-leninista) ma come sistema totalitario sintesi di capitalismo e socialismo attraverso un massiccio impiego della tecnologia integrata alla psicologia di massa per un controllo capillare e una pervasiva opera di manipolazione delle coscienze.

In questo il modello cinese è più “occidentale” di quanto si possa immaginare e l’odierno Occidente è più “cinese” di quanto si voglia comunemente ammettere. Date le premesse attuali si rischia concretamente di avere, nei prossimi anni, lo scontro geopolitico tra Cina e “Occidente”[5] per l’egemonia globale nella forma di uno scontro di forza in presenza di una unica ideologia (quel capital-socialismo del controllo sociale che porta/porterà con sé anche l’opzione transumanista e tutto il corredo della Rivoluzione) declinata in senso radical, in Occidente, in senso mao-confuciano, in Cina. Saremmo in presenza di una non-alternativa o di una falsa alternativa portando le due vie entrambe al totalitarismo capital-socialista (transumanista)[6]

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Innanzi ad un simile quadro e a scenari tanto inquietanti qual è la posizione del cattolicesimo politico? Purtroppo si deve constatare l’assenza, da vecchia data, d’un reale cattolicesimo politico e ancor da più tempo l’assenza di Potenze che si concepiscano come Potenze Cattoliche. Il cattolicesimo è evanescente come dottrina politica e inesistente come forza geopolitica.

Tali evanescenza e inesistenza sono la conseguenza dell’imporsi storico della modernità ideologica in Europa e dell’accomodamento operato de facto tra cattolicesimo e Rivoluzione. Proprio l’accomodamento tra la Rivoluzione e il cattolicesimo, prima condannato poi tollerato in fine lodato e promosso anche in seno alla stessa Chiesa, ha fatto sì che il cattolicesimo politico non avesse più ragion d’essere. Oggi i cattolici in politica non sono portatori di una dottrina politica cattolica ma sono, piuttosto, esponenti delle diverse opzioni della postmodernità politica, solitamente tutte ricomprese nell’universo liberaldemocratico. Si giunge così al paradosso che i cattolici sono oggi i primi e più zelanti apologeti della liberaldemocrazia e dei suoi sviluppi odierni dimenticando completamente la radicale inconciliabilità tra liberaldemocrazia e res publica christiana, tra modernità/postmodernità ideologica e Cristianità.

La secolare battaglia tra la Cristianità (l’Occidente “essenziale”) e la Rivoluzione (l’Occidente come modernità/postmodernità ideologica), non possiamo nascondercelo, è stata vinta dalla Rivoluzione che oggi si pone come l’Occidente tout court, pretendendo pure di incarnare quanto di meglio dovrebbero desiderare gli stessi cristiani. La sconfitta è tale che non vi è oggi nessuna Potenza temporale che incarni il cattolicesimo politico e gli stessi cattolici da molto tempo sono indotti nella più gran parte a identificarsi con e a parteggiare per il proprio secolare gran nemico: la modernità/postmodernità ideologica assurta a “unico Occidente”. Una collettiva sindrome di Stoccolma che da decenni ottunde le menti dei più.

Precondizione a qualunque discorso sul cattolicesimo politico è la denuncia di questa sindrome collettiva di Stoccolma e il suo superamento. Ci può essere cattolicesimo politico solo ove i cattolici ricomincino a pensare secondo le categorie della Dottrina Cattolica (e non secondo i paradigmi ideologici della modernità/postmodernità) e a lottare per l’instaurazione della res publica christiana (e non per il sistema delle liberaldemocrazie), a concepire libertà e popolo secondo la tradizione politico-giuridica della Cristianità, a intendere lo Stato secondo quanto, ad esempio, insegnato da Leone XIII nell’Immortale Dei.

Volendo riassumere in pochi punti il cattolicesimo politico nella sua essenzialità potremmo elencare:

  • Regalità sociale di Cristo;
  • Fondamento in Dio di ogni autorità, compresa quella politica;
  • Distinzione ma non separazione tra res publica e Chiesa;
  • Primato dello spirituale sul temporale e potestas in temporalibus della Chiesa;
  • Doveri pubblici di religione;
  • Giusnaturalismo classico e principio di legittimità (d’origine e d’esercizio);
  • Concezione etico-finalistica del diritto e della politica;
  • Finalizzazione della politica al bene comune metafisicamente inteso;
  • Principio di sussidiarietà nel riconoscimento di famiglia e corpi sociali, dei loro fini e delle connesse libertà naturali-tradizionali;
  • Concezione organica e gerarchica della società e della res publica;
  • Unità profonda della società nella unità della Verità Cristiana.

Non necessita neppure, essendo autoevidente, la dimostrazione della incompatibilità di tutti e singoli i punti con il sistema ideologico-(geo)politico oggi detto Occidente, con le sue premesse, con i suoi valori, con i suoi sistemi costituzionali.

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Se è sindrome di Stoccolma il pensarsi come cattolici “dalla parte dell’Occidente liberaldemocratico”, grave ingenuità sarebbe anche l’eleggere acriticamente a modello altre Potenze oggi operanti sulla scena del mondo. Purtroppo nessuna Potenza temporale incarna oggi il cattolicesimo politico, nessuna può essere presa a modello.

Certo vi sono Paesi dove maggiormente sviluppato è il senso critico verso l’ideologia liberal, i “nuovi diritti”, la globalizzazione, dove la distopia transumanista e il capital-socialismo del controllo sociale sono apertamente giudicati come pericoli da combattere. Si deve certamente notare che anche una Grande Potenza come la Russia, nella sua dirigenza politica e nella gerarchia ecclesiastica del Patriarcato di Mosca come nella cultura diffusa, presenta un elevato grado di consapevolezza critica circa il sistema ideologico-politico dell’Occidente moderno/postmoderno. Il sistema politico russo si presenta oggi come estraneo al laicismo liberale e alle derive radical dell’Occidente, volutamente la Federazione Russa si mostra in armonia con la Chiesa Ortodossa Russa e si concepisce come espressione di una Civiltà di cui il Cristianesimo è nota essenziale. Tutto ciò non può che essere guardato con interesse.

Tuttavia, la Russia attuale è carica di contraddizioni, non solo sul piano della prassi politica ma anche a livello ideologico, contraddizioni che rendono il “modello russo” un insieme disomogeneo di moderno e antimoderno, di ideologico e di tradizionale, di rivoluzionario e di controrivoluzionario.  Ciò detto, anche qualora tali contraddizioni fossero risolte a favore della tradizione (e ciò è, ovviamente, auspicabile), l’Impero russo si darebbe come una Potenza cesarea-bizantina, ovvero come una sorta di Impero Romano d’Oriente restaurato nella sua consistenza post 1054.

Sarebbe certamente un interlocutore interessante, offrirebbe certamente numerose opportunità di intesa e convergenza senza però essere identificabile come Potenza espressiva del cattolicesimo politico. Il cattolicesimo politico è altra cosa, è quella tradizione socio-politico-economico-giuridica stratificatasi nei secoli del medioevo latino (e proseguita nell’età barocca, specie nei domini asburgici delle Spagne e dell’Impero) che la Dottrina sociale della Chiesa ha come distillato nei grandi documenti sociali di papi quali Leone XIII.

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Da troppo tempo il cattolicesimo politico è scomparso dalla scena del mondo, da troppo tempo il cattolicesimo politico verace è stato surrogato da un liberaldemocratismo, con maggiori o minori innesti di socialismo, abusivamente gabellato per cattolicesimo. Il processo è antico e risale almeno a fine ‘700 per poi crescere nell’800 con il cattolicesimo liberale e l’americanismo sociale sino alla vittoria delle potenze liberal-massoniche (Inghilterra, USA, Francia e Italia) nella Prima Guerra Mondiale e il conseguente processo di assimilazione del cattolicesimo politico alla liberaldemocrazia. Processo che dopo la vittoria anglo-americana nella Seconda Guerra Mondiale ha visto una accelerazione potente e quasi senza ostacoli. Da 70 anni assistiamo ormai alla compiuta assimilazione del cattolicesimo politico alla liberaldemocrazia, ovvero alla estinzione suicida del cattolicesimo politico.

L’attuale crisi della globalizzazione e dell’unipolarismo (egemonia globale americana dopo il crollo dell’URSS), così come il ribollire interno dello stesso Occidente (si pensi al trumpismo in USA e ai movimenti sovranisti-populisti in Europa) aprono scenari interessanti per un riemergere del cattolicesimo politico sul piano delle masse popolari e, in prospettiva, delle stesse proiezioni geopolitiche.

Condizione previa per il darsi del cattolicesimo politico è la rottura di qualunque dipendenza dall’universo ideologico liberaldemocratico (o meglio moderno/postmoderno), il che implica la presa di distanza, sul piano delle istituzioni internazionali, da tutte quelle realtà che della liberaldemocrazia sono struttura proiettiva, per poter pensare nuovamente la politica e il diritto secondo le categorie classiche e cristiane. Necessario superare ogni complesso di inferiorità verso la modernità ideologica, guarire dalla sindrome di Stoccolma, ricominciare a lavorare per la Cristianità, per la res publica christiana.

Si deve anche avere il coraggio politico di porre talune questioni di rottura, ad esempio chiedersi se sia compatibile l’impegno per la res publica christianacon l’appartenenza a NATO, UE, OCSE o Consiglio d’Europa. O se, piuttosto, l’impegno per la res publica christiana non esiga l’impegno ad emanciparsi da istituzioni sovranazionali espressione di un paradigma ideologico, quello laico liberaldemocratico, inconciliabile con la concezione tradizionale del cattolicesimo politico. Porsi la questione senza complessi e rispondere con verità, senza autocensure.

In questo è interessante notare come già si diano esempi di governi conservatori-populisti, dalla chiara connotazione identitaria cristiana, che hanno compreso la necessità di pensare alternativamente al paradigma liberaldemocratico e di collocare il proprio Paese secondo una linea geostrategica altra da quella dell’Anglosfera, tra tutti il governo Orban in Ungheria e il governo Bolsonaro in Brasile. Numerosi poi i governi africani di ispirazione cristiana che ormai ricercano apertamente una via socio-politico-culturale alternativa a quella dell’Occidente liberal, riconosciuto incompatibile con il Cristianesimo e con i valori tradizionali (africani).

Gli stessi USA sono contemporaneamente il centro decisionale (politico, economico, militare, culturale) dell’Occidente, inteso come Rivoluzione, come modernità/postmodernità ideologica, e pure il campo di una battaglia culturale-politica vivacissima dove è messa in discussione proprio l’idea di quello stesso Occidente ideologico. Il trumpismo, ormai fenomeno ben più importante dello stesso Trump, rappresenta negli USA questa storica occasione per mettere in discussione il modello “occidentale” impostosi almeno negli ultimi cent’anni. Dentro il mondo trumpiano vi sono, infatti, punte critiche intellettualmente molto avanzate che giungono a mettere in discussione buona parte del sistema ideologico “occidentale” portando con sé, invece, paradigmi propri della Cristianità e della Dottrina sociale della Chiesa classica[7]. Trump è ben lontano dall’esprimere una idea politica cattolica ma il movimento che attorno a lui si muove consente finalmente di mettere in discussione l’idea di America e di Occidente sinora egemone e, così, offre lo spazio e dà agibilità politica ad un pensiero schiettamente cattolico in senso tradizionale.

I cattolici devono saper cogliere le opportunità offerte dal momento storico per uscire dalla cattività liberaldemocratica e ricominciare a pensare la politica secondo le categorie della Dottrina Cattolica. Le modalità di ciò non possono che variare da Paese a Paese, da situazione a situazione. L’azione possibile in Ungheria non lo sarà forse in Francia, quella possibile in un Paese dell’Africa cattolica non lo sarà in un Paese NATO, ciò che si potrà in Brasile non è detto sia realizzabile in un Paese dell’UE, ciò che si può sperare in una Nazione tradizionalmente cattolica è diverso da ciò che è realistico perseguire nelle Nazioni tradizionalmente protestanti. Con modalità, tempi, tattiche e strumenti diversi, anche molto diversi, da Paese a Paese, ovunque però i cattolici hanno la responsabilità storica di cogliere la presente crisi dell’Occidente moderno/postmoderno e di profittarne per scrollarsi di dosso le catene ideologiche della liberaldemocrazia e dei suoi inquietanti sviluppi. Solo emancipandosi dall’Occidente ideologico moderno/postmoderno si rende possibile all’Occidente “essenziale” di riaffacciarsi al mondo e si aprono possibilità di una rinnovata Cristianità. Ai cattolici d’oggi il compito di tale impresa!

Rev. Sac. Don Samuele Cecotti è Vice Presidente Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan)

Note:

[1] Per comprendere la forza radicale dissolutrice del Protestantesimo, la sua essenziale inconciliabilità con la Civiltà Cristiana rimandiamo a tre testi tra i molti che meriterebbero essere menzionati: J. Maritain, I tre riformatori; P. Correa de Oliveira, Rivoluzione e Controrivoluzione; D. Castellano, Martin Lutero. Il canto del gallo della modernità.

[2] Le condanne magisteriali del liberalismo sono numerosissime e senza pari per durezza, dalla Mirari vos di Gregorio XVI alla Ubi arcano Dei di Pio XI, passando per la Quanta cura del beato Pio IX. Bastino le parole di papa Leone XIII che indica in Lucifero il capostipite dei liberali: «Ma già sono assai numerosi gli emuli di Lucifero – che lanciò quell’empio grido non servirò -, i quali in nome della libertà praticano un’assurda e schietta licenza. Sono siffatti i seguaci di quella dottrina così diffusa e potente che hanno voluto darsi il nome di Liberali traendolo dalla parola libertà» (Libertas praestantissimum).

[3] Per avere contezza dei “valori occidentali” non è necessario fare riferimento alla ormai celebre omelia del patriarca Cirillo I di Mosca (Ecco la “scandalosa” omelia del Patriarca di Mosca – Aldo Maria Valli), è sufficiente considerare l’autocoscienza stessa dei poteri atlantici: il capo del MI6 (il Secret Intelligence Service britannico) sir Richard Moore scriveva il 25 febbraio 2022: «With the tragedy and destruction unfolding so distressingly in Ukraine, we should remember the values and hard won freedoms that distinguish us from Putin, none more than LGBT+ rights». L’ambasciatore degli Stati Uniti d’America in Afghanistan non trova di meglio che issare la bandiera arcobaleno dell’orgoglio gay sull’ambasciata di Kabul poco prima della indecorosa ritirata americana dal Paese. E si potrebbe proseguire con altre decine o centinaia di esempi.

[4] Con il crollo dell’URSS, ad essere sconfitto fu il marx-leninismo sovietico, non il marxismo tout court (e neppure il marx-leninismo in se stesso) che ha preso stabilmente casa all’Ovest, dove era nato e da dove si era propagato verso est. Il diamat, ovvero il materialismo dialettico assunto a sistema filosofico ufficiale dell’URSS, non è certamente la forma speculativamente più forte e corrosiva di marx-leninismo, ne è piuttosto una versione “stabilizzata” al fine di fornire una impalcatura concettuale e metodologica all’allora regime sovietico. Altre forme di marxismo sono la social-democrazia (Seconda Internazionale) tanto diffusa nell’Europa continentale, il gramscismo (interpretazione italiana del marx-leninismo della Terza Internazionale), il trotskismo (Quarta Internazionale. Interessante notare come la Quarta Internazionale Comunista, teorizzatrice della “rivoluzione permanente mondiale” si svolse nel 1938 in Francia alla presenza di rappresentanti delle maggiori potenze di Europa e America), il maoismo, il marx-freudismo, etc. È un errore comune ma, non per questo meno grave e fuorviante, identificare il marxismo con il solo sovietismo (sul diamat si veda il saggio del 1948 Il materialismo dialettico sovietico di padre G.A. Wetter s.j.) dimenticando che l’intrinseca perversità del comunismo non è legata ad una statualità (quella sovietica) ma ad un paradigma ideologico ateo-materialista contrario a verità e giustizia presente tanto nel diamat sovietico quanto nel pensiero social-democratico, liberal-socialista, gramsciano, trotskista, maoista, marx-freudiano, etc.

[5] Non ci si dimentichi il legame profondo che lega USA e Cina comunista da almeno 50 anni. Furono gli USA, in funzione anti-sovietica, a favorire l’ascesa geopolitica ed economica della Cina comunista dagli anni ’70 in poi, sempre gli USA a volere la Cina nel WTO per farne un attore della globalizzazione, sempre gli USA (+ Europa occidentale) ad aver promosso l’industrializzazione della Cina negli ultimi 30 anni facendo del gigante comunista “l’industria manifatturiera globale”.

[6] Interessante notare quanto dichiarava il 15 agosto 2020 alla trasmissione tv Segnalibro (SEGNALIBRO PUNTATA DEL 15 AGOSTO 2020 GIULIANO DI BERNARDO – YouTube ) il professor Giuliano Di Bernardo, filosofo della scienza, già Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, poi fondatore e Gran Maestro della Gran Loggia Regolare d’Italia (l’unica obbedienza massonica italiana riconosciuta dalla Gran Loggia d’Inghilterra), in merito a Cina, governo mondiale, pandemia Covid, transumanesimo, uno-divino, etc.: https://www.liberoquotidiano.it/articolo_blog/blog/andrea-cionci/29380859/massoneria-gran-maestro-di-bernardo-stop-democrazia-uno-dio-cinese-pandemie.html

[7] A solo titolo d’esempio indichiamo i volumi Why Liberalism Failed di Patrick J. Deneen e The Tyranny of Liberalism di James Kalb e l’articolo The Catholic Case for Secession? di Eric Sammons (https://www.crisismagazine.com/2020/the-catholic-case-for-secession ). Si veda anche la elaborazione dottrinaria in sede giuridico-costituzionale e giusfilosofica del professor Adrian Vermeule.

5144.- Lo scioccante documento Pfizer sulla vaccinazione delle donne incinte

Ne avevamo parlato; ma ci torniamo perché è bene che si sappia, anche se in galera non andrà mai nessuno.

Di Sabino Paciolla|Maggio 31st, 2022

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Un documento confidenziale rilasciato di recente rivela che una sorprendente maggioranza dei bambini in utero è morta dopo che alle donne in gravidanza è stato iniettato il vaccino Pfizer.

I professionisti sanitari e medici per la trasparenza (PHMPT) hanno richiesto documenti relativi alla licenza del vaccino tramite una richiesta di legge sulla libertà di informazione, quindi hanno citato in giudizio la Food and Drug Administration (FDA). All’inizio di gennaio 2022, un giudice federale ha ordinato alla FDA di rilasciare gradualmente i documenti che secondo loro avrebbero richiesto decenni per essere elaborati. PHMPT ha pubblicato i documenti riservati di Pfizer non appena sono diventati disponibili.

Nella versione più recente, il 2 maggio 2022, un documento intitolato “reissue_5.3.6 postmarketing experience.pdf ha rivelato a pagina 12 che entro l’8 febbraio 2021, 270 donne avevano ricevuto l’iniezione di mRNA durante la gravidanza. Ma 238 casi, a quanto pare, non sono stati seguiti (“nessun risultato fornito”). E, quindi, gli esiti della gravidanza per quelle donne sono sconosciuti.

Il semplice fatto che l’88% delle donne incinte iniettate non sia stato seguito durante le loro gravidanze è profondamente preoccupante poiché 124 delle 270 donne in gravidanza hanno avuto qualche tipo di reazione avversa (49 non gravi, 75 gravi) secondo pagina 12 dello stesso documento.

Tra le 34 gravidanze note, il rapporto indica che 28 bambini sono morti in utero o alla nascita. Solo un risultato è stato riportato come normale e i restanti cinque sono stati segnalati come “in sospeso”.

Analizzando i dati di Pfizer, è chiaro che l’82% – 97% degli esiti documentati della gravidanza ha provocato la morte. (La variazione di 15 punti dipende dal risultato finale di quelli nella categoria “risultato in sospeso”.)

“Questo rapporto conferma le informazioni che abbiamo rilasciato l’anno scorso”, ha affermato il presidente di Operation Rescue Troy Newman. “Non vediamo l’ora di vedere una sorta di responsabilità messa in atto per i responsabili di nascondere questi dati cruciali al pubblico”.

Vedi la precedente copertura di Operation Rescue sui problemi di gravidanza relativi ai vaccini Covid-19:

• L’informatore rivela complicazioni della gravidanza
• Gli informatori e altri esperti avvertono di un aumento del rischio di infertilità
• Intervista bomba con l’informatore della Task Force COVID 19 – Avverte i rischi dei vaccini per le donne incinte

*Si noti che sono stati riportati due diversi esiti per i gemelli ed entrambi sono stati contati.

5143.- Grazie alle isole Fiji, l’avanzata di Pechino nel Pacifico è saltata sul clima e sulla riduzione delle emissioni.

È partita male l’avventura cinese nel Pacifico. Ecco perché 

Da Formiche.net, di Gabriele Carrer | 30/05/2022 – 

È partita male l’avventura cinese nel Pacifico. Ecco perché 

La riunione tra il ministro Wang e gli omologhi di dieci Paesi insulari nel Pacifico non si è conclusa con la firma dell’annunciato ampio accordo, dalla pesca alla sicurezza. Pesano i dubbi delle Fiji e di altri Stati della regione sul progetto di Pechino per un’ordine globale alternativo a guida americana

Non sembra essere partita come Pechino sperava l’offensiva diplomatica nel Pacifico guida da Wang Yi, ministro degli Esteri cinese, per raccogliere consenso e sostegno all’iniziativa di sicurezza con cui il presidente Xi Jinping è deciso a costruire un ordine globale alternativo a quello guidato dagli Stati Uniti.

La riunione ministeriale nella capitale figiana Suva con Wang e i suoi omologhi di dieci Paesi insulari nel Pacifico non si è conclusa con la firma di un nuovo accordo di vasta portata che avrebbe dovuto coprire moltissimi settori, dalla sicurezza alla pesca. La Cina cercava un accordo che riguardasse anche il libero scambio e la cooperazione tra forze di polizia. Ma Qian Bo, ambasciatore cinese alle Fiji, è stato costretto ad ammettere che alcune nazioni hanno espresso preoccupazioni su elementi specifici della proposta. “Non imponiamo mai nulla agli altri Paesi, tanto meno ai nostri amici in via di sviluppo e ai piccoli Paesi insulari”, ha aggiunto il diplomatico respingendo le preoccupazioni di alcuni Stati.

Nel corso di un’insolita conferenza stampa con il ministro Wang, durata mezz’ora e conclusa con i giornalisti che urlavano le domande mentre i protagonisti lasciavano il podio, il primo ministro figiano Frank Bainimarama ha spiegato che “come sempre, mettiamo al primo posto il consenso tra i nostri Paesi in ogni discussione su nuovi accordi regionali”. Le Fiji “continueranno a cercare un terreno fertile per le nostre relazioni bilaterali”, ha aggiunto ringraziando il ministro Wang per “lo spirito di collaborazione”. Ma Bainimarama ha detto di aver cercato, e non trovato, un impegno più importante da parte della Cina sul clima e sulla riduzione delle emissioni.

Proprio la posizione figiana sembra aver fatto saltare l’intesa. Anche perché nei giorni scorsi le Fiji avevano deciso di aderire in qualità di membro fondatore all’Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity, un nuovo meccanismo lanciato dal presidente statunitense Joe Biden nel recente viaggio in Asia per compensare il fallimento dell’accordo di libero scambio Trans-Pacific Partnership con i Paesi asiatici e anticipare l’offensiva diplomatica cinese. “Il futuro dell’economia del XXI secolo sarà in gran parte scritto nell’Indo-Pacifico” e il meccanismo “contribuirà a promuovere una crescita sostenibile per tutte le nostre economie”, aveva dichiarato Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, accogliendo la decisione del governo figiano. “Gli Stati Uniti ringraziano il primo ministro Bainimarama e si augurano di approfondire la nostra partnership a beneficio dei nostri Paesi, delle isole del Pacifico e dell’Indo-Pacifico”, aveva aggiunto.

Ma altri Paesi nella regione avevano espresso preoccupazioni. David Panuelo, presidente degli Stati Federati di Micronesia, aveva messo in guardia le nazioni dal firmarlo temendo che potesse scatenare una nuova guerra fredda. Surangel Whipps Jr., presidente di Palau (che non ha legami diplomatici con la Cina e riconosce Taiwan) aveva avvertito i leader del Pacifico che patti commerciali e di sicurezza ad ampio raggio con la Cina avrebbero potuto avere conseguenze dannose. Ha anche auspicio che la regione abbia imparato dai traumi del passato: “Vogliamo avere pace e sicurezza nella regione e non vogliamo rivivere quello che abbiamo vissuto durante la Seconda guerra mondiale, quindi quando vediamo questo tipo di attività ci preoccupiamo”.

È saltato, dunque, quell’accordo multilaterale che prevedeva l’addestramento degli ufficiali di polizia del Pacifico da parte della Cina, la collaborazione in “sicurezza tradizionale e non tradizionale” e l’allargamento della cooperazione giudiziaria. Oltre a ciò la Cina vorrebbe sviluppare congiuntamente un piano per la pesca, aumentare la cooperazione nella gestione delle reti internet della regione e creare istituti e aule Confucio. A Pechino rimangono accordi bilaterali più piccoli firmati con i Paesi del Pacifico e “un proprio documento di posizionamento” sulle relazioni nella regione che la diplomazia cinese presenterà come dichiarato da Wang in conferenza stampa. “E in futuro, continueremo ad avere discussioni e consultazioni continue e approfondite per creare un maggiore consenso”, ha aggiunto il ministro degli Esteri.

Una figuraccia diplomatica per Pechino. “Gli Stati Uniti concludono sempre gli accordi in anticipo. È davvero imbarazzante!”, ha commentato Derek J. Grossman, esperto di sicurezza nazionale e Indo-Pacifico, della Rand Corporation. La propaganda cinese si è subito mossa per tentare di rimediare. Il Global Times, megafono in lingua lingua, ha pubblicato un articolo che sostiene che i Paesi insulari del Pacifico non saranno usati da nessuno per diventare fronti di competizione tra grandi potenze. Come a dire: o con noi, o con nessuno. Questa almeno è l’intenzione della propaganda di Pechino.

Ma il flop diplomatico cinese rappresenta una vittoria per gli Stati Uniti, con Kurt Campell, coordinatore dell’Indo-Pacifico al Consiglio per la sicurezza nazionale, impegnato nella strategia per la regione anche in questi mesi di guerra in Ucraina. “La Cina è l’unico Paese che ha l’intenzione di rimodellare l’ordine internazionale e, sempre più, il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per farlo”, ha detto nei giorni scorsi Antony Blinken, segretario di Stato americano, nell’atteso discorso sulla politica dell’amministrazione Biden verso la Cina. “La visione di Pechino ci allontanerebbe dai valori universali che hanno sostenuto gran parte del progresso mondiale negli ultimi 75 anni”, ha aggiunto. Per Pechino è soltanto disinformazione per “contenere e sopprimere lo sviluppo della Cina e sostenere l’egemonia statunitense”, utilizzando le parole di Wang Wenbin, portavoce del ministero degli Esteri.

Se la sicurezza ha sostituto lo sviluppo come la parola chiave della politica estera della Cina, gli Stati Uniti sembrano voler “puntare su iniziative economiche riconoscendo l’importanza dell’agenda di prosperità, e non soltanto di sicurezza, verso i Paesi più piccoli e quelli in via di sviluppo, dove si concentrerà in futuro il confronto” tra le due superpotenze, come ha spiegato recentemente Alessio Patalano, professore di War & Strategy in East Asia presso il King’s College London, a Formiche.net. L’Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity e il caso delle Isole Salomone lo dimostrano. Le iniziali difficoltà cinesi potrebbero rappresentano un piccolo segnale che la strada è quella giusta.

(Nella foto il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e il primo ministro figiano Frank Bainimarama, Twitter @FijiPM)

5142.- La Russia, a marzo, apprese dell’intenzione degli Stati Uniti di creare bioagenti che colpiscano determinati gruppi etnici

Fabbriche di armi biologiche in Ucraina e, comunque, in Europa.

Lo stesso Putin aveva accusato gli Stati Uniti di stare raccogliendo materiale biologico appartenente al ceppo russo. “L’Ucraina ha creato, sotto il controllo degli Stati Uniti, delle componenti di armi biologiche”, ha accusato il presidente russo. “Abbiamo a lungo lanciato l’allarme sull’attività biologica degli Stati Uniti nello spazio post-sovietico. Come sapete, nella nostra regione comune, il Pentagono ha creato decine di laboratori e centri biologici specializzati. E non sono affatto impegnati a fornire assistenza medica pratica alla popolazione dei Paesi in cui hanno avviato le loro attività”. 

Secondo Putin, “nel corso dell’operazione speciale in Ucraina sono state ottenute prove documentali che dimostrano che, in violazione delle convenzioni che vietano le armi batteriologiche e tossiche, sono state effettivamente create componenti di armi di questo tipo nelle immediate vicinanze dei nostri confini e sono stati testati i modi per destabilizzare la situazione epidemiologica nelle ex repubbliche sovietiche”. 

“I biolaboratori americani nello spazio post-sovietico raccolgono materiali biologici, studiano i dettagli della diffusione di malattie pericolose e in Ucraina stavano essenzialmente sviluppando armi batteriologiche, ha insistito. 

Il Tenente Generale Igor Kirillov, capo delle truppe di protezione dalle radiazioni, chimiche e biologiche (RCB) delle forze armate russe.

(AGENPARL) Il 10 marzo 2022, il Ministero della Difesa della Federazione Russa ha osservato che una grande quantità di siero del sangue proveniente da residenti di varie regioni dell’Ucraina appartenenti esclusivamente al gruppo etnico slavo è stata trasferita all’estero.

Uno dei compiti degli Stati Uniti e dei suoi alleati è la creazione di bioagenti in grado di infettare selettivamente vari gruppi etnici, in particolare gli slavi. Lo ha affermato giovedì Igor Kirillov, capo delle truppe di protezione dalle radiazioni, chimiche e biologiche (RCB) delle forze armate russe, in un briefing sui risultati di un’analisi dei documenti relativi alle attività biologiche militari statunitensi in Ucraina.

Ha osservato che i rappresentanti degli stati occidentali sono estremamente cauti riguardo al trasferimento dei loro biomateriali, mentre una grande quantità di siero del sangue da residenti di varie regioni dell’Ucraina appartenenti esclusivamente al gruppo etnico slavo è stata trasferita all’estero.

“Con un alto grado di probabilità, possiamo affermare che uno dei compiti degli Stati Uniti e dei suoi alleati è la creazione di bioagenti in grado di infettare selettivamente vari gruppi etnici della popolazione”, ha affermato Kirillov.

In precedenza, il rappresentante ufficiale del ministero della Difesa russo, il maggiore generale Igor Konashenkov, ha detto ai giornalisti che le forze armate russe, durante un’operazione speciale in Ucraina, hanno rivelato i fatti di un programma biologico militare in corso finanziato dagli Stati Uniti. Secondo lui, i dipendenti dei laboratori biologici ucraini hanno ricevuto informazioni sulla distruzione di emergenza di agenti patogeni particolarmente pericolosi il 24 febbraio: peste, antrace, tularemia, colera e altre malattie mortali.

https://t.co/J3AgoSVu9T

Kiev nega l’accusa della Russia: “virus nei laboratori ucraini finanziati da USA”.

cronaca news

“Le autorità ucraine hanno urgentemente distrutto gli agenti patogeni studiati nei suoi laboratori collegati al Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ha affermato lunedì l’esercito russo, aggiungendo che tali attività suggeriscono gli scopi militari di questi studi” – lo rende noto la tv russa RT – ritenuta molto vicina al Governo guidato da Vladimir Putin – che aggiunge: ““Ben 30 laboratori biologici sono stati istituiti in Ucraina che stanno collaborando attivamente con l’esercito americano, ha detto lunedì il comandante della forza di difesa radiologica, chimica e biologica russa, il tenente generale Igor Kirillov, in una conferenza stampa. L’elenco dei partner di questi laboratori include la Defense Threat Reduction Agency (DTRA) del Pentagono e il Walter Reed Army Institute of Research (WRAIR) – la più grande struttura di ricerca biomedica amministrata dall’esercito statunitense; ha aggiunto il generale russo” – dichiarazioni che farebbero pensare alle più incredibili fake news che il periodo storico potrebbe ospitare ma che invece, almeno secondo i media russi, non rappresenterebbero una bufala ma verità raccontate dall’esercito: L’assortimento e l’eccessiva quantità di agenti biologici suggeriscono che il lavoro svolto in questi laboratori fosse stato parte di alcuni programmi biologici militari“, ha affermato il generale, aggiungendo che “solo uno di questi laboratori nella città di Lvov, nell’Ucraina occidentale, aveva distrutto altrettanti come 320 contenitori con agenti patogeni che causano peste, febbre di palude e febbre di Malta, tra gli altri. Se queste raccolte dovessero cadere nelle mani degli esperti russi, molto probabilmente proveranno che l’Ucraina e gli Stati Uniti hanno violato la Convenzione sulle armi biologiche”, ha affermato Kirillov, aggiungendo che: “questo è l’unico motivo che può spiegare la frettolosa distruzione” di quei materiali. Il generale ha anche espresso la sua preoccupazione per il fatto che tutto il materiale biologico necessario per il proseguimento del presunto programma biologico militare fosse già stato trasportato negli Stati Uniti. Kiev ha negato lo sviluppo di armi biologiche e Washington non ha commentato finora le dichiarazioni militari russe. Mosca lancia l’allarme da tempo sulle attività dei laboratori biologici finanziati dagli Stati Uniti situati negli ex stati sovietici. In precedenza, ha indicato il Lugar Research Center – un laboratorio finanziato dagli Stati Uniti in Georgia – come un luogo in cui vengono condotti alcuni pericolosi esperimenti. All’epoca il Pentagono respinse accuse come una “campagna di disinformazione russa“. La notizia è stata rilanciata anche da fonti israeliane.  Link video:
Fonti: https://www.rt.com/russia/551440-ukraine-us-financed-biolaboratories/

5141.- Briefing sull’analisi dei documenti relativi alle attività militari e biologiche statunitensi in Ucraina

Non soltanto statunitensi! Il governo tedesco e, probabilmente, quello francese coinvolti nei laboratori biologici in Ucraina. Si spiegherebbero le frequenti iniziative dei due governi verso Putin.

31 marzo 2022. Discorso del Capo delle truppe di protezione nucleare, biologica e chimica delle forze armate della Federazione Russa,
Il tenente generale Igor Kirillov

Analisi di documenti relativi alle attività militari e biologiche statunitensi in Ucraina

Il ministero della Difesa russo continua a studiare materiali sull’attuazione dei programmi biologici militari degli Stati Uniti e dei loro alleati della NATO sul territorio dell’Ucraina.

In precedenza, abbiamo fornito un diagramma dell’interazione delle agenzie governative e dell’attuale leadership politico-militare degli Stati Uniti con gli assetti biologici ucraini. In particolare è stato rilevato il coinvolgimento del fondo di investimento, guidato da Hunter Biden, nel finanziamento di programmi biologici in Ucraina.

Ecco la corrispondenza del figlio dell’attuale presidente degli Stati Uniti con i dipendenti dell’Agenzia per la riduzione delle minacce del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e con gli appaltatori del Pentagono in Ucraina. La presenza di questi materiali è confermata dai media occidentali.

Il contenuto delle lettere mostra che Hunter Biden ha svolto un ruolo importante nella creazione di un’opportunità finanziaria per poter lavorare con agenti patogeni sul territorio dell’Ucraina, fornendo fondi alle società Black and Veatch e Metabiota.

La corrispondenza pubblicata mostra che i veri obiettivi del Pentagono in Ucraina sono tutt’altro che scientifici. Quindi, in una delle lettere, il vicepresidente di Metabiota osserva che le attività dell’azienda saranno volte a garantire “… l’indipendenza culturale ed economica dell’Ucraina dalla Russia …”, il che è abbastanza strano per un’azienda biotecnologica.

Oggi abbiamo l’opportunità di fornire i nomi di funzionari specifici che hanno preso parte alla creazione di componenti di armi biologiche sul territorio dell’Ucraina.

Una delle figure chiave è Robert Pope, all’epoca dipendente della DTRA e direttore del Joint Threat Reduction Program, il cui obiettivo era coinvolgere gli stati dello spazio post-sovietico in attività biologiche militari. È anche l’autore dell’idea di creare un deposito centrale di microrganismi particolarmente pericolosi a Kiev.

Nella sua lettera al ministro della Salute Ulyana Suprun (a proposito, cittadina statunitense), il Pope apprezza molto le attività del capo del Ministero della Salute dell’Ucraina, osservando, in particolare, la disposizione sull’ammissione di specialisti americani agli assetti biologici ucraini e l’inizio del lavoro per la formazione di un deposito di microrganismi.

Lascia che ti ricordi come si è conclusa questa attività: secondo le informazioni disponibili, tutti i biomateriali patogeni, dallo stoccaggio all’inizio di febbraio 2022, sono stati trasportati da aerei da trasporto militare negli Stati Uniti via Odessa.

Il coordinamento dei progetti biologici militari in Ucraina e la selezione degli artisti è stato guidato da Joanna Wintrol, capo dell’ufficio DTRA in Ucraina. Sotto la sua diretta supervisione, i progetti americani UP-4, UP-6, UP – 8 sono stati implementati per studiare agenti patogeni mortali, tra cui antrace, febbre del Congo-Crimea, leptospirosi.

In seguito, la divisione ucraina della società Black and Veatch, guidata da Lance Lippencott. È anche il principale referente per i funzionari del Ministero della Difesa e del Ministero della Salute dell’Ucraina.

L’azienda lavora nell’interesse del Pentagono dal 2008 nell’ambito di progetti per lo studio di bioagenti potenzialmente pericolosi. Tra questi c’è il progetto UP-1 sullo studio della rickettsia e del virus dell’encefalite da zecche negli artropodi nel nord-ovest dell’Ucraina. Al fine di monitorare a livello globale la situazione biologica durante il progetto UP-2, l’azienda ha implementato un sistema di monitoraggio remoto dell’incidenza di tularemia e antrace presso le strutture biologiche ucraine.

Le questioni del biomonitoraggio e della trasmissione delle informazioni sono state supervisionate da David Mustra, che è strettamente associato con un altro appaltatore del Pentagono, Metabiota. In precedenza, ha guidato progetti biologici militari in Ucraina e nell’Europa orientale nell’ambito del programma congiunto di riduzione delle minacce.

Va notato che le attività della società Black and Veatch hanno posto molte domande anche ai servizi speciali ucraini.

Così, già nel 2017, il dipartimento di Kherson della SSU nella sua nota indicava:

CITAZIONE: “… recentemente si è concretizzata la potenziale minaccia di deterioramento della situazione epidemica nel nostro Paese, per le intenzioni di DTRA attraverso l’azienda Black e Veatch per stabilire il controllo sul funzionamento dei laboratori microbiologici in Ucraina conducendo ricerche su agenti patogeni di infezioni particolarmente pericolose che possono essere utilizzati per creare o modernizzare nuovi tipi di armi biologiche …” FINE CITAZIONE.

Metabiota è noto per i suoi sviluppi nella previsione di focolai di malattie infettive. Inoltre, è stato coinvolto dal Pentagono nella modellazione della situazione epidemica nello spazio post-sovietico. Sul territorio del Regno Unito.

Scott Thornton ha supervisionato la modernizzazione dei laboratori. Inoltre, ha fornito consulenza al personale locale sulla gestione di agenti patogeni particolarmente pericolosi nell’ambito dei progetti DTRA ucraini.

Le informazioni ricevute dimostrano la partecipazione diretta del dipartimento militare statunitense e dei loro appaltatori alla pianificazione e all’attuazione dei progetti del Pentagono sul territorio dell’Ucraina. Riteniamo che i funzionari elencati dovrebbero rispondere a domande sui veri obiettivi di queste opere.

In precedenza, abbiamo richiamato l’attenzione sui fatti dello sviluppo negli Stati Uniti dei mezzi tecnici di consegna e dell’uso di armi biologiche. Pertanto, la US Patent and Trademark Agency ha emesso il documento n. 8.967.029 per un veicolo aereo senza pilota per la diffusione di insetti infetti nell’aria. La descrizione del brevetto afferma che con l’aiuto di questo dispositivo, le truppe nemiche possono essere eliminate o disabilitate senza rischi per il personale militare statunitense.

Altri brevetti, presentati nella slide, mostrano vari tipi di munizioni per la somministrazione di formulazioni chimiche e biologiche. Nella loro descrizione si notano le caratteristiche: “… basso costo specifico della sconfitta e nessuna necessità di contatto con la manodopera nemica …”. Ciò corrisponde al concetto di “guerra senza contatto” attuato da Washington. Viene mostrata la possibilità di dotare le capsule di sostanze tossiche, radioattive, narcotiche, nonché di agenti patogeni di malattie infettive.

Ricordiamo che questi documenti sono stati portati all’attenzione del pubblico in relazione all’indagine sulle attività di un altro progetto biologico del Pentagono: il centro Lugar a Tbilisi.

Nel 2018 il ministero degli Esteri russo si è appellato al Dipartimento di Stato degli Stati Uniti con la richiesta di fornire una valutazione legale dello sviluppo di tali dispositivi tecnici dal punto di vista del rispetto delle Convenzioni sulla proibizione delle armi chimiche e biologiche. L’amministrazione statunitense si è limitata a una risposta formale, ringraziando cinicamente la parte russa per aver richiamato l’attenzione su questo tema e sottolineando che “… lo sviluppo e la produzione di armi biologiche e chimiche sono vietati dalla legislazione nazionale, ma la decisione di concedere un brevetto non viola gli obblighi degli Stati Uniti ai sensi della BWC e della CWC …”.

Nel contesto di quanto sopra, si richiama l’attenzione sulla richiesta della società ucraina Motor Sich al produttore turco di veicoli aerei senza pilota Bayraktar. Ci tengo a sottolineare che questo documento è datato 15 dicembre 2021. La sua essenza: è possibile dotare questo UAV di sistemi e meccanismi per spruzzare aerosol con una capacità superiore a 20 litri.

Con il raggio di volo di un tale UAV – fino a 300 km e l’equipaggiamento di contenitori con formulazioni biologiche – viene creata una vera minaccia di uso su larga scala di armi biologiche sul territorio della Federazione Russa.

In effetti, stiamo parlando dello sviluppo da parte del regime di Kiev di mezzi tecnici di consegna e uso di armi biologiche con la possibilità del loro utilizzo contro la Federazione Russa.

Un risultato importante dell’operazione speciale delle forze armate russe è stata la fine delle attività di cinque laboratori biologici di Kiev, in cui sono stati effettuati lavori con agenti patogeni di antrace, tularemia, brucellosi, colera, leptospirosi, peste suina africana.

Parte della collezione è stata esportata negli Stati Uniti, i ceppi rimanenti sono stati urgentemente distrutti in conformità con l’Ordine del Ministero della Salute dell’Ucraina del 24 febbraio.

Sono stati confermati i fatti della partecipazione di questi laboratori all’esecuzione dei lavori commissionati dal dipartimento militare americano. In una di queste strutture biologiche, il Centro di salute pubblica del Ministero della salute dell’Ucraina, sono stati implementati diversi progetti UP con un finanziamento totale di oltre 30 milioni di dollari.

Si prega di prestare attenzione alla decisione firmata dal capo del comitato etico di detto centro il 12 giugno 2019 nell’ambito del progetto UP -8. Il documento testimonia lo svolgimento di ricerche a rischio sconosciuto per la vita e la salute dei partecipanti, nonché l’occultamento dell’identità dei soggetti.

In precedenza, abbiamo citato il programma di ricerca di questo progetto e presuppone solo una procedura standard per il prelievo di sangue. Sorge la domanda: di che tipo di test pericolosi per la vita stiamo parlando se il documento prescrive che “… gli incidenti minori con i volontari devono essere segnalati al comitato di bioetica degli Stati Uniti 72 ore dopo l’incidente, e quelli gravi, inclusa la morte di i soggetti, entro 24 ore…”?

Non escludiamo che il programma ufficiale di ricerca sia solo la “parte visibile dell’iceberg”, mentre in pratica i volontari sono stati infettati dal virus della febbre Congo-Crimea, dagli hantavirus e dall’agente eziologico della leptospirosi.

Un tale atteggiamento sprezzante nei confronti dei cittadini ucraini caratterizza bene l’approccio pragmatico degli Stati Uniti all’organizzazione della ricerca biologica militare. I paesi in via di sviluppo sono considerati un banco di prova per componenti di armi biologiche e medicinali.

Riteniamo che i documenti in arrivo testimonino l’effettiva violazione da parte degli Stati Uniti e dell’Ucraina degli obblighi previsti dall’articolo 4 della BWC e dalla risoluzione n. 1540 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 28 aprile 2004.

Continueremo ad analizzare le prove documentali delle violazioni da parte dell’amministrazione americana e del regime di Kiev degli accordi internazionali sulla non proliferazione delle armi biologiche e vi informeremo.

Direzione dei servizi media e dell’informazione

Ma non era stato debellato!?

5140.- Referendum giustizia, perché dire basta al carcere preventivo

di Redazione Zuppa di Porro, 28 Maggio 2022

referendum giustizia(3)

di Paolo Becchi e Giuseppe Palma

Il 12 giugno si avvicina e il dibattito in merito ai referendum sulla giustizia stenta ancora a partire. Non se ne parla a sufficienza. Sarà anche vero che gli italiani hanno altre preoccupazioni: il lavoro, le bollette e l’affitto da pagare, e sullo sfondo la paura degli effetti della guerra e di nuove pandemie. Eppure, questo è l’ultimo treno per cercare di cambiare la giustizia e sarebbe un peccato perderlo.

Ci siamo occupati di questo referendum con diversi nostri articoli e speciali, da ultimo con un libretto dal titolo “Referendum Giustizia: tutte le ragioni per votare Sì”, sostenendo in modo convinto la necessità di votare Sì a tutti e cinque i quesiti referendari. In un precedente post abbiamo analizzato il quesito più controverso, quello sulla “Legge Severino”, oggi vogliamo porre l’attenzione su quello che riguarda i “limiti agli abusi della custodia cautelare”. Prima però vogliamo fare due passi indietro…

Il tintinnio delle manette

Era il 31 dicembre 1997 quando l’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, denunciò a reti unificate nel suo discorso di fine anno l’uso sconsiderato della custodia cautelare in carcere: “Il tintinnare le manette in faccia a uno che viene interrogato da qualche collaboratore, questo è un sistema abietto, perché è di offesa. Anche l’imputato di imputazioni peggiori ha diritto al rispetto”. Scalfaro si riferiva alla stagione di Mani Pulite, quando era solito, quasi quotidiano, sbattere gli indagati in cella perché rivelassero ciò che gli inquirenti cercavano. Tanto per rendere l’idea dell’uso distorto che è stato fatto della misura cautelare carceraria, in merito alla stagione di Tangentopoli Francesco Saverio Borrelli ebbe modo di dire: “Ma in fin dei conti, è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?”. Lo scandalo, in realtà, sono le idee inquisitorie che si nascondono dietro queste parole.

Il supplizio di Enzo Tortora

Il caso più clamoroso, tuttavia, è più risalente nel tempo. Giugno 1983, viene arrestato Enzo Tortora, il noto presentatore televisivo accusato da alcuni collaboratori di giustizia di trafficare droga per conto della Nuova Camorra Organizzata (NCO) di Raffaele Cutolo. Gli inquirenti di Napoli si fidarono delle rivelazioni di uno psicopatico, tale Giovanni Pandico (detto ‘o pazzo), che leggendo sull’agendina di un’amica del camorrista Giuseppe Puca il nome di un tale Enzo Tortona (con la n), rivelò si trattasse di Enzo Tortora, “quello del pappagallo”. I giudici istruttori ritennero credibile una tale ricostruzione, avallata da altri pentiti del calibro di ‘o animale (Pasquale Barra) e cha-cha-cha (Gianni Melluso). Fatto sta che Tortora, completamente estraneo ai fatti, passerà in totale 271 giorni in carcere, per poi essere condannato a 10 anni di reclusione in primo grado per associazione a delinquere di stampo camorristico e traffico di stupefacenti. L’assoluzione con formula piena arriva in appello solo nel 1986, confermata in Cassazione un anno più tardi. Pm, giudici istruttori e giudici del tribunale di Napoli, nonostante i gravi errori commessi, furono tutti promossi.

Cosa prevede il quesito referendario?

L’oggetto del referendum è chiaro. Si tratta di limitare gli abusi della custodia cautelare. Vediamo come funziona. Quando sussiste almeno una delle esigenze cautelari previste dal codice di procedura penale (pericolo di fuga, di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato), e solo quando il pericolo è concreto ed attuale, il Pm può chiedere al Gip l’applicazione di una misura cautelare nei confronti della persona sottoposta ad indagini. La difesa non può nulla, se non presentare (dopo che la misura è stata eseguita) istanza al tribunale del riesame oppure depositare allo stesso Gip istanze di revoca o di sostituzione della misura (in quest’ultimo caso solo se sussistono elementi nuovi ai sensi dell’art. 299 c.p.p.). Il quesito referendario intende abrogare l’art. 274, comma 1, lettera c) del codice di procedura penale (d.p.r. n. 447/1988), limitatamente alla parte in cui consente l’applicazione della misura cautelare per i delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni e, per la custodia cautelare in carcere, per i delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti.

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Cosa accade se vincono i Sì?

In pratica, nel caso in cui i cittadini decidessero di abrogare la norma oggetto del quesito referendario, le misure cautelari sarebbero applicabili soltanto nei casi stabiliti dal primo periodo della lettera c) dell’art. 274, comma I c.p.p., vale a dire solo per “gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata”. Il quesito mira, dunque, a limitare in modo decisivo il ricorso alle misure cautelari, in primis la custodia cautelare in carcere che resterebbe in vigore solo per quei reati particolarmente gravi che giustificano un’attenzione sensibilmente alta da parte dello Stato.

Non è vero che assassini, rapinatori o stupratori non finirebbero più in galera: per questi reati, e per quelli di mafia o di sovversione dell’ordine democratico, la custodia cautelare in carcere resterebbe una misura ancora applicabile. In tutti gli altri casi, se il popolo votasse per l’abrogazione, si finirebbe in galera o in detenzione domiciliare solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, cancellando definitivamente la barbarie dell’anticipazione della pena. Il quesito mira anche ad abrogare il ricorso alle misure cautelari in ordine al reato di finanziamento illecito dei partiti, con trent’anni di ritardo rispetto a quanto accaduto nella stagione 1992-93. Ci aveva già provato il Governo Amato col “decreto-legge Conso” nel 1993 con cui depenalizzava il reato di finanziamento illecito ai partiti, ma Scalfaro allora si rifiutò di firmarlo sotto una forte pressione mediatica e della Procura di Milano. Solo qualche anno dopo di rese conto dell’errore che aveva fatto.

In un Paese civile chi sbaglia paga, ma solo dopo un regolare processo che conduca – esperiti tutti i gradi di giudizio previsti dalla legge – a sentenza definitiva.

5139.- Breve sintesi del Referendum sulla giustizia, quali sono i quesiti e come si sono espressi i partiti

sabato 28 Maggio 17:35 – di Natalia Delfino

referendum giustizia

Cinque quesiti, una giornata per votare, il quorum del 50%. Sono i numeri del referendum sulla giustizia sul quale ci si potrà esprimere il 12 giugno, in concomitanza con il voto per le amministrative. Promosso da Lega e Radicali, il referendum è stato accolto con minore o maggiore entusiasmo dalle forze politiche, anche in base ai singoli quesiti che riguardano il processo penale, l’ordinamento giudiziario, e il Csm, ancora oggetto di riforma in Parlamento.

Su quali temi interviene il referendum sulla giustizia

In particolare i quesiti puntano ad abrogare in tutto o in parte la legge Severino, sull’incandidabilità e l’ineleggibilità di politici e amministratori locali condannati per mafia, terrorismo o reati contro la pubblica amministrazione, e la custodia cautelare prima della sentenza definitiva. Intervengono inoltre sul tema della separazione delle funzioni dei magistrati tra giudici e pubblici ministeri; della necessità di raccogliere le firme per le candidature al Csm; della valutazione dei magistrati.

Il contenuto dei cinque quesiti

Il primo quesito propone l’abrogazione integrale della legge del 2012, che porta il nome dell’allora ministro della Giustizia e che prevede la sospensione o la decadenza degli amministratori locali anche in caso di condanna non definitiva. L’abrogazione rimanda ai giudici la competenza sull’interdizione dai pubblici uffici dei politici condannati. Il secondo quesito punta a eliminare un parte dell’articolo 274 del codice di procedura penale e, nello specifico, la parte che motiva la custodia cautelare in carcere o ai domiciliari con il pericolo di reiterazione del reato.

La questione magistrati

Per quanto riguarda i quesiti sulla magistratura, per il referendum sulla separazione delle carriere, la scelta della funzione dovrebbe avvenire a inizio carriera e rimanere definitiva, mentre oggi è possibile passare dal ruolo di giudice a quello di pm e viceversa anche per quattro volte. Il quesito sulla raccolta delle firme per presentare la candidatura al Csm punta poi ad arginare il peso e l’influenza delle correnti nell’elezione dei membri del Consiglio. Infine, sulla valutazione dei magistrati, che oggi è affidata esclusivamente ad altri magistrati, il referendum  punta a includere nel processo di valutazione anche avvocati e docenti universitari.

Le posizioni dei partiti

A favore di tutti i quesiti, oltre ai promotori di Lega e Radicali, sono espressi Forza ItaliaItalia Viva e AzioneFdI è a favore di quelli sui magistrati, ma contrario a quelli sulla Severino e sulla custodia cautelare. Il Pd ha lasciato libertà di voto, mentre il M5s è contrario a tutti.

5138.- Come i magistrati valutano la questione Giustizia.

Sulla legge di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio Superiore della magistratura. 

Marta Cartabia è professore ordinario di Diritto costituzionale: nel settembre 2011 venne nominata dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano giudice della Corte costituzionale, di cui è stata vice presidente dal novembre 2014.

Le domande di Questione Giustizia a Claudio Castelli, presidente della Corte d’appello di Brescia, e Ilio Mannucci Pacini, presidente di sezione del Tribunale di Milano

a cura di Direzione di Questione Giustizia

In un periodo di aspre ed incessanti polemiche sulla giustizia e sulla magistratura, il Parlamento è prossimo all’approvazione di un disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio Superiore della magistratura. 
Il direttore di Questione Giustizia, Nello Rossi, ha posto a magistrati, diversi per età e per le funzioni svolte, alcune domande – volutamente sempre le stesse – sui principali aspetti della vicenda istituzionale in corso: la valutazione del progetto di riforma; il giudizio sulla scelta dell’astensione dal lavoro; le trasformazioni in atto nella magistratura; i percorsi da intraprendere per riconquistare la fiducia dei cittadini dopo gli scandali sulle nomine. 
Lo scopo dell’iniziativa è quello di rappresentare – in termini più approfonditi ed argomentati di quanto sia possibile sui media generalisti – la pluralità dei punti di vista e delle prospettive che coesistono in seno alla magistratura. 
Apriamo il confronto con Claudio Castelli e Ilio Mannucci Pacini.

Qual è la vostra valutazione complessiva dell’attuale progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario? Quali sono i suoi aspetti più positivi e condivisibili e quali i suoi tratti più negativi?

CASTELLI: L’attuale disegno di legge in discussione al Senato è un brutto progetto che risente della sua genesi: elaborato dal Ministro Bonafede, rivisto tenendo conto molto parzialmente del prodotto della commissione Luciani, arrivato ad un testo che aveva una sua razionalità ed equilibrio, poi di gran lunga peggiorato dagli interventi punitivi delle varie forze politiche della composita maggioranza di governo e dalle conseguenti mediazioni al ribasso. Il frutto è un brutto collage, privo di un’anima e di un filo conduttore chiaro. L’unica direzione che risulta distinguibile è quella di un ridimensionamento e di una rivalsa nei confronti della magistratura. Ci sono anche misure positive che vanno viste con favore, mi limito solo a due tra le più significative: il ritorno al concorso di magistratura immediatamente dopo la laurea e l’attenzione per la formazione per le funzioni direttive e semidirettive.

Quanto ritengo più pericoloso sono alcuni filoni sotterranei relativi al lato valutativo e organizzativo che permeano più norme e che costituiscono un messaggio culturale inquinante.

– Un aziendalismo primitivo che si illude di perseguire l’efficienza badando solo alla quantità, come se il prodotto giudiziario fosse omogeneo, non complesso e diversificato, e come se l’unico problema fosse di quantità. Un’ottica fordista superata da tempo anche a livello industriale, del tutto inadeguata alla specificità giudiziaria e che porterebbe a privilegiare le soluzioni più rapide e semplici (per il magistrato), non quelle più giuste.

– Una falsa meritocrazia, come si desume dalle c.d. pagelle, tutta basata sulle capacità organizzative. Da un lato si vorrebbe una sorta di classifica per premiare i magistrati eccellenti, dimenticando che quanto conta per il cittadino è che il normale magistrato sia idoneo, capace e adeguato, non di avere una piccola casta di supermagistrati. Dall’altro vengono ignorati aspetti fondamentali per la figura del buon magistrato, quali la preparazione scientifica, la bontà dei provvedimenti, l’equilibrio, la capacità di ascolto. L’unica cosa che conta sembra essere la, pur importante, capacità organizzativa.

– L’illusione di risolvere la gestione degli uffici giudiziari ed il perseguimento dell’efficienza con la gerarchizzazione, accompagnata dalla minaccia di sanzioni disciplinari. L’idea che si possano avere risultati tramite un ampliamento dei poteri dei dirigenti, sorretto da norme disciplinari, è perdente. Solo con la condivisione e con il coinvolgimento di tutti si ottengono risultati ed il dirigente è capace se è autorevole, punto di riferimento dei magistrati dell’ufficio e di tutti gli operatori, non se è espressione di puro potere gerarchico assistito dalla paura del disciplinare. 

– La tentazione di far diventare l’intervento disciplinare strumento di governo. Vengono introdotti nuovi illeciti disciplinari e si estendono ipotesi di illeciti già esistenti che non possono portare a nessun risultato dal punto di vista della produzione e della qualità. 

Il risultato che rischiamo di avere è di incrementare una giustizia difensiva con una forte burocratizzazione interna, in cui importante sarà avere le carte a posto sotto il profilo puramente formale, e non la capacità di dare giustizia.

MANNUCCI: Non è questa la sede per compiere un’articolata valutazione di tutti i profili della riforma: di molte previsioni non si è proprio discusso nel dibattito pre-sciopero, evidentemente perché sono state considerate positivamente anche dalla magistratura.

Penso all’art. 2, con riferimento sia alla disciplina delle funzioni direttive e semidirettive, che alla formazione e approvazione delle tabelle di organizzazione degli uffici. Sul conferimento delle funzioni di legittimità (un ambito su cui non ho sufficiente esperienza per una valutazione specifica), mi pare che le criticità segnalate riguardino profili di dettaglio che potranno essere superate nell’attuazione delle delega.

Anche l’art. 4 è stato esente da valutazioni critiche, anche se la mia idea dell’accesso è molto diversa da quella reintrodotta dalla riforma (ma imporrebbe la radicale innovazione delle modalità di selezione dei magistrati, che qui non vi è spazio per affrontare).

Infine, gli interventi programmati all’art. 5 sono generalmente ben valutati, non stravolgono certo la regolazione della materia degli incarichi, ma costituiscono un tentativo di riordino, su cui la stessa magistratura aveva auspicato un intervento legislativo.

Di questi tre articoli, quindi, non discuto, anche se forse andava detto che sono riforme tendenzialmente opportune.

Vediamo l’art. 3, su cui si sono concentrate le valutazioni critiche.

Sono quattro ambiti di intervento, a loro volta contenenti diversi profili.

Il primo ambito riguarda le “famigerate” gravi anomalie.

Io non credo che le “gravi anomalie” nel rapporto provvedimenti e loro riforma o l’inserimento nel nuovo fascicolo personale di alcuni provvedimenti a campione dei magistrati, anche con l’esito degli affari trattati minerà la loro indipendenza e autonomia. 

Vogliamo negare che esista in magistratura un problema di valutazione della professionalità?

Riteniamo che le percentuali non di mera adeguatezza, ma di ottima professionalità superiore alla media sia solo una strumentale accusa di chi vuole ridurre la nostra indipendenza?

Io credo di no.

La valutazione di professionalità deve essere effettiva per garantire l’indipendenza e l’autonomia e l’aumento di fonti di conoscenza non è un vulnus delle stesse, quanto piuttosto un valore aggiunto per un’adeguata valutazione (io vorrei essere valutato su quello che faccio e scrivo, il problema è che spesso le valutazioni di fondano su altro o non vengono proprio fatte). 

Allora, inserire tra gli elementi di valutazione anche le “gravi anomalie” nel rapporto tra provvedimenti emessi e riforme degli stessi nei gradi successivi di giudizio è un elemento aggiuntivo che consente una verifica più adeguata.

Io ho difficoltà ad attribuire un significato alle norme fuori dal loro contesto applicativo. Per me le norme assumono significato nella loro portata di regolamentazione delle situazioni di fatto cui si riferiscono.

Per questo mi sono sorpreso che si sia individuata quella norma come indicativa del desiderio di rivalsa della politica e vulnus alla nostra indipendenza e autonomia, perché quel parametro esiste già nella procedura di valutazione periodica dei magistrati.

In questi anni ho redatto decine (forse oltre 100) pareri quale consigliere del Consiglio Giudiziario, decine di rapporti informativi per i giudici della sezione che presiedo e quell’elemento di valutazione doveva essere affrontato e valutato. Certo, né il Ministero, né il CSM hanno mai fornito i dati, per cui i dirigenti sono stati costretti a inserire spesso frasi di stile per escludere l’esistenza di anomalie, ma i magistrati più scrupolosi (soprattutto i civilisti, che hanno un sistema artigianale di verifica della tenuta delle loro sentenze) indicavano nell’autorelazione gli esiti di quella verifica.

Ma allora cosa è cambiato con l’introduzione di quell’espressione, peraltro ancora meno rigida di quella in vigore (dal 2007!) dove si indica semplicemente che le anomalie dovranno essere verificate?

Forse perché la norma del 2007 non era attuata pienamente era meno pericolosa dell’attuale?

Questo si è detto dai critici della lett. g) del comma 1 dell’art. 3: oggi quella è solo una norma sulla carta, domani quella verifica verrà effettivamente attuata. Argomento che trovo, francamente, debolissimo.

Ma poi, chi valuterà le “gravi anomalie”? 

Come sempre il sistema dell’autogoverno, i Consigli Giudiziari e il CSM, cioè noi.

Insomma, francamente non capisco questo allarme su un indicatore dei parametri di valutazione che esisteva prima della riforma Cartabia e che la stessa riforma rende più garantito per i magistrati.

Vi chiedo, se il 60% delle mie sentenze viene riformato in appello (ho utilizzato una % intermedia, ma l’autogoverno determinerà il livello di gravità delle anomalie), qualche problema su come svolgo le funzioni di giudice secondo voi c’è? Oppure è il giusto esplicarsi della piena autonomia del magistrato?

Io credo che qualche verifica sull’adeguatezza di quel giudice vada fatta senza timori di minarne l’autonomia, senza paura di renderlo conformista.

Il tema della valutazione è certamente più complesso di quello attuato con la riforma.

Io, per esempio, non vorrei valutazioni che creano graduatorie di magistrati, ma dalla mia esperienza di Consiglio Giudiziario ho dedotto che molti dei valutati e dei valutatori vogliono proprio questo, assegnare aggettivi ai magistrati, secondo parametri fondati più sulla conoscenza personale e sull’appartenenza che non su un’oggettiva valutazione delle fonti di conoscenza. Questa riforma, quantomeno, abolisce l’aggettivo eccellente, che spesso è utilizzato per creare graduatorie e, quindi, carriere (io imporrei in sede di valutazione di professionalità di abolire proprio gli aggettivi, non perché siamo tutti uguali, ma perché la valutazione di professionalità non deve servire a creare graduatorie)

Il secondo profilo riguarda la partecipazione degli avvocati al procedimento di valutazione della professionalità all’interno dei Consigli Giudiziari.

Io sono un sostenitore dell’allargamento dei poteri/doveri degli avvocati nell’attività dei Consigli Giudiziari, in particolare nelle competenze riguardanti le incompatibilità e le valutazioni di professionalità. 

Sul primo ambito, al termine dello scorso Consiglio Giudiziario di Milano ho proposto, insieme alla componente laica, l’allargamento delle competenze degli avvocati e dei professori nelle pratiche di incompatibilità, ritenendo che fosse quello nel quale l’avvocatura aveva il maggiore interesse a intervenire, per non consentire un annacquamento dell’immagine di imparzialità e terzietà del magistrato. Quel tentativo fallì e il nuovo Consiglio Giudiziario non l’ha neanche preso in considerazione, attuando modalità di partecipazione dei consiglieri laici ancora meno “aperte” e giungendo persino a mettere in discussione il diritto di tribuna (a Milano consolidato da decenni).

Con riguardo alla procedura di valutazione dei magistrati, vi confesso che ho più paura del “correntismo” che di un punto di vista esterno che fornisca elementi di valutazione del lavoro del magistrato della cui professionalità si discute. Nella mia esperienza, premessa l’irrilevanza statistica delle valutazioni negative (lo 0,1%, forse lo 0,2%), il sistema funziona solo con riguardo alla creazione di graduatorie tra magistrati buoni (il sufficiente non è parametro di valutazione contemplato), discreti, ottimi ed eccellenti e, spesso, sono i rapporti di conoscenza o quelli di appartenenza a indurre l’attribuzione dell’aggettivo migliore.

Tornando al ruolo degli avvocati, il sistema prospettato dalla riforma è molto garantito, attribuisce una responsabilità all’avvocatura piuttosto che riconoscergli un potere. Ci sarà da verificare se l’avvocatura sarà in grado di assumersela quella responsabilità, ma se lo facesse i magistrati dovrebbero solo esserne contenti, perché l’indicazione di fatti specifici (positivi o negativi) su come un magistrato ha lavorato nel quadriennio aumenta la conoscenza, rende più effettiva la valutazione.

Il terzo ambito concerne la gerarchizzazione degli uffici (anche di quelli giudicanti).

Non credo che attribuire qualche potere in più ai dirigenti (ai dirigenti degli uffici, non ai semidirettivi che per me dovrebbero essere aboliti come incarico e diventare coordinatori dei dipartimenti e delle sezioni mediante la tabellarizzazione) significhi gerarchizzare (e quindi ridurre l’indipendenza e l’autonomia del singolo). Più potere significa più responsabilità, più obiettivi mancati di cui rendere conto, maggiore verifica sull’adeguatezza dei dirigenti a svolgere l’incarico. Viviamo in un sistema di controlli straordinario, il singolo magistrato ha il potere di segnalare disfunzioni del suo dirigente e i meccanismi di autogoverno (il Consiglio Giudiziario in particolare) hanno il potere/dovere di intervenire in situazioni di inadeguatezza del dirigente e lo fanno spesso, anche rispetto a dirigenti autorevoli. Io mi sono sempre sentito garantito da un organismo plurale come il Consiglio Giudiziario e tanti magistrati, anche giovani, hanno interloquito rispetto a scelte del dirigente non condivise, ottenendo spesso riscontri dall’organo di autogoverno. Ma che paura abbiamo? 

Nei giorni della mobilitazione è girato un interessante articolo di Claudio Castelli, che pone due questioni, quella del potere del dirigente dell’ufficio (quindi, ancora la gerarchizzazione) e il disciplinare.

Sul primo, Claudio propone una sua condivisibile idea di organizzazione dell’ufficio: quali progetti dovrebbe proporre il dirigente, il cambio di prospettiva che dovrebbero adottare i capi degli uffici giudiziari e su come questa riforma non sposi questa prospettiva.

Claudio ha ragione, se noi avessimo dirigenti degli uffici giudiziari moderni, dirigenti del Ministero con una prospettiva non produttivistica, se gli uffici fossero organizzati come le più moderne strutture lavorative, con un’attenzione alla qualità del servizio offerto più che alla “fordistica” efficienza, il sistema giustizia funzionerebbe meglio.

Se…

Oggi noi abbiamo soprattutto un problema di tempi della giurisdizione, che non è solo responsabilità della magistratura, ma che dipende anche da noi (e con tutto il rispetto, soprattutto dai nostri dirigenti, che, a mio parere, non sono del tutto e tutti adeguati). Io credo che ci sia un tema di responsabilità dei dirigenti, che non è quello di attribuzione di potere, di gerarchia, di controllo dei propri giudici, quanto piuttosto di verifica da parte dell’autogoverno del modo in cui si svolge quell’incarico. Gli obiettivi fissati nella riforma sono sbagliati e inadeguati? Benissimo, cambiamoli. Ma se si vuole verificare come quel dirigente ha svolto l’incarico, è necessario che la struttura (cioè anche i giudici) siano coinvolti in quel progetto di raggiungimento degli obiettivi.

È un discorso articolato, che non si può risolvere in poche righe, ma francamente trovo eccessivo lamentare un vulnus all’indipendenza del singolo magistrato nella prospettiva di considerarlo come parte di una struttura collettiva che deve operare per realizzare obiettivi (ripeto, non solo produttivistici).

Quindi, il disciplinare.

L’aumento delle violazioni disciplinari non lo condivido. Non lo condivido come idea. Non è con il disciplinare che si consente ai magistrati di lavorare meglio. Ecco, questa è l’unica cosa che trovo criticabile, più nel suo simbolismo che nella concreta capacità di “attentare” all’indipendenza.

Sarebbe troppo lungo soffermarsi sulle specifiche ipotesi, alcune delle quali collegate all’attuazione del programma di gestione.

Io capisco che l’obbligo di collaborare all’attuazione del programma di gestione può incidere sull’attività giurisdizionale del singolo magistrato, ma indubbiamente è una specificazione del dovere di collaborazione che già oggi è tra gli indicatori per la valutazione di professionalità. È vero, il programma di gestione può essere sbagliato (ma allora dovrà essere contrastato dai giudici in fase di approvazione e non approvato dal Consiglio Giudiziario e dal CSM), è vero, non è con il disciplinare che si interviene per sollecitare i giudici a collaborare nel raggiungimento degli obiettivi dell’ufficio, ma non bisogna mai confondere l’indipendenza e l’autonomia del singolo nella giurisdizione con l’organizzazione dell’ufficio, che non può essere vissuta come gestione individuale del proprio ruolo e dello stesso ufficio.

L’ultimo punto è la separazione delle funzioni. 

Su questo credo che le contrapposizioni (che ancora dividono le categorie, magistrati e avvocati, ma anche il Paese) non aiutino. Io dico solo che la magistratura non può ignorare che nella cultura giuridica (non solo e non tanto nell’opinione pubblica) l’idea che la separazione delle carriere sia l’inevitabile approdo del processo accusatorio è largamente condivisa. Non conosco un professore di procedura penale che non la sostenga, i laureati in legge del nuovo millennio sono stati “formati alla separazione”, parlare con i MOT degli ultimi dieci anni mi ha fatto capire che per loro la unitarietà delle carriere non è un dogma. 

È giusto? È sbagliato? È incostituzionale? 

Possiamo pensarla come vogliamo, possiamo credere che solo noi magistrati siamo in grado di valutare i danni della separazione e che il resto del mondo (anche la cultura giuridica delle nostre università) sbagli e non si renda conto dei pericoli, ma mi darete atto che è una posizione un po’ presuntuosa. Io credo di essere consapevole dei pro e dei contro della separazione, ma arroccarsi nel dogma (come a contrario fa l’avvocatura) non ritengo sia utile. Perché mi chiedo: se passassero i referendum (lo so, non raggiungeranno il quorum), che facciamo, scioperiamo contro il popolo sovrano?

Contro il progetto di riforma l’ANM ha indetto uno sciopero. Decisione giusta o criticabile? Una scelta necessaria oppure evitabile (o almeno procrastinabile) in favore di altre possibili iniziative da adottare nel corso dei lavori parlamentari?

CASTELLI: Si potevano pensare anche momenti di protesta diversi, ma sicuramente hanno inciso sia una continua modifica dei testi del d.d.l. che ha reso difficile qualsiasi interlocuzione, sia dichiarazioni bellicose e spesso offensive per la magistratura rese da diversi protagonisti politici, sia i tempi ristretti di discussione parlamentare. La scelta dello sciopero può essere stata opinabile, ma chi l’ha proposto voleva proprio sottolineare la gravità di molte delle previsioni contenute nel d.d.l. adottando lo strumento più forte ed estremo. Non dobbiamo dimenticare che la discussione sulla “riforma” ha visto avvicinarsi all’associazionismo e al dibattito culturale una nuova generazione di magistrati che si è sentita umiliata dalla “riforma” e dal dibattito politico che l’ha accompagnata. Generazione che è stata la più decisa e risoluta a favore dello sciopero. 

MANNUCCI: Non ho partecipato alle assemblee all’esito delle quali è stato proclamato lo sciopero. Non l’ho fatto perché ero convinto di essere in netta minoranza rispetto alle posizioni espresse nel documento di Busto Arsizio, che pareva esprimere il sentire diffuso della magistratura. Avevo preferito non esprimere il mio dissenso per rispetto verso l’associazione di cui mi sento a pieno titolo partecipe (anche attivo, pur con meno coinvolgimento di un tempo).

Ho partecipato a due incontri nella settimana precedente allo sciopero, nei quali ho compreso che le posizioni sulla protesta non solo non erano netta maggioranza, ma non erano condivise da tanti magistrati “qualunque” (come mi considero anch’io).

Lì ho espresso le mie posizioni, forse in ritardo, ma non credo che farlo prima avrebbe cambiato la direzione delle scelte dell’ANM.

Non solo ho trovato questo sciopero non congruo rispetto all’obiettivo perseguito, ma ero anche contrario alla piattaforma di rivendicazione. È vero, questa riforma non migliorerà l’efficienza del sistema giustizia, ma è una riforma ordinamentale, che interviene solo su quello e, al di là delle sensazioni (non credo che le norme vadano valutate per le sensazioni), non in termini punitivi o addirittura ritorsivi contro la magistratura.

Piuttosto, proviamo a proporre (e perché no, arrivare a scioperare) riforme per una migliore efficienza e qualità della giurisdizione, copertura organico (però, forse, dovremmo essere meno severi nella valutazione ai concorsi, quest’ultimo 220 ammessi agli orali rispetto a 320 posti a concorso, il 30% in meno!), copertura amministrativi (soprattutto in sedi dove la scopertura arriva al 30%), introduzione di criteri adeguati di valutazione dei dirigenti (e scelta oculata degli stessi… ah, ancora il correntismo).

Da due mesi sono entrati in servizio 7000 giovani laureati che, non so a voi, ma a me sembrano la più importante riforma per migliorare il servizio da quando sono entrato in magistratura. Una struttura straordinaria, giovani preparati e motivati, che, talvolta, i giudici non vogliono utilizzare adeguatamente. Ma molti lo fanno. Ho sentito qualche G.I.P. chiedersi come facevano quando non c’erano funzionari dell’ufficio per il processo e tirocinanti. Io dico solo che la sezione che presiedo sta avendo un cambio di marcia pazzesco da quando ci sono, in termini di efficienza e qualità del lavoro.

Ecco, io per la stabilizzazione degli UPP sciopererei.

Al di là dei luoghi comuni – il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto – l’esito dello sciopero fotografa una divisione a metà della magistratura. Pensate che questo dato sia dovuto a fattori contingenti, concernenti “questa” specifica astensione, o che esso rispecchi più profonde trasformazioni e differenziazioni verificatesi nel corpo della magistratura? 

CASTELLI: Lo sciopero non è stato un successo, ma neppure un fallimento. Ha fotografato una forte frammentazione della magistratura italiana in cui agiscono e si intersecano diverse componenti, quella sociologica, quella generazionale, quella relativa alla provenienza, quella territoriale e quella culturale. Una frammentazione, che rende difficile trovare una sintonia ed una sintesi. L’avversione alla “riforma” non riguarda solo coloro che hanno partecipato allo sciopero, ma anche molti che non hanno condiviso lo strumento adottato. Ora si tratta di capire le ragioni di questa frammentazione così accentuata, che è all’origine della diversa riuscita dello sciopero nelle diverse sedi, per ricostruire con pazienza ed umiltà un’unità della magistratura ed un raccordo della magistratura con quella società civile oggi così lontana.

MANNUCCI: In questi anni mi sono allontanato dall’impegno associativo, ho perso il polso della situazione. Non sono in grado di valutare se effettivamente possa affermarsi che la magistratura è divisa a metà perché vi è stato un consenso dimezzato rispetto a una questione così specifica come l’astensione. Quindi, per me è questo sciopero che ci ha diviso, mentre sento ancora di condividere con molti magistrati un’idea di giurisdizione non dissimile da quella di vent’anni fa. La magistratura è cambiata, i magistrati entrati negli anni 2000 hanno diversi punti di riferimento culturali e professionali, anche se molti di loro si sono formati nella nostra cultura comune. Ci sono orizzonti valoriali, modi di lavorare, una cultura giuridica diversi (l’impegno associativo, quello di corrente, la politicità della presenza della magistratura associata e di quella di corrente nella realtà sociale, che oggi mancano, la logica della carriera, una meritocrazia che pone al centro il magistrato, alcuni valori interni al processo, quale il venir meno del dogma della separazione delle carriere, l’acquisizione dei principi del processo accusatorio, la digitalizzazione dell’attività processuale, che sono presenti nei millennials), ma la divisione, anche in questo sciopero, non è passata tra i giovani e i meno giovani, quanto piuttosto tra chi, ragionando, ha ritenuto le rivendicazioni associative non condivisibili per esperienza professionale (i civilisti mi sono parsi meno sensibili allo sciopero), per concezione del ruolo, per maggiore o minore coinvolgimento nell’associazione.

Molti dei principi fondanti l’assetto della magistratura sono “controintuitivi”. Ad esempio, l’eguaglianza di quanti amministrano giustizia e la ricerca di una elevata professionalità “media” in luogo delle graduatorie dei migliori si pongono su di una lunghezza d’onda molto diversa da quelli di altri settori professionali. È ancora possibile, come è avvenuto in passato, spiegare ai cittadini il significato di questi valori e invitarli a difenderli come loro beni? Attraverso quali percorsi e quali autocritiche sul carrierismo, sulle attuali valutazioni di professionalità, sul rispetto dell’etica?

CASTELLI: La situazione sembra disperata. Non passa giorno senza che ci siano attacchi, spesso del tutto ingiustificati, alla magistratura o a singoli. Né in molti tra di noi credo ci sia consapevolezza che questo si nutre anche dei nostri errori, che non riguardano solo la vicenda Palamara, ma anche di microcorporativismi, di atteggiamenti che paiono arroganti e di decisioni non adeguatamente motivate e spiegate.

D’altra parte gli attacchi, spesso indiscriminati e ingiustificati, a quello che è un potere dello Stato ed un servizio pubblico portano solo alla distruzione dell’istituzione e ad indebolire la nostra collettività e, in definitiva, i diritti dei cittadini.

Credo che la risposta che dobbiamo dare agli utenti debba riguardare diversi piani. Innanzitutto l’esempio, anche personale, di cui ciascuno di noi si deve sentire investito, a livello di professionalità, di etica, di comportamento nei confronti di chi usufruisce del nostro servizio. In secondo luogo siamo chiamati, specie in questo periodo, a dimostrare che è possibile far funzionare i nostri uffici, che è possibile organizzarli adeguatamente, che è possibile avere risultati sia sotto il profilo dei tempi e dei numeri, sia quanto alla qualità. Abbiamo molti esempi virtuosi ed uffici che possono tranquillamente competere con i migliori d’Europa, ma sono tutti casi che restano in secondo piano, a fronte di vulgate solo negative.

Infine dobbiamo renderci conto che la comunicazione è strategica. Sia la comunicazione istituzionale per far sì che il cittadino sia facilitato nell’accesso e veda i Palazzi giustizia come un luogo non lontano ed ostile, sia esterna per diffondere le molte esperienze virtuose e la capacità che abbiamo, più spesso di quanto si crede, nonostante tutto, di dare una giustizia effettiva.

MANNUCCI: Per slogan.

Rivendico la legittimità del sistema di valutazione di professionalità che non crei pagelle e graduatorie tra i magistrati. Come ho già detto, escluderei proprio l’aggettivazione dell’adeguatezza, ritenendo che la verifica di professionalità debba servire solo ad attestare che periodicamente tutti i magistrati mantengono un livello di professionalità adeguato alla prosecuzione delle funzioni. Nella mia prospettiva, l’autogoverno deve esaminare fonti di conoscenze più ampie possibili (quindi, essere rigoroso nell’acquisizione di elementi valutativi), ma al solo fine di concludere per un giudizio binario adeguato/non adeguato.

Ma la magistratura non vuole questo.

Il magistrato in questo è schizofrenico: non vuole che siano ampliate le fonti di conoscenza, ma vuole che la propria valutazione di professionalità conduca a una sua collocazione tra i migliori, pretende un parere straordinario, che inserisca tutti gli elementi del proprio percorso professionale e li valuti con giudizio che deve avvicinarsi quanto possibile all’eccellenza. 

La schizofrenia sta proprio in questo. Se si pretende di essere inserito in una graduatoria, si deve accettare una valutazione più ampia possibile, dove tutti i protagonisti del sistema possono inserire elementi oggettivi di valutazione (il dirigente, i colleghi della sezione o del dipartimento, il personale di cancelleria, le parti, l’utenza).

Se così non è, la valutazione di eccellenza è il risultato di un sistema dove contano più le conoscenze e le appartenenze.

Se poi dovessimo ragionare sul sistema consiliare, su quello che è emerso dalle chat del processo perugino, deve concludersi che il carrierismo è ormai un virus ineliminabile, perché ha coinvolto la base della magistratura.

Il mio ottimismo mi induce a credere che spiegare si può, che le ragioni di un sistema di valutazione di professionalità come quello definito nella domanda siano inattaccabili e non mi sono mai sentito in difficoltà a spiegarle.

Certo, carrierismo, inciampi etici, “sistematicità del sistema” non agevolano, ma questo attiene al campo del percorso che è mancato dal maggio 2019 in avanti.

Se non ho inteso male, di recente il segretario di MD ha lanciato un percorso di verità e giustizia sui danni del sistema emerso dalle chat di Palamara. Due anni fa (era il giugno 2020), insieme ad Adriano Scudieri, formulammo una serie di proposte di ripensamento critico del sistema (tra le altre, una sorta di commissione di verità e giustizia sui guasti del correntismo); quelle proposte furono ignorate da tutti, forse perché la magistratura non voleva verità, forse perché a molti andava bene che fossero pochi capri espiatori a pagare le conseguenze di quelle rivelazioni.

Vorrei finire con la citazione di quella proposta, ignorata allora e che ormai, oggi, avrebbe poco senso, anche se quell’ammissione di responsabilità non è mai stata fatta.

«…Pensare ad un momento di ammissione collettiva delle responsabilità, ammissione collettiva che passa dal personale coinvolgimento di ciascuno nello svelamento del sistema. Un momento di verità e riconciliazione, gestito e promosso dall’ANM (che deve recuperare un suo ruolo anche di fronte agli stessi magistrati) in cui chi ha partecipato al sistema (anche solo tollerandolo) lo ammetta, non tanto per la funzione catartica che tale ammissione può comportare, né per il valore etico dell’ammissione di corresponsabilità, ma per rendere evidente che quel sistema non poteva fondarsi esclusivamente sui rappresentanti, ma coinvolgeva anche i rappresentati».

Leggi e istituzioni

Le domande di Questione Giustizia a Luisa De Renzis, sostituta procuratrice generale presso la Corte di Cassazione

a cura di Direzione di Questione Giustizia

Quale è la tua valutazione complessiva dell’attuale progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario? Quali sono i suoi aspetti più positivi e condivisibili e quali i suoi tratti più negativi?

La spinta riformatrice[1] costituisce un doveroso e nobile tentativo di assicurare un assetto organico al comparto della giustizia (giustizia penale, giustizia civile, ordinamento giudiziario).

Una riforma imponente (si tratta di una riforma orizzontale e di contesto nell’ambito degli interventi post-pandemia) alla quale certamente va ascritto il grande merito di avere ripreso le fila dei tentativi di riforma parziali ed incompleti degli anni precedenti.

Va però osservato che gli obiettivi c.d. essenziali correlati al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (che prevedono la riduzione dei tempi del processo del 25% nel settore penale e del 40% nel settore civile entro i prossimi cinque anni) rischiano di fuorviare il contenuto della riforma, facendole assumere la parvenza di un contenitore di norme tutte orientate su un unico e preponderante obiettivo: quello dello smaltimento rapido ed efficiente dei processi e del raggiungimento dell’ intento consistente nella velocizzazione sempre e comunque.

Gli obiettivi sono coerenti con i principi costituzionali e con quelli sovranazionali perché la giustizia deve funzionare in modo rapido ed efficiente tanto che la ragionevole durata del processo può essere ascritta, a ragione, tra i requisiti del giusto processo (artt. 111 Cost. e 6 Cedu).

L’impostazione di partenza però non persuade del tutto: vi si coglie l’esigenza di una preponderante valutazione del lavoro del magistrato su parametri che, pur utili come meri indicatori della professionalità, divengono il perno di un sistema improntato su dati statistici e su una valutazione di tipo aziendalistico che rischiano di oscurare la fisionomia autentica del lavoro del magistrato.

Senza entrare nel dettaglio dei singoli interventi di riforma, in termini ben più generali, si coglie il valore di fondo, la parola chiave che caratterizza il testo normativo: l’efficienza diviene un valore autonomo sganciato da ogni altro aspetto del giudizio.

Si tratta di un aspetto (quello dell’efficientismo produttivista) che perde la sua originaria funzione di ausilio rispetto al giudizio (nell’ambito dell’organizzazione giudiziaria e della ottimizzazione delle risorse strumentali) ed è destinato ad assorbire la stessa funzione cognitiva del giudizio, quasi confondendosi con esso.

Arriveremo così a pensare che un giudizio efficiente è anche per definizione un giudizio giusto? 

Non persuade, sempre nell’ottica dell’efficienza, la sicura e non comprovata convinzione che le modifiche nel rito siano sempre e comunque di per sé risolutive per la velocizzazione del processo.

La giustizia procedurale non basta da sola a deflazionare; si prenda ad es. il giudizio civile dove la introduzione di modelli ordinari – per così dire semplificatori – dovrebbe fare i conti con la urgente ricognizione dei c.d. riti speciali che continueranno a trovare applicazione con una indomita proliferazione di riti non certo utile alla auspicata definizione sollecita delle controversie.

Il valore dell’efficienza permea di sé non solo il processo ma delinea anche un magistrato dal volto nuovo.

Il magistrato relegato al ruolo di definitore seriale ed efficiente di processi non risponde al modello voluto dalla costituzione perché l’attività del magistrato, e questo va sempre tenuto a mente, è tutta incentrata nella complessa «quotidiana necessità di scegliere fra diverse interpretazioni giuridiche, tutte formalmente legittime», orientando la scelta sulla base di una attenta selezione degli interessi e dei valori in gioco secondo gli schemi della Costituzione[2].

La premessa sin qui svolta mi è necessaria per introdurre il tema delle riforme sull’ordinamento giudiziario.

Mi pare evidente che le riforme di ordinamento giudiziario trovino sempre un aggancio diretto al modello ideale di magistrato che un dato ordinamento intende valorizzare.

Per questo analizzerò solo alcuni punti della riforma che non reputo rispondenti al mio modo di essere magistrato. Del resto, con poche battute, sarebbe impresa ardua analizzare a fondo il progetto di riforma. Cercherò però di far comprendere il mio punto di vista.

Ecco, concentrando l’attenzione su alcuni aspetti relativi al disegno di legge n. 2595[3] si coglie, a mio avviso, un tratto non positivo che è direttamente correlato all’efficientismo produttivista: il lento scivolamento verso la figura di un giudice eccessivamente burocratizzato, molto attento ai numeri ed alle statistiche.

Non dico che il magistrato debba vivere sulle nuvole e non interessarsi agli aspetti organizzativi del proprio lavoro ma occorre preservare quella centralità della funzione giurisdizionale, che non coincide affatto con un magistrato più attento alle statistiche che alla bontà del proprio lavoro.

Intendo dire: ci sono nella professione del magistrato moltissime attività che non possono essere ridotte a statistica e che se divenissero freddi dati statistici perderebbero il valore che gli è proprio.

Si tratta infatti di funzioni ad alto contenuto umano (“da maneggiare con cura”) e credo che ogni riformatore debba tenere conto di queste peculiarità per non snaturare la funzione giurisdizionale.

Ecco perché di questa riforma non valuto positivamente la norma che prevede l’istituzione del fascicolo del magistrato (art. 3, comma 1) da taluni commentatori definito, forse anche con un po’ di ironia, come il fascicolo della performance.

La formazione di fascicoli personali improntati a criteri di efficienza decisionale e di conformità con i gradi successivi predice molto più di quanto non sia immaginabile.

Una previsione che lascia riflettere perché quando prevale la preoccupazione di valutare l’operato professionale sulla base di una acritica conformità (anche nei gradi successivi) si dà ingresso ad un lento ma inesorabile mutamento della funzione giurisdizionale: il pensiero si accomoda così, quasi senza accorgersene, sulla soluzione meno invadente, sulla soluzione meno dirompente, sulla soluzione che consente di rischiare meno.

Non sono mancate le voci che, al contrario, hanno stemperato le critiche ritenendo che già oggi esistono norme che impongono di considerare, quali indicatori della capacità del magistrato, anche l’esito degli affari nelle successive fasi nei gradi del procedimento e del giudizio (cfr. art. 11, comma 2 lett. a del d.lgs 160/2006).

Certo se è vero che il magistrato colto e professionale non teme alcun giudizio è anche vero che la norma, laddove non attuata secondo criteri di ragionevolezza e laddove applicata al merito delle singole decisioni, può condurre ad esiti non confortanti.

Non appaga nemmeno pensare che la valutazione a campione delle “gravi anomalie in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle fasi o nei gradi successivi” sia condotta secondo criteri statistici che tengano conto della percentuale degli scostamenti tra le rispettive fasi del giudizio.

Non si comprende poi come possano essere identificate le “gravi anomalie” dal momento che si tratta di una clausola aperta tutta da riempire di contenuti e quali siano invece gli scostamenti considerati fisiologici e non affetti da anomalia grave.

In conclusione, la norma – anche a volerla considerare con un giudizio benevolo – non mi convince affatto perché introduce nel momento (fondamentale) della valutazione professionale specifici elementi che non tengono conto della peculiarità del lavoro giurisdizionale e del fisiologico scostamento tra le decisioni nei vari gradi di giudizio. 

Ancora, valuto con qualche perplessità il testo introdotto dall’art. 3 comma 1 lett. a) del disegno di legge sul ruolo degli avvocati e professori universitari nell’ambito delle competenze riservate al Consiglio Direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli Giudiziari.

E’ stata inserita, attraverso l’attività emendativa, la previsione di un voto (seppure unitario) quando il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati provveda ad effettuare le segnalazioni sui singoli magistrati in valutazione. Si tratta di conferire nuova vitalità alla disposizione già introdotta dall’art. 11, comma 4, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160 mediante il meccanismo del voto unitario.

Non è in discussione la funzione dell’Avvocatura che, tra l’altro, dovrebbe esprimere la volontà non del singolo avvocato ma dell’Organo di Autodisciplina, tuttavia occorre riflettere a fondo se possa dirsi auspicabile un modello valutativo in cui l’avvocatura, da prezioso interlocutore dell’attività giurisdizionale, divenga un valutatore esterno come accade in altri settori nei quali si richiede a coloro che fruiscono delle prestazioni di certificarne la bontà ed il grado di soddisfazione.

Va poi detto che ove non sia assicurata una sicura imparzialità del componente laico avvocato, che in costanza di mandato potrebbe continuare a svolgere la professione forense, si porrebbero non pochi problemi. Si pensi ad es. ai distretti di piccole dimensioni dove il voto unitario dell’avvocatura sarebbe destinato ad incidere non poco.

Resta poi il nodo centrale, quello della separazione delle funzioni. Un vecchio cavallo di battaglia che torna ad essere galoppante quando la magistratura attraversa momenti di fragilità.

Inutile dire che molti di noi sono cresciuti nella sicura convinzione che mettere paletti tra una funzione e l’altra sia una incomprensibile privazione, una inaccettabile menomazione della funzione giurisdizionale ed una improduttiva modifica ordinamentale perché, a ben vedere, creando funzioni separate non si eliminano i guasti del sistema ma, al più, li si fossilizzano all’interno della categoria di riferimento.

Mi piace introdurre una riflessione che riguarda le origini del p.m. in ambito civile; è molto interessante esaminare le varie tappe storiche per constatare che il pm si è ben presto affrancato dalla soggezione al potere regio per entrare, a pieno titolo, nella giurisdizione. A tal proposito è sufficiente verificare l’ampia bibliografia richiamata dall’Allorio che, nel 1941, pubblicò un saggio su Il Pubblico Ministero nel nuovo processo civile.

Si tratta di un saggio, a distanza di anni, di grande attualità per la comunanza di problematiche e per la ricchezza degli spunti di riflessione offerti nell’inquadramento concettuale del pubblico ministero.

A ben vedere, a parte la trattazione della figura istituzionale del pubblico ministero nell’ambito dei testi di procedura civile e dei vari commentari ragionati, è assai più raro trovare approfondimenti sistematici con riflessioni sulla funzione in sé (ancora tutta permeata di modernità) e sulla perdurante vitalità del pubblico ministero come protagonista della funzione giurisdizionale e giusto contrappeso alla complessità del diritto moderno. Le origini dell’istituto vanno ricercate nella legislazione francese dove, sin dal 1300, si impose la peculiare figura del procuratore degli interessi regi tanto che i re di Francia erano soliti farsi rappresentare da procuratori e da avvocati nelle cause in cui veniva in rilievo il loro interesse personale o un interesse pubblico[4].

Si trattava di una magistratura strettamente collegata al potere regio (in funzione di dipendenza) che però, ben presto, seppe assumere anche atteggiamenti di marcata opposizione allo stesso potere che l’aveva istituita, sino a concludere verbalmente disattendendo le istruzioni scritte ricevute[5].

Il codice di rito italiano del 1865, mutuando al proprio interno numerosi principi giuridici importati dalla Francia, istituì la funzione del pubblico ministero e tale ruolo è rimasto immutato sino ad oggi: il passaggio all’ordinamento Zanardelli peraltro favorì il rientro del pubblico ministero nella giurisdizione e l’unificazione delle carriere tra la magistratura giudicante e la magistratura requirente.

Si è trattato di un percorso storico che ha caratterizzato la figura (istituzionale) del pubblico ministero quale soggetto, inizialmente in contrapposizione alla giurisdizione, per poi svolgere un ruolo di controllo e, in ultimo, nella versione moderna, un importante ruolo nella funzione giurisdizionale quale garante e custode della legalità.

Ebbene, io trovo un controsenso che oggi si stia ragionando per ricostruire un percorso inverso rispetto a quello che la storia ci ha consegnato: una cultura giurisdizionale comune si è imposta nel tempo e varrebbe la pena preservarla.

Contro il progetto di riforma l’ANM ha indetto uno sciopero. Decisione giusta o criticabile? Una scelta necessaria oppure evitabile (o almeno procrastinabile) in favore di altre possibili iniziative da adottare nel corso dei lavori parlamentari?

«Non scioperiamo per protestare, ma per essere ascoltati[6]»: ecco, espressa in poche e significative battute la ragione che ha condensato il desiderio impellente della magistratura di essere ascoltata.

Si tratta di un invito (quello dell’ANM ad essere ascoltati) del tutto condivisibile, anzi necessario, perché nessuna riforma politica può essere attuata se non porgendo l’orecchio all’interlocutore per testare le ragioni profonde delle scelte riformatrici e per rifletterne sui possibili esiti.

Il compito del legislatore è infatti quello di prefigurare con saggezza l’assetto futuro della società e dei vari settori nella quale essa si compone. Il comparto giustizia, come sappiamo, rappresenta uno degli snodi fondamentali per la riorganizzazione post-pandemia e, non a caso, il piano nazionale di ripresa e resilienza contiene specifiche misure che intervengono sul sistema giudiziario quale potente propulsore della ripresa sociale.

Si tratta di riforme finalizzate a velocizzare lo svolgimento dei processi, a prevedere specifici stanziamenti per la digitalizzazione dei procedimenti giudiziari, a gestire il carico (pregresso) delle cause civili e penali. 

Ecco allora che il disegno di legge n. 2595 (un grande contenitore di proposte riformatrici di tipo ordinamentale nel comparto giustizia) diviene l’occasione per stimolare il dialogo e per sollecitare l’ascolto di cui la magistratura ha tanto bisogno.

Ma è ragionevole sostenere che la magistratura per essere ascoltata sulle riforme ha la necessità di scioperare? 

Non vi è il rischio che lo sciopero, pur legittimo, divenga una reazione destinata ad allontanare l’ascolto e, prima ancora, il dialogo con gli interlocutori? Non vi è il rischio, anche alimentato dai soliti luoghi comuni, che lo sciopero divenga una scelta difficile da giustificare agli occhi di una società stremata e preoccupata da una lunga serie di eventi che hanno messo a dura prova il mondo intero? E poi ancora: quanto la magistratura, scossa dalle burrascose vicende che ne hanno messo a nudo le fragilità, è convinta di poter legittimamente intraprendere un percorso dialogante con la politica senza dover chinare il capo con il timore di subire riforme punitive? Lo sciopero è l’unico rimedio possibile per allontanare questi timori oppure esiste un’alternativa? 

Una lunga serie di domande si agitano nella mente con la convinzione che lo sciopero sia stato un piccolo e poco incisivo tassello nel tentativo di individuare la soluzione di un grande problema: quello prioritario di riallacciare il dialogo con la società e di recuperare l’essenza (profonda) di una magistratura sul cammino della propria sofferta identità.

Sin da quando ero una giovane uditrice ho vissuto sulla mia pelle la difficoltà del giudizio, la sensazione di non avere colto, in tutti i suoi tratti, la delicata vicenda umana che si pone alla base del giudizio stesso (da intendere come necessaria applicazione del diritto al «piano della vita nella ricchezza e varietà delle sue forme e sfere»[7]) e l’obiettivo era sempre quello di dover migliorare, sempre, prima ancora come donna, perché non è possibile essere magistrati senza avere coltivato la propria umanità: in fondo giudicare è anche comprendere il vissuto altrui (entrare nel fatto senza disdegnarne la comprensione).

Sono riflessioni che – a giudizio di alcuno – potrebbero esulare dal tema di fondo come inutili divagazioni persino dal sapore un po’ antico; al contrario, sono convinta che, solo riflettendo sull’essenza autentica dell’essere magistrati, si possa fare luce sui tanti problemi che affliggono questa professione. 

Sono certa che le riflessioni ideali, veicolate nelle forme e nelle modalità più appropriate (es. la richiesta di un confronto serrato e dialogante nell’ambito dei lavori parlamentari ma anche le necessarie divulgazioni nell’ambito della comunicazione che escano dalla logica di una magistratura associata tutta colpevole delle degenerazioni correntizie), siano destinate ad incidere nella società con una eco certamente maggiore di quanto una giornata di astensione dal lavoro possa fare. Ecco allora, ad esempio, che il c.d. fascicolo delle performance, di cui ho già parlato, può divenire una preziosa occasione per riflettere e per far riflettere la collettività che non si tratta di prestazioni (quelle correlate al giudizio) così facilmente catalogabili in termini di sicura riuscita e che la “grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle fasi e nei gradi successivi del procedimento e del giudizio” non può costituire indice attendibile di valutazione professionale perché, nella difficile arte del giudizio, non è corretto attribuire ai gradi successivi del procedimento aspetti indiscussi di verità sostanziale e procedurale. 

Tra l’altro, la complessità del diritto moderno rende inevitabile una fisiologica alternanza nella prospettazione di tesi giuridiche non sempre identiche e con un processo decisionale molto spesso strutturato per tappe (si pensi alle ipotesi di annullamento con rinvio dove diverrebbe impossibile contabilizzare se e chi, in quale stato e grado, debba rispondere della “grave anomalia”). Ancora, la difformità di vedute tra il p.m. ed il giudice non può essere intesa a priori come un disvalore ma, al contrario, può essere ascritta nei termini di un prezioso contributo all’inquadramento di questioni giuridiche controverse quasi mai risolvibili in senso univoco.

Mi pare evidente che coltivando le riflessioni ideali non è mai auspicabile che un magistrato sia impegnato nella conta ragioneristica dei successi professionali e delle conformità con i gradi successivi.

Viceversa, alimentando i circuiti di una esaltazione indiscriminata della carriera, diventa inevitabile che la stessa magistratura sia la peggiore nemica di se stessa in una sorta di corto circuito istituzionale che, anziché produrre benefici, acuisce sempre più il distacco da quelle ragioni ideali che occorre riprendere con coraggio e con determinazione.

Le proteste coraggiose dunque sono indispensabili ma devono partire da una rinnovata capacità di coltivare le riflessioni ideali (anche e soprattutto dall’interno), dalla necessità di uscire dalla programmazione della propria attività professionale secondo forme di carrierismo esasperato e di spartizione degli incarichi apicali.

Arrivati a questo punto resta da porsi l’unica domanda possibile: Siamo ancora capaci di riflessioni ideali? 

Solo nelle riflessioni ideali autentiche scorgo una via d’uscita: l’impegno coraggioso di recuperare l’essenza (profonda) di una magistratura sul cammino della propria sofferta identità e l’esempio dei tanti magistrati, che hanno combattuto per una società migliore, possono costituire l’unico autentico stimolo per la crescita della giustizia e per essere considerati interlocutori credibili al cospetto della società.

Al di là dei luoghi comuni – il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto – l’esito dello sciopero fotografa una divisione a metà della magistratura. Pensi che questo dato sia dovuto a fattori contingenti, concernenti “questa” specifica astensione, o che esso rispecchi più profonde trasformazioni e differenziazioni verificatesi nel corpo della magistratura?

L’esito dello sciopero rappresenta la fotografia di una magistratura molto cambiata rispetto al passato o comunque di una magistratura che ha acquisito una maggiore consapevolezza delle proprie fragilità.

Vi è una nutrita rappresentanza di magistrati che, pur non essendo entusiasta della riforma, non ha aderito all’astensione dalle funzioni giurisdizionali a causa di una rinnovata capacità di mettere in discussione ciò che proviene dagli organismi associativi. Infatti, non sono mancati coloro che hanno ipotizzato una seria crisi di rappresentatività dell’ANM. A torto o a ragione vi è la convinzione che i vertici associativi, anche quelli di tutela dell’autonomia e dell’indipendenza, siano espressione di logiche di potere che si estendono in una sorta di circuito unico girevole che va dal CSM, all’Associazione Nazionale Magistrati, alla politica attiva ed alle carriere ministeriali.

Sono convinta però che l’ANM, nonostante ciò, non debba rinunciare ai propri legittimi spazi di intervento nel dibattito parlamentare ancora in corso e non debba rinunciare all’idea di recuperare il dialogo con l’intera magistratura: la partecipazione alla vita associativa resta un valore da preservare e da coltivare per sfuggire alla triste logica dell’individualismo.  

Molti dei principi fondanti l’assetto della magistratura sono “controintuitivi”. Ad esempio l’eguaglianza di quanti amministrano giustizia e la ricerca di una elevata professionalità “media” in luogo delle graduatorie dei migliori si pongono su di una lunghezza d’onda molto diversa da quella di altri settori professionali. E’ ancora possibile, come avvenuto in passato, spiegare ai cittadini il significato di questi valori e invitarli a difenderli come loro beni? Attraverso quali percorsi e quali autocritiche sul carrierismo, sulle attuali valutazioni di professionalità, sul rispetto dell’etica?

Siamo ancora capaci di riflessioni ideali? 

Ripropongo anche a me stessa la solita vecchia domanda. 

Le riflessioni ideali hanno sempre il significato di una svolta, non passano mai di moda e sono indispensabili per mettere a fuoco gli errori commessi e soprattutto per prendere le distanze da modelli di magistrati dediti esclusivamente a pianificare a tavolino le carriere proprie e quelle degli altri.

Non si tratta di puntare il dito contro qualcuno ma di avere il coraggio di costruire seri percorsi di autocritica, utili per disgregare, una volta per tutte, quelle perniciose forme corporative che distolgono lo sguardo dalla funzione (alta) che il magistrato è chiamato a svolgere ex art. 107 Cost.

In questo senso è ancora possibile, anzi direi inevitabile, assumersi il dovere di custodire i valori della legalità nella sicura convinzione che si tratta di preziosi valori della società civile.

La giustizia con obiettivi “s.m.a.r.t.” non appaga ed è per questo che molti dei principi fondanti la magistratura sono “controintuitivi” e, per usare un’altra espressione, vanno contro corrente: non può essere applicata alla giustizia la logica aziendalistica della fredda misurabilità della prestazione né il “time based” ovvero una temporizzazione dei risultati finalizzata ad un profitto più elevato.

In conclusione, il coraggio di riproporre le riflessioni ideali appare quasi una soluzione bizzarra, non adatta al tempo che viviamo, eppure credo con convinzione che solo dalle riflessioni ideali si possa trarre l’unica vera forza per essere ascoltati. 

Diamo appuntamento ai lettori tra qualche giorno con un ulteriore confronto.

[1] Il Parlamento infatti ha contestualmente approvato la Legge n. 134/2021, entrata in vigore il 19.10.2021, che prevede la «delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari» e la Legge n. 206/2021, entrata in vigore il 24.12.2021, contenente la «delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata».

[2] P. Borgna, Il giudice ancora “bocca della legge?”, in P. Borgna e M. Cassano, Il giudice e il principe. Magistratura e potere politico in Italia e in Europa, Roma, Donzelli, 1997.

[3] Disegno di legge n. 2595 avente ad oggetto Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura.

[4] Cfr. Allorio, Il p.m. nel nuovo processo civile, in Riv. Dir. proc. civ., 1941, I, 212: «Troviamo la prima chiara traccia del pubblico ministero quale istituzione stabile e organizzata in un’ordinanza di Filippo il Bello del 25 marzo 1392: ma è probabile che già prima, di buon’ora,  “i re di Francia si facessero rappresentare, nelle cause in cui era in giuoco il loro interesse personale o un interesse pubblico, da procuratori e avvocati a volta a volta nominati per ogni affare” Da ciò risulta la primitiva indistinzione fra pubblico ministero e avvocatura dello Stato». Si tratta di un saggio nel quale si ricostruisce in modo molto accurato la figura del p.m. in sede civile. L’A., per i riferimenti storici, richiamava i passi virgolettati tratti dal Garsonnet, trad. Lessona, Trattato teorico pratico di procedura civile, I, Milano, 1922.

[5] Cfr. Allorio, op.cit.: «Che poi i funzionari del pubblico ministero, avendo formazione mentale di giuristi ed esercitando il loro ufficio in seno a collegi giudiziari, coi quali non erano praticamente sostenibili posizioni di perpetuo contrasto, finissero non di rado con l’assumere l’atteggiamento d’indipendenza dal potere regio che rappresentavano (fino a tal punto da concludere verbalmente contro le istruzioni scritte che ricevevano; onde si diceva: ”la penna è schiava ma la parola è libera”, atteggiamento quindi di sostanziale colleganza coi tribunali, presso cui svolgevano le loro funzioni così da essere chiamati “magistratura in piedi” in confronto con quella seduta; tutto ciò depone a favore della coscienza di quei funzionari, a sfavore della loro disciplina: ma non snatura il carattere amministrativo del loro ufficio».

[6] Così si è espressa l’assemblea nazionale dell’ANM del 30 aprile scorso: con 1081 voti favorevoli, 169 contrari e 13 astenuti i magistrati, indipendentemente dalla corrente di appartenenza, hanno ribadito la loro contrarietà alla legge di riforma sulla giustizia.

[7] G. Capograssi, Saggi sull’esperienza giuridica, in Opere, Milano, 1959, vol. II, pag. 234.

27/05/2022

5137.- Dostoevskij sull’Italia

Fëdor Michajlovič Dostoevskij, scrittore e filosofo, è considerato, insieme a Tolstoj, uno dei più grandi romanzieri e pensatori russi di tutti i tempi.

Le opere che lo hanno reso maggiormente famoso sono Memorie dal sottosuoloDelitto e castigoL’idiotaI demoni e I fratelli Karamazov, e viene considerato un esponente dell’esistenzialismo e dello psicologismo. Egli fu un uomo e un intellettuale spesso contraddittorio. Identificato dapprima come voce della corrente nichilistapopulista, Dostoevskij capeggiò poi le file degli intellettuali russi più conservatori di fine Ottocento. Nelle Memorie dalla casa dei morti (1859-1862) fanno capolino i grandi valori della tolleranza religiosa, della libertà dalle prigionie materiali e morali, della indulgenza verso i malfattori, cioè verso coloro che, pur essendosi macchiati di crimini contro la legge, sono in definitiva solamente persone più sfortunate e più infelici, e quindi più amate da Dio, che vuole la salvezza del peccatore e non la sua condanna. Tutto è dunque proiettato verso “la libertà, una nuova vita, la resurrezione dei morti…

Proprio nell’Italia, che amava, nell’inverno del 1868, Dostoevskij ultimò il suo romanzo L’idiota. Roma, Napoli, Torino, Firenze e Milano sono le città del suo itinerario italiano.


Da VENETI nel tempo,  Antonella Todesco  

«Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale».

«I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano».

«La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno dì second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, (…) un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unita mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!».

Fëdor Michajlovič Dostoevskij