Archivio mensile:aprile 2019

2327.- L’EUROPA È GIÀ UNITA, MA NELL’ILLEGALITÀ. PERCHÈ?

Voici les éditoriaux publiés ce matin sur Boulevard Voltaire: “I migranti, specialmente se sono illegali, possono occupare un immobile impunemente.” Un tema quanto mai attuale, che sottintende l’emersione di un conflitto non più latente fra i poteri dello Stato: Legislativo e Esecutivo e il quasi potere della Magistratura.

Se sei un immigrato e occupi illegalmente un appartamento, la giustizia non costituirà per te fonte di gran preoccupazione. Non siamo in Italia, ma accade in Francia. Dal giudicato di una recente decisione del Tribunale distrettuale di Rennes.

La proprietà di una struttura ricettiva, secondo Le Figaro, aveva deciso di trasformare un edificio di diciotto appartamenti in un centro di accoglienza per richiedenti asilo (CADA). Problema: l’edificio era già stato “requisito” da un gruppo di persone senza fissa dimora provenienti da Cecenia, Georgia, Albania, Somalia, Angola, Eritrea, Azerbaijan, Afghanistan. L’organizzazione proprietaria, Archipel Habitat, è, quindi, in procinto di espellere i 95 migranti che occupano l’edificio. Ma la giustizia ha appena dichiarato la richiesta inammissibile per il fatto che – leggete bene – che non poteva fornire la prova della sua proprietà.

L’avvocato che difende gli occupanti ha definito la decisione della corte come “in conformità con la legge”. Mentre è normale che il denunciante dimostri la legittimità della sua denuncia, è sorprendente che, se anche ci fosse un documento mancante nel file, questo non sia stato chiesto prima. Archipelago Habitat ha dichiarato di aver “preso atto” della decisione della corte, che non ha custodito” i vari documenti che concorrono a fornire le prove sufficienti del suo status di proprietario”, e ha deciso “un immediato riproposizione del procedimento giudiziario”. In attesa di una nuova decisione, gli squatters potranno continuare a godere dei loro appartamenti.

Ricordiamo che i CADA offrono ai richiedenti asilo un luogo dove alloggiare per il tempo della durata dell’esame della loro richiesta di rifugiati. Questa procedura prevede la sistemazione, il seguito amministrativo, il monitoraggio sociale e l’aiuto alimentare. Si potrebbe pensare che un’organizzazione sociale farebbe meglio a occuparsi principalmente della situazione dei senzatetto francesi (quattro milioni di persone, secondo la Fondazione Abbé-Pierre), ma sappiamo, da molto tempo, che in Francia, qualsiasi priorità nazionale è un segno di discriminazione e che è meglio essere un immigrato che un povero lavoratore. RIPETO: Non siamo in Italia, ma in Francia!

Almeno i CADA sono organizzazioni legali. Ma anche in questo caso, la prassi è che vengono applicate delle priorità … contrarie al buon senso: prima dei francesi in difficoltà passano avanti i richiedenti asilo e, prima dei richiedenti asilo, occupano gli immigrati. Si può tranquillamente affermare che, se la giustizia avesse deciso per l’espulsione, si sarebbero svolte manifestazioni per difendere il diritto all’abitazione di questi immigrati clandestini. Al giorno d’oggi, è l’apice dell’ipocrisia discriminare al contrario le persone, preferendo un cittadino del mondo a un compatriota.

La motivazione invocata dal tribunale per respingere la domanda può pure essere “in conformità con la legge”, applicata letteralmente, ma si oppone al suo spirito. Tutto accade come se il giudice volesse ritardare la decisione, che richiederà probabilmente alcune settimane o, addirittura, mesi. Lo sapremo quando si conosceranno i ritardi amministrativi. Lungi da noi accusare la giustizia di non essere indipendente: se così fosse, è innanzitutto il governo che ne sarebbe responsabile. Ma è chiaro che ci sono molte disfunzioni in questa repubblica, nelle quali il regno di Macronie, sembra adattarsi. Vive la France! Viva l’Italia! Addio all’Europa.

Prima gli italiani

Alcune riflessioni per l’Italia

Il tema della politicizzazione della Magistratura è particolarmente grave quanto destabilizzante, perciò, urgente perché la sua indipendenza è condizione di esistenza, anzi, è un presupposto della democrazia, quindi, della Repubblica. Questa politicizzazione scaturita dalla funzione creativa che le sentenze hanno nei confronti del diritto è il risultato dell’interpretazione giudiziale delle norme positive. Prima di proporvi questa mia traduzione mattiniera di Boulevard Voltaire, mi sono chiesto: Come è possibile che la Magistratura, in Francia e in Italia, sfrutti la lettera della legge contro il suo spirito? Le disposizioni sulla legge in generale, dette anche preleggi o disciplina preliminare al codice civile, dettano alcuni articoli. Cito gli articoli 1, 8, riguardo alle prassi e , sopratutto, l’articolo 12, Interpretazione della legge, con alcune note e una riflessione:

Art. 1 Indicazione delle fonti

Sono fonti del diritto:

1) le leggi;
2) i regolamenti;
3) 
(abrogato)
4) gli usi.

Art. 8 Usi

Nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati.

Art. 12 Interpretazione della legge

Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse (1) , e dalla intenzione del legislatore (2), (3).

Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione (4) , si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe (5); se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato (6).

Note:

(1) È questa la c.d. interpretazione letterale (c.d. vox iuris), volta ad attribuire alla norma il significato che si evince immediatamente dalle parole utilizzate. Abbiamo, però, presente quanto stabilito dal primo comma dell’articolo 1362 c.c., per quanto riguarda l’interpretazione di un testo contrattuale, dove non può darsi un’importanza definitiva all’impiego di certi termini di carattere letterale.

(2) È questa la c.d. interpretazione logica che, superando il significato immediato della disposizione, mira a stabilire il suo vero contenuto ossia lo scopo che il legislatore ha inteso realizzare, emanandola.

(3) Si rimane sempre nell’ambito della norma, se dilatata fino al limite della sua massima espansione.

(4) Il legislatore espressamente contempla la possibilità che vi siano fattispecie non previste né risolte da norme giuridiche. Il legislatore prevede, cioè, l’esistenza di lacune le quali devono, tuttavia, essere colmate dal giudice che non può rifiutarsi di risolvere un caso pratico adducendo la mancanza di norme.

(5) È questa la c.d. analogia legis, ammissibile soltanto se basata sui seguenti presupposti: a) il caso in questione non deve essere previsto da alcuna norma; b) devono ravvisarsi somiglianze tra la fattispecie disciplinata dalla legge e quella non prevista; c) il rapporto di somiglianza deve concernere gli elementi della fattispecienei quali si ravvisa la giustificazione della disciplina dettata dal legislatore (eadem ratio).

(6) È questa la c.d. analogia iuris: nel richiamare i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, il legislatore ha inteso, innanzitutto, escludere il ricorso ai principi del diritto naturale, quindi, non tutti i principi. Quanto alla loro individuazione, la dottrina prevalente ritiene che essi vadano identificati in norme ad alto grado di generalità , di rango costituzionale, di tenore vago e dunque suscettibili di adattamenti interpretativi, ad esempio l’art. 2041c.c. Azione generale di arricchimento) o di importanza fondamentale per l’intero sistema giuridico (es.: art. 1322c.c. Autonomia contrattuale).

Piero Calamandrei, Padre Costituente, cosa direbbe di questa confusione?

Innanzitutto, secondo ciò che risulta dal primo comma dell’articolo 12 in commento, l’interpretazione è ammissibile soltanto se è conforme al «significato proprio delle parole” e con riferimento alla “intenzione del legislatore».

Si sostiene in dottrina che l’art. 12 delle preleggi sia tacitamente abrogato. Questa tesi è emblematica perché vuole sostenere l’esistenza di una contraddizione che sarebbe insita nei due criteri: quello di una interpretazione ammissibile soltanto se conforme al «significato proprio delle parole” e quello del riferimento alla “intenzione del legislatore».

A nostro sommesso avviso, i due criteri non sono in contraddizione; sono, invece, complementari, stabilendosi che la chiave di lettura della conformità al significato delle parole debba essere, appunto, l’“intenzione del legislatore”; dove il primo legislatore è la Costituzione, con i principi fondanti della sua parte prima, immutabili e, poi, il Parlamento. L’interprete deve applicare la legge, adeguandola come si evolve la società, appunto, interpretandola secondo l’evolvere del tempo, ma senza mai distaccarsi dai principi fondativi dell’Ordinamento Giuridico.

Per esemplificare, rapportandoci alla realtà, l’avere accettato l’ingresso nel territorio nazionale di genti le cui regole non rispettano la donna, le Forze dell’ordine e la stessa vita, non deve significare che la legge debba essere interpretata anche secondo quelle usanze o regole che siano. È, invece, ciò che leggiamo, frequentemente, nelle sentenze di magistrati politicizzati e nella applicazione redentiva della pena ai selvaggi. Non ha senso. Corre l’obbligo di rilevare che lo Stato costituisce un unicum di popolo, territorio e Ordinamento Giuridico. Infatti, in concreto, c’è incompatibilità di fatto fra questa società civile e genti che non hanno ricevuto né vogliono ricevere un’educazione. A costoro, per esempio, non è applicabile il presupposto rieducativo della sanzione penale, in quanto questa società tendeva al recupero di un cittadino che una educazione l’aveva avuta ed ha sbagliato. L’aver dovuto legiferare sulla legittima difesa è illuminante. Nella società civile ben si poteva chiedere al cittadino assalito nella sua casa di valutare l’entità della minaccia e adeguarvi la sua difesa, tale da renderla legittima. I casi sempre più frequenti di violenza, stupro, assassinio, fino al cannibalismo, financo nei carceri, hanno reso necessario abolire il principio della proporzionalità. A questo riguardo, i magistrati che, a partire dalla Cassazione, si oppongono al legislatore non difendono una posizione di diritto, ma lo offendono. La magistratura non è un potere, come, invece, lo sono iI Legislativo e l’Esecutivo. La condizione perché la magistratura sia indipendente è che il C.S.M. eserciti l’azione disciplinare. Non lo fa perché è è antidemocratico e antitaliano, a partire dal suo presidente Sergio Mattarella, come egli stesso, spesso, ci dichiara. Puntualizzo, data la carica da lui ricoperta: È antidemocratico chi, senza nemmeno uno straccio di referendum, vuole sostituire la Costituzione dei lavoratori (“art. 1: La repubblica è fondata sul Lavoro” – ascensore sociale), con un trattato di Lisbona, votato alla competitività dell’Unione europea sui mercati mondiali, dove il lavoro non è tutelato, il welfare è un costo e la disoccupazione diventa strumento. Un ulteriore esempio riguarda l’autorizzazione amministrativa a installare moschee e l’applicazione nel territorio dello Stato della Sharia, di quella che i musulmani chiamano religione, ma che non lo è, perché Dio crea la vita e non può predicare la morte. Sicuramente, è incompatibile con la Costituzione.

Leggo, sottolineandolo, l’art.8 della Costituzione:

“Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.

 La “creatività” dei giudici si è spinta ad ammettere l’Islam fra le religioni e non ritiene che contrasti con l’ordinamento giuridico italiano. In questo, si colloca a fianco dell’apostata, Capo di Stato, che ha abbandonato formalmente e volontariamente la propria religione.

Non interpreta la Costituzione né il principio di solidarietà, tanto meno quello di eguaglianza, che è sostanziale, chi vuole annullare l’identità e destabilizzare la società italiana immettendovi non individui, ma masse incontrollabili, senza legge, né morale: masse provenienti da paesi, per lo più, subsahariani, dove l’educazione, sia pure, del solo carattere “era” impartita dagli anziani, oggi, sommersi da una esplosione demografica – 7 a 1 – contro natura, ingestibile, oggi e domani, da qualsiasi stato sia africano sia europeo, come i membri dell’Ue ci confermano. Sono masse di individui in cui gli istinti più bassi non trovano argine alcuno nell’educazione, inclini alla violenza, schiavi di usanze tribali, fino al cannibalismo e per i quali, nemmeno se investissimo tutto il nostro bilancio dello Stato potremmo apprestare i mezzi per una pur minima istruzione, che, comunque, rifiuterebbero.  Chi favorisce il loro ingresso nel territorio dello Stato non è un interprete dei nostri principi, ma è ignorante e pericoloso, probabilmente cooptato da poteri finanziari. Le norme di qualsiasi Ordinamento Giuridico non hanno valore assoluto. Valgono nel territorio del loro Stato e per la sua società, di cui costituiscono la maggiore espressione. Quindi e per converso, chi pretende una selezione dei migranti e di fasare gli ingressi secondo le concrete possibilità di integrazione, non è razzista, ma il contrario. In conclusione, siate consapevoli che l’ignoranza che ha pervaso la politica non può e non deve estendersi alla magistratura, che deve restare interprete indipendente e garantista del diritto.


Secondo la lettura restrittiva dell’art. 12, che abbiamo cennato, nell’interpretazione è la lettera che costituisce il primo – e prioritario – termine di riferimento per riscoprire il significato di una disposizione normativa. L’interpretazione letterale porrebbe dei limiti, irrigidendo l’attività dell’interprete, che viene, però, mitigata dall’aggiunta del riferimento alla «intenzione del legislatore». Si giunge all’errore di ammettere due possibili interpretazioni e, quindi, un possibile conflitto fra interpretazione letterale e interpretazione in senso logico. La tesi è che l’espressione «intenzione del legislatore» non risolve molte le cose: quale fu l’intento del legislatore quando produsse il materiale normativo? Niente di misterioso, invece. Quando si parla di «intenzione del legislatore» si tende a far riferimento all’attività legislativa posta in essere da un soggetto indeterminato ed astratto che obbedisce ai principi della Parte Prima della Costituzione, i richiamati «principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato».

A ciò consegue che, nello svolgimento della funzione interpretativa, il giurista è influenzato da vari fattori (fattori storici, politici, economici, religiosi, morali, etici) che contribuiscono all’attribuzione del senso della norma. Esemplare, in questo senso, è l’analisi della funzione giurisprudenziale del giurista. Il giudice e, in primo luogo, la Corte di Cassazione, oggi, in aperta antitesi con il legislatore, svolge sempre più frequentemente una funzione creativa del diritto, nel senso di dar luogo ad un’immagine del dato normativo che va al di là del dato letterale. Nel suo evolversi, questa funzione creativa, ha portato alle posizioni attuali. Chiaro che per parlare di antitesi fra la Magistratura e il Legislatore deve essersi verificata una incrinatura grave nella funzione di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, responsabile dell’azione disciplinare e di Presidente della Repubblica, assolta dal Capo dello Stato, garante della Costituzione insieme alla Consulta. infatti, quell’azione disciplinare è la condizione prima dell’indipendenza accordata alla Magistratura. Ecco che, a nostro avviso, è, perciò, pretestuosa la problematicità del primo comma dell’articolo 12 preleggi, volta a determinare l’emersione di principi del diritto naturale, che esulano da quelli dell’Ordinamento giuridico, a favore dell’abuso di potere e dello sconfinamento nella politica da parte della Magistratura.

Il Legislatore, il Governo, i poteri costituzionale e i giudici hanno il dovere morale di rappresentare gli interessi degli elettori. La Costituzione prevede gli strumenti per adeguare il diritto all’evolvere della società, ma è un compito del Legislatore, non dei giudici. Come la mia maestra Lorenza Carlassare ama ripetere, quell’“appartiene” al popolo significa che, con il voto la sovranità non viene trasferita agli eletti e nemmeno a Lei signor Presidente della Repubblica.

Quindi, se siete giunti fino a qui, ditemi: A quali principi costituzionali si rifarebbero un legislatore o un giudice la cui intenzione fosse di non tutelare il diritto del cittadino nei confronti dello straniero, per giunta, presente nel territorio dello Stato in modo illegale? Ritengo di aver contribuito a comprendere le radici dell’illegalità denunciata da Boulevard Voltaire.



2326.- LA STRAGE ISLAMICA DEI CRISTIANI: OLTRE 1 MILIONE DI MORTI DAL 2003

L’Europa è l’unico continente che ha avuto la Rivoluzione cristiana, l’unica vera rivoluzione nella storia dell’umanità. Al di là delle religioni, la cristianità dell’”Amore per il Prossimo” e del rispetto della vita hanno un significato valoriale educativo e sociale, incompatibile con il Nuovo Ordine Mondiale della finanza sionista. Ecco, dunque, un perché di queste stragi e della prevalenza accordata dall’Unione europea all’ISLAM, inteso quale utile strumento di dominio delle masse, opportunamente impoverite dall’austerità imposta e, perciò, più facilmente dominabili.

“All’alba del 20 marzo 2003 non iniziarono solo i bombardamenti sulla città di Baghdad, ma fu l’inizio dell’effetto domino che ha causato 1 milione e 250 mila cristiani uccisi e centinaia di migliaia di sfollati. 

Caduto il regime iracheno di Saddam Hussein, che comunque garantiva ai cristiani libertà di culto e, come ogni dittatura laica nel mondo arabo, potere politico alle minoranze religiose, dopo 16 anni di instabilità e distruzione in Medio Oriente e di ‘esportazione della democrazia’, si contano i morti.

Da quel momento l’Iraq è una zona ad altissimo rischio ed a rimetterci maggiormente sono i civili. Soprattutto cristiani. Con l’avvento del Califfato islamico la situazione è precipitata ulteriormente ed i civili sono diventati gli obiettivi della sharia.

Per fortuna, ma non senza danni, il progetto di ‘americanizzazione’ che ha di fatto fatto esplodere il Medio Oriente si è fermato alle porte di Damasco.

Le stime del Cnewa, Catholic Near East Welfare Association (fondata da Pio XI nel 1926 con sede a New York) ci dicono che in tutto il Medio Oriente i cristiani sono 14.525.880 con un calo irrisorio negli ultimi sette anni (stima del 2017), perché a differenza dei musulmani non emigrano in Europa, ma si rifugiano in altre zone dei Paesi colpiti o nella confinante Giordania in attesa di tornare a casa: Isis voleva che da noi arrivassero gli islamici. Come lo voleva il finanziatore Qatar, che ora finanzia anche le moschee in Italia.

In Iraq i rapporti del Cnewa mostrano che dopo l’attacco alla piana di Ninive (2014) gli sfollati cristiani furono 140.000, su un totale, in 15 anni ed in tutto il Medio Oriente, che varia dai 3,5 ai 5 milioni.

La situazione cristiana in Iraq è stata raccontata anche da un documentario, uscito in Spagna nel 2017, creato da un gruppo di 7 giovani spagnoli intitolato “I Guardiani della Fede”. Raccontano la storia di una trentina di ragazzi che hanno lasciato le proprie case per incontrare degli sfollati cristiani in un centro commerciale del Kurdistan iracheno.

E poi, ovviamente, ci sono le vittime cristiane degli attentati in tutto il mondo: Visualizza l’immagine su Twitter

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⎛⎝ James the Bond ⎠⎞@IAmJamesTheBond

– Attacchi terroristici islamici dall’11 settembre 2001 al 15 marzo 2019: 37.026.

– Morti: 239.078.
– Feriti: 317.509.
– Totale vittime: 556.587.

– Attentati islamici alle moschee di altre sette musulmane: ~ 860.

– Numero di nazioni colpite in un solo anno: 61 (2017).293

Migranti gettati a mare perché cristianidai musulmani da bordo dei gommoni. Per lo Stato della Chiesa, la tratta di esseri umani frutta lauti guadagni ed è più importante dei suoi fedeli.

28 aprile 2019: FOLLA ISLAMICA ASSALTA CHIESA, PRETE BASTONATO DAVANTI A 200 BIMBI TERRORIZZATI


Una chiesa cristiana copta è chiusa dopo che una folla musulmana armata di bastoni ha fatto irruzione e picchiato un prete davanti a 200 bambini del Catechismo.
Il prete, padre Bailious, ha subito un trauma cranico ed è stato salvato e scortato via dalle forze di sicurezza. La folla ha poi continuato a terrorizzare i bambini cristiani lanciando pietre contro l’edificio.

I Copti sono gli abitanti originari dell’Egitto, che era cristiano prima dell’invasione araba con schiavi al seguito. Ora sono il 10 per cento della popolazione.

In Egitto i cristiani subiscono attacchi e persecuzioni dalla popolazione islamica e le istituzioni locali non intervengono per timore che la popolazione si schieri, ancora una volta, con i Fratelli Musulmani.

29 aprile 2019: ISLAMICI IRROMPONO IN CHIESA: SGOZZANO PRETE E FEDELI

Un pastore protestante è stato ucciso mentre diceva messa in Burkina Faso.
Uccisi con lui i due figli e tre fedeli che partecipavano alla messa.

L’attacco è stato messo a segno da un commando jihadista che è arrivato in moto a Silgadji, nella provincia di Soum. Gli assalitori sono poi fuggiti in direzione della frontiera con il Mali. Non è certo la prima volta che gruppi armati colpiscono cristiani durante la messa:

Fonte Vox

Ciò che non vogliono mostrarvi: Le statue di bronzo di Notre Dame decapitate non certo dal fuoco.


2325.- Sapete che nemmeno la legge può fermare Alexa di Amazon e Home di Google?

Parliamo della salvaguardia dei diritti civili e della riservatezza della vita dei singoli cittadini, partendo da due articoli scritti per Start da una risorsa, che non è stata colta abbastanza dalla politica nazionale: Il generale (ris.) della Guardia di Finanza Umberto Rapetto, già comandante del GAT Nucleo Speciale Frodi Telematiche. La salvaguardia dei diritti civili e della riservatezza da un lato e la competizione fra USA e Cina per il dominio dell’intelligenza artificiale sono la nuova frontiera scientifica, dopo quella lanciata da John F. Kennedy, alla convenzione democratica di Los Angeles, il 14 luglio 1960, nel corso della conferenza al mandato per la presidenza degli Stati Uniti per indicare le frontiere della scienza e dello spazio. Kennedy disse: «Ci troviamo oggi alle soglie di una nuova frontiera, la frontiera degli anni sessanta. Non è una frontiera che assicuri promesse, ma soltanto sfide, ricca di sconosciute occasioni, ma anche di pericoli, di incompiute speranze e di minacce». Come le frontiere degli Stati Uniti d’America si spostavano continuamente, a metà del XIX secolo, anche la frontiera della scienza è in continua evoluzione. Spetta al diritto mantenere la scienza al passo con la società e non superarla. In omaggio al motto del Presidente, pubblichiamo la sua immagine.


John F. Kennedy

Sapete che nemmeno la legge può fermare Alexa di Amazon e Home di Google?


Ecco che fine ha fatto la norma votata dal Senato dell’Illinois che mirava ad evitare che qualunque soggetto privato (nella fattispecie Amazon con “Alexa”, Google con “Home”, Apple con “HomePod”…) possa liberamente “accendere” o abilitare il microfono del dispositivo. L’approfondimento di Umberto Rapetto, generale (ris.) della Guardia di Finanza, già comandante del GAT Nucleo Speciale Frodi Telematiche

I “nazisti dell’Illinois” all’inseguimento dei Blues Brothers non avrebbero mai fatto immaginare che quello Stato americano sarebbe stato il primo a cimentarsi nella futuristica sfida per la salvaguardia dei diritti civili e della riservatezza della vita dei singoli cittadini.

E’ proprio dal settentrione degli Usa che arriva un provvedimento che vieta ai produttori di dispositivi connessi ad Internet di raccogliere voci e suoni senza che l’utente sia debitamente informato e abbia fornito il suo consenso. Peccato che ogni sforzo legislativo sia stato mutilato dal fulmineo intervento di Amazon e Google che – con la loro influenza – hanno condizionato la revisione della norma limitandone in modo significativo (qualcuno etichetta più brutalmente la maniera) l’efficacia e la conseguente tutela degli utilizzatori di Alexa & C.

La legge è stata celermente messa in cantiere non appena si è avuta notizia che Amazon inviava copie dei file audio – frutto delle registrazioni effettuate dagli “assistenti vocali” – a propri dipendenti incaricati di verifiche sulle trascrizioni effettuate automaticamente dai sistemi informatici. La circostanza ha determinato la messa al bando di tutte le azioni che, compiute dai produttori di questi apparati, non fossero ricomprese in quelle esplicitamente rese note agli acquirenti e da questi regolarmente accettate.

Il Senato dell’Illinois aveva approvato una disciplina estremamente dettagliata che mirava ad evitare che qualunque soggetto privato (nella fattispecie Amazon con “Alexa”, Google con “Home”, Apple con “HomePod”…) possa liberamente “accendere” o abilitare il microfono del dispositivo. Tali attività sono ammesse soltanto nel caso in cui il titolare dell’account registrato, dopo aver preso visione di cosa può accadere con quell’apparato e “sottoscritto” le condizioni di un accordo contrattuale, abbia impostato la configurazione del proprio assistente vocale consentendo l’esecuzione di determinate attività da parte dell’azienda produttrice.

Il consenso dell’utente deve essere vincolato alla sua effettiva conoscenza che il microfono del dispositivo sarà attivato o abilitato (con il dettaglio di quale comando sia in grado di provvedere a tal fine). Il possessore dell’assistente vocale deve anche sapere quali categorie di suoni il microfono può rilevare, ascoltare, registrare ed inviare. Proprio a quest’ultimo proposito ci deve essere la massima trasparenza sui soggetti terzi cui le registrazioni audio vengono trasferite.

La disciplina della questione, nella versione originariamente prevista dal Senato, voleva garantire la totale protezione delle registrazioni e di ogni altra informazione “catturata” da queste tecnologie, così da evitare l’accesso indebito di soggetti non autorizzati, l’uso non consentito (e magari la modifica fraudolenta!), la diffusione illecita e ogni altra condotta lesiva.

La mancata conformità a dettagliati requisiti veniva classificata come “una pratica illegale rispetto il Consumer Fraud and Deceptive Business Practices Act” destinata a tradursi in multe fino a 50mila dollari per ogni singolo caso, al netto – naturalmente – del risarcimento dei danni determinati dalla violazione della riservatezza dei dati personali.

E’ pero scesa in campo la “Internet Association” che ha “convinto” i senatori a non considerare la legge sulle pratiche fraudolente ed ingannevoli in danno al consumatore. Un simile accostamento avrebbe determinato uno sgradevole infittirsi del contenzioso e avrebbe innescato possibili class action con micidiali conseguenze per tutte le imprese delle Illinois… Ça va sans dire…

I lobbisti hanno lamentato pure il rischio di nullità e inapplicabilità delle condizioni contenute nei contratti di servizio anche in caso di divulgazione accidentale delle registrazioni. Il termine “accidentale” mal si addice al contesto informatico, dove i programmi sono storicamente congegnati per eseguire routine di comandi ed escludere azioni impreviste o personalizzate…. ma forse ce lo dimentichiamo troppo spesso.

“Non è stata colpa mia” e il trasferimento della responsabilità su mille altri fattori (“le cavallette” in primis) del mitologico Jake “Joliet” Blues interpretato da John Belushi è il refrain preferito dai colossi delle tecnologie che in questo modo, ovviamente, rimangono impuniti e magari addirittura idolatrati dalle loro stesse vittime.

di Umberto Rapetto

2324.- Facebook sta per ricevere il conto sulla Privacy

Ecco perché la pacchia del libero agire di Facebook e della perenne impunità sembra, fortunatamente, finita. L’analisi di Umberto Rapetto, generale (ris.) della Guardia di Finanza, già comandante del GAT Nucleo Speciale Frodi Telematiche, per Start Magazine.

“Se qualcuno scrivesse mai che c’è chi ruba rubriche telefoniche si penserebbe ad una latente cleptomania e ad una condizione di allarme rosso in tutte le cartolerie.

Siamo nell’era della irrefrenabile smaterializzazione e nessuno più scrive a biro o a matita i numeri di amici e parenti su minuscoli libercoli cartacei. Se lo stesso vale per gli indirizzi di posta elettronica, certi ladruncoli non mettono paura.

Non è storia di piccoli scippatori virtuali, ma di una sottrazione considerevole e degna di menzione. La vicenda in questione, che al momento sarebbe sul tavolo dell’Attorney General dello Stato di New York, riguarda la copia non autorizzata del contenuto delle rubriche informatiche di oltre un milione e mezzo di utenti di un grande social network.

Obtorto collo siamo costretti a tornare a parlare di Facebook e del signor Zuckerberg e l’occasione è interessante per riparlare delle violazioni della riservatezza dei dati personali di ognuno di noi.

Secondo Letitia James, al vertice dell’ufficio giudiziario nella città della Grande Mela, sarebbe giunto il momento che il colosso dei social fornisse adeguate spiegazioni sulle modalità di trattamento delle informazioni personali.

Facebook si è affrettata a dire che la lamentata irregolarità – inizialmente fatta emergere da Business Insiderall’inizio di aprile – sarebbe il frutto di un errore procedurale legato alle dinamiche di verifica dell’identità dei nuovi iscritti, meccanismo che innesca l’inoltro di una mail a chi chiede di accedere alla piattaforma.

Se il numero di soggetti è minimo rispetto ai circa due miliardi e mezzo di persone che ogni giorno utilizzano Facebook, resta forte la preoccupazione che un accesso indebito al proprio elenco di contatti di posta elettronica possa incrinare la riservatezza degli interessati e lasciare sullo sfondo la paura di possibili furti di identità.

Nel pianeta in cui regna Mark Zuckerberg si sono già visti un uso improprio dei dati personali alla base dello scandalo Cambridge Analytica e più recentemente un data breach (ovvero una breccia nelle misure di sicurezza a protezione degli archivi elettronici) che ha spiattellato in pubblico dati riservati di almeno cinquanta milioni di utenti.

La pacchia del libero agire di Facebook e della perenne impunità sembra, fortunatamente, finita.

Il gigante californiano dell’aggregazione sociale è prossimo a dover pagare una multa che potrebbe arrivare a 5 miliardi di dollari, sanzione che gli sarebbe stata appioppata dalla Federal Trade Commission (l’Autorità simile alla nostra Antitrust che negli Stati Uniti tutela i consumatori anche in tema di riservatezza).

Il Garante per la privacy dell’Irlanda si sta occupando della perdita di centinaia di milioni di password di profili Facebook e Instagram (tutte realtà di casa Zuckerberg) incautamente conservate “in chiaro” sui server di Menlo Park. Incombe anche qui una pena pecuniaria dal valore iperbolico perché potrebbe arrivare – in base al Regolamento Europeo o GDPR – al quattro per cento del fatturato globale annuo.

Anche le autorità canadesi sono al lavoro su Facebook in questi giorni. Il Privacy Commissioner, infatti, mira a risarcire i 600mila connazionali danneggiati dallo scandalo Cambridge Analytica.

Non è da escludere che anche dalle nostre parti qualcuno si ricordi della tutela dei diritti civili (tra cui la riservatezza dei dati personali) di chi – ammaliato dal moderno pifferaio di Hamelin – ha involontariamente agevolato le speculazioni sulle proprie informazioni. L’apertura di procedimenti e l’irrogazione di pene pecuniarie potrebbero ammaccare lo strapotere. Piccoli segnali di civiltà non guasterebbero affatto.”

di Umberto Rapetto

2323.- COSA SAPPIAMO E PERCHE’ HAFTAR

La Libia è del popolo libico, ma è e resta la quarta sponda dell’Italia nel Mediterraneo, perciò, non siamo estranei al suo destino. Questo articolo fa luce sull’uomo che sembra avere in mano il destino della Libia e, se così fosse e sarà, anche quello del Sahel. È uscito in Italia il 27 febbraio 2015, nel numero 1091 di Internazionale, nella traduzione di Bruna Tortorella, con il titolo “L’uomo forte della Libia”. L’originale era uscito sul settimanale statunitense The New Yorker, con il titolo “The unravelling”. L’autore, Jon Lee Anderson è un giornalista statunitense, che scrive per il New Yorker dal 1999. I suoi ultimi libri pubblicati in Italia sono “Che. Una vita rivoluzionaria” e “Guerriglieri. Viaggio nel mondo in rivolta. Haftar vi appare come un uomo pragmatico, un soldato che, di volta in volta, guarda agli obiettivi da raggiungere. Dopo averlo letto, insieme e dopo le riflessioni di Alberto Negri: “Si profila un’altra sconfitta italiana…”, possiamo meglio comprendere la telefonata fattagli da Donald Trump il 15 aprile scorso.

Veniamo a noi. Il presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte e, forse, ma vorremmo capirlo, il suo Ministro Moavero, sembrano vacillare fra il supporto ad al-Sarraj e il solito salto sul carro del vincitore Haftar, se vincitore sarà; ma non sarebbe coerente con le scelte precedenti della nostra politica. Al di là delle dichiarazioni, con il tono, quasi, di una excusatio, già più non si fa affidamento sulla soluzione politica, ma prevale sul campo la scelta militare. Al-Sarraj la avvalla, dichiarando che combatterà fino all’annientamento di Haftar e non è ostinazione, perché se il generale resterà schierato intorno a Tripoli, potrà prima o poi, ma presto, profittare della incerta fedeltà delle milizie che compongono il GNA. Qui, l’alleato migliore di al-Sarraj sono i traffici illegali delle sue milizie che da Haftar avrebbero tutto da temere, come, reciprocamente, dovrebbe temere lui. C’è, però, da fare i conti con la città di Misurata, con il suo uomo forte, che abbiamo visto a Roma e con le sue efficienti brigate. Difficile poter conoscere gli elementi della scelta, se scelta fu e non sottomissione all’ONU, che ci tiene legati ad al-Sarrai e, ancora più difficile, confermarla, ora che la voce dell’ONU ha perso valore. La ragione e la nostra poca importanza in politica estera, ondivaga senz’altro, vorrebbero, che dessimo il massimo supporto ad al-Sarraj, magari indirettamente, proprio, attraverso Misurata, anche perché sosteniamo che, sopratutto dopo questa guerra civile, dalle elezioni libiche potrà scaturire un terzo uomo. Gli interessi in gioco non riguardano solo il petrolio libico e il traffico di esseri umani, le compagnie dell’Oil, gli USA e la Russia. C’è il Medio Oriente, Israele, il mondo arabo ed è variegato. Impensabile che la nostra alleata ONU possa approvare una missione di Peace Enforcement o che gli USA dimentichino lo sgarbo con la Via della Seta.

Gli Usa e la Francia con Haftar: l’Italia è pronta a saltare sul carro del vincitore in Libia

Scrive l’editorialista Alberto Negri: “Si profila un’altra sconfitta italiana dopo la caduta di Gheddafi nel 2011 e forse noi siamo già pronti a saltare sul carro del vincitore. Sulla Libia l’Italia appare sempre più isolata, soprattutto dagli Stati Uniti e dalla Francia che, nonostante l’apparente riavvicinamento a posizioni europee, continua a sostenere l’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar. E allora il premier Conte da Pechino cerca di riposizionare l’Italia: “Non sostengo un singolo attore libico, riteniamo che la soluzione militare assolutamente non sia affidabile”.

Al Sarraj è un leader debole

E questo poco dopo una telefonata di Sarraj da Tripoli in cui il premier libico assicurava Conte che “continueranno a combattere fin quando le forze dell’aggressore si ritireranno”. Il blitz del generale per conquistare rapidamente la capitale di Al Sarraj, un leader debole sostenuto dalle milizie islamiste, dalla Turchia e dal Qatar, è fallito ma prosegue l’accerchiamento diplomatico di un governo riconosciuto dall’Onu ma che in realtà è osteggiato da grandi potenze e attori regionali. Un fronte, costituito da Usa, Russia, Egitto, Arabia Saudita, Emirati arabi che, prima o poi, intende spazzare via il gruppo di potere a Tripoli appoggiato dai Fratelli Musulmani, i grandi perdenti delle primavere arabe.

La collaborazione con la Cia del generale Haftar

Ci sono segnali negativi: il portavoce di Haftar chiede all’Italia di chiudere l’ospedale di Misurata, nonostante il nostro ministero della Difesa abbia negato ogni coinvolgimento dei militari italiani negli scontri in Libia. Mentre la tv araba Al Jazeera sostiene che una nave, violando l’embargo internazionale, sarebbe approdata al terminale di Ras Lanuf in Cirenaica per rifornire di armi il generale Haftar che, ricordiamolo, è sì libico ma si è anche guadagnato la cittadinanza americana e una collaborazione con la Cia durante gli anni dell’esilio negli Stati Uniti.

Trump spiazza l’Italia

Donald Trump avrebbe scaricato ormai il premier libico Fayez al Sarraj e dato disco verde all’uomo forte della Cirenaica Khalifa Haftar e al suo assalto a Tripoli: un’inversione di rotta che sconfessa il segretario di Stato Mike Pompeo. Per l’Italia si tratta di uno smacco notevole: viene completamente spiazzata dopo che gli Usa avevano più volte promesso a Roma la famosa “cabina di regia” della crisi libica. Non solo. Trump avrebbe dato personalmente il via libera ad Haftar e alla sua offensiva sulla capitale libica in una telefonata il 15 aprile scorso, secondo l’agenzia Bloomberg, che cita come fonti tre dirigenti americani. Ma già una precedente chiamata del consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton aveva lasciato Haftar con l’impressione di un sostegno Usa alla campagna su Tripoli con il suo Esercito nazionale libico. Un segnale quasi inequivocabile della presa di posizione Usa era venuta dalla fuga di marines dalle spiagge di Tripoli: una sorta di via libera all’offensiva di Haftar.

Conte incontre il presidente egiziano Al Sisi

In queste ore il premier italiano Conte ha incontrato a Pechino il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi proprio per discutere della crisi libica. Un precedente incontro tra i due al vertice euro-arabo di Sharm el Sheikh in febbraio si era risolato con un nulla di fatto, sia sulla Libia che sul caso Regeni. E’ difficile che Al Sisi cambi la sua posizione, se non facendo dichiarazioni cosmetiche che lasciano le cose come stanno. Il sostegno di Trump a Haftar è avvenuto dopo che il generale Al Sisi aveva incontrato il presidente americano il 9 aprile scorso alla Casa Bianca, sollecitandolo a sostenere il generale libico. Il presidente americano ha avuto anche un colloquio con il principe di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed, un altro sostenitore di Haftar, proprio il giorno prima che la Casa Bianca diffondesse il comunicato sulla telefonata con Haftar.

L’indebolimento della posizione dell’Onu

La prova dell’isolamento italiano ma anche dell’indebolimento della posizione dell’Onu a favore di Sarraj è lo stallo al Consiglio di sicurezza. Gli Usa, all’inizio della crisi, avevano sostenuto una risoluzione britannica per chiedere lo stop dell’offensiva di Haftar, poi hanno cambiato posizione e si sono allineati sulla Russia: da allora tutto è bloccato. L’Ue è riuscita ad approvare un appello alla fine delle ostilità, ma non ha nominato Haftar dopo che la Francia ed altri Paesi si erano opposti. Gli interessi in gioco, dal petrolio a quelli militari, e le alleanze trasversali, sullo sfondo della contrapposizione tra i filo islamisti di Tripoli e Misurata e i loro avversari, stanno tagliando fuori l’Italia. La conferma che la caduta del Colonnello Gheddafi nel 2011 è stata la più grande sconfitta del Paese dalla Seconda guerra mondiale.

Alberto Negri


“L’uomo forte della Libia”


“All’inizio del 2014 il generale libico Khalifa Haftar ha lasciato la sua casa nel nord della Virginia, negli Stati Uniti – dove aveva passato gran parte degli ultimi vent’anni, collaborando almeno per un periodo con la Cia – ed è tornato a Tripoli per lanciare la sua ultima guerra per il controllo della Libia. Haftar, un settantenne dall’aria mite, ha combattuto come avversario e come alleato di quasi tutte le più importanti fazioni coinvolte nei conflitti libici, guadagnandosi la reputazione di grande esperto militare, ma con un senso della leal­tà molto flessibile. L’anno scorso Haftar ha stabilito il suo quartier generale in una vecchia base aerea sul Jebel Akhdar (montagna verde), in Cirenaica, un tradizionale nascondiglio per ribelli e insorti. 

Lanciando un’offensiva chiamata operazione Dignità, le forze di Haftar, da lui ribattezzate Esercito nazionale libico, hanno conquistato quasi tutto l’est del paese. Il resto della Libia, compresa la capitale Tripoli, è nelle mani di Alba libica, un’ampia coalizione di milizie, molte delle quali hanno stretto un’alleanza tattica con i gruppi jihadisti. Come il presidente Abdel Fattah al Sisi in Egitto, Haftar si propone di sconfiggere le forze islamiche e di riportare pace e stabilità nel suo paese. 

Quando quest’inverno ho visitato il quartier generale di Haftar, sono passato davanti a un elicottero da guerra di fabbricazione russa e sono stato accolto da un gruppo di miliziani che stavano scaricando delle munizioni. Dato che Haftar è uno dei principali bersagli delle milizie di Alba libica, che lo vorrebbero morto, la base è in stato di allerta costante. Nel giugno del 2014 un attentatore suicida ha fatto esplodere una jeep davanti alla casa del generale vicino a Bengasi, uccidendo quattro guardie. Il livello di sorveglianza intorno a lui è sempre altissimo. I suoi uomini perquisiscono i visitatori e gli sequestrano le armi. Pochi mesi fa qualcuno ha cercato di ucciderlo con dell’esplosivo nascosto in un telefonino e da allora i suoi soldati requisiscono anche i cellulari. 

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Il generale mi ha ricevuto in un ufficio immacolato, arredato con divani beige e moquette in tinta. Con i suoi baffi vecchio stile e l’impeccabile uniforme color kaki, sembra più un insegnante in pensione che il despota appoggiato dagli Stati Uniti di cui parlano i suoi nemici. Con un tono calmo e determinato Haftar mi ha spiegato perché è tornato in Libia a combattere. Dopo aver partecipato alla rivolta del 2011 contro l’ex dittatore Muammar Gheddafi, ha cercato di inserirsi nella nuova scena politica libica. Ma non c’è riuscito ed è tornato per un po’ in Virginia “a godersi i suoi nipoti”. Da lontano ha visto la situazione libica deteriorarsi a causa di governi deboli e milizie sempre più potenti. 

Nell’estate del 2014 alcuni gruppi estremisti islamici hanno attaccato Bengasi. In una spietata campagna che mirava a eliminare quel che restava della società civile, sono stati uccisi circa 270 avvocati, giudici, attivisti, ufficiali dell’esercito e delle forze dell’ordine, tra cui alcuni vecchi amici di Haftar. “Non c’era più giustizia né sicurezza”, mi ha detto il generale. “La sera la gente aveva smesso di uscire di casa. Tutto questo mi addolorava profondamente”.
Haftar ha ripreso contatti con i suoi amici tra le forze armate, la società civile, i gruppi tribali e i politici di Tripoli. 

“Tutti mi dicevano la stessa cosa: ‘Abbiamo bisogno di un salvatore. Cosa aspetti?’. E io rispondevo: ‘Agirò solo con il consenso del popolo’. Quando ho visto le manifestazioni in cui mi si chiedeva di intervenire, ho accettato volentieri, anche se sapevo che avrei rischiato la vita”. 

Luci e ombre
Come molti di coloro che si autoproclamano salvatori, Haftar parlava con un fatalismo carico di ammirazione per se stesso. Ma la sua storia è molto più complessa di quanto sia disposto ad ammettere. Nel 1969, quando era ancora un cadetto militare, partecipò al colpo di stato di Muammar Gheddafi per far cadere la monarchia e diventò uno dei principali collaboratori del colonnello. 

Nel 1987, quando la Libia scese in guerra contro il Ciad per il controllo di un’area di confine, Gheddafi scelse Haftar come ufficiale di comando. Ma la sua base fu invasa dai ciadiani, che uccisero migliaia di soldati libici e lo fecero prigioniero insieme a quattrocento dei suoi uomini. Quando Gheddafi si rifiutò di riconoscere l’esistenza dei prigionieri di guerra, Haftar cercò di organizzare un colpo di stato contro il colonnello e nel 1988 si schierò con il Fronte nazionale per la salvezza della Libia, un gruppo d’opposizione al regime di Tripoli con sede in Ciad e appoggiato dalla Cia. Poco dopo Haftar uscì di prigione. 

Come comandante militare del Fronte nazionale, Haftar progettò di invadere la Libia, ma Gheddafi sventò il complotto appoggiando un golpe interno all’organizzazione. La Cia dovette trasferire Haftar e 350 dei suoi uomini prima in Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) e poi negli Stati Uniti, dove il generale ottenne la cittadinanza e rimase a vivere per i successivi vent’anni.
Per un certo periodo il generale collaborò con la Cia e fu coinvolto nei tentativi di far cadere Gheddafi, compreso un complotto che portò all’arresto e all’uccisione di alcuni dei suoi uomini. Secondo Ashur Shamis, un ex leader del Fronte nazionale, in Virginia Haftar viveva nella ricchezza, anche se nessuno sapeva da dove gli arrivassero i soldi.”

JON LEE ANDERSON


2322.- CHI HA FINANZIATO LA CAMPAGNA DI HAFTAR

Il Mufti Sheikh Sadeq al-Gharyani, venerdì 12 aprile, ha rivelato dal canale televisivo libico Al-Tanasuh che l’Arabia Saudita aveva inviato seguaci della studiosa salafita saudita Rabee al-Mudkhali per sostenere Khalifa Haftar. E da al Jazeera: “Giorni prima che il generale rinnegato della Libia Khalifa Haftar lanciasse un’offensiva sulla capitale del paese, Tripoli, l’ Arabia Saudita ha offrerto decine di milioni di dollari per contribuire a pagare l’operazione, come ha riportato il Wall Street Journal .
L’offerta è arrivata durante una visita di Haftar alla capitale saudita, Riyadh, in vista della sua campagna militare del 4 aprile, ha detto il Journal quel venerdì.
Citando alti consiglieri del governo saudita, il giornale ha detto che l’offerta di fondi – accettata da Haftar – era destinata ad acquistare la lealtà dei leader tribali, reclutare e pagare combattenti e altri scopi militari.

Marco Orioles racconta a Start: “Chi ha finanziato in Libia Haftar (e perché le casse della Cirenaica non sono floridissime)”.


Tutti i dettagli sulla situazione finanziaria della Cirenaica di Haftar

Come andrà a finire, l’offensiva lanciata da Khalifa Haftar contro Tripoli e il Governo di Accordo Nazionale guidato da Fayez al-Sarraj? Secondo Ulf Laessing di Reuters, questa domanda potrebbe presto trovare risposta. Che arriverà, però, non da più o meno improvvisi sviluppi militari, ma da un fronte non meno delicato: quello finanziario.

Per capire di cosa Leassing stia parlando, attingiamo dal suo lancio di ieri. Che parte da un quesito fondamentale: come si è sostenuto sino ad oggi il governo della Cirenaica con tutte le sue appendici, incluso l’Esercito Nazionale Libico (LNA) che il 4 aprile, dietro ordine di Haftar, ha marciato in direzione della capitale?

La risposta di Leassing è che la linea vitale della Cirenaica è stata costituita “da un mix di bond non ufficiali, denaro stampato in Russia e depositi delle banche dell’Est”. Una miscela esplosiva che, rileva Reuters, ha portato ad un accumulo mostruoso di debiti valutato in 35 miliardi di dinari libici, pari a 25,18 miliardi di dollari.

Ne è scaturito un problema che potrebbe molto presto scoppiare: da mesi le banche della Cirenaica non riescono a rispettare i requisiti minimi per le linee di finanziamento. Una situazione che potrebbe spingere la Banca centrale libica – alleata di Sarraj – a tagliare per questi istituti l’accesso alla valuta.

Come osserva Claudia Gazzini, analista dell’International Crisis Group, sulla Cirenaica incombe una crisi bancaria, con conseguenze potenzialmente devastanti sulla funzionalità del governo dell’Est e della sua macchina militare. Una crisi che non potrebbe essere risolta dagli sponsor internazionali della Cirenaica, astenutisi finora dal fornire ad Haftar sostegno finanziario (cosa che non ha impedito a Paesi come Egitto ed Emirati Arabi Uniti di mettergli a disposizione attrezzature militari).

Le “tecniche” armate di mitragliere pesanti ancorate al cassone sono i veicoli da combattimento del momento.

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Haftar ha finora potuto sostenere le proprie campagne con i fondi messi a disposizione dalla Banca centrale che, gestiti dalle banche commerciali dell’Est, hanno permesso al generale di acquistare – tramite il sistematico ricorso a lettere di credito – il materiale necessario, come le centinaia di veicoli che tre settimane fa hanno trasportato i soldati dell’LNA e tutto il personale di supporto sino alle porte di Tripoli. Questo significa che, se la Banca centrale prendesse provvedimenti nei confronti di queste banche, Haftar si troverebbe con le spalle al muro.

I problemi di Haftar peraltro non finiscono qui. Reuters nota infatti che una legge approvata a novembre dalla Camera dei Rappresentanti di Tobruk ha messo in piedi un’autorità per gli investimenti che, come in Egitto, assegna all’LNA il controlli di settori chiave dell’economia. Ma, perché questo veicolo possa funzionare, gestendo ad esempio le transazioni con partner stranieri, ha bisogno delle banche. E se queste ultime vengono stritolate dalla Banca centrale, tutto il castello crolla.

La situazione potrebbe precipitare presto: la Banca centrale ha già tagliato fuori tre banche dell’Est dal sistema di pagamenti elettronici, in una mossa che potrebbe preludere ad un blocco completo dell’operatività del sistema bancario della Cirenaica.

Alcuni diplomatici consultati da Reuters tendono in realtà ad escludere l’ipotesi di una decisione così drastica da parte del governatore della Banca centrale, Sadiq al-Kabir. Viene fatto notare, infatti, che un blocco delle banche dell’Est si ripercuoterebbe su quelle dell’Ovest, i cui flussi finanziari sono difficili da separare da quelle delle banche orientali.

Ma l’incognita più grande è rappresentata dalla reazione di Haftar. Il quale, di fronte ad una decisione estrema da parte della Banca centrale, potrebbe ricorrere all’opzione nucleare: vendere direttamente sul mercato il petrolio libico, bypassando la NOC.

La situazione in Libia dunque potrebbe svoltare da un momento all’altro. E la vera novità potrebbe non arrivare dai campi di battaglia.

2321.- Macron colto con le mani nel sacco. La denuncia arriva da Al Jazeera. Haftar minaccia i militari italiani: andate via da qui


27 aprile 2019 di Davide Manlio Ruffolo, La Notizia Mondo

EMMANUEL MACRON

Qualcuno non voleva crederci ma ora sostenere che Emmanuel Macron non stia aiutando il generale Khalifa Haftar nella conquista di Tripoli sarà davvero complicato. Eh si perché ieri, come comunicato dalla rete all news Al Jazeera, la Francia è stata colta con le mani nel sacco a consegnare motoscafi e armi nel porto di Ras Lanuf, importante scalo petrolifero costiero nel Golfo di Sirte, all’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) guidato da leader della Cirenaica.

Un episodio che se confermato non dovrebbe sorprendere perché non farebbe altro che aggiungersi ad altri precedenti, come il caso delle settimane scorse in cui alcuni specialisti francesi erano stati sorpresi nel Paese nordafricano, che mettevano in mostra il vizietto dei transalpini di immischiarsi nella faccenda libica. Così poco importa se l’Onu e letteralmente mezzo mondo, Italia inclusa, si siano schierati dalla parte del governo di unità nazionale del premier Fayez Al Serraj perché Macron intende giocare la sua partita sottobanco e a dispetto di tutto e tutti.

Anzi, il premier francese, ciò a rendere ancor più losca la vicenda, ad oggi non ha riconosciuto in maniera aperta e pubblica Haftar. Insomma un bluff che ora è stato definitivamente smascherato. Quel che è peggio è che in tutta questa situazione, dopo settimane di scontri, la crisi libica continua ad aggravarsi sempre più e a pagarne il prezzo sono i cittadini dello Stato nordafricano. E infatti, anche grazie agli aiuti ricevuti, da ieri l’esercito del Generale ha ripreso a bombardare pesantemente la zona Sud della Capitale, causando decine di morti e feriti.

Ma la situazione nelle ultime ore sembra essere ulteriormente precipitata. Le truppe fedeli ad Haftar, forti dell’appoggio francese ma anche di quello americano, sentono la vittoria dietro l’angolo e infatti hanno alzato il tiro arrivando a minacciare, non tanto velatamente, i nostri stessi militari. “Occorre che l’Italia ritiri al più presto il suo ospedale militare da Misurata”, città fedele ad Al Serraj, perché “abbiamo le prove che quella struttura ormai non ha più nulla di umanitario, ma costituisce un valido aiuto per le milizie che combattono contro il nostro esercito”.

A parlare così è il generale Ahmed Mismari, ossia il portavoce di Haftar, che ha poi proseguito spiegando: “L’ospedale era stato inviato per assistere i feriti negli scontri contro Isis a Sirte nel 2016. Ma quei combattimenti sono terminati da un pezzo, perché restano 400 soldati italiani? Da quella base partono gli aerei che bombardano le nostre truppe e causano vittime anche tra i civili. Crediamo che gli italiani abbiano un ruolo nel addestrare le milizie. Non va bene, devono andarsene”. Una dichiarazione che, in modo tutt’altro che casuale, è arrivata a poche ore dalla telefonata tra il premier Giuseppe Conte e il suo omologo Al Fajez, con cui l’Italia ha ribadito l’intenzione di arrivare ad una “stabilizzazione del Paese” in modo pacifico.armiFrancialibiaTi potrebbero interessare ancheLa crisi libica giova alla Francia. L’Italia non resti alla finestra. Parla Sape…Libia, Conte al Senato: “Il rischio di una crisi umanitaria è concreto. Il confl…Evita attacchi di cuore con questo orologio intelligenteHealthWatchQuesto drone economico è l’invenzione più incredibile del 2019DroneX ProIl lavoro che fa guadagnare 15.000€ da casaEpeex.netQualcuno rema contro la pace in Libia. Macron esca da quest’ambiguità. Parla il …Raccomandati da


Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, al Senato, paventa una crisi umanitaria e, a Pechino, chiede appoggio a Putin.

Sono 38.900 gli sfollati dall’inizio degli scontri armati a Tripoli. Lo scrive l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari (Ocha) in un aggiornamento sulla crisi in Libia, precisando che l’Unhcr e l’Oim hanno concluso le operazioni di evacuazione di tutti i rifugiati e migranti del centro di detenzione di Qasr Bin Ghashir e che circa 3.000 rifugiati e migranti restano intrappolati in centri di detenzione situati in aree colpite dai combattimenti o in aree a rischio di conflitto armato.

“I bombardamenti indiscriminati sulle aree residenziali continuano, in violazione del diritto internazionale umanitario, con segnalazioni non confermate di vittime civili e danni materiali nella zona di Al Hadhba e nel comune di Abu Slim” riferisce una nota dell’Ocha. “I civili intrappolati nella linea del fronte – scrive ancora l’Onu – devono far fronte a mancanza d’acqua e interruzioni di corrente, a carenza di beni essenziali come cibo, acqua potabile, medicine e carburante. Scontri armati, bombardamenti casuali, posti di blocco ed esplosivi posti sulle strade ostacolano la capacità di evacuare i civili e fornire gli aiuti necessari, nonché la capacità dei civili di spostarsi liberamente in zone più sicure e accedere a beni e servizi vitali”.

Conte, ha incontrato il presidente russo, Vladimir Putin, a margine del Belt and Road Forum di Pechino dedicato alla Nuova Via della Seta. Il premier, riferiscono fonti di Palazzo Chigi, ha avuto un intenso colloquio sulla situazione in Libia. Conte ha espresso la sua valutazione sulla crisi nel Paese chiedendo a Putin di condividere le preoccupazioni per lavorare insieme a una soluzione.

2320.- C’è l’Isis in Libia. Chi è Abu Dujana, il militante anziano dell’ISIS arrestato in Libia

Tratto dai lavori di Maria Grazia Rutigliano, Sicurezza Internazionale

“Il ministro dell’Interno del governo di Tripoli ha riferito che è stato catturato un militante anziano dell’ISIS. È il terzo arresto di un jihadista nel Paese in due settimane.  

La notizia è stata riportata dal quotidiano locale, Libya Observer, che riferisce i dettagli della cattura. Il militante dello Stato Islamico si chiama Yaser Saleh Al-Majiri ed è anche noto con il nome di Abu Dujana. Il ministero dell’Interno tripolino ha dichiarato, in un comunicato, che l’arresto è stato effettuato grazie allo stato di emergenza in vigore nel Paese, che ha permesso alle autorità libiche di portare avanti stringenti politiche di sicurezza. Il militante anziano dello Stato Islamico si trovava nella città di Misurata, al momento della cattura, ma le indagini hanno riguardato, più ampiamente, alcune cellule dormienti dell’ISIS della Libia occidentale. 

Abu Dujana si è unito all’ISIS nel 2014 e ha giurato fedeltà all’emiro di Tripoli, Abu Amer Al-Jazrawi. In seguito, ha ricoperto diverse posizioni di rilievo nella struttura dello Stato Islamico locale. È stato a capo dell’ufficio che si occupa di istruzione, ha ricoperto il ruolo di Emiro dell’Economia ed è stato anche segretario della “hisba”, il dipartimento incentrato sul concetto islamico che rimanda al dovere di imporre atti morali e di proibire quelli immorali. Con la sua cattura, la struttura dello Stato Islamico in Libia potrebbe risultare indebolita. Le autorità del Governo di Accordo Nazionale (GNA), intanto, rafforzano la loro lotta contro il jihadismo. “Non risparmieremo gli sforzi nella lotta contro il terrorismo e le organizzazioni estremiste e continueremo a lavorare per la stabilità e la sicurezza in Libia e nella regione”, ha riferito il Ministero dell’Interno, a seguito della cattura di Abu Dujana. ..”

“I terroristi in Libia stanno approfittando del lungo conflitto in corso nel paese per espandersi nei paesi confinanti”, ha dichiarato il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov . © AP Photo/Manu Brabo. Dalla Tass.

Sempre secondo  The Libya Observer:

” un altro “militante dell’ISIS, chiamato Mohammed Abdulhakim al Hanid, è stato arrestato sabato 13 aprile in una zona a pochi km ad Est di Tripoli. Al Hanid era un membro attivo del gruppo terroristico, noto agli altri estremisti con il soprannome di al Farouk. L’uomo è stato bloccato mentre stava cercando di reperire dell’esplosivo al plastico C4. Dopo essere stato interrogato, il terrorista ha confessato di essere stanziato a Derna, dove lavora per l’ISIS, nell’ufficio che si occupa della “Hisba”, il concetto islamico che rimanda al dovere di imporre atti morali e di proibire quelli immorali. Al Hanid ha, inoltre, riferito di aver incontrato l’emiro dell’ISIS a Derna, Abu Mouad Al-Iraqi, e di avere contatti con molti altri comandanti dello Stato Islamico che si trovano nel deserto libico. Infine, l’uomo ha confessato di aver ricevuto l’incarico di monitorare i Ministeri, gli uffici pubblici e gli obiettivi vitali di Tripoli e di aver tentato di trovare dell’esplosivo per fabbricare cinture da utilizzare in attacchi kamikaze contro la Libia occidentale, specialmente a Tripoli. 

.. Domenica 14 aprile, il ministero dell’Interno aveva già dichiarato di aver effettuato l’arresto di un altro militante dell’ISIS, noto alle forze dell’ordine come Abu Abdullah Al Dernawi, ma chiamato Ana Abrik al Zouki dagli altri jihadisti. Le forze speciali di Tripoli hanno poi riferito gli spostamenti recenti del jihadista, di origini libiche. Al Darnawi si trovava nella città di Bengasi dal 2015 e ci è rimasto fino a fine gennaio 2017. Poi, è partito per la città di Umm Al Aranib, nel Sud della Libia, attraverso il deserto e poi è passato per Sabha, prima di stabilirsi a Tripoli. Secondo le indagini, il militante dello Stato Islamico ha cercato di effettuare attacchi terroristici, a partire dal suo arrivo nella capitale libica. Il Ministero dell’Interno ha riferito che Al Dernawi ha tentato di destabilizzare la sicurezza e la stabilità dell’area. “I servizi di sicurezza sono completamente preparati ad affrontare qualsiasi tentativo di compromettere la sicurezza della capitale, specialmente in queste circostanze eccezionali”, ha aggiunto il Ministero. Ahmed Al-Mismari, il portavoce dell’Esercito Nazionale Libico (LNA), guidato dall’uomo forte di Tobruk, Khalifa Haftar, ha dichiarato, in una conferenza stampa, che si aspetta il verificarsi di attacchi terroristici a Tripoli e nella regione occidentale del Paese, prossimamente. 

L’ISIS aveva già colpito in Libia, recentemente. Il 9 aprile, alcuni militanti dello Stato Islamico hanno effettuato un assalto nella città libica di al Fuqaha, situata nel distretto centrale di Giofra, nel deserto, a circa 600 km da Tripoli. L’attacco aveva ucciso almeno 3 persone, tra cui il presidente di un Consiglio locale, e il capo delle guardie municipali era stato rapito. Nel corso dell’offensiva, i jihadisti hanno dato fuoco a diverse abitazioni. Secondo quanto riportato dal Libya Observer, i terroristi sono arrivati ad al Fuqaha alla guida di auto e, non appena raggiunto il centro, hanno interrotto le vie di telecomunicazione per poi iniziare l’assalto. Tali operazioni di gruppi militanti sono favorite dall’attuale situazione in Libia, caratterizzata da divisioni e violenze. Attualmente, il potere politico è diviso tra due governi rivali. Il primo, creato dall’ONU, con gli accordi di Skhirat del 17 dicembre 2015, ha sede a Tripoli ed è guidato dal premier Fayez al-Serraj, sostenuto dalle Nazioni Unite, Italia, Turchia, Qatar e Sudan. Il secondo, con sede a Tobruk, è appoggiato da Russia, Egitto, Francia ed Emirati Arabi Uniti. Dopo una campagna militare nel Sud della Libia, Haftar ha diretto le sue forze contro Tripoli, il 4 aprile, in una mossa che sta destabilizzando ulteriormente il precario equilibrio del Paese. “

Maria Grazia Rutigliano


Maria Grazia Rutigliano si è laureata con 110 e lode presso l’Università di Firenze “Cesare Alfieri” con una tesi in Storia del Medio Oriente Moderno. Durante il suo percorso universitario ha soggiornato all’estero numerose volte per ragioni di studio e ricerca, ha completato un semestre di studio presso l’Université Paris I (Panthéon-Sorbonne), in Francia e uno presso l’Ecole de Gouvernance et d’Economie di Rabat, in Marocco. Ha inoltre preso parte ad un progetto in collaborazione con il Ministero della Difesa Italiano, durante il quale ha soggiornato presso il Multinational Battle Group West della NATO Kosovo Force a Pristina, in Kosovo. Sta svolgendo un tirocinio presso l’Osservatorio sulla sicurezza internazionale della Luiss, dove sta scrivendo la tesi di laurea magistrale, per il Dipartimento di Scienza politica. È autrice del sito Sicurezza Internazionale.

2319.- Libia, le forze del GNA puntano le linee di rifornimento dell’LNA a sud di Tripoli

La situazione intorno all’aeroporto di Tripoli è di stallo, con conquiste e perdite di terreno continue. Questa situazione, nonostante sia Tripoli sotto attacco, avvantaggia il GNA. Haftar, infatti, non può sostenere una guerra di posizione e sta intensificando gli sforzi per chiudere al più presto la partita, prima della pausa del Ramadan.

“Le forze di Sarraj hanno respinto l’ennesima offensiva di Haftar e ora puntano a tagliare le linee di rifornimento dell’LNA a sud di Tripoli. Inoltre, continua la guerra tra i due schieramenti per la superiorità aerea.

L’obiettivo del GNA è prendere definitivamente l’area e poi dividere le milizie dell’LNA in due gruppi separati e isolati, avanzando fino a Kikla. In questo modo controllerebbe tutta l’area occidentale della Libia, fino al confine con la Tunisia e Haftar perderebbe l’unica rotta da cui passano rinforzi e rifornimenti per l’asse ovest. A quel punto, potrebbe attaccare solo da est. 

Le forze del GNA guadagnano terreno contro le truppe di Khalifa Haftar a sud di Tripoli e puntano ora a tagliare le linee di rifornimento dell’LNA. I soldati di Fayez Sarraj, dopo aver respinto la nuova offensiva del Generale, mantenendo i presidi (Ain Zara) e conquistandone altri (Yarmouk in direzione di Qasr Ben Ghasir), stanno spostandosi verso est. Ciò in modo da chiudere e isolare la prima linea dell’uomo forte della Cirenaica, che sta attaccando la capitale libica. Inoltre cercano di prendere il controllo degli aeroporti nell’area, in primis quello di Mitiga. L’obiettivo è acquisire la superiorità aerea nella regione. L’air power dei due contendenti, protagonista della guerra civile, infatti, è ancora abbastanza bilanciato. Nelle scorse ore la sala operativa di Haftar ha affermato di avere la supremazia, ma è solo propaganda. Anzi, forse grazie all’ultimo aereo dell’LNA abbattuto (in origine indicato come appartenente al GNA), è anche in svantaggio. 

Il MIRAGE F1AD mm 402 dell’LNA abbattuto nella periferia meridionale della capitale libica, domenica 14 aprile. Le fonti riferiscono che il velivolo militare fosse in procinto di attaccare, in supporto alle truppe di terra. Secondo i reporter di Al-Jazeera, l’LNA ha confermato l’accaduto e ha aggiunto che il pilota è riuscito a salvarsi, paracadutandosi fuori dal jet, prima che questo venisse abbattuto. L’altro MIRAGE F1 dell’LNA era stato cannibalizzato per tenere questo in efficienza. Difesa & Sicurezza parla di superiorità aerea; in realtà, si tratta del possesso delle piste da cui decollano gli scarsi velivoli delle due fazioni.

L’LNA insiste sul fatto che Mirage F-1 relitto in al-Watiyah (23 aprile) è del
GNA. Pubblica le foto mostrando il sedile di espulsione e altro, così come il nome sulla tuta di volo di Borys Reyes (con una foto di lui)

Intanto, le città in Libia si blindano da possibili attacchi Isis durante il Ramadan. In questo periodo, in teoria, il conflitto dovrebbe alleggerirsi. Ma c’è il rischio di blitz improvvisi delle truppe del Generale

 Intanto, sia dal versante di Sarraj sia da quello di Haftar si comincia a fare i conti con l’arrivo imminente del Ramadan. Si presume che durante il periodo gli scontri si dovrebbero attenuare, anche se non c’è certezza. Probabilmente i due schieramenti sfrutteranno il periodo per riorganizzarsi e affinare i rispettivi piani di difesa e attacco. Non si escludono, comunque, tentativi di blitz a sorpresa dell’LNA. Parallelamente Tripoli, Bengasi e le altre città della Libia si blindano in vista dell’evento. Si temono attentati da parte di Isis. Soprattutto dopo l’arresto a Misurata di un alto comandante dello Stato Islamico, Yaser Saleh Al-Majiri, il quale sembra fosse coinvolto nella pianificazione di un’imminente azione. Daesh, infatti, dopo l’inizio dell’offensiva del Generale ha alzato la testa e sta cercando di incrementare la sua influenza nel paese africano. “ Ne parleremo.

Da Difesa & Sicurezza

La Russia prende posizioni più nette sulla guerra civile nel paese africano. Lavrov attacca la Francia, mentre un alto diplomatico di Mosca avrebbe chiesto all’LNA di cessare il fuoco e fermare l’offensiva contro Tripoli

Entrambe le diplomazie Russa e Turca sono a favore dello stop dei combattimenti e di una soluzione politica alla crisi libica. Evidentemente, i rischi di una vittoria del GNA sono concreti. Alla Conferenza sulla sicurezza internazionale di Mosca del 23-25 aprile, si è trattato anche della situazione in Medio Oriente, Asia, Africa e America Latina. Vi hanno partecipato i ministri della difesa di almeno 35 paesi e oltre 1.000 esperti provenienti da oltre 100 paesi partecipano all’evento.T

I partner locali e internazionali di Haftar, però, diventano sempre più nervosi. Le milizie libiche cominciano ad abbandonare il Generale, mentre la Francia è al centro delle critiche di Tripoli e di altri governi. Inoltre, la Russia – che finora aveva sempre esortato blandamente le parti a porre fine alle ostilità e a riprendere il dialogo politico – ha cambiato il passo. Secondo fonti locali, alti diplomatici di Mosca avrebbero chiesto all’LNA di cessare il fuoco e interrompere l’offensiva sulla capitale del paese africano. Lo stesso ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, in occasione della Conferenza Internazionale sulla Sicurezza di Mosca è tornato a ribadire che deve fermarsi subito il conflitto armato. Inoltre, ha fatto un’affermazione interessante, che sembra essere diretta contro Parigi:“Gli attori esterni non devono esercitare influenza unilaterale sulla situazione, ma coordinare le loro azioni negli interessi di ottenere le misure previste sotto gli auspici delle Nazioni Unite”.

Il governo guidato dal premier Fayez al-Sarraj, creato dall’ONU, con gli accordi di Skhirat del 17 dicembre 2015 è sostenuto da ONU, Italia, Turchia, Qatar e Sudan. Haftar è appoggiato da Russia, Egitto, Francia ed Emirati Arabi Uniti. Gran Bretagna e Israele sono presenti. Khalifa Haftar ha finanziato le sue operazioni con un mix di obbligazioni non ufficiali, denaro stampato in Russia e prestiti da banche straniere, accumulando un debito del valore di circa 35 miliardi di dinar libici, che corrispondono a 25 miliardi di dollari.


2318.- La battaglia di Ein Zara: un inferno di fuoco in Libia

Gli interessi in gioco delle due parti superano le nostre possibilità. Sarà lotta all’ultimo sangue se l’ONU non invia una missione di Peace Enforcement, come prevede il capitolo VII del suo statuto e potrà inglobare l’ospedale da campo di Misurata, sotto accusa di collaborazionismo da parte di Haftar. Senza una soluzione militare in Libia non ci sarà mai la pacificazione, del resto Trump lo ha compreso subito appoggiando Haftar. Diciamo anche il perché: le illegalità delle milizie di Tripoli, con cui deve patteggiare al-Sarraj, non sarebbero digeribili da Haftar, senza esserne condizionato.

Angelo Gambella scrive: “Conversazione telefonica tra Serraj e Conte. I media vicini al governo di Tripoli riferiscono che il nostro presidente del consiglio ha ribadito che non c’è soluzione militare e che la LNA deve cessare l’attacco a Tripoli”.

Ma, ieri, al-Sarraj ha dichiarato che non ci sarà cessate il fuoco fino alla completa sconfitta di Haftar. Quindi, a chi parla Conte? Non c’è soluzione militare, quella politica è utopica, la balcanizzazione della Libia è la soluzione residuale. Allora, hanno ragione Haftar, al-Sisi e Trump. Dovremo rivedere le nostre scelte o scoprire le carte. Leggiamo questa testimonianza chiarissima da Occhi della guerra sulla battaglia di Ein Zara.

Un inferno di fuoco in Libia

(Tripoli) Il sibilo del proiettile ti ronza nelle orecchie un attimo prima che centri un muro già sbrecciato dai combattimenti sollevando uno sbuffo di polvere a pochi passi da noi. Un maledetto cecchino sta tenendo sotto tiro l’incrocio da dove parte l’ennesima spallata dei combattenti di Misurata contro le linee del generale Khalifa Haftar a Ein Zara, sobborgo di Tripoli.

Mohammed Drah, che zoppica vistosamente per una ferita all’anca della battaglia precedente grida come un ossesso contro il franco tiratore annidato chissà dove fra le case. Poi si stufa e imbraccia il kalashnikov sparando qualche raffica, ma il cecchino non demorde. Almeno una ventina di colpi mirati ci tengono inchiodati per oltre un’ora al riparo di un alto muro di cemento. Quando vede un’ombra, il cecchino spara e i proiettili rimbalzano sulla strada a due metri dal nostro riparo. Ogni tanto tira sopra il muro per innervosirci con i colpi che si conficcano rumorosamente sul tetto in lamiera di un capannone davanti ai nostri occhi. 

Nel caos della battaglia spuntano da una strada laterale tre automobili bianche zeppe di civili terrorizzati. Mohammed, giubbotto anti schegge e calzoni mimetici fino a sotto il ginocchio, imbraccia una mitragliatrice tenendosi attorno al collo il nastro dei proiettili in stile Rambo. E urla ai poveretti in fuga dai combattimenti: “Sparano, vi copro, ma girate a destra a tutta velocità senza mai fermarvi”. 
Alla fine un bulldozer che usa la pala come scudo, le macchine blindate e le “tecniche”, i fuoristrada con le mitragliatrici pesanti piazzate sul cassone dietro, avanzano a tutta velocità lungo l’assolata striscia d’asfalto che porta verso l’aeroporto internazionale chiuso dal 2014. E il cecchino si volatilizza. 

La prima linea è un inferno. Un governativo spara sventagliate di mitragliatrice in mezzo alla strada incurante dei proiettili che volano dappertutto. Le urla “Allah o akbar” (Dio è grande) si mescolano allo sferragliare di un cingolato di fabbricazione russa, che arriva a dare man forte. La fanteria raccogliticcia trova riparo sui lati della strada. Il tonfo assordante delle raffiche di proiettili da 23 millimetri, che tirano giù un muro, è continuo.

La tattica d’assalto sembra semplice ed efficace: le “tecniche” avanzano a folle velocità, spesso in retromarcia, con il mitragliere che spara all’impazzata e poi tornano indietro al riparo di montagnette di terra che bloccano la strada. “Giornalista salta su, che ti porto a filmare quando colpisco le postazioni di Haftar”, è il folle invito di un mitragliere, che garantisce sulla blindatura della copertura dell’arma antiaerea ad alzo zero. Trentacinque anni di reportage di guerra, da una parte mi spingono ad accettare l’invito e dall’altra a capire molto bene che è una follia. “Grazie sarà per la prossima”, rispondo al combattente un po’ deluso. 

Dietro all’ultimo vallo di terriccio rosso i governativi hanno piazzato un lanciarazzi cinese stile katyusha e stanno caricando proiettili di mezzo metro. A fianco un combattente ragazzino in uniforme chiazzata e berrettino da baseball erutta fiammate improvvise con la sua mitragliatrice. Il boato e una nuvola di fumo segnalano che un razzo è partito per piombare sulle postazioni di Haftar sollevando una colonna di fumo nero trasportata dal vento.

Per andare più avanti l’unica possibilità è correre come una lepre rasente al muro di cinta delle case facendo lo slalom fra una fila di alberi sfilacciati dai proiettili.

La terra di nessuno, lungo la striscia d’asfalto teatro della battaglia, è disseminata di detriti con le “tecniche” che ad ogni valanga di fuoco avanzano di qualche metro. In quattro ore di aspri scontri arrivano di continuo rifornimenti di munizioni. Le pallottole di kalashnikov, che hanno il calibro più piccolo, sono trasportate in grossi bottiglioni di plastica solitamente usati per le riserve d’acqua, ma che risultano efficaci e utili. I proiettili vengono “versati” negli elmetti e distribuiti ai combattenti.

Battaglia di Ein Zara (7)
Battaglia di Ein Zara (9)
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Battaglia di Ein Zara
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Battaglia Ein Zara 6
Battaglia Ein Zara

Le raffiche dalle posizioni di Haftar arrivano a intermittenza ed ogni tanto il lugubre fischio di una granata di mortaio o di un razzo supera le nostre teste. La resistenza, però, non è scatenata. L’obiettivo dei governativi, come ha ammesso il generale Ahmad Abu Hashmeh, è “tagliare le vie di rifornimento alle linee di Haftar” ancora annidate nei sobborghi di Tripoli. L’operazione “Vulcano di rabbia” punta a stringere le truppe dell’uomo forte della Cirenaica in una sacca puntando su tre assi diversi verso l’aeroporto internazionale. Allo scalo distrutto da anni sono arrivate da pochi giorni le forze di Zintan al comando di Idriss Mahdi per rafforzare le linee di Haftar. Il generale ha annunciato la mobilitazione dei corpi speciali ordinando infiltrazioni in città, che potrebbero scatenare battaglie per le strade. Non solo quando arrivi, ma anche per andarsene dalla prima linea vieni rincorso dai proiettili in una pazzesca corsa verso le retrovie.

Gli ultimi bollettini di guerra parlano di 272 morti, 1282 feriti e 38.900 gli sfollati. La battaglia di Tripoli continua.