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6147.- La vera storia dell’impresa dei Mille 43/ La strage di Bronte: Nino Bixio fucila cinque innocenti per ingraziarsi gli inglesi

Nino Bixio, l’eroe massacratore, all’anagrafe Gerolamo Bixio, per compiacere gli inglesi, qui, lo vedete interpretato da mariano Rigillo nel film Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato del 1971, diretto da Florestano Vancini. La RAI preferì mandarlo in onda dal 19 settembre 1974 in una versione ridotta di 109 minuti.

In Sicilia, a Bronte, ai primi di agosto del 1860 esplose una rivolta popolare. Vennero saccheggiati diversi edifici e trucidate sedici persone; per ristabilire l’ordine, Giuseppe Garibaldi inviò il generale Nino Bixio che dichiarò lo stato d’assedio ed impose pesanti sanzioni economiche alla popolazione. Costituito un tribunale di guerra, in poche ore vennero giudicate circa 150 persone e di queste 5 furono condannate all’esecuzione capitale. Alla luce delle ricostruzioni successive verrà appurata l’innocenza dei condannati, fra i quali l’avvocato Nicola Lombardo.

di I Nuovi Vespri, 3 dicembre 2019

Nella strage di Bronte gli elementi segnati dall’ingiustizia e dalla prepotenza sono tanti. Ci sono gli inglesi, per la precisione gli eredi di Orazio Nelson, che si mettono sotto i piedi gli usi civici. Ci sono gli agricoltori ridotti alla fame. Ci sono le false promesse di Garibaldi. C’è un delinquente incallito che scatena la rivolta e scompare. E c’è soprattutto Nino Bixio, che era il più delinquente di tutti, degno rappresentante dell’Italia appena nata…

… e nata male!

Anche perché la sommossa ed il massacro si erano svolte al grido di
«Viva Garibaldi!», di «Viva la libertà!» e di «Viva l’Italia!». Anche i nomi di alcuni protagonisti verrà alterato. Il tutto è contenuto nella novella «La Libertà» che il Verga ebbe il coraggio di scrivere soltanto dopo venti anni dai fatti narrati.

Per capire bene la storia, occorre fare una premessa.

Per aggregare volontari alla propria impresa e per far intendere all’opinione pubblica internazionale che in Sicilia è già divampata una inarrestabile rivoluzione contro Francesco II Re delle Due Sicilie ed a favore di Vittorio Emanuele di Savoia (che qui nessuno conosceva) e dell’annessione della Sicilia al Regno Sabaudo, gli agenti Inglesi, gli agitatori ed i propagandisti locali, presentabili e no, della invasione garibaldina avevano (fin da prima dello sbarco) incoraggiato bande, banditi, sbandati e picciotti di mafia a compiere qualsiasi tipo di nefandezze, purché i rispettivi reati apparissero come atti rivoluzionari. Il che era molto facile, perché le truppe Duosiciliane erano state fatte ritirare dagli alti ufficiali Borbonici traditori.

GASPARUZZO – Fra i paesi di montagna del Catanese e del Messinese operava, in particolare, la banda di un certo Gasparazzu, oggi non bene identificabile, ma allora certamente noto come delinquente incallito, non privo di ambizioni, per il quale l’avvento garibaldino era caduto veramente a fagiuolo. Gasparazzu si era schierato, quindi, con l’Eroe in attesa di diventare eroe egli stesso. Le sue rapine dovevano, pertanto, essere compiute al grido di «Viva Canibardu» e di «Viva la Talia» (ovviamente nella pronunzia deformata di chi era abituato a parlare in Siciliano, peraltro con poca familiarità con quelle nuove parole). Ma ovviamente non si poteva andare tanto per il sottile…

Cosa succede nella Ducea di Bronte? Nessuno pretendeva tanto. Neppure gli Inglesi che erano artefici e tutori dell’impresa garibaldina. Sarebbero stati – e di fatto lo erano – sufficienti i delitti compiuti ed il clima di terrore che si era venuto a creare in Sicilia per dimostrare che la rivoluzione unitaria era in pieno svolgimento.

I corrispondenti dei giornali Inglesi ed i pennaioli o gli storiografi allineati con il vincitore ed infine gli studiosi in eccesso di buona fede dell’istituendo regime avrebbero trasformato il tutto in gesta eroiche ed in avvenimenti di grande significato morale e politico.

A questi improvvisati patriotti (e non ai veri contadini Siciliani) Garibaldi aveva promesso, con uno dei suoi decreti-truffa, le terre del demanio di uso civico in ogni realtà comunale (con doppia quota, rispetto a quella spettante al vero contadino), senza neppure bisogno di concorso.

A BRONTE GLI INGLESI NEGANO GLI USI CIVICI – A Bronte le operazioni per il ripristino degli usi civici e per la spartizione delle terre demaniali ai contadini, previsti dalla buona legislazione del Regno di Sicilia (e, successivamente, del Regno delle Due Sicilie), erano stati di fatto condizionati pesantemente nel 1799, allorché il Re Ferdinando aveva dato in donazione all’Ammiraglio inglese Orazio Nelson un vastissimo territorio, Maniace, gravato appunto di usi civici e trasformato in Ducea. Il titolare del Ducato era lo stesso Ammiraglio, neo-proprietario, che ovviamente era stato nominato Duca di Bronte.

Un vero disastro, in particolare per i molti contadini e per i pastori nullatenenti di quell’importante area agricolo-silvo-pastorale, che nel tradizionale istituto degli usi civici avevano trovato e trovavano come vivere discretamente. Gli amministratori Inglesi della Ducea, invece, applicando arbitrariamente in Sicilia il diritto vigente nel Regno di Albione, ritenevano come inesistenti i gravami degli usi civici e tutto il corpo legislativo del Regno di Sicilia su quell’immensa azienda.

I brontesi titolari di tanti diritti (pascolare, seminare, andare a caccia, fare legna, carbone, raccolte di frutti, ecc.) si ritrovarono, quindi, improvvisamente defraudati ed impoveriti. Diedero luogo, pertanto, ad una serie di proteste e di contese, anche giudiziarie, nei confronti della Ducea. Difficile, però, per i magistrati e per i funzionari del Regno fare applicare le leggi vigenti in materia ad una famiglia nobile che, anche dopo la morte dell’Ammiraglio, restava potentissima e… soprattutto Inglese.

Le difficoltà diventarono maggiori quando il Governo di Londra, da alleato ed amico dei Borbone, ne sarebbe diventato – dopo la scomparsa del pericolo napoleonico – il peggiore nemico. Un nemico potentissimo alla ricerca di qualsiasi pretesto pur di intromettersi negli affari interni del Regno delle Due Sicilie che peraltro sarebbe dovuto ad ogni costo scomparire per rendere possibile la creazione di un unico, monolitico, Regno d’Italia.
Di uno Stato che si fosse esteso dalle Alpi al centro del Mediterraneo…
Nel maggio del 1860, dopo lo sbarco di Garibaldi, fu promesso che tutto sarebbe cambiato in meglio. Ed in effetti tutto cambiò. Ma in peggio.

Gli amministratori della Ducea di Bronte, ben sapendo che l’Armata Garibaldina aveva operato ed operava quasi esclusivamente grazie alla protezione inglese, divennero ancora più arroganti e pretenziosi nei confronti dei contadini e dei pastori di Bronte. Era naturale che in questa loro azione scellerata fossero favoriti dalla sparuta minoranza di dipendenti privilegiati, di borghesi e di professionisti locali, che con l’amministrazione della Ducea di Bronte convivevano bene e ne traevano qualche utile particolare, anche se a danno della Comunità.

Il malcontento, quindi, era salito alle stelle e non erano mancate violenze da parte dei sorveglianti del possedimento contro i contadini ed i pastori che pretendevano il rispetto dei propri diritti vitali e giuridicamente protetti (in teoria). Il prode Gasparazzu, in quei giorni di violenze e di saccheggi, pensò di strumentalizzare i descamisados di Bronte, accecati dalla rabbia per i torti subiti negli ultimi 60 anni. Il primo ed i secondi andavano, peraltro, per le spicciole. E non avevano ben compreso, a loro volta, che le violenze alle quali erano sostanzialmente autorizzati potevano essere operate contro tutti ma non contro gli Inglesi, le loro proprietà ed i loro servi. O contro coloro che già avevano abbracciato la causa garibaldina. E che la loro cosiddetta rivoluzione unitaria e filo-sabauda era stata voluta e pilotata dagli Inglesi, che dettavano ovviamente le loro regole anche a Garibaldi ed anche a Vittorio Emanuele.

Si verificarono, pertanto, con l’abile regia di Gasparuzzu, i primi grandi disordini, che sfociarono ben presto nella orrenda strage di avversari e di cittadini benestanti di Cappedda (ai Borghesi, cioè). Gli amministratori della Ducea misero subito in allarme tutti i Consoli Britannici in Sicilia, gli agenti ed i consiglieri Inglesi e lo stesso Garibaldi. Chiesero interventi severi ed immediati. Ne sarebbe andata di mezzo la credibilità dell’Eroe dei Due Mondi. Ed ecco che Garibaldi manda su Bronte, con i pieni poteri, Nino Bixio con la sua colonna.

Si pretende giustizia sommaria, esemplare, immediata.

A Bronte, però, non era rimasto nessuno dei masnadieri estranei alla città.
Gasparazzu (con i suoi banditi e con notevole bottino), tagliando rapidamente la corda, aveva ripreso la via della macchia. I contadini ed i pastori più compromessi nella sommossa, fiutato il cambiamento di vento, si affrettarono a disperdersi per i boschi e le campagne. Bixio non ebbe difficoltà a mostrarsi feroce. Lanciò anatemi, bandi e minacce nel più puro stile di un Generale di un esercito di occupazione.

LA GIUSTIZIA CRIMINALE DI NINO BIXIO – Voleva i responsabili del massacro, ad ogni costo. Ne chiese conto all’Amministrazione Comunale che non contava più niente. Comminò, fra l’altro, una tassa di guerra per ogni ora passata invano. E minacciò ferro e fuoco. Bisognava salvare quantomeno la faccia.

Si concordò allora, fra gli stessi Garibaldini e qualche collaborazionista, di fare cadere la maggiore responsabilità su un personaggio in vista per i propri sentimenti liberali e Sicilianisti, l’avvocato Nicolò Lombardo, colpevole di conoscere le leggi, i diritti ed i doveri di tutti anche in materia di usi civici e di avere difeso gli interessi della comunità.

Con lui furono individuati altri quattro capri espiatori, compreso lo scemo del Paese. Altri cittadini, pastori e contadini, prevalentemente presi a caso, sarebbero stati arrestati e processati in un secondo tempo.

In esecuzione della condanna a morte, emessa dopo un processo sommario, immediato e privo di un benché minimo elemento di legittimità, di serietà e di garanzia, celebrato dalle stesse autorità militari, il 10 agosto 1860, nei pressi della Chiesa di San Vito, l’avvocato Lombardo ed i suoi quattro compagni di sventura furono fucilati. Mentre centinaia di persone venivano deportate nelle varie carceri della provincia.

Si voleva fare veramente giustizia? Nemmeno per sogno. Si voleva piuttosto dare un messaggio ai banditi ed agli assassini fino a quel momento fatti passare per ribelli (di comodo). Nello stesso tempo si mandava una minaccia ai veri contestatori dell’occupazione della Sicilia che niente avevano a che fare con i primi, per dire che le cose erano ormai cambiate. Ed agli Inglesi si poteva così dimostrare che i rispettivi interessi sarebbero stati tutelati dai Garibaldini nel migliore dei modi.

IL DECRETO DI NINO BIXIO – Documento n. 14. Il decreto. In questo decreto Nino Bixio anticipa i contenuti e lo stile di quelli che saranno i proclami delle truppe naziste nella seconda guerra mondiale. Con l’aggravante che – oltre che minacciare la fucilazione – il braccio destro di Garibaldi si permette di applicare una tassa di guerra di onze 10 all’ora. Insomma: la Sicilia diventa a tutti gli effetti colonia e terra di conquista.

Trascrizione del Decreto

Documento n. 15. Il Proclama.

Trascrizione del Decreto

Bronte, 9 agosto 1860. Sul contenuto e lo stile di questo proclama del Maggiore Generale garibaldino, Nino Bixio, valgono le osservazioni già fatte per l’Avviso del 6 agosto 1860.

Documento n. 16. I «falsari» al potere…

Raccolta degli Atti del Governo Dittatoriale
e Prodittatoriale in Sicilia (1860)
Edizione officiale
Legge per la emissione delle nuove monete di bronzo,
e il ritiro delle antiche monete di rame
Nr. Raccolta 159 – Pag. vol. 215

Trascrizione del Decreto
DECRETO
IN NOME DI S.M. VITTORIO EMMANUELE
Re D’ITALIA
IL PRODittatore
Veduto il Decreto d’oggi, col quale si è provveduto all’uniformità del sistema monetario di Sicilia con quello del Regno Italiano;
Udito il Consiglio de’ Segretarii di Stato;
Sulla proposizione del Segretario di Stato per le Finanze;
DECRETA E PROMULGA:
Art. 1. Contemporaneamente alla emissione delle nuove monete di bronzo saranno ritirate dalla circolazione le antiche monete di rame.
La emissione delle nuove monete di bronzo non potrà nel suo totale valor nominale superare di un quinto il totale valor nominale delle antiche monete di rame, che saranno ritirate dal corso.
Art. 2. Un fondo di lire centocinquantamila è destinata alla spesa pei lavori preparatorii, macchine, e materiali necessarii a compiere la coniazione delle nuove monete di bronzo.
È fatto quindi il corrispondente assegno sulla Tesoreria generale.
Art. 3. Il Tesoro anticiperà inoltre la somma di lire centomila, da rimborsarsi col valor della nuova moneta, per la nuova coniazione e il ritiro della specie.
Ordina che la presente legge munita del sigillo dello Stato sia inserita nella Raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare.
Data in Palermo il 13 agosto 1860.

Visto
Il Segretario di Stato per la Giustizia
Firmato VINCENZO ERRANTE

IL PRODittatore Firmato DEPRETIS.
Il Segretario di Stato per le Finanze
F. DI GIOVANNI.

Palermo, 17 agosto 1860. I falsari al potere: il pro-Dittatore Depretis ora agisce «in nome di S.M. Vittorio Emanuele Re d’Italia», abbandonando la formula, pure illegittima (ma meno arrogante), di «Italia e Vittorio Emmanuele».
Questo decreto prevede il ritiro delle antiche monete di rame (già in vigore nel territorio del Regno delle Due Sicilie, che non viene neppure nominato) e la contemporanea sostituzione con monete di bronzo del Regno d’Italia. È tutto chiaro e non facciamo altri commenti.
Resta il fatto gravissimo che in Sicilia non si era svolto ancora neppure il plebiscito-truffa. E che il Regno d’Italia sarà proclamato il 17 marzo 1861.
Alla data del 17 agosto 1860 ancora si combatte per la completa conquista del Sud da parte dell’Armata Anglo-piemontese-garibaldina e mafioso-camorrista. Mentre dall’altra parte, si lotta e si lotterà disperatamente per la resistenza e per la libertà della Sicilia

CHI ERA AGOSTINO DEPRETIS – – Il Pro-dittatore Agostino Depretis.

Nacque in una famiglia di agiati fittavoli (Cascina Bella, 31 gennaio 1813 – Stradella, 29 luglio 1887). Si laureò in legge a Pavia nel 1834. Fu eletto deputato al parlamento subalpino il 26 giugno 1848, all’opposizione, e fu molto critico nei confronti del Governo Sabaudo. Collaborò da giornalista al periodico Concordia e fondò il giornale Progresso. Nel 1860 fu in Sicilia col ruolo di mediatore tra Cavour e Garibaldi. In assenza di Garibaldi, il 22 luglio tutti i poteri nell’isola vennero affidati a Depretis col titolo di Prodittatore.

Riunì il consiglio dei ministri del governo prodittatoriale per indire i plebisciti. E fu allora che Francesco Crispi e altri entrarono in contrasto con Depretis, tant’è che per protesta Crispi si dimise. Garibaldi si schierò apertamente con Crispi e Depretis, il 14 settembre, si dimise dalla carica. Fu sostituito da Mordini fino al plebiscito del 21 ottobre.

Nel 1862 entrò a far parte del Governo come Ministro dei Lavori Pubblici. Nel 1866 Ministro della Marina e poi delle Finanze. Dal 1867 al 1876 fu all’opposizione rispetto ai governi della Destra storica e nel 1873 divenne leader della Sinistra storica e il 25 marzo Presidente del Consiglio del primo Governo della Sinistra storica. Da allora fino al giorno della sua morte a Stradella (dove aveva pronunciato il famoso discorso sul «trasformismo»), fu a capo di 9 dicasteri, interrotti solo da 3 brevi ministeri.

Gira e mena, strizzati gli stracci, il succo della storia italiana è cambiato poco. Se penso che “il puzzone” dichiarò guerra alla Gran Bretagna…!

5987.- La vera storia di un criminale chiamato Cristoforo Colombo

Il regno del terrore di Colombo, descritto dal vescovo di Chiapas Bartolomé de Las Casas, è uno dei capitoli più oscuri della nostra storia.

Ritratto di mons. de Las Casa presso l’Archivio Generale delle Indie

Bartolomé de Las Casas Siviglia11 novembre …1474 o 1484 – Madrid17 luglio 1566) è stato un vescovo cattolico spagnolo impegnato nella difesa dei nativi americani. Viene altresì ricordato per aver inizialmente proposto a Carlo V l’importazione di schiavi neri per sostituire gli indigeni nei “laboriosi inferni delle miniere d’oro delle Antille”; tuttavia, ritrattò in seguito questa posizione, schierandosi al fianco degli africani schiavizzati nelle colonie. Fu anche il primo ecclesiastico a prendere gli ordini sacri nel Nuovo Mondo. I padri Domenicani della Curia Provinciale di Siviglia hanno aperto la causa della sua beatificazione nell’anno 2002, per cui la Chiesa cattolica gli ha assegnato il titolo di Servo di Dio.

Su suo impulso e grazie alla sua attività di denuncia del sistema di sfruttamento degli indios vennero compilate le “Leggi nuove” ratificate da Carlo V, con le quali venivano abolite le encomiendas, strutture organizzative agricole fondate su un sistema schiavisticofeudale, principale causa dello sfruttamento dei nativi.

Raggiunte nel 1502 le Indie (l’attuale America centrale) per curare gli interessi coloniali della famiglia, fu testimone delle vicende del quarto viaggio di Cristoforo Colombo, del quale lesse e trascrisse il “Giornale di bordo” relativo ai diversi viaggi da questi compiuti. Dopo essere stato encomendero, la lettura della Bibbia finì per metterlo in contrapposizione ai conquistadores, in difesa degli indios.

Celebri sono i dettagliati resoconti che egli diede delle vessazioni e delle atrocità compiute dai colonizzatori “cristiani” che agivano contro la lettera e lo spirito delle Leggi di Burgos.

Ordinato sacerdote nel 1507, entrò nel 1515 nell’ordine domenicano, che si era già schierato a favore dei diritti degli indigeni (ad esempio con la figura di Antonio Montesinos) e iniziò la sua instancabile battaglia a favore degli indios: condannò senza eccezioni il colonialismo e l’espansionismo degli europei, viaggiò nelle terre americane e attraversò molte volte l’oceano per portare in Spagna le sue proteste.

Nei suoi testi, Las Casas ci presenta una puntuale descrizione delle qualità fisiche, morali e intellettuali degli indios, finalizzata alla difesa dell’umanità degli abitanti del nuovo mondo, contro la tesi della loro irrazionalità e bestialità avanzata da altri suoi contemporanei, soprattutto di cultura umanista. Celebri sono i dettagliati resoconti che egli diede delle vessazioni e delle atrocità compiute dai colonizzatori “cristiani” che agivano contro la lettera e lo spirito delle Leggi di Burgos  (il cui presupposto erano alcune tesi del decretalista medievale Enrico da Susa).

«…Nell’Isola Spagnuola; la qual fu la prima, come dicessimo, dove entrarono Christiani, dando principio alle immense stragi, e distruttioni di queste genti; e la quale primamente distrussero, e disertarono; cominciando li Christiani à levar le mogli; e i figliuoli à gli Indiani per servirsene, usar male di essi; à mangiar le sostanze de i sudori, e delle fatiche loro; non contendandosi di quello, che gli Indiani davano loro spontaneamente, conforme alla facoltà, che ciascuno haveva, la quale è sempre poca; perché non sogliono tenere più di quello, che serve al bisogno loro ordinario, & che accumulano con poca fatica; & quello, che basta à tre case, di dieci persone l’una, per un mese, un Christiano se lo mangia, e lo distrugge in un giorno; ad usare molti altri sforzi, violenze, e vessationi; cominciarono gl’Indiani ad accorgersi, che quegli huomini non doveano esser venuti dal Cielo.»

(Da Istoria o Brevissima relatione della distruttione dell’Indie Occidentali conforme al suo vero originale spagnuolo già stampato in Siviglia di Bartolomeo dalle Case, o Casaus tradotta in italiano dall. eccell. sig. Giacomo Castellani già sotto nome di Francesco Bersabita)

Nessuna descrizione della foto disponibile.

Articolo di : Ruggero Marino, da FB

Il Regno del Terrore di Colombo, come documentato da noti storici, fu così sanguinoso, il suo lascito così indicibilmente crudele..

Perché tutt’oggi continuiamo ad onorare questo criminale? Perché a scuola e nei libri di storia viene presentato come un eroe?

STERMINI VOLUTAMENTE DIMENTICATI

Ma se ci pensate, l’intero concetto della scoperta dell’America è, beh, arrogante. Dopo tutto, i nativi americani scoprirono il Nord America circa 14.000 anni prima che Colombo nascesse!

Sorprendentemente, la prova del DNA suggerisce ora che i coraggiosi avventurieri Polinesiani navigarono con delle piroghe attraverso il Pacifico e si stabilirono in America del Sud molto prima dei Vichinghi. In secondo luogo, Colombo non era un’eroe. Quando mise piede sulla sabbia della spiaggia alle Bahamas il 12 Ottobre 1492, Cristoforo Colombo scoprì che le isole erano abitate da gente amichevole e pacifica che si chiamavano Lucayans, Taino e Arawak.

Scrivendo il suo diario, Colombo disse che erano un popolo affascinante, intelligente e gentile. Egli osservò che i gentili Arawak furono eccezionali nella loro ospitalità.

I NATIVI AMERICANI PACIFICI, SENZA PRIGIONI NE’ PRIGIONIERI !

”Essi si offrivano di condividere con chiunque e quando si chiedeva qualcosa non dicevano mai di no”, diceva. Gli Arawak non possedevano armi; la loro società non aveva ne prigioni, né criminali né prigionieri. Erano così di buon cuore che Colombo annotava nel suo diario che il giorno in cui la Santa Maria naufragò, gli Arawak lavorarono per ore per salvare il suo carico e il suo equipaggio.

I nativi furono così onesti che nessuna cosa sparì. Colombo fu così impressionato del duro lavoro di questi isolani gentili che confiscò immediatamente la loro terra per la Spagna e li ridusse in schiavitù per farli lavorare nelle sue brutali miniere d’oro. In soli due anni, 125.000 (la metà della popolazione), degli originali indigeni dell’isola erano morti.

Se fossi un nativo americano, vorrei segnare il 12 ottobre nel mio calendario come il giorno nero. Incredibilmente, Colombo supervisionò la vendita di ragazze native ridotte in schiavitù sessuale. Le ragazze giovani di 9 e 10 anni erano le più desiderate dagli uomini. Nel 1500 Colombo ne scrisse casualmente sul suo diario.

E disse:”Un centinaio di castellanoes sono così facilmente ottenuti per una donna come per una fattoria ed è assai universale che ci siano molti commercianti che vanno in giro in cerca di ragazze, adesso c’è la richiesta di quelle da nove a dieci anni.” Egli forzò questi pacifici nativi a lavorare nelle sue miniere d’oro fino a quando non morivano di sfinimento.

MASSACRI E VIOLENZE SENZA FINE !

Se un “Indiano” non consegnava l’intera sua quota di polvere d’oro alla scadenza data da Colombo, i soldati avrebbero tagliato le mani dell’uomo e gliele avrebbero annodate saldamente attorno al collo per divulgare il messaggio. La schiavitù era così insopportabile per questi dolci e gentili isolani che ad un certo punto 100 di loro commisero un suicidio di massa.

Nel suo secondo viaggio nel Nuovo Mondo, Colombo portò con sé cannoni e cani da attacco. Se un nativo resisteva alla schiavitù, gli si sarebbe tagliato via il naso o un orecchio. Se gli schiavi cercavano di scappare Colombo li bruciava vivi.

Altre volte mandava cani d’assalto a dar loro la caccia, e i cani strappavano via braccia e gambe dei nativi urlanti mentre essi erano ancora vivi. Se gli spagnoli si trovavano a corto di carne per nutrire i propri cani, venivano uccisi bambini Arawak e usati come cibo per cani.

Uno degli uomini di Colombo, Bartolome De Las Casas, fu così mortificato dalle brutali atrocità di Colombo contro i popoli nativi, che smise di lavorare per Colombo e diventò un sacerdote Cattolico. Egli descrisse come gli Spagnoli sotto il comando di Colombo “tagliavano le gambe dei bambini che correvano da loro, per testare l’affilatezza delle loro armi”.

STERMINI DI MASSA

In un sol giorno De Las Casas fu testimone oculare di come i soldati spagnoli smembrarono, decapitarono o violentarono 3000 persone native.”Tali disumanità e barbarie furono commesse ai miei occhi come nessun’altra età al confronto” scrisse De Las Casas. “I miei occhi hanno visto questi atti così estranei della natura umana che adesso Io tremo mentre scrivo.”

De Las Casas trascorse il resto della sua vita nel tentativo di proteggere il popolo nativo indifeso. Ma dopo un po non vi erano rimasti più nativi da proteggere. Gli esperti concordano sul fatto che prima del 1492 la popolazione dell’isola di Hispaniola probabilmente contava oltre 3 milioni di persone. Dopo 20 anni dall’arrivo degli spagnoli essa si ridusse a solo 60.000.

Nel 1516 lo storico spagnolo Peter Martyr scrisse:”…una nave senza ne bussola, ne carta o guida, ma solo seguendo la striscia degli indiani morti che erano gettati dalle navi, poteva trovare la strada dalle Bahamas a Hispaniola.”

A SCUOLA ERA UN EROE…

In realtà Colombo fu il primo mercante di schiavi delle Americhe. Quando gli schiavi indigeni morivano essi erano rimpiazzati con schiavi neri. Il figlio di Colombo diventò il primo trafficante di schivi africani nel 1505.

Ecco quello che a scuola NON TI INSEGNANO.

5602.- INTEGRAZIONE SENZA SACRIFICIO DELLA PROPRIA IDENTITÀ: L’INSEGNAMENTO DEL DIRITTO ROMANO

Roma integrò i popoli vinti dal suo esercito rispettandoli e ne fu rispettata. L’organizzazione dello Stato, repubblica o impero che fosse, la disciplina e le tattiche dell’esercito romano la fecero grande, ma, a fare Roma, fu, sopratutto, il diritto romano, che ancora e in parte sopravvive.

MAG 6, 2023Colosseo

Ricordo che ormai molti anni fa, frequentando all’Università Cattolica di Milano le prime lezioni di Storia del diritto romano, ebbi modo di udire, con un certo divertito sconcerto, il titolare del corso, il compianto prof. Giorgio Luraschi, allievo di un grande intellettuale cattolico come Gabrio Lombardi, pronunciare queste parole: “Ragazzi, il segreto del successo dei Romani sta nel fatto che essi nacquero bastardi”.

Corrisponde a verità. Roma venne fondata in un luogo di grande importanza strategica, dal punto di vista politico, militare ed economico: a metà strada fra nord e sud Italia, fra Etruria e Magna Grecia, in un punto, non distante dal mare, in cui il Tevere era più facile da guadare, data la presenza dell’isola Tiberina, e molto vicino ai famosi colli, dall’alto dei quali sarebbe stato più facile difendere i villaggi che vi stavano sorgendo, grazie all’apporto umano di genti diverse, di stirpe e provenienza varia, tutti attratti dalle opportunità che la posizione offriva. La città nasce insomma dal reciproco “federarsi”, ed accettarsi, di gruppi eterogenei, tra i quali i Latini appaiono dominanti quanto all’idioma, ma non necessariamente riguardo ad altro, essendo stato anzi, come noto, determinante il contributo sabino al consolidarsi dei riti religiosi e quello villanoviano, e poi etrusco, al consolidarsi degli usi militari e all’esercizio del potere.  

Ciò nonostante, relativamente presto affiora una prima discriminazione nei confronti di chi evidentemente viene considerato diverso: quella dei patrizi nei confronti dei plebei.

Molto hanno discusso gli studiosi circa il criterio in base al quale si era ascritti all’una o all’altra classe, il che equivale ad interrogarsi sulle origini della plebe: la risposta forse più ragionevole da dare è di tipo negativo, ossia che i plebei furono i non-patrizi, quelli non immediatamente integrati nella classe dirigente perché, con ogni probabilità, arrivati dopo, quando la civitas si era già data una sua prima struttura, di tipo anche cultuale. E proprio la religione fu, per qualche tempo, il principale ostacolo all’accesso dei plebei ai ruoli-chiave nella vita politica della comunità: esclusi dal sistema di culto ufficiale, avendo anzi essi divinità proprie (la triade Cerere – Libero – Libera, con tanto di tempio a parte collocato sull’Aventino), non potevano contrarre con i patrizi un matrimonio valido, da cui derivassero figli legittimi, e di conseguenza non erano autorizzati neppure a rivestire cariche pubbliche, per l’esercizio delle quali si richiedeva sempre il disbrigo di affari religiosi, come per esempio il trarre gli auspici. Ma l’integrazione della plebe all’interno del corpo cittadino – cui in precedenza si riteneva che non appartenesse, se non per gli svantaggi -, grazie alla progressiva, piena conquista dei diritti civili e politici ineluttabilmente avvenne col passare dei decenni, tanto che all’inizio del III secolo a.C. persino i più importanti sacerdozi non furono più prerogativa esclusiva del patriziato. In base ad un criterio rigorosamente meritocratico, le famiglie più onorate e facoltose emerse in seno alla plebe vennero ammesse all’interno della nuova élite, la nobilitas patrizio-plebea, che reggerà le sorti della repubblica fino praticamente alla fondazione dell’impero: ciò, a testimonianza del fatto che nell’antica Roma integrare culture differenti non comporta un sacrificio, un livellamento dei valori tradizionali, e se comunque di livellamento si tratta esso è un livellamento verso l’alto e non verso il basso.

Il problema del trattamento da riservare agli stranieri immigrati nello stato, o che entro i suoi confini venivano comunque a trovarsi, si pose in modo cruciale solo a partire dallo stesso III secolo, quando con l’apertura della civiltà romana al mondo, e con la trasformazione di Roma da potenza regionale a potenza mondiale, grandi masse cominciarono ad affluirvi da ogni parte del Mediterraneo. Particolare sensibilità i Romani immediatamente rivelarono sul piano della tutela giurisdizionale dei diritti, tanto che venne addirittura istituito un pretore ad hoc, che sovrintendesse sulle controversie in cui almeno una delle parti in causa era uno straniero. Ai c.d. peregrini non erano applicabili gli antichi istituti del diritto civile, ma certo sì istituti nuovi, che, sebbene spesso già noti alla prassi del commercio internazionale, tuttavia in Roma si consideravano meritevoli di protezione in quanto – questo è il dato importante – ritenuti fondati su di un antico valore tipicamente nazionale, la bona fides, il rispetto dell’accordo, della semplice parola data, cui la tradizione associava persino il culto di una divinità, la dea Fides. Insomma, siamo di fronte ad un processo in cui l’apertura, l’integrazione del nuovo avviene non a scapito dei valori del passato, ma anzi rafforzandoli, attribuendo ad essi, prima rilevanti sotto il profilo soltanto etico e religioso, una portata di tipo anche giuridico. 

Ad ogni modo, occorre distinguere fra il riconoscimento accordato ai diritti dei singoli e quello accordato ai culti estranei alle tradizioni nazionali. Quest’ultimi potevano essere integrati nel sistema romano a mezzo di una speciale procedura, che si concludeva con un pronunciamento del senato, previo parere favorevole di un collegio sacerdotale a ciò deputato, i decemviri sacris faciundis, custodi degli oracoli sibillini. Tutti gli altri culti erano ufficialmente inesistenti per il diritto, e la loro pratica poteva dirsi persino consentita, a patto che non violasse in alcun modo l’ordine pubblico. Non è un caso, allora, che uno dei rari episodi di cruda repressione, risalente ad un’epoca in cui dominava la scena il capo della fazione conservatrice, M. Porcio Catone detto il Censore, sia da imputarsi più alla sfera del diritto criminale che non a quella del diritto sacro: in un nostro precedente lavoro abbiamo cercato di dimostrare che la dura inchiesta del 186 a.C. contro i Baccanali – riti dionisiaci degenerati in forma orgiastica, violenta, notturna e segreta, diffusisi a macchia d’olio in Italia e nella stessa Roma – venne condotta secondo procedure e con finalità assolutamente laiche, dirette alla preservazione dell’ordine e della sicurezza sociale, e non per ragioni moralistiche o per intolleranza religiosa. Roma era disponibile ad accogliere, ed anzi ad assimilare a sé, il “diverso”, purché questo non si ponesse in grave contrasto con i valori su cui la civiltà romana edificava.

Ma proprio perché, nella sostanza, i Romani conquistavano altre genti, rivelando la capacità – che non è dato riscontrare nella storia di altre potenze imperiali – di rendere romano ciò che romano non era, molti dei popoli soggiogati o comunque alleati cominciarono a battersi perché tutto questo fosse riconosciuto anche nella forma. Di lì a poco si assiste ad un evento per certi versi paradossale nella storia della civiltà antica: all’inizio del I secolo a.C. gli stati italici federati a Roma si alleano fra di loro e le muovono guerra allo scopo di farsene definitivamente assorbire, ottenendo così la cittadinanza romana per tutti i propri abitanti. Certo, l’intento era anche quello di garantirsi pari condizioni, nella spartizione dei bottini di guerra, o nella facoltà di avvalersi di talune garanzie (come la provocatio ad populum contro i soprusi dei magistrati), o in altro ancora; ma non vi è dubbio che così facendo si rinunciava alla propria organizzazione politica, ai propri usi e costumi per adeguarsi agli schemi romani, nel campo tanto del diritto pubblico quanto del diritto privato. La concessione selettiva, ma progressiva della civitas, della cittadinanza romana: questa sarebbe stata la vera questione, nei tempi a venire.         

La personalità di Giulio Cesare appare, sotto questo profilo, molto avanti con i tempi, forse fin troppo: nutrendo un profondo disprezzo verso l’oligarchia senatoriale, e verso i valori che essa incarnava (da lui considerati pretesto per la preservazione di inutili, e quasi “campanilistici”, privilegi di casta), egli concesse la cittadinanza ai Galli Cisalpini, la condizione intermedia della latinità a diversi altri popoli, e certo avrebbe inesorabilmente proseguito su questa strada, esercitando i suoi poteri di dittatore a vita, se i tragici avvenimenti delle Idi di marzo non glielo avessero per sempre impedito. Gli imperatori perseguiranno una politica forse più avveduta, di concessione graduale e mirata della cittadinanza, vuoi a beneficio di singole personalità (lo stesso San Paolo, nativo di Tarso, era civis Romanus, e in quanto tale poté esercitare il suo diritto d’appello a Cesare, come risulta dagli Atti degli Apostoli), vuoi a beneficio di intere comunità. Intanto il processo di romanizzazione delle province, dislocate nelle varie parti dell’impero, si intensificava sempre più, in un’epoca, quella del c.d. principato, che vide ovunque diffondersi, fin verso la metà del III secolo d.C., prosperità, pace, nonché libertà religiosa, da intendersi nel senso del sincretismo politeista. L’imperatore Adriano, spagnolo completamente romanizzato, intellettuale, instancabile viaggiatore, è forse il primo a rendersi conto di regnare ormai su di un impero anche culturalmente universale, su di un’‘ecumene’ greco-romana, unita da valori accomunanti. Ma perché tutti gli abitanti dell’orbe romano potessero acquistare gli stessi identici diritti bisognerà aspettare ancora settantaquattro anni dalla morte di Adriano, allorché l’imperatore Caracalla, con il suo famoso editto del 212 d.C., concesse la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero.   

La grave crisi della metà del III secolo è anche crisi di valori, quelli civili e politici che avevano fatto grande la res publica Romana, crisi del paganesimo e delle credenze tradizionali. Una civiltà non può sopravvivere senza punti di riferimento, né sarebbe sopravvissuto l’impero romano se, alla fine di quel secolo, e all’inizio di quello successivo, dopo cinquant’anni di tremenda anarchia, non si fossero verificati fatti nuovi. Sia Diocleziano che Costantino, entrambi grandi imperatori, avevano obiettivi puramente politici, di pieno ripristino della solidità dell’impero: il primo si illude di sopperire al vuoto dei valori, alla mancanza di coesione etico-sociale che si era creata, restaurando a forza il paganesimo, incentrandolo sul culto dell’imperatore dominus et deus, e perseguitando i cristiani per il solo motivo – assolutamente laico e ispirato a scopi di ragion di stato – che essi rifiutavano di offrirgli pubblici sacrifici; il secondo, Costantino, intuisce che i cristiani rappresentavano ormai la parte più sana della società, l’unica che fosse in grado di fornire personale serio ed onesto, per esempio, all’amministrazione, e consente loro di professare liberamente il proprio culto – ché il celebre editto di Milano, nel “depenalizzare” la religione cristiana, ora collegium licitum, più generalmente sanciva il principio della libertà religiosa -, certo nella sostanza molto anche avvantaggiandoli (in maniera non certo disinteressata, essendo Costantino un uomo di potere, che aveva come fine principale il mantenimento dello stesso).   

L’impero romano sarebbe presto divenuto un impero cristiano: il cristianesimo sarebbe diventato la religione “ufficiale” dello stato a partire dal 380. Molto si è discusso in merito alla questione se i cristiani abbiano poi a loro volta rispettato o meno la libertà religiosa e le altre principali libertà civili: in proposito, vorremmo solo ricordare che gli imperatori non perseguitarono culti come quello pagano od ebraico (diversamente si comportarono, bisogna ammetterlo, verso le eresie, ma qui le ragioni erano ancora una volta politiche), né per esempio conculcarono, praticamente mai, del tutto la libertà di divorziare, tradizionalmente ammessa dal diritto romano. La realtà è che, come giustamente sostenne La Pira, la Chiesa, detta per questo “cattolica”, aveva fatto propria quella missione di universalità della civiltà, della cultura, delle leggi, cui l’impero aveva fino ad allora  provvidenzialmente assolto, e che alla Chiesa si dovette la sopravvivenza stessa del mondo occidentale, quando l’impero crollò. Forse su questo, in verità, dovrebbe riflettere meglio chi ha voluto negare che l’Europa abbia mai avuto“radici cristiane”.

Lorenzo Franchini 
Ordinario di Diritto romano nell’Universita Europea di Roma

5281.- Un’altra epica impresa del Vespucci: la risalita a vela del Tamigi durante la crociera del 1968

Un’altra epica impresa del Vespucci: la risalita a vela del Tamigi durante la crociera del 1968

Pubblicato da alessandro il 14 feb 2021 in Blog-GenesiLa grande epopea della vela.

La Crociera del Corso ANTARES

Nella crociera estiva del 1968 a comandare il Vespucci era il C.V. Ugo Foschini, un velista che era già noto al tempo per essere stato comandante del Corsaro II, con il quale, tre anni prima aveva vinto la regata  d’altura Lisbona-Bermuda.

La nave , partita da Livorno il sabato 20 Luglio per la sua crociera con gli allievi della prima classe, ha in programma di toccare i seguenti porti: Tangeri, Dublino, Goteborg, Londra, Lisbona (1), Algeri, Tunisi, Portoferraio, Livorno.

Il racconto dettagliato di questa bella crociera è reperibile sul sito del corso Antares, (2) , nello stesso sito sono stati caricate foto e brevi filmati  girati sulle tappe salienti, e i momenti più importanti della crociera le manovre della nave, la vita dei porti visitati, le varie esercitazioni con le lance, sia a vela, sia a remi cercando di trainare la nave in bonaccia.

Mattino del 10/09/1968

Per documentare il momento più importante della crociera, cioè la risalita del Tamigi a Vela, ho recuperato tre importanti testimonianze: quella del Comandante Foschini che racconta l’episodio a distanza di anni ad un suo amico, Quella dell’Ufficiale di Guardia in plancia che seguì tutta la manovra, e quella di due cadetti , che raccontano  la vicenda dal loro  punto di vista; poi ci sono i racconti della stampa, che fecero da cassa di risonanza all’impresa.

Il racconto del Comandante CV Ugo Foschini

Disse il Comandante che: ” la decisione di issare le vele fu improvvisamente presa sulla plancia di comando del Vespucci dove, come era naturale che avvenisse  (data la simpatica indole di Foschini, commentiamo noi)  si chiacchierava allegramente con il Pilota portuale inglese regolarmente imbarcato per la navigazione sul Tamigi. Si parlava della navigazione a vela e fu per entrambi una spontanea intuizione, vedendo la favorevole direzione del vento, di issare le vele ed offrire lo stupendo spettacolo  del quale ancora oggi a quanto pare se ne parla”. (3)

L’ammiraglio Foschini è scomparso nel 2012 e la stampa lo aveva ricordato, anche per questa impresa con le sue parole:

“Avevamo un bel vento di poppa – spiegò all’epoca Foschini – così esclusi l’idea dei motori e feci tirare su le vele, lasciando ammainate quelle basse per permettermi di vedere meglio davanti, e feci anche posizionare le ancore in maniera da calarle subito in caso di necessità di arresto.

Ovviamente, resomi conto del successo della manovra e della folla sulle rive, feci issare il tricolore più grande che avevamo a bordo”.

L’Amerigo Vespucci’, risalì e ridiscese a vela il Tamigi fino a Londra mandando in visibilio i londinesi e regalando loro uno spettacolo che non si vedeva dai tempi di Nelson. “Quel comandante o è un pazzo, o è un grande marinaio”, titolarono i giornali inglesi che, ovviamente, optarono entusiasticamente per la seconda ipotesi.

“Fumo di Londra” il Vespucci nella Swinging London degli anni ’60, risale il Tamigi a Vela . Acquerello DI SANDRO FERUGLIO – Pittore di Marina cm. 26×36

La testimonianza dell’Ufficiale di  rotta , di guardia in plancia Giorgio de Strobel di Campocigno

In quell’anno il TV TLC Giorgio de Strobel di Campocigno era Ufficiale di rotta del Vespucci, anche lui si era fatto le ossa sul CorsaroII nella crociera del 1962, che sotto il comando del CF Macchiavelli e TV Basile aveva vinto la regata d’altura Newport-Bermude . Racconta:

“L’imbarco sul Vespucci è stato forse il più bello della mia vita. il c.te Foschini era uomo eccezionale , quando dava la sua fiducia a qualcuno essa era totale. Dopo il primo periodo di valutazione il C.te mi nominava di fatto Ufficiale di manovra ed in tale veste mi trovavo in plancia quel giorno, avevamo imbarcato il pilota un CF della R.N. e l’addetto navale. Issate le vele , con un leggero vento di poppa ci siamo affacciati nel Tamigi. Il Comandante era occupato con  l’Addetto Navale ed io mi ritrovai a tu per tu con il pilota, che mi dava le indicazioni di rotta che io modificavo man mano in funzione delle caratteristiche evolutive del Vespucci. Ero consapevole della responsabilità della manovra e me la cavai in modo ottimo tanto che all’arrivo dis Greenwich, al ricevimento della R.N.venivo chiamato in un gruppo di ufficiali dove il Pilota mi presentava come quel matto che aveva guidato il Vespucci a vela. Ancora oggi a tanti anni di distanza ricordo quel giorno e ringrazio l’Ammiraglio Ugo Foschini per avermene dato l’occasione”.

Il racconto di Roberto Visco, all’epoca cadetto del primo anno, nel suo diario pubblicato sul sito del Corso Antares:

10 settembre 1968 ( riporto alcuni stralci del dettagliato diario pubblicato sul sito)

“Siamo alla fonda in prossimità della costa presso il Foulness, a circa 15 miglia dall’imboccatura del grande fiume.

La marea è quasi in stanca, fra non molto, quando avrà raggiunto il minimo riprenderà a salire generando così la corrente ascendente verso Londra.

Per risalire il Tamigi ci sono delle regole stringenti da seguire.

I fondali sono riportati sulle carte, ma essi sono riferiti all’ultima rilevazione, dobbiamo tenere presente che ci troviamo alla foce di un fiume e che è quindi buona norma tenere l’ecoscandaglio in funzione.

La bandiera golf è a riva, poi quando imbarcato il pilota si issa la bandiera hotel.

Lasciamo l’ancoraggio alle 08,00

Dirigiamo per imboccare il canale. Sono in sala nautica, gli allievi hanno il compito di seguire la navigazione riconoscendo e smarcando sulla carta nautica le boe che s’incontrano. Le uniche difficoltà sono da attribuire esclusivamente alla densa e persistente foschia, quasi una nebbia.

Ecco il Tamigi, il fiume più importante della Gran Bretagna. La larghezza delle sue rive al London Bridge (in città) è di 240 metri che salgono a 450 a Woolwich ed a 1.300 a Gravesend, nei pressi dell’estuario.

Il fiume è navigabile con facilità fino a 15 miglia oltre il Tower Bridge, tenendo comunque in debito conto le maree in quanto lo stesso è attraversato da 27 ponti fissi.

Si cambia il pilota e si continua a risalire il fiume.

Viene chiamato il posto di manovra generale alla vela ed iniziamo così un’epica avventura: risalire il Tamigi a vele spiegate.

La corrente di marea è ora decisamente in entrata (2,5 nodi) e ci aiuta nella nostra navigazione anche se è necessario manovrare le vele in continuazione a causa delle numerose anse che il fiume presenta anche se il vento spira sempre dai settori poppieri.

Consapevoli dell’importanza dell’evento non si bada alla fatica che questa prolungata manovra procura.

Passiamo dalle chiuse, che vengono azionate in casi di maree eccezionali, e continuiamo la nostra navigazione alla volta di Greenwich, il posto che ci hanno assegnato come ormeggio.

Sulle sponde del fiume si notano gli ingressi ai “docks”, utilizzati dalle navi mercantili per i loro traffici.

Greenwich si trova a longitudine 0°00’ ed il meridiano corrispondente prende appunto il nome dal quartiere londinese.Il precitato meridiano passa attraverso l’Old Royal Obsevatory, che è elevato di 44 m.slm, nel più alto sito di Grenwich Park.

Greenwich, situato sulla sponda sud del fiume, ospita numerose infrastrutture della Royal Navy. Fra queste quella di maggior importanza è il Royal Naval College, strutturato su quattro costruzioni aperte su un’ampia piazza e situate nelle vicinanze del molo sul fiume. Poi abbiamo il National Maritime Museum, dove sono raccolte numerose epiche pagine della Marineria Inglese, fra cui tutte le scoperte del famoso Capitan Cook, l’esploratore del Pacifico.

Alle 1530Z s’imbrogliano tutte le vele e ammainiamo fiocchi e stralli. Si sale a riva, si serrano le vele e si rimane lassù per rendere gli onori, con il saluto alla voce, al Royal Naval College che ormai appare in lontananza.

Ecco il College, siamo a longitudine 0°00’,  proseguiamo di alcune centinaia di metri, si viene girati da due rimorchiatori e ci ormeggiamo tra due boe di fianco al canale dragato sul fiume. Siamo ormeggiati in longitudine 0°02’.0 W. Il centro della città dista circa otto chilometri.” Sono le 16,00. La navigazione sul grande fiume è durata 8 ore!

Raggiunto l’ormeggio l’equipaggio serra le vele, tributando un saluto al Royal Naval Gollege ( foto dal sito del corso Antares)

Racconta Antonello Gamaleri, cadetto della prima classe addetto alle gabbie di maestra, in un articolo sulla rivista “Marinai d’Italia”

Il comandante Foschini voleva entrare a vela e voleva fare anche il saluto alla voce sui pennoni. Entrammo a vela dalla foce del Tamigi. Così poi alla fine andammo a riva per serrare le vele prima dell’ansa di East India Basin Dock. Arrivammo all’ormeggio a Greenwich Pier davanti al Naval College con tutta la gente a riva. Un quasi saluto alla voce. Nelle ultime anse eravamo già a riva e le gabbie ancora portavano un po’ con già il motore in funzione. Le gabbie ancora non imbrogliate in qualche tratto andarono a collo, ma lontano dalla vista dei giornalisti e il pezzo sul Times della risalita a vela del Tamigi uscì il giorno dopo, 11 settembre del 1968. Non sono più riuscito a ritrovarlo.(5)

 Gli echi sulla stampa (6)

La crociera prosegue

Il 18 Settembre 1968, la nave riparte da Londra , riscendendo il fiume  con la stessa modalità con cui lo aveva risalito: cioè a vela. Anche in questo caso ci viene in aiuto il diario di Roberto Visco:

“Ultimi preparativi ed ecco infine i due rimorchiatori che si vincolano rispettivamente a prora ed a poppa. Alle 0800Z, mollati gli ormeggi,i rimorchiatori iniziano a vogare spostando il Vespucci verso il centro del fiume, raggiunto il quale vengono lasciati liberi.

Scendiamo il fiume con la marea a favore.“Posto di manovra generale alla vela” Subito saliamo a riva per rendere gli onori, con il saluto alla voce, al Royal Naval College. In piedi sui pennoni salutiamo Greenwich che si allontana. Si mollano e si bordano le vele e passiamo la mattinata a ridiscendere il grande fiume.

5137.- Dostoevskij sull’Italia

Fëdor Michajlovič Dostoevskij, scrittore e filosofo, è considerato, insieme a Tolstoj, uno dei più grandi romanzieri e pensatori russi di tutti i tempi.

Le opere che lo hanno reso maggiormente famoso sono Memorie dal sottosuoloDelitto e castigoL’idiotaI demoni e I fratelli Karamazov, e viene considerato un esponente dell’esistenzialismo e dello psicologismo. Egli fu un uomo e un intellettuale spesso contraddittorio. Identificato dapprima come voce della corrente nichilistapopulista, Dostoevskij capeggiò poi le file degli intellettuali russi più conservatori di fine Ottocento. Nelle Memorie dalla casa dei morti (1859-1862) fanno capolino i grandi valori della tolleranza religiosa, della libertà dalle prigionie materiali e morali, della indulgenza verso i malfattori, cioè verso coloro che, pur essendosi macchiati di crimini contro la legge, sono in definitiva solamente persone più sfortunate e più infelici, e quindi più amate da Dio, che vuole la salvezza del peccatore e non la sua condanna. Tutto è dunque proiettato verso “la libertà, una nuova vita, la resurrezione dei morti…

Proprio nell’Italia, che amava, nell’inverno del 1868, Dostoevskij ultimò il suo romanzo L’idiota. Roma, Napoli, Torino, Firenze e Milano sono le città del suo itinerario italiano.


Da VENETI nel tempo,  Antonella Todesco  

«Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale».

«I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano».

«La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno dì second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, (…) un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unita mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!».

Fëdor Michajlovič Dostoevskij

4932.- Good bye Lenin, Putin piccona il mito della Rivoluzione: «Colpa sua se l’Ucraina ci tradisce»

Il punto sulla storia politica dell’Ucraina di Valerio Falerni aiuta a comprendere molte radici dell’antagonismo in campo. L’invasione della Crimea fece il resto. Tuttavia, siamo del parere che la pressione della NATO sui confini della Federazione russa abbia accentuato il suo bisogno sia di sicurezza e sia di una sfera d’influenza.

Un pò di storia da Il Secolo d’Italia di mercoledì 23 Febbraio – di Valerio Falerni

Lenin

“Maledetti bolscevichi. Soprattutto, maledetto Lenin“. Vladimir Putin non ha usato proprio queste parole, ma il senso è quello. Leggere, per credere, la traduzione del suo discorso ufficiale alla nazione russa sulla crisi con l’Ucraina pubblicata dal Foglio. Una lunga dissertazione storico-politica sulle cause che hanno portato il governo di Kiev a guardare verso Occidente anziché verso Oriente. Tutta colpa – spiega Putin – di Vladimir Ilic Ulianov, detto Lenin. Fu lui, nel 1922, a conferire alla nascente Unione Sovietica l’aspetto di una confederazione di repubbliche mentre Stalin optava, invece, per un compiuto federalismo che trasferisse ad un governo centrale quote cospicue di sovranità dei vecchi Stati.

«Il governo di Kiev imita stupidamente l’Occidente»

Che nasce, come entità statuale – è sempre la tesi di Putin -, solo grazie agli errori del Cremlino comunista e sempre nella scia dell’abbaglio primordiale di Lenin. All’indomani del secondo conflitto mondiale, infatti, Stalin trasferisce all’Ucraina «terre che appartenevano a PoloniaRomania e Ungheria». Tra gli anni ’50 e ’60, invece, Krusciov le regalò la Crimea, togliendola alla stessa Russia. «L’Ucraina sovietica – sostiene Putin – è il risultato della politica dei bolscevichi e può essere giustamente chiamata “l’Ucraina di Lenin». Il resto vien da sé: «L’Ucraina non ha mai avuto tradizioni stabili di vera statualità e quindi ha optato per emulare stupidamente modelli stranieri, che non hanno alcuna relazione con la storia o le realtà ucraine». Appunto, maledetti bolscevichi!

Maledetti bolscevichi. Soprattutto, maledetto Lenin“. Vladimir Putin non ha usato proprio queste parole, ma il senso è quello. Leggere, per credere, la traduzione del suo discorso ufficiale alla nazione russa sulla crisi con l’Ucraina pubblicata dal Foglio. Una lunga dissertazione storico-politica sulle cause che hanno portato il governo di Kiev a guardare verso Occidente anziché verso Oriente. Tutta colpa – spiega Putin – di Vladimir Ilic Ulianov, detto Lenin. Fu lui, nel 1922, a conferire alla nascente Unione Sovietica l’aspetto di una confederazione di repubbliche mentre Stalin optava, invece, per un compiuto federalismo che trasferisse ad un governo centrale quote cospicue di sovranità dei vecchi Stati.

«Lenin aiutò i nazionalismi»

Lo scivolamento dell’Ucraina dalle mani della Grande Madre Russia, cui era legata sin dal XVII secolo comincia proprio così. La tesi di Lenin – sostiene l’attuale capo del Cremlino – era solo in apparenza più “democratica” e rispettosa dei vari nazionalismi. In realtà, si rivelò presto un processo incompiuto, soprattutto alla luce delle spinte livellatrici insite nella Rivoluzione d’Ottobre. Putin, infatti, “spiega” la dittatura di Stalin con la necessità di pianificare e centralizzare l’economia, obiettivo che il modello confederativo non gli consentiva. Ne derivò la feroce e disumana deriva totalitaria che ha contribuito ad accrescere il sentimento anti-russo delle repubbliche sovieticheposte ad ovest di Mosca, soprattutto l’Ucraina.

«Il governo di Kiev imita stupidamente l’Occidente»

Che nasce, come entità statuale – è sempre la tesi di Putin -, solo grazie agli errori del Cremlino comunista e sempre nella scia dell’abbaglio primordiale di Lenin. All’indomani del secondo conflitto mondiale, infatti, Stalin trasferisce all’Ucraina «terre che appartenevano a PoloniaRomania e Ungheria». Tra gli anni ’50 e ’60, invece, Krusciov le regalò la Crimea, togliendola alla stessa Russia. «L’Ucraina sovietica – sostiene Putin – è il risultato della politica dei bolscevichi e può essere giustamente chiamata “l’Ucraina di Lenin». Il resto vien da sé: «L’Ucraina non ha mai avuto tradizioni stabili di vera statualità e quindi ha optato per emulare stupidamente modelli stranieri, che non hanno alcuna relazione con la storia o le realtà ucraine». Appunto, maledetti bolscevichi!

4916.- Le imprese statunitensi che finanziarono Hitler

La russofobia della politica statunitense è di lunga data. Nel 1940, Roosevelt, con un embargo sul commercio, avrebbe potuto impedire il sostegno americano alla mobilità dell’esercito nazista e alla fabbricazione dei bombardieri della Luftwaffe, ma non lo fece. Utilizzò invece gli industriali e i banchieri statunitensi per sviluppare e consolidare i rapporti diplomatici tra gli Stati Uniti America e la Germania nazista, in modo da potenziare quanto più possibile la macchina bellica tedesca al fine di renderla in grado di aggredire e invadere prima o poi l’Unione Sovietica.

Quando ci chiediamo il perché, ricordiamo che la finanza mondiale, un club esclusivo di poche migliaia di persone (non elette democraticamente), che indirizza le banche centrali, decide i destini di interi popoli, dei mercati finanziari; decide sulla politica e sugli Stati. A loro, la domanda.

La Opel nei primi anni di guerra fornì all’esercito tedesco più di centomila mezzi militari.

Postato da: Luca D’Agostini il: 31 maggio 2020

Una delle più importanti pagine di storia del XX secolo non raccontate nei libri di scuola occidentali, è quella che tratta i rapporti tra i grandi gruppi industriali statunitensi e la Germania nazista. Essenzialmente sono due i motivi per cui si omette di affrontare questa parte fondamentale di storia. Primo motivo consiste nel fatto che furono la finanza e le grandi aziende statunitensi a consentire alla Germania di risollevarsi dalla crisi socio-economica in cui versava per via delle condizioni capestro inflitte alla Germania alla fine della Prima Guerra Mondiale mediante il Trattato di Versailles. Il secondo motivo consiste nel fatto che fu proprio il sostegno economico e finanziario statunitense a consentire ad Hitler di armarsi, e che addirittura quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, le grandi imprese statunitensi continuarono a fare affari con la Germania nazista tanto da consentirgli di poter mantenere il suo apparato bellico. Ciò è confermato anche dalle parole del presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt, il quale in un discorso effettuato a Washington nel novembre del 1941 affermò: “L’andamento complessivo della nostra grande produzione industriale, non deve essere ostacolato dal comportamento egoista, di un pericoloso gruppo di imprenditori che pensano soltanto a realizzare eccezionali profitti. Costoro continuano a curare i propri affari come se niente fosse

Nel 1941 in Germania prosperavano ancora 553 aziende statunitensi, tra le quali Standard Oli, General Motors, Ford, IBM, Kodak, Coca Cola. Queste società mantenevano intensi rapporti commerciali con i nazisti, mentre i dirigenti dei quattro grandi colossi statunitensi (Standard Oil, General Motors, Ford, IBM) e delle relative affiliate tedesche potevano essere considerati addirittura amici di Hitler. Senza di essi infatti, il Führer non avrebbe potuto fare la sua guerra.

Standard Oil

Negli anni Trenta, la Standard Oil era il più grande gigante petrolifero degli Stati Uniti. Il potente gruppo che diventerà la “Esso”, portò avanti la sua politica economica in tutto il mondo senza distinguere tra regimi democratici e dittature. Il suo obiettivo consisteva nel creare un monopolio. La compagnia petrolifera Standard Oil faceva parte dell’impero Rockefeller e la sua sede centrale era a New York.

Il presidente della Standard Oil era il manager Walter Clark Teagle.

Walter Clark Teagle

Teagle contribuì in maniera determinante allo sviluppo industriale della Germania nazista, sia prima che durante la Seconda Guerra Mondiale, anche attraverso il suo coinvolgimento con la società chimica tedesca IG Farben. A guidare il gruppo chimico tedesco concorrente della Standard Oil, c’era un altro dirigente spregiudicato, Hermann Schmitz. IG Farben aveva messo a punto un procedimento per creare la benzina sintetica, in modo tale che in caso di carenza di petrolio, il titolare del brevetto sarebbe diventato il padrone del mercato mondiale. Ma nel 1938 la Germania era ancora costretta ad importare l’80% del proprio fabbisogno di greggio.

Hitler voleva la guerra, ma per motivi strategici necessitava a qualunque costo della benzina sintetica. Era cosciente che in caso di conflitto la Germania si sarebbe vista chiudere gli approvvigionamenti petroliferi. Era stata progettata la costruzione di un oleodotto, poi la creazione di una flotta di petroliere, ma tutte queste idee erano state bloccate sul nascere da Hitler che invece aveva un piano molto chiaro, la Germania doveva vincere unicamente con l’autarchia.

Dal discorso di Hermann Göring, tenuto a Berlino nell’agosto del 1936: “Sapevamo di non avere carburante ed abbiamo costruito le fabbriche che dovevano fornirci il carburante, sapevamo che non potevamo procurarci il caucciù ed abbiamo costruito le fabbriche di caucciù, gli americani pensavano di avere il monopolio, ma la scienza tedesca ha spezzato questi monopoli e oggi siamo in possesso di tutti i mezzi necessari per sconfiggere il nemico“. Chi era Hermann Göring? Occorre ricordare che con il titolo di Maresciallo del Reich, era il numero due del regime nazista. Inoltre era anche il capo della Luftwaffe (aviazione militare tedesca) e questa carica gli forniva già di per sé un importante ruolo economico, ma ad aumentare il suo peso contribuì ulteriormente la nomina avvenuta alla fine del 1936 a Responsabile del Piano Quadriennale Economico della Germania. Altresì Göring vantava una fitta rete internazionale di pubbliche relazioni con personaggi di alto spessore economico.

Ma il potente comandante della Luftwaffe sottovalutò un elemento fondamentale: il piombo tetraetile. Si tratta di un additivo per benzina, senza il quale i motori supercompressi dell’aviazione militare tedesca non potevano decollare, e Hitler aveva necessità di una Luftwaffe pronta ed efficiente per realizzare i suoi piani di conquista a Est. Fu così che Göring invitò i dirigenti della IG Farben a mettersi in contatto con gli amici statunitensi. La Standard Oil infatti, era la prima produttrice al mondo di piombo tetraetile. I tedeschi avevano bisogno del know-how di Standard Oil per la costosa produzione del nuovo carburante sintetico. L’accordo tra Standard Oil e IG Farben fu realizzato in breve tempo. Walter Clark Teagle ed Hermann Schmitz realizzarono in breve tempo la costruzione in Germania di due impianti per la produzione di piombo tetraetile.

Ma nel luglio del 1938, la produzione era ancora insufficiente. Un approvvigionamento rapido e diretto avrebbe potuto mettere al sicuro da pericolosi imprevisti. La filiale della Standard Oil a Londra consegnò immediatamente ai nazisti l’antidetonante per un valore di 20 milioni di dollari. In quel momento Hitler era in grado di procedere all’annessione dei Sudeti e preparare l’attacco alla Cecoslovacchia.

Poco prima dell’invasione della Polonia, la filiale britannica della Standard Oil consegnò altro piombo tetraetile per un valore di 15 milioni di dollari. Durante la Battaglia d’Inghilterra, i primi bombardamenti aerei su Londra furono possibili proprio grazie alla disponibilità e all’utilizzo di questo composto chimico.

Per la sua guerra Hitler aveva estrema necessità di petrolio, ma in Germania la produzione del combustibile sintetico copriva appena la metà del fabbisogno. Ancora una volta era necessario ricorrere all’aiuto degli amici industriali negli Stati Uniti.

Standard Oil possedeva quasi la metà dei diritti sui giacimenti petroliferi rumeni di Ploiești, la fonte di greggio più importante in quegli anni per la Germania. Nell’archivio militare di Friburgo sono raccolte lettere e documenti che testimoniano che i nazisti avevano urgente bisogno di bright stock, l’olio pesante. Solo gli Stati Uniti erano in grado di rifornirli di questo materiale determinante per la realizzazione della guerra di Hitler ed anche durante tutta la guerra le imprese statunitensi fornirono bright stock alla Germania in quantità sufficiente per soddisfare le proprie esigenze belliche. Il bright stock è un derivato molto pregiato del petrolio, che tra l’altro veniva usato per alimentare i motori dei carri armati.

Il Terzo Reich dunque continuava ad avere bisogno della benzina e del gasolio degli Stati Uniti. Le navi degli amici statunitensi di Hitler nascondevano il petrolio nel Mar dei Caraibi e di norma le petroliere che li trasportavano battevano bandiera panamense. Ma nell’Oceano Atlantico stazionavano le navi da guerra britanniche che cercavano mediante il blocco navale di tagliare i rifornimenti petroliferi destinati a Hitler.

Il comandante supremo della marina militare tedesca, l’ammiraglio Karl Dönitz, riuscì ad ottenere un finanziamento di 500 mila dollari. Il diesel era un carburante molto costoso e Hitler voleva dominare l’Atlantico con i suoi sommergibili. Le consegne del diesel avvenivano mediante l’aiuto di industriali statunitensi della Standard Oil e soprattutto della Texaco di Torkild Rieber, un manager di origine norvegese fidato amico di Hitler. Rieber aveva anche rapporti con i servizi segreti tedeschi e sul suo conto gli informatori del Reich stilarono giudizi lusinghieri, tanto che fu definito “un vero sostenitore della Germania e sincero ammiratore di Hitler“.

Torkild Rieber

Passando per Tenerife e altri porti spagnoli, le petroliere consegnavano il petrolio destinato ai tedeschi che in questo modo eludevano il blocco navale degli inglesi. Le navi cisterna rifornivano i sommergibili tedeschi direttamente in mare, davanti alle coste spagnole.

Il 7 dicembre 1941, con un attacco aereo alla base militare di Pearl Harbor il Giappone allargò la guerra nel Pacifico e interruppe i collegamenti tra gli Stati Uniti e la Malaysia, il principale fornitore di caucciù dell’esercito statunitense. Ma le due società, Standard Oil e IG Farben si erano accordate per mantenere relazioni d’affari anche nel caso di un coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto. I dirigenti di Standard Oil e IG Farben stipularono un patto segreto. La IG Farben voleva impedire la confisca dei suoi brevetti nei paesi nemici e per questo intendeva metterli nelle mani fidate del gruppo statunitense. I chimici tedeschi avevano già realizzato la buna, una gomma sintetica ottenuta da carbone e calcio. Oltre che a Hitler, questi brevetti facevano gola anche alla Standard Oil, che fiutava la possibilità di assicurarsi un mercato redditizio anche negli Stati Uniti. Nel contratto di cessione del brevetto della buna (gomma sintetica), la Standard Oil su disposizione del Ministero dell’Economia del Reich, si impegnava ad utilizzare il brevetto solo previa autorizzazione tedesca. Malgrado la crisi della gomma, Standard Oil tenne fede all’accordo stipulato con i tedeschi. Il procedimento per la produzione della buna non doveva finire nelle mani di industrie concorrenti come la Goodyear.

Il potente senatore Bernard Baruch, incaricato di un’indagine dal presidente Roosevelt, nel gennaio del 1942 si rivolse così durante un discorso alla nazione: “Siamo del parere che l’attuale crisi possa aggravarsi a tal punto che in assenza di provvedimenti immediati, il Paese rischia il tracollo militare e sociale“.

Dopo Pearl Harbor, la Standard Oil e le sue affiliate continuarono a fornire benzina i nazisti. Nel frattempo negli Stati Uniti, il governo fu costretto a prendere provvedimenti per razionare la benzina.

Molti cittadini statunitensi, fra cui anche alcuni membri del Congresso, diedero la colpa alle compagnie petrolifere che continuavano a rifornire i nazisti e non consegnavano i brevetti del caucciù. Il senatore Harry Truman, futuro Presidente degli Stati Uniti, costretto dall’opinione pubblica ordinò un’inchiesta del Senato sulla situazione della difesa nazionale. Lo affiancò Thurman Arnold, esperto finanziario del Ministero della Giustizia. Dall’inizio della guerra, Standard Oil e potenti dirigenti come Teagle, erano controllati da Arnold e dai suoi collaboratori. In una precedente indagine avevano già tentato di infliggere al gruppo una sanzione amministrativa di 50 mila dollari per aver avuto rapporti d’affari con il nemico. Ma visto il ruolo fondamentale ricoperto da Standard Oil per gli Stati Uniti in guerra, il colosso del petrolio e il suo potente manager erano riusciti ad ottenere una riduzione della multa a mille dollari. Durante l’audizione al Senato, Thurman Arnold accusò Standard Oil che si rifiutava di consegnare il brevetto di caucciù, di complotto reiterato a favore dei nazisti. Successivamente, in una conferenza stampa,  Thurman Arnold usò persino la parola “tradimento“.

Il congresso deliberò che i brevetti della buna venissero liberalizzati in tutti gli Stati Uniti. Il potere di Walter Clark Teagle era finito. Il top manager si dimise dai vertici del gruppo.

General Motors

All’inizio degli anni Trenta, la Opel, affiliata del gruppo statunitense General Motors, intraprese la costruzione di automezzi militari pesanti.

Nella primavera del 1935 a Brandeburgo, con la collaborazione della Wehrmacht, furono attrezzate nuove officine per mezzi pesanti. I manager della Opel, nel cui consiglio di amministrazione sedevano anche gli statunitensi, fiutarono subito il colossale affare rappresentato dalle commesse delle forze armate.

Realizzato secondo i nuovi sistemi di produzione statunitensi, l’impianto era il più moderno d’Europa e produceva ogni giorno 120 autocarri “Opel Blitz”, che costituivano la spina dorsale della Wehrmacht.

Opel Blitz

Opel Blitz durante l’invasione dell’Unione Sovietica

Senza l’Opel Blitz, Hitler non sarebbe riuscito ad entrare trionfalmente a Vienna, infatti durante le manovre militari per l’annessione dell’Austria, numerosi mezzi pesanti di altre marche si guastarono lungo la strada. Hitler dimostrò subito la sua riconoscenza: visitò personalmente lo stabilimento di Brandeburgo e ordinò altri duemila Opel Blitz.

Dall’avvento del nazismo fino allo scoppio della guerra, nella General Motors fu fondamentale il ruolo di un brillante manager statunitense. Il suo nome era James D. Mooney. In qualità di vicepresidente della General Motors in Germania, per i meriti acquisiti nella trasformazione della Opel in una delle maggiori aziende del settore militare, ricevette da Hitler l’Ordine dell’Aquila, la massima onorificenza conferita dal Partito Nazionalsocialista ad uno straniero.

Ogni volta che fu impiegato, l’Opel Blitz superò brillantemente le prove più ardue. L’avanzata ad Oriente, l’annessione dei Sudeti e l’aggressione alla Cecoslovacchia. Poi seguirono i successi della guerra lampo ad Ovest. Nel 1940, in poche settimane Olanda, Belgio e Francia furono travolte. Questi camion risultarono fondamentali anche per l’invasione dell’Unione Sovietica. Senza l’Opel Blitz, l’esercito tedesco non avrebbe mai potuto trasportare i suoi soldati per migliaia di chilometri all’interno dell’Unione Sovietica.

Negli stabilimenti Opel, la produzione di vetture utilitarie fu quasi del tutto abbandonata. Gli investimenti erano diminuiti e il personale si era assottigliato per la chiamata alle armi. Le officine interruppero questo tipo di produzione e la Luftwaffe pensò ad un nuovo utilizzo degli impianti di produzione di vetture utilitarie. Fu così che in quegli stabilimenti la Opel iniziò a produrre parti di fusoliera e motori per gli Junker-88, i più potenti bombardieri di Hitler. L’accordo firmato tra la Luftwaffe e la Opel fu possibile grazie al ruolo fondamentale svolto dal vicepresidente James D. Mooney, il quale viveva a Berlino, intratteneva rapporti epistolari con i vertici del partito nazista e nell’autunno del 1939 ebbe modo di incontrare più volte Hermann Göring, il capo della Luftwaffe, l’aviazione militare nazista.

Nei colloqui con Göring, Mooney espresse una forte solidarietà con i politici nazisti. Anche lui riteneva che dopo la Prima Guerra Mondiale, la Germania fosse stata trattata in modo troppo duro da Francia e Inghilterra. Göring incoraggiò Mooney a svolgere un’opera di mediazione. Mooney si rivolse al presidente statunitense Roosevelt, il quale si dichiarò disponibile a fare da mediatore. Roosevelt in persona augurò un buon successo alla missione di Mooney.

E qui risulta del tutto evidente la russofobia statunitense. Roosevelt con un embargo sul commercio avrebbe potuto impedire questo fondamentale sostegno alla mobilità dell’esercito nazista, ma non lo fece. Utilizzò invece gli industriali e i banchieri statunitensi per sviluppare e consolidare i rapporti diplomatici tra gli Stati Uniti America e la Germania nazista, in modo da potenziare quanto più possibile la macchina bellica tedesca al fine di renderla in grado di aggredire e invadere prima o poi l’Unione Sovietica.

Grazie alle continue adulazioni, nel febbraio del 1940 Mooney ebbe modo di incontrare Hitler nella nuova sede della Cancelleria. In un diario rimasto per decenni inedito per volere della General Motors, Mooney descrisse il colloquio estremamente amichevole avuto con il Führer. In una lettera indirizzata a Roosevelt, Mooney descrisse Hitler come una persona cordiale e amichevole. In seguito, Messersmith il Sottosegretario del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, definì Mooney: “un fascista“.

Ma questo episodio non cambiò i rapporti tra la General Motors e la Opel, che continuò a costruire veicoli militari per la Germania nazista. Per consentirgli di invadere l’Unione Sovietica, la Opel nei primi anni di guerra fornì all’esercito tedesco più di centomila mezzi militari.

Il 15 maggio 1941 il generale nazista Adolf von Schell, responsabile della fornitura di automezzi militari, conferì alla Opel un attestato nel quale dichiarava che senza l’aiuto dell’azienda non sarebbe stato possibile continua la guerra. Sempre nel 1941 la General Motors rifiutò una proposta d’acquisto per la Opel, preferì non vendere la casa automobilistica e rimanere in Germania. In una lettera al commissario del Reich per i patrimoni del nemico, la General Motors fece sapere di essersi ormai identificata con le sorti della Germania.

Al contempo, la General Motors partecipò al riarmo statunitense con molto zelo. L’organizzazione fu affidata allo stesso James D. Mooney. Il presidente della General Motors Alfred Sloan dichiarò: “Un’impresa multinazionale presente in tutto il mondo, è tenuta a gestire le proprie attività in base a rigidi criteri economici, incurante delle idee politiche del paese in cui opera. Non siamo un ente assistenziale, noi realizziamo profitti per i nostri azionisti“.

Il 6 agosto 1944, lo stabilimento di Brandeburgo fu quasi completamente distrutto dai bombardieri statunitensi. Anni dopo però, la General Motors ottenne dal fisco degli Stati Uniti un nuovo indennizzo di ben 32 milioni di dollari.

Ford

Nel 1939 nella cittadina di Riverdale, nel New Jersey, membri della Lega Tedesco-Americana (German-American Bund) marciarono durante uno dei loro campi estivi.

Il leader del movimento, del movimento Fritz Julius Kuhn, un chimico delle industrie Ford, era stato già membro del partito nazista in Germania. I 30 mila membri del German-American Bund promuovevano politiche razziste e antisemite filo hitleriane. Avevano simpatizzanti altolocati, come il datore di lavoro Fritz Kuhn.

Infatti, nel 1921 era stata pubblicata l’edizione tedesca del libro scritto da Henry Ford “L’ebreo internazionale. Un problema mondiale“. Fin dall’inizio, tra il leggendario costruttore di automobili Henry Ford e Adolf Hitler, c’era un elemento di forte comunanza spirituale: l’antisemitismo. Il libro di Ford rafforzò in Hitler l’odio antiebraico e lo indusse ad elementi di riflessione per la stesura del suo “Mein Kampf“.

Inoltre alcuni industriali statunitensi e membri della finanza, vedevano in Hitler e nelle dittature fasciste europee una possibile soluzione ai problemi che incontravano con i movimenti dei lavoratori e con i sindacati. Agli occhi di Henry Ford i sindacati erano opera del diavolo. L’azione brutale di Hitler contro i sindacati piacque a Ford che presidiava le sue fabbriche con milizie armate. Prima che Hitler salisse al potere, Ford lo sostenne con ingenti finanziamenti, tanto che un’immagine del benefattore statunitense era appesa nella sede del partito nazista a Monaco di Baviera.

Ogni giorno tantissimi tedeschi scrivevano lettere di ammirazione a Ford, il fordismo divenne l’ideologia degli industriali tedeschi. Per costoro ogni azione doveva essere realizzata proprio come l’aveva già realizzata Ford.

Nel 1930 Ford si recò in Germania, nella città di Colonia dove partecipò alla posa della prima pietra per la costruzione di un proprio stabilimento industriale. All’inizio gli affari non andarono bene, le Ford erano care e dovevano fare i conti con l’avversione di molti tedeschi verso i prodotti stranieri. Dal discorso di Hitler tenuto a Monaco il 16 febbraio 1935: “L’acquirente medio che oggi acquista un’auto straniera, non può dire di aver fatto questa scelta a causa della qualità superiore del prodotto, ormai le nostre autovetture tedesche non hanno più nulla da invidiare a quelle estere“.

All’inizio degli anni Trenta la produzione di autovetture negli stabilimenti Ford aveva subito una netta flessione. Edsel Ford, il figlio di Henry Ford assunse la direzione degli stabilimenti di Colonia e Detroit. Tramite informazioni riservate, Edsel Ford apprese che in Germania era in atto una battaglia economica in cui le commesse statali assumevano sempre maggiore importanza. Per Henry Ford non ci furono problemi, il motore otto cilindri Ford poteva essere venduto come motore per i fuoristrada militari. Fu così che la conversione dello stabilimento Ford di Colonia fu immediata.

Henry Ford impose che gli altri produttori d’auto stranieri non ricevessero più caucciù per pneumatici, né valuta per importarlo. Furono obbligati a procurarsi la gomma attraverso scambi merce e a destinare il 25% alla produzione bellica. Il dittatore tedesco si mostrò riconoscente verso il potente industriale statunitense. Finalmente, i veicoli prodotti a Colonia poterono fregiarsi del marchio: “prodotto tedesco”.

Gli affari con il regime nazista si intensificarono. Nel 1938 Ford e Opel furono introdotte nel programma di pianificazione della Wehrmacht. L’esercito tedesco in breve tempo commissionò alla Ford un ordine 100 mila autocarri, inclusi quelli pesanti a tre assi e i veicoli con trasmissione a catena. Ma i nazisti avevano fretta, stavano per effettuare l’annessione dei Sudeti e intendevano ricevere immediatamente dalla Ford mille automezzi pesanti, ma lo stabilimento di Colonia non era in grado di produrli in tempi così brevi.

La filiale statunitense offrì subito una soluzione. Furono spediti il giorno stesso da Detroit motori, telai e le cabine degli autoarticolati e appena giunti a Colonia furono assemblati di notte in tutta segretezza. Fu così che in brevissimo tempo la Wehrmacht ritirò gli autocarri richiesti e procedette immediatamente all’invasione della Cecoslovacchia. Quando ci si scandalizza per l’aggressività di Hitler, per il suo cinismo, per aver causato la guerra in Europa, si dimentica sempre che senza il sostegno delle imprese statunitensi non avrebbe potuto fare nulla. Nel caso specifico, si è davvero così ingenui da credere che alla Ford non sapessero a cosa servissero quei mille camion, da consegnare immediatamente e tutti insieme? Quanta ipocrisia!

Alla fine del 1938, Hitler dal canto suo insignì Ford della più alta onorificenza militare nazista concessa a uno straniero: l’Ordine dell’Aquila. Ford si fece appuntare con orgoglio l’onorificenza sulla giacca dal viceconsole tedesco a Detroit.

Viceconsole tedesco appunta l’Aquila d’Oro sulla giacca di Henry Ford

Ma anche Henry Ford si dimostrò riconoscente per i buoni affari conclusi. Così, il 20 aprile del 1939, in occasione del cinquantesimo compleanno di Hitler, la Ford versò 35 mila reichsmark sul conto personale del Führer.

Nei più nei primi anni di guerra aumentò in modo massiccio la produzione di mezzi pesanti ed Henry Ford se ne rallegrò. Poi, quando venne a sapere che un suo stabilimento in Gran Bretagna avrebbe dovuto costruire seimila motori per la Royal Air Force (l’aviazione militare britannica), Henry Ford si oppose. Scrisse al Daily Mail di Londra che poteva accettare solo commesse militari per la difesa degli Stati Uniti. Al contrario, l’industriale statunitense non aveva nulla da obiettare sul fatto che nella Francia occupata dai nazisti, gli impianti Ford lavorassero a pieno regime per la Wehrmacht, producendo mille mezzi pesanti al mese.

Dal 1942 ormai scarseggiava la manodopera nelle industrie tedesche. Lo sforzo militare, soprattutto quello sostenuto contro l’Unione Sovietica, impose il reclutamento di tutti gli uomini abili. Così, nello stabilimento di Colonia, la Ford poteva garantire i rifornimenti alla Wehrmacht solo ricorrendo al lavoro forzato e alla schiavitù. I prigionieri furono alloggiati in un apposito campo di baracche adiacente allo stabilimento industriale. Negli ultimi anni del conflitto, Ford affittò anche migliaia di detenuti nei lager, soprattutto sovietici. Per ogni detenuto pagava alle SS 4 marchi al giorno. Le condizioni di vita e di lavoro erano disumane.

“Curioso”, si fa per dire, il fatto che nel 1942 la città di Colonia fu bombardata a tappeto dagli angloamericani e nonostante la quasi completa distruzione della città, lo stabilimento industriale Ford non fu mai volutamente colpito. Così, nel corso dell’intera Seconda Guerra Mondiale, lo stabilimento Ford di Colonia produsse indisturbato per la Wehrmacht 78 mila mezzi pesanti e 14 mila mezzi con trasmissione a catena.

 Solo nel 1944, alcune bombe caddero nei pressi dello stabilimento della Ford a Colonia, causando lievi danni. Di contro, con faccia tosta, nel 1965 la Ford chiese ad una commissione del governo statunitense circa 7 milioni di dollari di risarcimento per i danni di guerra. La commissione quantificò questo risarcimento in mezzo milione di dollari.

International Business Machines (IBM) 

L’ascesa al potere di Hitler coincise con un vero e proprio boom della filiale tedesca della IBM. I calcolatori erano usati in quasi tutte le grandi industrie, ma da quel momento fra i grandi committenti figurò anche il governo tedesco.

Nel 1935 la Dehomag, l’affiliata della IBM in Germania, costruì un uovo grande stabilimento alla periferia di Berlino. Mediante schede perforate, le macchine prodotte dalla Dehomag in collaborazione con la IBM, lavoravano rapidamente dati per statistiche, registrazioni e calcoli, di cui producevano degli stampati.

Anche il fondatore e presidente della IBM Thomas Watson, rimase impressionato dai successi della Dehomag e per questi motivi si recava spesso in Germania. Thomas Watson era riconosciuto come un estimatore e ammiratore di Hitler, dimostrazione stava nel fatto che sia moralmente che materialmente e finanziariamente lo aveva sempre sostenuto, ancor prima che salisse al potere.

Thomas Watson

Nell’estate del 1937 la Camera di Commercio Internazionale organizzò a Berlino il suo congresso mondiale. Watson riuscì a farsi eleggere presidente. Un articolo del New York Times illustrò la cerimonia al Teatro Kroll (Krolloper): Watson era tra gli stranieri che presenti all’ingresso del teatro alzarono la mano destra in segno di saluto verso Adolf Hitler. Il giorno dopo fu addirittura ricevuto dal Führer. Thomas Watson dichiarò alla stampa: “Hitler con i suoi progetti ha imboccato la strada giusta. Tutto andrà nel migliore dei modi!

Adolf Hitler e Thomas Watson seduti accanto

Anche Watson fu insignito dell’Ordine dell’Aquila. A consegnargli l’onorificenza fu Hjalmar Schacht, all’epoca ministro delle finanze del Terzo Reich.

La Dehomag e la IBM divennero uno strumento indispensabile per la realizzazione del piano di sterminio degli ebrei. Infatti i loro calcolatori gestirono il grande censimento del 1939 mediante il quale le SS intendevano scoprire quanti ebrei vivessero in Germania, nella regione dei Sudeti e in Austria. In una seconda scheda, la cosiddetta carta supplementare veniva chiesto il nome, l’indirizzo, la razza e la discendenza anche di genitori e dei nonni. In questo modo, l’ufficio per la razza delle SS intendeva registrare tutti gli ebrei purosangue, mezzosangue e quarto di sangue.

Il 1° settembre 1939 l’aggressione alla Polonia segnò l’inizio della “Politica di annientamento ad Est”. Cracovia divenne la capitale della Polonia occupata, trasformata in governatorato. Nella Rocca di Cracovia si insediò Karl Hermann Frank, il brutale governatore di Hitler. Frank istituì a Cracovia un grande ufficio statistico nel quale giunsero per lavorare molti collaboratori di fiducia di Thomas Watson. Molti altri stretti collaboratori di Watson giunsero in altre città polacche, tanto che la rappresentanza della IBM a Varsavia  fu ribattezzata “Watson Business Machines“.

In seguito, per attuare lo sterminio degli ebrei, tutte le cariche degli uffici anagrafici e statistici in Polonia, in Austria e in Francia, furono ricoperte da personale della IBM.

Nell’autunno del 1943 la carenza di manodopera rallentava la produzione bellica, così anche i detenuti dei campi di concentramento dovevano essere schedati in base alle competenze professionali e mandati a lavorare in modo forzato in tutto il territorio del Reich. In tutti i lager nazisti furono istituiti dei centri di rilevamento.

Tutti i dati elaborati dalla IBM venivano inviati alla sede delle SS a Berlino. Si stima che i prigionieri dei campi di concentramento schedati dalla IBM e ritenuti abili al lavoro forzato furono oltre un milione. Gran parte di questo archivio è stato immediatamente distrutto pochi giorni prima della caduta di Berlino, ma circa 140 mila schede della IBM sono ancora conservate presso l’Archivio Militare di Berlino.

Nel 1940, il giovane socio tedesco Willy Heidinger, il quale insieme ad altri due azionisti tedeschi deteneva il 15% della Dehomag, cercò di ridimensionare il ruolo degli statunitensi. Inoltre, il potere esclusivo della Dehomag all’interno del sistema tedesco cominciò a destare preoccupazione e sospetto. Il comandante di brigata delle SS Edmund Wiesmaier, da tempo consigliere di Hitler, si ispirava al vecchio detto “tutto ciò che giova al popolo tedesco è giusto!” e cominciò a parlare di nazionalizzazione.

Ma Thomas Watson non intendeva arrendersi così facilmente. Nel 1940 inviò a Berlino un collaboratore fidato e risoluto, il quale doveva trattare non solo con Heidinger ma anche con il comandante delle SS.  Watson che si trovava a New York veniva tenuto informato tramite messaggi cifrati trasmessi dall’ambasciata degli Stati Uniti in Germania. Nel corso dei negoziati Wiesmaier risultò più conciliante. I nazisti infatti avevano bisogno dell’IBM per gestire la complessa macchina bellica, ma se la IBM voleva evitare la nazionalizzazione avrebbe dovuto accettare la riduzione della partecipazione azionaria. Tramite il suo emissario, Watson rifiutò anche questa offerta. Così, per l’intero periodo della guerra la IBM restò proprietaria della Dehomag.

Kodak

Anche l’azienda statunitense Kodak fu una stretta collaboratrice del regime nazista e giocò un ruolo importante durante la Seconda Guerra Mondiale.

Infatti, i nazisti continuarono non solo ad importare dalla Kodak bobine e materiali chimici per la realizzazione di filmati, ma le filiali della Kodak presenti in Germania fabbricavano inneschi, detonatori e altro materiale militare. Ciò ha davvero dell’incomprensibile in quanto il governo statunitense non attuò mai un embargo nei confronti della Kodak.

Inoltre la Kodak, nei suoi stabilimenti presenti in Germania, su richiesta del governo tedesco dapprima licenziò tutti i dipendenti ebrei e poi in seguito utilizzò più di 250 prigionieri dei campi di concentramento nazisti, facendoli lavorare in stato di schiavitù.

Coca Cola

La Coca Cola fu una delle prime aziende a collaborare con il regime nazista. Durante le Olimpiadi di Berlino nel 1936 infatti fu uno degli sponsor ufficiali.

La Fanta, la famosa bibita analcolica all’arancia, fu ideata in Germania nel 1940. La bibita nacque come sostitutivo della bevanda Coca Cola che dopo l’embargo della Seconda Guerra Mondiale non venne più importata in Germania. L’ideatore della bibita all’arancia fu  Max Keith che, prima di allora, dirigeva le diverse fabbriche della Coca Cola Company sul suolo tedesco.

Il nome “Fanta” deriva dalla parola tedesca “Fantasieden” (in italiano “immaginazione”) e altro non era che un composto di fibra di mela da sidro e siero di latte.

Quindi all’inizio della sua storia, per la Fanta niente agrumi. Infatti ad inizio anni ’40, nella Germania nazista di agrumi non ve ne erano abbastanza.

Le banche statunitensi

Tutto iniziò alla vigilia del primo conflitto mondiale, quando la Banca Morgan spinse il neutralista Woodrow Wilson a spedire le truppe in Europa. La Morgan (che in seguito diventerà la JP Morgan) era la più potente banca del tempo e aveva raccolto oltre il 75% dei finanziamenti per le forze anglo-americane. Voglia di guerra, non importa su che fronte: la National City Bank, che pure lavorava a fianco della Morgan nel rifornire inglesi e francesi, non si faceva problemi a finanziare anche i tedeschi, come anche fece la Chase Manhattan Bank.

La banca Morgan, inoltre, aveva acquisito il controllo dei 25 principali quotidiani statunitensi. Obiettivo: propagandare l’opinione pubblica statunitense pilotandola in favore dell’entrata degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale.

Il legame tra il comparto militare-industriale e gli oligarchi di Wall Street è una connessione che risale agli inizi del Novecento. Le banche hanno sempre tratto profitto dalla guerra, perché il debito creato dalle banche si traduce in un enorme bottino di guerra per la grande finanza. E anche perché le guerre sono state utilizzate per aprire i paesi esteri agli interessi corporativi e bancari degli Stati Uniti. Ammise William Jennings Bryan, segretario di Stato durante il primo conflitto mondiale: “C’erano grandi interessi bancari legati alla Prima Guerra Mondiale poiché grandi erano le opportunità di profitto“. Il problema: tutelare gli interessi commerciali degli statunitensi, che avevano fortemente investito negli alleati europei. Almeno due miliardi e mezzo di dollari dell’epoca, prestati a francesi e inglesi a partire dal 1915. “I banchieri ritennero che, se la Germania avesse vinto la guerra, i loro prestiti agli alleati europei non sarebbero stati rimborsati“.

Il più grande banchiere statunitense dell’epoca, John Pierpont Morgan, fece di tutto per trascinare gli Stati Uniti in guerra a fianco dell’Inghilterra e della Francia, finendo per convincere il presidente Wilson. Obiettivo: proteggere gli investimenti delle banche statunitensi in Europa. Non a caso il marine più decorato nella storia, Smedley Butler, dichiarò: “Io ho combattuto essenzialmente per le banche americane“.

Nel periodo antecedente la Seconda Guerra Mondiale fu anche creato un piano per gettare le basi per gli investimenti statunitensi in Germania. La strategia, ideata da Hjalmar Schacht della Dresdner Bank, si basava sulle istruzioni del capo della Banca d’Inghilterra e dell’amministratore della banca Morgan; il politico statunitense repubblicano John Foster Dulles, divenuto poi il segretario di Stato nell’amministrazione Eisenhower, ordinò di redigere questa politica. Il piano impiegò un anno per diventare effettivo, ma alla fine del 1923 Schacht divenne il Presidente di Reichsbank. Questo è il modo in cui il sistema finanziario anglo-americano è stato fuso con l’equivalente tedesco. Nell’estate del 1924 il progetto fu reso noto al pubblico come “Piano Dawes”, chiamato cosi dal nome dell’amministratore della banca Morgan. Il piano prevedeva di ridurre della metà la somme dei risarcimenti tedeschi e risolse inoltre il problema di accesso al capitale per la Germania. La priorità era quella di stabilizzare la moneta per poi spianare la strada al processo di investimenti in Germania. Il piano stanziò 200 milioni di dollari di credito per la Germania e la metà di questa somma proveniva da Chase Bank e Morgan. L’importo può sembrare irrilevante, ma allora, nel 1924, 200 milioni di dollari erano pari al 2% dei ricavi complessivi del governo degli Stati Uniti.

Il rimborso del debito tedesco, francese e britannico avvenne attraverso uno schema ben preciso: il ciclo di Weimar. L’oro utilizzato dalla Germania per pagare la somma di risarcimento di guerra fu spedito negli Stati Uniti e “scomparve” subito dopo. Il metallo tornò poi in Germania, sotto forma di un “piano di aiuti” e fu inviato in Francia e in Gran Bretagna come una rata della somma dovuta. Questi paesi poi utilizzarono questo denaro per pagare i propri debiti verso gli Stati Uniti. Ciò rese la Germania dipendente dal debito. Qualsiasi possibilità di tagliare flussi di capitale avrebbe sicuramente gettato il Paese in bancarotta. Formalmente, il credito era stato concesso per garantire il pagamento. In realtà, esso portò alla ricostruzione dell’industria militare tedesca. Il vero pagamento fu realizzato con azioni di società tedesche che erano state trasferite in mani statunitensi.

Tra il 1924 e il 1929 il valore complessivo degli investimenti esteri tedeschi valeva 15 miliardi di dollari. Nel 1929 l’industria tedesca divenne la seconda più grande al mondo, ma il tutto sotto il controllo del settore finanziario degli Stati Uniti.

La cooperazione statunitense-tedesca era così stretta che persino Deutsche Bank, Dresdner Bank e la Donat Bank erano controllate dagli Stati Uniti.

Dal 1923 ad Adolf Hitler furono concesse considerevoli somme di denaro provenienti dalla Svezia e dalla Svizzera. Nel primo paese, la famiglia Wallenberg era la principale fonte di finanziamento.

Dopo alcuni anni Hitler era pronto a svolgere il suo ruolo, ma a causa dell’economia sana, il suo partito non vinse la gara politica. Questo fu il motivo per cui da Wall Street fu assunta la decisione di avviare la crisi economica. La FED e la banca Morgan sospesero il credito per la Germania e spinsero l’Europa centrale alla recessione. La Gran Bretagna abbandonò il gold standard e fu travolta dal caos nel sistema finanziario internazionale. All’inizio del 1932 avvenne un incontro in cui fu deciso il piano di finanziamento “NSDAP”. Un anno dopo il piano di Hitler fu approvato e nel 1933 Adolf Hitler divenne cancelliere tedesco. Egli non aveva bisogno di un colpo di stato ma di una situazione economica di crisi, durante la quale milioni di tedeschi riposero la propria fiducia nel Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (NSDAP).

I Tedeschi che desideravano l’uscita dalla crisi economica diedero la propria fiducia ad Hitler, perché questo disse loro esattamente quello che volevano sentirsi dire.

Ma il coinvolgimento delle banche anglo-americane in Europa continuò, e dopo la Prima Guerra Mondiale molte grandi banche anglo-americane finanziarono i nazisti. Nel 1998, la BBC riportò la seguente notizia: “La Barclays Bank accettò di pagare 3,6 milioni di dollari a favore degli ebrei i cui beni erano stati sequestrati dai rami francesi della banca britannica durante la Seconda Guerra Mondiale“.

Anche la Chase Manhattan Bank ammise di aver sequestrato, sempre durante il secondo conflitto mondiale, circa cento conti intestati ad ebrei nella sua filiale di Parigi. Come scrisse il “New York Daily News”: “A quanto pare i rapporti tra la Chase e i nazisti erano piuttosto amichevoli, a tal punto che Carlos Niedermann, capo della filiale Chase Bank di Parigi, scrisse al suo supervisore di Manhattan che la banca godeva «di molta stima presso i funzionari tedeschi» e vantava «una rapida crescita dei depositi»“. Occorre notare che la lettera di Niedermann fu scritta addirittura nel maggio del 1942, ovvero cinque mesi dopo che i giapponesi avevano bombardato Pearl Harbor e che gli Stati Uniti erano entrati in guerra contro la Germania.

Dopo la guerra, una commissione governativa francese, indagando sul sequestro dei conti bancari ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale riferì che erano coinvolte cinque banche statunitensi: Chase Bank, Morgan, Guaranty Trust Co. di New York, la Banca della città di New York e l’American Express. Secondo il quotidiano britannico “The Guardian”, il senatore Prescott Bush (padre di George Bush e nonno di George W. Bush), “era amministratore e socio in società che trassero largo profitto dal loro coinvolgimento nel finanziare la Germania nazista“. La società di “nonno Bush”, aggiunge il “The Guardian” sulla base di fonti d’archivio statunitensi, era “direttamente coinvolta con gli architetti finanziari del nazismo“. E i suoi rapporti di affari continuarono fino a che il patrimonio della società fu sequestrato nel 1942 nell’ambito del “Trading with Enemy Act”, la legge statunitense che sequestrava i beni di chi aveva fatto affari col nemico in tempo di guerra, ma che come abbiamo notato nel corso di questo articolo, in molti casi non fu applicata.

Prescott Bush

Attraverso la BBH (Brown Brothers Harriman), Prescott Bush agì come supporto statunitense per l’industriale tedesco Fritz Thyssen, che contribuì a finanziare Hitler nel 1930 prima di cadere con lui alla fine del decennio. Fritz Thyssen scrisse anche un libro dal titolo “I paid Hitler” (“Io finanziai Hitler”) nel quale descrisse come elargì 25 mila dollari (allora una cifra molto ingente) per finanziare il neo costituito Partito Nazionalsocialista Tedesco e riuscì a diventare il primo e più importante finanziatore nella presa del potere del Führer.

Il “The Guardian” sostiene di poter provare che lo stesso Bush sia stato il direttore della UBC, la Union Banking Corporation di New York, che rappresentava gli interessi di Thyssen negli Stati Uniti, e continuò a lavorare per la banca anche dopo che gli Stati Uniti entrerono in guerra. L’UBC (Union Banking Corporation) era stata fondata da Harriman e dal suocero di Bush per mettere una banca statunitense al servizio dei Thyssen, la più potente famiglia di industriali della Germania operante principalmente nel mondo delle acciaierie. Alla fine del 1930, la Brown Brothers Harriman, che si considerava la più grande banca privata d’investimento del mondo, e la UBC, avevano acquisito e trasferito milioni di dollari in oro, petrolio, acciaio, carbone e buoni del tesoro statunitensi alla Germania, alimentando e finanziando l’ascesa di Hitler fino alla guerra. L’economista statunitense Victor Thorn ha dichiarato: “La UBC divenne la via segreta per la protezione del capitale nazista che usciva dalla Germania verso gli Stati Uniti, passando per i Paesi Bassi. Quando i nazisti avevano bisogno di rinnovare le loro provviste, la Brown Brothers Harriman rimandava i loro fondi direttamente in Germania“.

Tra il 1931 e il 1933 la UBC acquisì più di 8 milioni di dollari in oro, di cui 3 milioni inviati all’estero. Anni dopo, la banca fu colta in flagrante a gestire una società di comodo statunitense per la famiglia Thyssen, anche dopo che gli Stati Uniti erano entrati in guerra, e si scoprì che era questa la banca che aveva finanziato in parte l’ascesa di Hitler al potere.

Secondo la BBC, Prescott Bush e la banca Morgan, unitamente ad altri investitori importanti, avrebbero anche finanziato un colpo di Stato contro il presidente Roosevelt, nel tentativo di “attuare un regime fascista negli Stati Uniti“.

Ecco quindi, che quando si parla dei Bush, occorre sempre ricordare che una parte importante delle fondamenta finanziarie della loro famiglia fu costituita grazie all’appoggio e all’aiuto forniti ad Adolfo Hitler. Quindi i presidenti degli Stati Uniti appartenenti alla famiglia Bush giunsero al vertice della gerarchia politica statunitense grazie al fatto che il nonno e il padre, e la famiglia in generale, aiutarono finanziariamente i nazisti.

Purtroppo nelle scuole occidentali non insegnano che durante la Seconda Guerra Mondiale, sia lo schieramento anglo-americano che quello nazista furono entrambi finanziati dalla stessa fonte.

Luca D’Agostini

4915.- Un esempio del legame fra Stati e capitali: Hitler e le industrie americane

Un esempio del legame fra Stati e capitali: Hitler e le industrie americane

In occasione del Giorno della Memoria, pubblichiamo due articoli di approfondimento sulla complessa e terribile realtà capitalistica tedesca e mondiale che ha fatto da sfondo alla tragedia dei campi di concentramento e di sterminio, e che per convenienza politica viene messa ai margini o rimossa in una giornata come questa. Qui riportiamo uno scritto già apparso su Cortocircuito.


Proponiamo una parte di questo interessante pdf, dove si parla del rapporto fra Stati Uniti e Germania prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale, come efficace integrazione al video che proponiamo: un video de “La storia siamo noi” che, con l’ausilio delle immagini, rappresenta un prezioso materiale contro semplificazioni e retoriche tipiche della Giornata della Memoria.

Buona visione (e lettura).

Negli anni Trenta, accanto al processo di compenetrazione Stato/capitale che caratterizzava le economie europea e statunitense, si verificò anche, parallelamente, un processo di osmosi e di internazionalizzazione del capitalismo mondiale. Da questa analisi appare più che evidente che il nazismo non era il risultato della «brutalità» e della «barbarie» del solo «popolo» tedesco o di una presunta anima bellicista insita nella tradizione germanica. Nel 1939 la macchina bellica nazista era forse il congegno economico meno «nazionale» che si potesse trovare sull’arena degli Stati che avevano partecipato alla Prima Guerra mondiale. L’economista Charles Bettelheim ha scritto che «si può dire che settori vitali dell’economia tedesca erano controllati (…), almeno parzialmente, dal capitale internazionale»[4]. La compenetrazione tra il capitale tedesco e il capitale cosiddetto «democratico» occidentale in Germania aveva raggiunto nel 1939, quando scoppiò la guerra, una fase molto avanzata.

Nel 1938 l’industria automobilistica ‒ essenziale per un’economia di guerra moderna ‒ presentava la seguente situazione: delle quattro maggiori case produttrici presenti in Germania (Daimler, Auto Union, Ford e Opel), la Ford (filiale della Ford statunitense) e la Opel (di proprietà dal 1929 dell’americana General Motors) producevano ben il 52% delle vendite in Germania[5]. Nel 1935, su richiesta dello Stato Maggiore nazista, la direzione della Opel, con sede a Brandeburgo, aveva realizzato un camion pesante che avrebbe dovuto essere «meno vulnerabile agli attacchi degli aerei nemici». Così, a partire dal 1937, l’Opel Blitz, prodotto a ritmi accelerati, equipaggiò l’esercito tedesco. Due anni dopo anche la statunitense Ford aprì, alla periferia di Berlino, una fabbrica di montaggio per automezzi destinati alla Wehrmacht. Gli affari andarono talmente bene che nel 1941, in piena guerra, Ford decise di aumentare il capitale della sua filiale tedesca, che lavorava per i nazisti, portandolo da 20 a 32 milioni di marchi.

Agli inizi del 1939 la General Motors adibì gli stabilimenti Opel di Rüsselsheim alla fabbricazione di aerei militari. Dal 1939 al 1945 quegli stabilimenti produssero, da soli, il 50% di tutti i sistemi di propulsione destinati allo Junkers 88, considerato come il miglior bombardiere della Luftwaffe.

Per l’esercito di terra, le filiali tedesche della General Motors e della Ford costruirono il 90% dei camion leggeri (i cosiddetti «Muli») e il 70% di tutti i camion pesanti e di medie dimensioni. Secondo i servizi segreti britannici, tali veicoli costituivano «la spina dorsale del sisstema di trasporto dell’esercito tedesco»[6].

In piena guerra, i trasferimenti e gli scambi di materiali continuarono tranquillamente tra il quartier generale di Detroit della General Motors, le varie filiali dislocate nei paesi alleati e quelle insediate nei territori dell’Asse. I registri contabili della Opel avrebbero in seguito rivelato che, dal 1942 al 1945, la fabbrica di Rüsselsheim aveva elaborato le proprie direttive di produzione e di vendita in stretto rapporto con gli stabilimenti della General Motors di tutto il mondo (Brasile, Olanda, Uruguay, Giappone, Hong Kong e Shanghai), nonché, ovviamente, con la sede centrale negli Stati Uniti.

Nel 1943, mentre gli stabilimenti statunitensi di quella multinazionale rifornivano l’aviazione USA, il gruppo tedesco costruiva i motori del Messerschmitt 262, uno dei primi caccia a reazione del mondo.

Dopo la guerra, sia la Ford che la General Motors riuscirono ad avere il risarcimento dei danni di guerra subiti dalle loro fabbriche situate nei territori controllati dall’Asse, dovuti ai bombardamenti alleati: nel 1967 la General Motors avrebbe infatti ottenuto dal governo statunitense ben 33 milioni di dollari, contro un solo milione ricevuto dalla Ford.

Un altro esempio ci viene fornito dal caso della International Business Machines Corpora- tion, la celebre IBM statunitense, che era proprietaria di molte fabbriche in Germania e nel resto d’Europa, i cui stabilimenti venivano addirittura considerati come un importante elemento dello sforzo bellico tedesco. Detentrice del 94% delle azioni della Munitions Manufacturing Corporation, essa fabbricava anche per gli Alleati bombardieri, cannoni e parti di motore per aerei. Questo sforzo a favore del «mondo libero» gli avrebbe fruttato un guadagno di oltre 200 milioni di dollari. Nel frattempo, la holding svizzera della IBM continuò, per tutta la guerra, a ricevere i profitti delle fabbriche del gruppo dislocate in Germania, mentre quelle situate vicino a Parigi, a Corbeil-Essonnes, sarebbero state amministrate fino alla Liberazione da un capitano delle SS.7

L’esempio della IBM ci chiarisce anche perché molte fabbriche tedesche non venivano bombardate, mentre invece si radevano al suolo interi quartieri operai. Il capo del personale del gruppo canadese della IBM Frank MacCarthy, che era membro dell’equipaggio di un bombardiere della Royal Air Force britannica, nel corso di una missione sulla città di Sindel- fingen sganciò le sue bombe a caso per evitare di colpire una fabbrica dell’IBM.8

Anche per quanto riguarda i rifornimenti petroliferi, fondamentali per una nazione moderna in guerra, i nazisti dipendevano da industrie di proprietà delle «democrazie occidentali». Fino a quando i tedeschi iniziarono a produrre petrolio sintetico, il 53,5% del petrolio distribuito in Germania era controllato da tre monopoli: la Standard Oil (USA), la Shell (Regno Unito) e la Interessen-Gemeinschaft Farbenindustrie (IG Farben). Quest’ultima non era un’impresa puramente tedesca in quanto un gran numero di sue azioni, per un totale di parecchi milioni di dollari, era posseduto da varie banche statunitensi, tra cui la Chase National Bank (il cui azionista di maggioranza era John D. Rockefeller) e la J.P. Morgan Bank, nonché dalla tedesca M.M. Warburg Bank.9

Per avere un’idea dell’importanza della IG Farben ‒ la quale, sia detto per inciso, era l’industria che fabbricava il famoso Zyklon B, il gas mortale utilizzato dai nazisti nelle camere a gas ‒, basti pensare che nel 1932 essa era l’azienda chimica più importante del mondo:

controllava 400 compagnie tedesche e 500 imprese commerciali, e possedeva ferrovie, miniere di carbone e fabbriche in parecchie decine di paesi. Va inoltre tenuto presente che questa holding, come altre d’altronde, non ha mai smesso di sovvenzionare il partito nazista.

Quando la macchina bellica nazista, in piena guerra, ebbe la necessità di una maggiore quantità di petrolio, si pensò si produrlo attraverso l’idrogenizzazione del carbone. A tale scopo si addivenne ad un accordo tra tra le tre società summenzionate (e cioè Standard Oil, Shell e IG Farben) per la produzione di questo tipo di petrolio, con la partecipazione nell’affare di un terzo per ciascuna di esse.

Anche la multinazionale statunitense International Telephone & Telegraph (ITT), che possedeva importanti imprese sul suolo tedesco, partecipò allo sforzo bellico di Hitler. Solo per fare un esempio, nel 1938 la Lorenz-ITT, con l’accordo di Hermann Göring, rilevò il 28% del capitale dell’azienda aeronautica che avrebbe costruito il Focke-Wulf, un micidiale cacciabombardiere che fece strage dei convogli alleati. Non solo: dal 1941 al 1944 oltre metà della produzione delle fabbriche spagnole della ITT fu destinata a sostenere lo sforzo bellico nazista. E dagli USA, sempre attraverso la Spagna, la ITT trasferì alla Germania, almeno fino al 1944, materie prime fondamentali per la produzione bellica. Si è detto che il presidente di tale società, Sosthenes Behn, «è talvolta criticato in alcuni circoli politici americani», ma «sa che può contare sull’appoggio totale degli ambienti militari».10 Mentre i Focke-Wulf che la ITT statunitense aveva contribuito a fabbricare mitragliavano le truppe e i convogli alleati, la stessa ITT perfezionò, per i bombardieri americani, la messa a punto di un sonar ad alta frequenza destinato ad intercettare i sottomarini tedeschi. Behn avrebbe ricevuto nel 1946, dalle mani del presidente Harry S. Truman, una medaglia al merito per il suo contributo allo sforzo militare statunitense. Forte dei suoi diritti, la ITT sarebbe riuscita anch’essa ad avere dal governo USA 27 milioni di dollari come risarcimento dei danni subiti dalle fabbriche del Focke- Wulf che erano bombardate dagli aerei alleati.

Occorre poi aggiungere che Alfried Krupp non era il solo a fornire all’esercito di Hitler l’acciaio per i suoi cannoni. Anche la statunitense U.S. Steel, proprio grazie ai Krupp, riuscì a realizzare durante la guerra grossi profitti in Germania, facendo funzionare le sue fabbriche nella regione della Ruhr.11

Nell’industria elettrica ed elettrotecnica, il capitale straniero investito in Germania ammontava al 23% del capitale complessivo. Nella Siemens tedesca c’erano capitali britannici e svizzeri. La summenzionata ITT controllava in quel periodo ben venti società. Nel 1933 l’industria del vetro era controllata all’80% dal capitale straniero, ma quattro anni dopo, nel 1937, tutta l’industria vetraria era passata in mano al gruppo belga Solvay e alla francese Saint-Gobain. Il trust britannico-olandese Unilever aveva una buona partecipazione nell’industria della carta. Per completare il quadro, va sottolineata l’esistenza di stretti legami tra molte banche tedesche, britanniche e statunitensi.

Pochi, allora, denunciarono la collusione tra il capitale cosiddetto «democratico» e quello cosiddetto «totalitario». In Italia certamente nessuno, per quanto ne sappiamo. In Francia, il giornale trotskista La Vérité segnalò invece (ma invano) nel 1944 il passaggio, alla frontiera tra la Spagna e la Francia, di treni-cisterna pieni di benzina diretti verso la Germania. Il giornale in questione rivelava che la vendita ai tedeschi del petrolio proveniente, in pratica, da società statunitensi, non era un caso isolato. In esso si può infatti leggere:

(…) Abbiamo già segnalato l’invio di aerei americani alla Germania attraverso il Portogallo. (…)

Dei compagni ritornati dalla Germania ci chiedevano: «Perché le grandi fabbriche tedesche di prodotti chimici non vengono bombardate?

Mentre 150 000 lavoratori, donne e bambini di Amburgo sono stati carbonizzati, perché le fabbriche della LEUNA, ad esempio, restano sempre in piedi?»

Siamo ora in grado di dare la risposta. Il fatto è che I PRODOTTI CHIMICI TEDESCHI VENGONO SCAMBIATI CON MINERALI SPECIALI AMERICANI dei quali il Reich ha bisogno per la sua industria bellica. Dei compagni fidati ci informano che questo baratto si effettua regolarmente attraverso la Spagna.12

Si deve inoltre aggiungere che anche il Messico «democratico» e «progressista», sotto la guida del presidente Lázaro Cárdenas, vendette petrolio alla Germania in guerra senza che gli Stati Uniti, che erano al corrente del traffico, vi si opponessero.

Una prima riflessione che è possibile fare a partire da tutto ciò è la seguente: una guerra, e a maggior ragione una guerra moderna come la Seconda Guerra mondiale, non può essere condotta senza mezzi tecnici ed economici adeguati, e questi mezzi vengono forniti dal capitale, indipendentemente dalla sua nazionalità. L’esercito nazista era equipaggiato in buona parte con mezzi forniti dal capitale cosiddetto «democratico», e moltissimi automezzi militari e carri armati tedeschi erano alimentati da benzina fornita dalle compagnie occidentali «democratiche».

Per inciso, vorrei aggiungere che, dal 1939 al 1941, anche la Russia fornì alla Germania nazista ben 900mila tonnellate di petrolio, 100mila tonnellate di cromo, 500mila tonnellate di minerali di ferro, 2,5 tonnellate di platino e un milione di tonnellate di granaglie.

Un’altra considerazione da trarre è che il capitale tedesco di quel periodo era condizionato da quello degli Alleati molto più di quanto lo stesso capitale tedesco potesse condizionare quello occidentale.

Ma, al di là di queste considerazioni, e come si può desumere dai pochi dati che ho citato, la Seconda Guerra mondiale non fu affatto un conflitto tra il totalitarismo, la «barbarie nazista», e la democrazia, anche se formalmente si presentava sotto tale veste. Dietro allo scontro militare c’era lo scontro tra le varie frazioni del capitale mondiale, indipendentemente dall’assetto proprietario di questo capitale.

Note:

4 Charles Bettelheim, L’économie allemande sous le nazisme. Un aspect de la décadence du capitalisme, vol. 1, Maspero, Paris [1979], p. 95. [Questo lavoro di Bettelheim era stato originariamente pubblicato nel 1946 dalla Librairie Marcel Rivière et Cie. di Parigi. Di esso esiste una traduzione italiana: L’economia della Germania nazista, Mazzotta, Milano 1973, nella quale la citazione qui riportata figura a p. 87 ‒ N.d.r.]

5 La maggior parte dei dati qui forniti sono ripresi da Josef Lador-Lederer, Capitalismo mondiale e cartelli tedeschi tra le due guerre, Einaudi, Torino 1959, nonché da Charles Levinson, Vodka-Cola, Vallecchi, Fi- renze 1978.

6 Citato in C. Levinson, op. cit., p. 217.

7 Ibidem, p. 214.
8 Ibidem.
9 Ibidem, p. 220.

10 Ibidem, p. 215.

11 [Il capitalismo statunitense] ricambiò poi Alfried Krupp subito dopo la fine della guerra. L’uomo che lo graziò al Tribunale di Norimberga, dove l’imprenditore sedeva come imputato per crimini di guerra, si chiamava John Jay McCloy. Alto commissario statunitense in Germania [a partire dal settembre 1949, negli anni Trenta McCloy era stato, guarda caso, consigliere legale della IG Farben tedesca].

4717.- I nostri bambini vanno tutelati, non sono inca destinati ai sacrifici umani.

Aiutiamo le mamme.

Calando il sipario su questo anno di degrado sociale, é venuto istintivo commisurare le recenti parole del Papa sugli abusi sui bambini, da un lato, con il furore vaccinale delle autorità italiane verso i bambini, da un altro, con le ammissioni di Pfizer-BioNTech sulla inefficacia del vaccino Comirnaty nei bambini fra i 5 e gli 11 anni.

La circolare del ministero della Salute sulla ”Estensione di indicazione di utilizzo del vaccino Comirnaty (BioNTech/Pfizer) per la fascia di età 5-11 anni” dice che Comirnaty 10 mcg/dose viene somministrato ai bambini come ciclo di 2 dosi (da 0,2 mL ciascuna) a distanza di 3 settimane (21 giorni) l’una dall’altra e che nei bimbi fragili è possibile la terza dose a 28 giorni. La circolare si rifà al parere dell’Aifa. Testualmente: “Sebbene l’infezione da SARS-CoV-2 sia sicuramente più benigna nei bambini, in alcuni casi essa può essere associata a conseguenze gravi, come il rischio di sviluppare la sindrome infiammatoria multisistemica, che può richiedere anche il ricovero in terapia intensiva”. Qui, il 16 dicembre è partita la campagna vaccinale dedicata alla fascia 5-11 anni.

Le parole del Papa stigmatizzano la violenza sulle donne e gli abusi sui bambini, in particolare da punto di vista sessuale, ma ci colpisce una frase: “Se non aiutiamo le mamme come facciamo a tutelare i minori di cui siamo responsabili? E le domande che ci si pongono sono: “Come stiamo aiutando le mamme ad assumere decisioni consapevoli?” e “Cosa è stato fatto per proteggere e garantire il diritto allo studio dei bambini?” “È il vaccino la soluzione a tutti i loro problemi?”

Le risposte sono, purtroppo, critiche: Poca informazione e le solite chiacchiere, poco o nulla di fatto per la santificazione della scuola e dei trasporti e sulla soluzione, giova ricordare che:

  • “Pfizer ha affermato che il suo vaccino a due dosi non ha funzionato adeguatamente nei bambini da 2 a 5 anni e che sperimenterà, ripeto: sperimenterà una serie di tre dosi per l’autorizzazione ufficiale” 
  • Il rischio di miocardite in seguito a una terza dose di Comirnaty non è ancora stato caratterizzato.

Lo Stato interviene a garanzia dell’effettiva tutela dei diritti dei minori. Per esempio, il servizio sociale area minori svolge funzione di assistenza, di sostegno e di aiuto nella genitorialità alle famiglie. Riguardo alla campagna vaccinale, significa aiutare le mamme con una informazione onesta a tutelare i loro, i nostri bambini, assumendo decisioni consapevoli. Significa poter valutare dove inizia il beneficio e dove termina il rischio e non, semplicemente, offrire le proprie creature a un programma. L’uomo non è soltanto la creatura più intelligente. È anche la più stupida. Anche le mamme inca offrivano al dio le loro creature, con la certezza di fare il loro bene. Tempo che vai, mamme che trovi. A Voi la conclusione.

Così venivano drogati i bambini inca destinati ai sacrifici umani.


Recenti analisi hanno consentito ad un gruppo di ricercatori di far luce sui cruenti sacrifici nei quali, molto spesso, le vittime erano giovanissime.

I capelli della mummia di una ragazzina rinvenuta in Sud America raccontano gli ultimi mesi della sua vita, rivelando che i bambini Inca sacrificati nel corso della cerimonia della Capacocha assumevano grandi quantità di alcol e foglie di coca.


A cura di Nadia Vitali, fanpage.it

La fanciulla di Llullaillaco
I primi a narrare di quei sacrifici cruenti, in cui le vittime venivano scelte tra i più bei giovani delle comunità, furono i missionari spagnoli che descrissero nei loro resoconti le orrende caratteristiche di quelle pratiche: solo negli anni più recenti, tuttavia, l’archeologia è intervenuta finalmente per integrare le informazioni redatte da quegli europei che tra i primi incontrarono – e si scontrarono – con l’incomprensibile “mondo nuovo” che da millenni viveva dall’altro lato dell’Oceano. I ritrovamenti di alcuni resti ottimamente conservati, come nel caso delle mummie di Llullaillaco, stanno aiutando a far luce su una pagina della storia rimasta troppo a lungo silenziosa ma che, probabilmente anche in virtù del “mistero” che sembra aleggiarle attorno, ha affascinato ed interessato i più.

Il Capacocha, questo il nome con cui venivano indicati i sacrifici umani presso le popolazioni Inca, prevedeva un rituale lungo e complesso, con tanto di delicata fase preparatoria in cui i giovani corpi, e le giovani anime, venivano resi pronti al proprio drammatico destino finale: nell’ambito di tale rituale era uso, infatti, somministrare ai fanciulli in attesa sostanze alcoliche e stupefacenti che, oltre a rendere le vittime più mansuete e plasmabili, avevano assai probabilmente il potere di alterarne la percezione della realtà, predisponendole al meglio al “contatto” con il mondo ultraterreno. Un recente studio coordinato da Andrew Wilson, archeologo dell’università britannica di Bradford, è riuscito a ricostruire alcuni dettagli relativi alle ultime giornate vissute da tre giovanissimi le cui esistenze furono offerte “in dono” alle divinità: i risultati del lavoro, che ha visto la collaborazione dei ricercatori del laboratorio di medicina forense dell’Università di Copenaghen e dell’Università cattolica di Salta, in Argentina, sono stati pubblicati in un articolo della rivista scientifica PNAS.

I resti esaminati dagli studiosi erano quelli delle mummie di Llullaillaco: una fanciulla di circa 13 anni soprannominata La doncella (nell’immagine principale, esposta presso l’High Mountain Archeological Museum di Salta dove è conservata) e due bambini, un maschietto e una femminuccia, di 4 o 5 anni. Rinvenuti nel 1999 sulla sommità del vulcano Llullaillaco, una delle cime più alte delle Ande, ad un’altitudine di oltre 6.700 metri, i corpi dei tre si erano preservati in condizioni pressoché perfette, complici le temperature bassissime di quel luogo spettacolare che fece loro da tomba: «sembrava dormissero» quando furono scoperti nel sepolcro. I tre bambini furono le vittime immolate all’altare delle divinità all’incirca 500 anni fa, all’epoca in cui era ancora fiorente e forte l’impero Inca, il più vasto di età precolombiana, che sarebbe andato incontro al suo collasso definitivo con l’arrivo degli spagnoli.

In particolare i capelli de La doncella accuratamente intrecciati (tra i quali ne sono stati individuati anche alcuni bianchi, forse il frutto dello stress emotivo precedente la drammatica fine della giovane) sono stati in grado di fornire una gran quantità di informazioni agli studiosi. Le indagini biochimiche hanno confermato scientificamente quello che da tempo era noto agli esperti: durante i mesi che precedevano il sacrificio, le vittime designate assumevano quantità progressivamente crescenti di droga, attraverso la masticazione delle foglie di coca, e di alcol, probabilmente dalla Chicha, la bevanda derivata dalla fermentazione del mais. I risultati hanno evidenziato come la bambina avesse consumato tre volte più droga ed alcol rispetto agli altri due bambini e come le dosi di alcol ingerito nelle ultime settimane di vita fossero altissime. In generale, nel corso dell’intero anno precedente la sua morte, assunse sistematicamente queste sostanze: è assai probabile che i giovani scelti venissero obbligati a far ciò con l’obiettivo finale di una elevazione spirituale che li avrebbe avvicinati il più possibile all’ideale di vittima da immolare. Un vero e proprio percorso iniziatico testimoniato da altri mutamenti avvenuti nel medesimo arco di tempo e ravvisabili sempre grazie agli esami sui capelli: la fanciulla passò repentinamente da una dieta basata principalmente sulle patate ad un’alimentazione che prevedeva abbondanti quantità di carne e granoturco; nello stesso periodo cambiò anche la pettinatura.

Ma, dopo la preparazione, come vennero sacrificati i due bambini e l’adolescente? La combinazione dei dati ottenuti grazie alle analisi biochimiche con quelli radiologici e archeologici ha permesso agli studiosi di ricostruire il quadro del cruento sacrificio: i tre, ormai sedati e storditi, vennero fatti sedere in tre nicchie naturali sulla cima del vulcano e lì lasciati a morire. Gli esperti ipotizzano che le abbondanti quantità di alcol e droga, assieme al freddo intenso, abbiano fatto in modo che i giovani trapassassero abbastanza quietamente. Sulla fanciulla, in particolare, non è stato riscontrato alcun segno di violenza bensì le condizioni tipiche di un trattamento accuratissimo: i suoi vestiti erano ricchi e sontuosi, i capelli ben pettinati, sul suo corpo lo strato di grasso confermava l’alimentazione soddisfacente degli ultimi anni vissuti; accanto a lei, oggetti di vario tipo come statue e contenitori per acqua.

La doncella era stata scelta forse perché particolarmente attraente o dotata di qualche dettaglio che la rendeva eccezionale: Emma Brown, archeologa che ha partecipato allo studio, ha infatti spiegato che, secondo le cronache spagnole, erano questi i parametri a cui si ricorreva per la selezione; il brusco mutamento nelle abitudini alimentari confermerebbe il cambiamento sociale seguito. Dagli stessi resoconti si evincerebbe come esistessero nella società Inca delle figure preposte proprio al reclutamento di quelle che sarebbero divenute le giovani vittime sacrificate. I ricercatori ritengono che il trattamento differente riservato ai tre, in termini di allucinogeni ed alcolici somministrati, fosse non soltanto commisurato all’età, ma anche conseguenza di diversi status sociali e, soprattutto, della gerarchia dei ruoli rituali all’interno di un sacrificio crudele che sottostava a regole e cerimoniali rigidissimi: presumibilmente la doncella, nella sua triste fine, vestiva gli abiti di una privilegiata.


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4350.- Vaccini, la resistenza dei sessantenni. Ecco perché

Contro la scienza al servizio del potere. Così, anche contro il green pass: .. Già visto!

Perciò, fu scritto il Codice di Norimberga.

La Nuova Bussola Quotidiana, Gianfranco Amato, 20-09-2021

Chi ha vissuto la seconda metà del Novecento può riconoscere in quel che sta accadendo gli stessi meccanismi che hanno caratterizzato i regimi del socialismo reale, e le dittature di destra dalla Grecia all’America Latina.

Vaclav Havel

L’onda crescente di odio nei confronti di chi non vuole farsi iniettare il vaccino anticovid, ha preso particolarmente di mira una categoria di refrattari: i sessantenni. Nei confronti di costoro si è scatenata una vera e propria campagna mediatica di aperta ostilità. Sono esposti al pubblico ludibrio come «irresponsabili», «cocciuti», «caparbi», «testoni ostinati che pensano di essere immortali». Molti non comprendono i motivi di questa ostinazione al rifiuto del siero magico. L’età non consente di imputarla a demenza senile, per cui si chiedono stupiti da dove nasca questa loro capricciosa testardaggine.
Siccome anch’io mi trovo ormai in questa categoria anagrafica, provo a spiegarlo a chi fatica a comprenderlo.

I sessantenni hanno vissuto con piena maturità gli ultimi scampoli del Novecento, il secolo delle torsioni totalitarie, dei regimi dittatoriali, della scienza al servizio del Potere, del furore ideologico, del sonno della ragione.

I sessantenni di oggi hanno vissuto l’esperienza storica del cosiddetto “socialismo reale”. Hanno conosciuto la grigia cappa oppressiva della Germania di Enrich Honecker, e i nomi degli uomini e delle donne che sono morti nel tentativo di saltare il Muro di Berlino, quello che divideva l’Occidente libero dalla Repubblica Democratica Tedesca. Hanno conosciuto la spietata repressione della dittatura comunista sovietica, e i metodi della propaganda abilmente utilizzati dal Potere attraverso il giornale di regime, la mitica Pravda, e l’occhiuta censura da parte del KGB. Hanno letto Solženicyn e il suo Arcipelago Gulag. Hanno visto come la medicina e la scienza possono mettersi al servizio del Potere, tradendo qualunque giuramento deontologico, attraverso la psichiatria a fini politici. Hanno visto come grazie all’aberrante teoria della “schizofrenia a decorso lento” (patologia creata apposta per i dissidenti) elaborata dal noto psichiatra prof. Andrej Snežnevskij, siano stati dichiarati “malati mentali” da TSO personaggi del calibro di Solženicyn, Sacharov, Medvedev. Esattamente come oggi potrebbe capitare in Italia ad intellettuali come Marcello Veneziani, Giorgio Agamben, Massimo Cacciari.

Hanno visto come il Potere può sopprimere la dissidenza e schiacciare uomini come il Premio Nobel Andrej Sacharov. Hanno anche visto come uomini e donne possano rischiare la vita per difendere la libertà. Hanno letto Il Potere dei senza potere del ceco Vakláv Havel. Hanno conosciuto l’esperienza del Samizdat, delle “polis parallele” di Vakláv Benda, di “Charta 77”, e di cosa significhi combattere il Potere nella clandestinità.

Hanno vissuto l’epopea della Solidarność di Lech Wałęsa e della rivolta cristiana contro il regime comunista in Polonia. Hanno visto in troppi Paesi del mondo cosa significhi sospendere le garanzie costituzionali, lo Stato di diritto, le libertà fondamentali e ricorrere allo stato d’emergenza. Hanno visto imporre la legge marziale nella Grecia dei colonnelli, e hanno visto il film Z – L’orgia del Potere di Costa-Gavras. Hanno conosciuto l’esperienza dei regimi totalitari sudamericani, e soprattutto i danni del peronismo argentino, quel pericoloso cocktail ideologico fatto di populismo, pauperismo e dittatura, ancora oggi in circolo purtroppo.

I sessantenni di oggi hanno visto come il furore ideologico può trasformarsi in odio e violenza tra opposte fazioni. Hanno vissuto i terribili “anni di piombo”, la tragica contrapposizione tra terrorismo rosso e terrorismo nero, e le trame oscure dei cosiddetti “servizi segreti deviati”.
Hanno anche visto come il Potere abbia approfittato, secondo l’antica logica del divide et impera, di questa contrapposizione, fino al punto di emanare una “legislazione d’emergenza” del tutto antidemocratica: le famigerate leggi antiterrorismo. Molte in vigore ancora oggi, nonostante l’emergenza terroristica sia ormai finita da diversi decenni.

Insomma, i sessantenni di oggi hanno vissuto quella Storia che chi è nato dopo gli anni Ottanta ha solo letto sui libri. Proprio per questa esperienza esistenziale, hanno maturato una sorta di difesa immunitaria culturale rispetto ad ogni tentativo di torsione totalitaria da parte del Potere. Hanno gli anticorpi. Il grande filosofo ispano-americano Jorge Santayana diceva che «chi dimentica il passato è destinato a ripeterlo». Ecco, i sessantenni oggi in Italia hanno ancora una buona memoria.