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2019.- BALCANI: Lo scambio di territori tra Kosovo e Serbia è davvero una soluzione?

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Torniamo a parlare di Kosovo, al quale è legato un periodo importante della mia vita, con questo articolo di o scambio di territori genererà sicuramente un doppio trasferimento di popolazione “indotto” – considerato come “non-consenziente”. Il fatto che ciò sia contrario al diritto internazionale, è la conseguenza di una sua carenza motivata dal voler tutelare ed evitare il discapito delle nuove minoranze, perché queste, salvo eccezioni, non si creerebbero nei territori scambiati.
Andiamo a Pierluca Merola e alle sue conclusioni, che condivido.
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Lo scambio di territori tra Kosovo e Serbia è davvero una soluzione? da East Journal.

Nel corso dell’estate si sono rincorse le voci su uno scambio di territori tra Serbia e Kosovo come la definitiva soluzione per la normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e la sua ex-provincia. La proposta è stata resa pubblica dal presidente serbo Aleksandar Vučić e dalla sua controparte kosovara Hashim Thaçi al Forum Europeo di Alpbach in Austria.

 

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Il possibile scambio di territori porterebbe Belgrado a riconoscere l’indipendenza del Kosovo, permetterebbe a Pristina di aderire alle Nazioni Unite, e ad entrambi di proseguire nel loro percorso di adesione all’UE. La proposta si caratterizzerebbe come una revisione dei confini in senso etno-nazionalee interesserebbe la valle di Preševo – una regione della Serbia meridionale a maggioranza albanese – e i quattro comuni serbi a nord del fiume Ibar – un’area a forte maggioranza serba nel nord del Kosovo.

La comunità internazionale ha reagito in modo ondivago a questa ipotesi. Gli Stati Uniti hanno sostenuto la proposta, mentre la Germania e il Regno Unito hanno opposto un secco rifiuto all’eventualità di una revisione dei confini nella regione. La Commissione Europea ha assunto una linea possibilista sostenendo il dialogo tra le parti ma richiamandolo agl’imperativi della stabilità regionale e del rispetto degli standard internazionali ed europei.

Secondo i suoi estimatori, i punti forti della proposta risiederebbero nel fatto che essa sia realistica e che metterebbe fine a quel vulnus nel diritto internazionale rappresentato dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo del 2008. Realismo e rispetto del diritto internazionalevengono quindi presentati come i due pilastri del possibile scambio di territori tra Kosovo e Serbia, ma è davvero così?

L’imperativo del realismo

L’assunto alla base del carattere realista della proposta è la supposta impraticabilità di una soluzione alternativa a quella della revisione dei confini in senso etno-nazionale. Un’impraticabilità dovuta a due fattori principali. Da una parte, la presunta impossibile coesistenza di serbi e albanesi in uno stesso stato, propagandata dalle forze nazionaliste e confermata dai pochi passi avanti in termini di dialogo.

Dall’altra parte vi sono invece le considerazioni di carattere politico-elettorale. In ragione di queste, gli Accordi di Bruxelles del 2013, che prevedevano una normalizzazione dei rapporti progressiva e l’attuazione di una Associazione/Comunità delle municipalità serbe in Kosovo, sono in stallo dal 2015. La leadership di Pristina non voleva concedere tale associazione senza un’assicurazione sul riconoscimento dell’indipendenza, mentre quella di Belgrado non voleva rinunciare al grande mito elettorale della riconquista del Kosovo, in cambio di una mera associazione di municipalità.

Gli stessi presidenti Vučić e Thaçi insistono sull’ “essere realisti” per riuscire a convincere il proprio elettorato in maggioranza contrario all’accordo. Al congresso del partito progressista serbo del 24 settembre, Vučić ha fatto riferimento al fatto che “i serbi amano piangere su qualcosa di lontano, invece di avere qualcosa in mano adesso”. In modo simile, il presidente del Kosovo Thaçi, rivolgendosi alla popolazione kosovara, ha dichiarato che “il Kosovo ha già fatto troppi compromessi, ma la realtà è più testarda dei nostri argomenti”.

Tuttavia, sempre a voler “essere realisti”, nel valutare la proposta, non si possono certo ignorare le ricadute che uno scambio di territori possa avere nel resto della regione. Una ridefinizione etnica dei confini inevitabilmente alimenterà i progetti nazionalisti e le spinte secessioniste sia nell’entità a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina che nelle aree a maggioranza albanese della Macedonia. L’idea dell’omogeneizzazione etnica che soggiace a questa nuova revisione dei confini potrebbe sì risolvere il contenzioso tra Serbia e Kosovo, ma rischia di risultare fatale per altre aree nella regione.

Il rispetto del diritto internazionale

L’altro argomento forte tra gli estimatori della proposta riguarda il rispetto del diritto internazionale. Secondo costoro, uno scambio di territori tra Kosovo e Serbia con conseguente riconoscimento dell’indipendenza, sanerebbe quel vulnus nel diritto internazionale rappresentato dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo.

Tale dichiarazione di indipendenza è generalmente considerata una forzatura del diritto del popolo kosovaro all’autodeterminazione, e come tale non viene riconosciuta da ben cinque paesi UE (Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna). La revisione concordata dei confini tra stati limitrofi attraverso lo scambio di territori (fiumi, valli e montagne), invece, è una pratica consuetudinaria del diritto internazionale. Senza grandi clamori nel 2016, Belgio e Paesi Bassi hanno rivisto i propri confini, scambiandosi dei territori, e nel 2017 è stato il turno di Italia e Slovenia. Tuttavia, in questi casi, lo scambio riguardava fasce di territorio estremamente ridotte e disabitate.

Il proposto scambio di territori tra Serbia e Kosovo è invece cosa ben diversa. Ciò che prefigurano Vučić e Thaçi è uno scambio di popolazione, e come tale andrebbe trattato. I precedenti in questo caso sono molti meno, i due più famosi sono lo scambio di popolazione tra Grecia e Turchia nel 1922 e quello che seguì alla divisione tra India e Pakistan al termine della colonizzazione inglese nel 1947. In entrambi i casi a una divisione territoriale, seguì lo scoppio di tensioni e violenze tra popolazione maggioritaria e minoranze, colonne di rifugiati che attraversavano in senso opposto i nuovi confini, per concludersi con un successivo accordo che ratificava lo scambio di popolazione avvenuto con la violenza sul terreno. Tutti gli altri trasferimenti di popolazione dalla Seconda guerra mondiale in poi sono considerati deportazioni forzate o casi di pulizia etnica.

Per rispettare standard internazionali e diritti umani, ciò che si evince dalla poca dottrina in merito è che gli abitanti del nord del Kosovo e della valle di Preševo dovranno dare il loro “informato consenso” allo scambio di territori e alle sue conseguenze, cioè (in alcuni casi) al cambio della propria cittadinanza e al passaggio sotto diversa autorità statale. Ipotizzando – come i promotori dello scambio – che per ragioni di appartenenza etnica la maggioranza delle popolazioni dei due territori si dichiari favorevoli, restano da capire le sorti dei probabili contrari.

Di fatto, benché presentate come fortemente maggioritarie, le aree interessate dallo scambio di territori sono lungi dall’essere omogenee. Secondo le stime di Prishtina Insight, nella valle di Preševo solo il 65% della popolazione è di etnia albanese, mentre nel nord del Kosovo l’88% della popolazione è di etnia serba. Il probabile rischio fin qui ignorato è che uno scambio di territori possa generare un trasferimento di popolazione “indotto” – considerato come “non-consenziente” e perciò contrario al diritto internazionale – a scapito delle nuove minoranze che si creerebbero nei territori scambiati, o dei serbi del sud del Kosovo, o infine di chi, per svariate ragioni, voglia legittimamente vivere da minoranza.

Il proposto scambio dei territori è ancora in discussione e non si sa se andrà in porto. Ciò che è certo è che sarà ben più complicato di come viene semplicisticamente presentato al momento. Tutto a un tratto, l’attuazione degli accordi di Bruxelles del 2013, il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo da parte della Serbia, la realizzazione di adeguate misure di protezione e integrazione delle varie minoranze, sembrano invece soluzioni ben più realistiche.

1737.- Crisi in Serbia-Kosovo: la Russia pronta ad inviare una “Forza di intervento rapido”. La Serbia potrebbe entrare nell’alleanza militare russa .

Maurizio Blondet mi riporta in Kossovo, quando un reparto di paracadutisti russi tentò di entrare nella zona italiana della Brigata multinazionale West. Marciavano insieme ai russi alcuni osservatori serbi, vestiti ed equipaggiati come loro, che volevano osservare il territorio, pur sempre loro. Avevamo di guardia un reparto del Battaglione San Marco che tentò di fermarli, finché non si giunse alle mani.. e i russi si ritirarono e ricordo un antico monastero ortodosso, a Deciani, dove i monaci serbi custodivano le reliquie della guerra vinta contro i turchi, protetti da due carri Leopard della Brigata Ariete. Sembra ieri e sono passati diciotto anni. E, ancora, gli occhi si ritraggono al ricordo dei serbi scannati, ovunque, a decine, a famiglie intere, nelle loro case, nelle auto in fuga dalle loro case, a galla nelle cisterne del vino, nella piscina di un hotel e il banchetto dei corvi. Pace ai serbi di Mitrovica!

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Putin sulla crisi in Serbia: Entro poche ore posso Inviare una Forza di Intervento rapido per difendere I Serbi nel Kosovo.
MOSCA, Russia – I rapidi sviluppi derivano dalla comunicazione telefonica fra Putin e il premier serbo Aleksandar Vucic, dopo gli episodi di violenza avvenuti a Nord Mitrovica / Kosovo. “Non dubitate che invierò forze immediate se necessario. Non lascerò senza difesa il mio partner e alleato più importante in Europa “, ha sottolineato il presidente russo nella sua controparte serba e ora stiamo andando verso nuove avventure nella regione.

Le notizie fanno il giro della Serbia

Non a caso, i combattenti serbi “fischiano” continuamente alle orecchie dei capi albanesi a Presevo per il secondo giorno consecutivo

Secondo i media serbi, il presidente russo Vladimir Putin, nella nuova comunicazione telefonica con il presidente serbo, avrebbe detto:
“Nell’eventuale tentativo, da parte delle forze speciali albanesi, di occupare la parte settentrionale del Kosovo o di un nuovo pogrom contro i serbi, la Russia invierà immediatamente un significativo contingente militare”.

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Questo si traduce nell’invio di una brigata aerotrasportata russa con tutti i mezzi, che secondo la risoluzione ONU 1244 è perfettamente fattibile, perché la Russia è semplicemente una parte garante della “sicurezza” dell’ex provincia jugoslava.

“La Federazione Russa è pienamente impegnata nei confronti dei serbi del Kosovo con tutti i mezzi per difenderli da un possibile attacco”, ha detto Putin.

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Nel caso in cui dovesse iniziare un nuovo pogrom contro i serbi nella provincia, con operazioni di polizia albanese finalizzate a occupare la parte settentrionale del Kosovo, Mosca invierà immediatamente un’assistenza militare significativa “, ha detto il Cremlino.

Questo è stato uno dei messaggi chiave che Vladimir Putin aveva pronunciato ieri in una conversazione telefonica con il suo omologo serbo Aleksandar Vucic.

Il presidente Putin ha ufficialmente designato la Serbia come “il partner e alleato più importante in Europa”, secondo fonti del Cremlino, e Belgrado conta sul massimo supporto e protezione da parte della Russia.

Recentemente Putin ha dato mandato ai suoi generali e ad altri esperti militari di sviluppare un piano di intervento militare che aiuterebbe la Serbia in un possibile “impegno” contro la NATO e l’Occidente.

Questi piani prevedono che i combattenti aereotrasportati e i convogli russi possano volare in territorio serbo entro e non oltre due ore con una missione chiave nel Nord Kosovo per agire in modo da proteggere i serbi ei loro interessi nazionali.

C’è anche un piano dettagliato per il trasferimento di alcune forze speciali russe (Spetsnaz) in Serbia.

Si stima che entro 24 ore ci saranno centinaia di commando russi in Serbia, cioè in Kosovo.

Fonte: Fort Russ

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La Serbia potrebbe entrare nell’alleanza militare russa alternativa alla NATO

Uno dei gruppi parlamentari ha preparato una risoluzione sull’adesione della Serbia all’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (CSTO), un’alleanza difensiva creata il 15 maggio 1992 da sei nazioni appartenenti alla Comunità degli Stati Indipendenti.
Nel prossimo futuro il Partito Radicale Serbo invierà la bozza del documento a tutte le forze politiche del Paese.

Il documento sottolinea che Belgrado non dovrebbe permettere l’approfondimento della cooperazione con la NATO, un’organizzazione che ha distrutto l’ex Jugoslavia e che si è resa responsabile della morte di oltre 2.500 civili durante i bombardamenti del 1999.

Gli autori del documento sottolineano che la questione dell’adesione alla CSTO è diventata particolarmente rilevante in seguito all’arresto da parte delle unità speciali del Kosovo di Marko Djuric, inviato del governo serbo per il Kosovo e Metohija, e per il peggioramento della situazione nella regione, riporta il canale televisivo “Rossiya 24”.

Intanto, la NATO riconosce alla Serbia il diritto di creare un centro umanitario in collaborazione con la Russia e con quest’ultima condurre esercitazioni militari. Lo ha dichiarato il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg.
“Rispettiamo le decisioni sovrane, perché la Serbia è un Paese sovrano”, ha spiegato Stoltenberg. È chiaro che Belgrado tenterà di risolvere la situazione del Kossovo mettendo sul tavolo le alternative geopolitiche al di fuori della sfera d’influenza euro-atlantica.

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1565.- IL SUPERSTATO CANAGLIA. MA BERLINO (forse) SI SMARCA.

di Maurizio Blondet
“Non accetteremo mai l’occupazione e la tentata annessione della Crimea”, ha scandito Rex Tillerson a Vienna: “Le sanzioni resteranno fino a quando la Russia restituirà il pieno controllo della penisola all’Ucraina”. Poche ore dopo, volato a Parigi, vi ha incontrato il premier libanese Hariri, che aveva ritirato le dimissioni date a Ryad sotto costrizione del reuccio saudita. Tillerson ha “Incoraggiato il governo libanese e altri stati ad agire in modo più aggressivo per limitare l’attività destabilizzatrice di Hezbollah nella regione, ciò che renderà più forte e stabile il Libano”. Non importa la semplice verità, che Hezbollah nel sequestro saudita di Hariri abbia operato come forza di stabilità. Ormai è chiaro: le posizioni della Casa Bianca si sono irrigidite e puntano al conflitto con l’Iran e i suoi alleati.

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Da sinistra: Lavrov, il segretario dell’OSCE Thomas Greminger, il ministrro degli esteri austriaco Kurz e Tillerson alla riunione di Vienna. Dove il piano di Mosca per la pacificazione del Donbass è stato frantumato.

A Vienna, riunione dell’OSCE, Tillerson ha respinto e frantumato la proposta Putin (accettata cautamente da Germania e Francia) per allentare la crisi del Donbass: sostituire gli “osservatori OSCE” che nulla osservano, con caschi blu dell’ONU nelle zone separatiste, che consentano e sorveglino la tenuta di libere elezioni in vista di un ritorno in una Ucraina federale.

Per mandare a monte la proposta, il regime di Kiev – senza impegnarsi a promettere né uno status speciale per il Donbass né un’amnistia per i combattenti – ha posto due condizioni: che non solo l’ONU assuma il governo delle regioni secessioniste, ma che i Caschi Blu siano posizionati anche sul confine tra Donbass e Russia – oggi incustodito – e che fra i Caschi Blu non siano ammessi soldati russi, dato che la Russia “è parte in causa”. In realtà, per gli accordi di Minsk , Mosca non è parte in causa, bensì mediatore. E mettere truppe sul confine russo-Donbass significa affamare le popolazioni, perché da lì arrivano i rifornimenti alimentari e sanitari per i secessionisti. Il Washington Post (che è ufficialmente il quotidiano del Deep State da quando Jeff Bezos, il miliardario di Amazon, l’ha acquistato per conto della CIA) ha definito la proposta di Putin “una trappola”. A Vienna, Tillerson ha se possibile rincarato la dose: “la Russia arma, guida e combatte insieme alle forze anti-governo”, e poi appunto: “mai accetteremo l’annessione della Crimea”, eccetera. Il tono è stato tale, che il ministro Lavrov s’è detto “allarmato del tentativo di trasformare il senso della nostra proposta di sostituire l’OSCE con l’ONU”, e ha detto che a questo punto, “non ci sarebbe più processo di Minsk”.

Tillerson ha detto anche: “I russi hanno resistito a lungo ad una forza di mantenimento della pace, ma ora hanno accettato…”. Anders Rasmussen , già capo civile della NATO fino al 2014, nel forum di politica estera Berlino,ha suggerito che i Caschi Blu da piazzare in Ucraina(praticamente solo truppe NATO) dovrebbero essere diecimila. “La Russia deve capire che una normalizzazione delle relazioni tra Russia e Occidente dipende dal rapporto fra Mosca e Kiev. Questo deve capire la Russia”: Insomma secondo istruzioni, la Russia è stata messa sul banco degli accusati per non riconoscerla come mediatrice. Una tattica ben nota.

https://www.voanews.com/a/vienna-tillerson-sparred-lavrov-ukraine-conflicts/4153877.html

Il punto è tirare in lungo, mentre si affama la popolazione del Donbass. Il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite ha annunciato che da febbraio interromperà le consegne di alimentari nell’Est Ucraina, per mancanza di fondi: ha chiesto ai paesi donatori 200 milioni di dollari, ne ha ricevuto solo il 30%. Nelle attuali condizioni, la popolazione nell’Ucraina orientale ha di fronte la carestia. Anche questa una tattica di guerra ibrida ben nota, vedi Yemen.

Fortuna che Lavrov non ha perso il suo proverbiale senso dell’humour. A margine dell’incontro, a proposito della decisione unilateraledi Donald di fare di GErusalemme la capitale di Sion, ha rivelato ai giornalisti. “Rex [Tillerson] mi ha lasciato capire che gli Usa si attendono di fare “l’accordo del secolo” che risolverà il conflito israelo-palestinese d’un solo colpo. Certamente vogliamo capire come vedono avvenbire questo”.

Sigmar Gabriel critica Washington e “ammira” Pechino
Da segnalare come fatto positivo il cambiamento di tono del ministro tedesco degli Esteri Sigmar Gabriel (che probabilmente resterà su quella poltrona se si riforma la grande coalizione di governo). Miracolo dello sbiadire di Angela Merkel, il 5 dicembre a Berlino, Gabriel ha ammesso che “la percezione implicita del ruolo fondamentalmente protettore degli Stati Uniti nonostante dispute occasionali, comincia a collassare”, ed ha espressamente sottolineato che questo resterà anche se Trump venisse mandato via dalla Casa Bianca. “Il ritiro degli Stati Uniti non dipende da un solo presidente. Ciò non cambierà in modo fondamentale nemmeno dopo le elezioni”. Sostanzialmente, con precisione “implacabile che fa pensare a una risoluzione operative” (così Philippe Grasset), Gabriel ha scandito: gli Usa non fanno più la loro parte; debbono diventare per noi (Germania, Europa) un blocco di potenza fra gli altri; la Germania si deve rifiutare di seguire gli Usa nelle sue avventure di politica estera che sono completamente estranee ai nostri interessi e alla nostra visione del mondo”: Qui ha citato le sanzioni alla Russia, che mettono in pericolo “gli interessi economici nostri”; sulla Siria, al contrario di Roosevelt che consigliava di “parlare piano e agitare un grosso bastone” noi “abbiamo gridato forte e agitato un bastone piccolo”; poi c’è il ripudio Usa dell’accordo con l’Iran, e adesso la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale ebraica.

Mai in nessun momento Sigmar Gabriel ha citato la NATO. Per contro, ha citato ampiamente la iniziativa One Belt One Road” (la nuova Via della Seta) come “concetto geostrategico in cui la Cina applica le sue concezioni d’ordine: politica commerciale, geografia, geopolitica, ed eventualmente anche forza militare”. Precisando subito che le sue parole “non hanno affatto lo scopo di “biasimare la Cina”, ma al contrario di “suscitare il rispetto e l’ammirazione. Noi, in Occidente, potremmo essere a giusto titolo criticati per non aver concepito alcuna strategia paragonabile”.

Possibile che Angela Kasner in arte Merkel sia così sbiadita? Che la Germania si svegli dal sonno dogmatico?

Forse contribuisce al risveglio l’interesse. Nell’ambito della One Belt One Road , Pechino guida l’iniziativa ”16 + 1” che sta rafforzando la cooperazione con 11 paesi membri della UE e cinque paesi balcanici: Albania, Bosnia ed Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Macedonia, Montenegro, Polonia, Romania, Serbia, Slovacchia e Slovenia. La regione ha una popolazione di 120 milioni di persone.

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La ferrovia Ungheria-Serbia fatta coi cinesi. E’ solo il primo tratto di una futura rete che unirà i Balcani meridionali. Anzi, molto oltre:

 

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la linea Baku-Tbilisi -Kars che unirà il Mar Nero al Caspio.

La cooperazione ha come punta di lancia le INFRASTRUTTTURE. Il premier Orban ha stretto con la Cina un accordo per una linea ferroviaria nord-Sud dalla Polonia ai Balcani meridionali. La maggior parte degli investimenti cinesi sarà concentrata in Ungheria. Il 28 novembre è partito da Mortara il primo treno merci cinese diretto a Chendu Cina, 17 vagoni con merci italiane. La frequenza dei convogli dipenderà dall’intensià del’interscambio.

Naturalmente “nostra” classe “dirigente” ha ben più concrete preoccupazoni:

 

Altro che immigrati, delinquenza e disoccupazione….abbiamo paura dei fassisti.

1356.- Srebrenica: esce fuori la verità, il massacro fu compiuto da tagliagole bosniaci musulmani

22 Gennaio 2016

Finalmente emerge la verità su Srebrenica: i civili non furono uccisi dai Serbi, ma dagli stessi musulmani bosniaci per ordine di Alija Izetbegovic, presidente dei musulmani bosniaci, d’accordo con Bill Clinton. Una operazione, come le bombe di mortaio sul mercato di Sarajevo, per incolpare i serbi e bombardarli. Un po’ come il gas nervino in Siria.

(Nicola Bizzi) – Dopo la confessione shock del politico bosniaco Ibran Mustafić, veterano di guerra, chi restituirà la dignità a Slobodan Milošević, ucciso in carcere, aRadovan Karadžić e al Generale Ratko Mladić, ancora oggi detenuti all’Aja?

Lo storico russo Boris Yousef,  in un suo saggio del 1994, scrisse quella che ritengo una sacrosanta verità: «Le guerre sono un po’ come il raffreddore: devono fare il loro decorso naturale. Se un ammalato di raffreddore viene attorniato da più medici che gli propinano i farmaci più disparati, spesso contrastanti fra loro, la malattia, che si sarebbe naturalmente risolta nel giro di pochi giorni, rischia di protrarsi per settimane e di indebolire il paziente, di minarlo nel fisico, e di arrecare danni talvolta permanenti e imprevedibili».

Yousef scrisse questa osservazione nel Luglio del 1994, nel bel mezzo della guerra civile jugoslava, un anno prima della caduta della Repubblica Serba di Krajina e sedici mesi prima dei discussi accordi Dayton che scontentarono in Bosnia tutte le parti in campo, imponendo una situazione di stallo potenzialmente esplosiva. E ritengo che tale osservazione si adatti a pennello al conflitto jugoslavo. Un lungo e sanguinoso conflitto che, formalmente iniziato nel 1991, con la secessione dalla Federazione delle repubbliche di Slovenia e Croazia, era stato già da tempo preparato e pianificato da alcune potenze occidentali (con in testa l’Austria e la Germania), da diversi servizi segreti, sempre occidentali, da gruppi occulti di potere sovranazionali e transnazionali (Bilderberg, Trilaterale, Pinay, Ert Europe, etc.) e, per certi versi, anche dal Vaticano.

La Jugoslavija, forte potenza economica e militare, da decenni alla guida del movimento dei Paesi non Allineati, dopo la morte del Maresciallo Tito, avvenuta nel 1980, era divenuta scomoda e ingombrante e, di conseguenza, l’obiettivo geo-strategico primario di una serie di avvoltoi che miravano a distruggerla, a smembrarla e a spartirsi le sue spoglie.

Si assistette così ad una progressiva destabilizzazione del Paese, avviata già nel biennio 1986-87, destabilizzazione alla quale si oppose con forza soltanto Slobodan Milošević, divenuto Presidente della Repubblica Socialista di Serbia, e che toccò il culmine con la creazione in Croazia, nel Maggio del 1989, dell’Unione Democratica Croata (Hrvatska Demokratska Zajednica o HDZ), partito anti-comunista di centro-destra che a tratti riprendeva le idee scioviniste degli Ustascia di Ante Pavelić, guidato dal controverso ex Generale di Tito Franjo Tuđman.

Sarebbe lungo in questa sede ripercorrere tutte le tappe che portarono al precipitare degli eventi, alla necessità degli interventi della Jugoslosvenska Narodna Armija dapprima in Slovenia e poi in Croazia, alla definitiva scissione dalla Federazione delle due repubbliche ribelli e all’allargamento del conflitto nella vicina Bosnia. Si tratta di eventi sui quali esiste moltissima documentazione, la maggior parte della quale risulta però essere fortemente viziata da interpretazioni personali e di parte degli storici o volutamente travisata da giornalisti asserviti alle lobby di potere mediatico-economico europee ed americane. Giornalisti che della Jugoslavija e della sua storia ritengo che non abbiano mai capito niente.

Come ho scritto poc’anzi, ritengo che la saggia affermazione di Boris Yousef si adatti molto bene al conflitto civile jugoslavo. A prescindere dal fatto che esso è stato generato da palesi ingerenze esterne, ritengo che sarebbe potuto terminare ‘naturalmente’ manu militari nel giro di pochi mesi, senza le continue ingerenze, le pressioni e le intromissioni della sedicente ‘Comunità Internazionale’, delle Nazioni Unite e di molteplici altre organizzazioni che agivano dietro le quinte (Fondo Monetario Internazionale, OSCE, UNHCR, Unione Europea e criminalità organizzata italiana e sud-americana). Sono state proprio queste ingerenze (i vari farmaci dagli effetti contrastanti citati nella metafora di Yousef) a prolungare il conflitto per anni, con la continua richiesta, dall’alto, di tregue impossibili e non risolutive, e con la pretesa di ridisegnare la cartina geografica dell’area sulla base delle convenienze economiche e non della realtà etnica e sociale del territorio.

Ma si tratta di una storia in buona parte ancora non scritta, perché sono state troppe le complicità di molti leader europei, complicità che si vuole continuare a nascondere, ad occultare. Ed è per questo che gli storici continuano ad ignorare che la Croazia di Tuđman costruì il suo esercito grazie al traffico internazionale di droga (tutte quelle navi che dal Sud America gettavano l’ancora nel porto di Zara, secondo voi cosa contenevano?). È per questo che continuano a non domandarsi per quale motivo tutto il contenuto dei magazzini militari della defunta Repubblica Democratica Tedesca siano prontamente finiti nelle mani di Zagabria.

Si tratta di vicende che conosco molto bene, perché ho trascorso nei Balcani buona parte degli anni ’90, prevalentemente a Belgrado e a Skopje. Parlo bene tutte le lingue dell’area, compresi i relativi dialetti, e ho avuto a lungo contatti con l’amministrazione di Slobodan Milošević, che ho avuto l’onore di incontrare in più di un’occasione. Sono stato, fra l’altro, l’unico esponente politico italiano ad essere presente ai suoi funerali, in una fredda giornata di Marzo del 2006.

Sono stato quindi un diretto testimone dei principali eventi che hanno segnato la storia del conflitto civile jugoslavo e degli sviluppi ad esso successivi. Ho visto con i miei occhi le decine di migliaia di profughi serbi costretti a lasciare Knin e le altre località della Srpska Republika Krajina, sotto la spinta dell’occupazione croata delle loro case, avvenuta con l’appoggio dell’esercito americano.

Ho seguito da vicino tutte le tappe dello scontro in Bosnia, i disordini nel Kosovo, la galoppante inflazione a nove cifre che cambiava nel giro di poche ore il potere d’acquisto di una banconota. Ho vissuto il dramma, nel 1999, dei criminali bombardamenti della NATO su Belgrado e su altre città della Serbia. Ed è per questo che non ho mai creduto – a ragione – alle tante bugie che riportavano la stampa europea e quella italiana in primis. Bugie e disinformazioni dettate da quell’operazione di marketing pubblicitario (non saprei come altro definirla) pianificata sui tavoli di Washington e diLangley che impose a tutta l’opinione pubblica la favoletta dei Serbi ‘cattivi’ aguzzini di poveri e innocenti Croati, Albanesi e musulmani bosniaci. Favoletta che ha però incredibilmente funzionato per lunghissimo tempo, portando all’inevitabile criminalizzazione e demonizzazione di una delle parti in conflitto e tacendo sui crimini e sulle nefandezze delle altre.

La guerra, e a maggior ragione una guerra civile, non è ovviamente un pranzo di gala e non vi si distribuiscono caramelle e cotillon. In guerra si muore. In guerra si uccide o si viene uccisi. La guerra significa fame, sofferenza, freddo, fango, sudore, privazioni e sangue. Ed è fatta, necessariamente, anche di propaganda. Durante il lungo conflitto civile jugoslavo nessuno può negare che siano state commesse numerose atrocità, soprattutto dettate dal risveglio di un mai sopito odio etnico. Ma mai nessun conflitto, dal termine della Seconda Guerra Mondiale, ha visto un simile massiccio impiego di ‘false flag’, azioni pianificate ad arte, quasi sempre dall’intelligence, per scatenare le reazioni dell’avversario o per attribuirgli colpe non sue. Ho già spiegato il concetto di ‘false flag’ in numerosi miei articoli, denunciando l’escalation del loro impiego su tutti i più recenti teatri di guerra.

Fino ad oggi la più nota ‘false flag’ della guerra civile jugoslava era la tragica strage di civili al mercato di Sarajevo, quella che determinò l’intervento della NATO, che bombardò ripetutamente, per rappresaglia, le postazioni serbo-bosniache sulle colline della città. Venne poi appurato con assoluta certezza che fu lo stesso governo musulmano-bosniaco di Alija Izetbegović a uccidere decine di suoi cittadini in quel cannoneggiamento, per far ricadere poi la colpa sui Serbi.

E quella che io ho sempre ritenuto la più colossale ‘false flag’ del conflitto, ovvero il massacro di oltre mille civili musulmani avvenuto a Srebrenica, del quale fu incolpato l’esercito serbo-bosniaco comandato dalGenerale Ratko Mladić, che da allora venne accusato di ‘crimi di guerra’ e braccato dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja fino al suo arresto, avvenuto il 26 Maggio 2011, si sta finalmente rivelando in tutta la sua realtà. In tutta la sua realtà, appunto, di ‘false flag’.

I giornali italiani, che all’epoca scrissero titoli a caratteri cubitali per dipingere come un ‘macellaio’ ilGenerale Mladić e come un folle criminale assetato di sangue il Presidente della Repubblica Serba di Bosnia Radovan Karadžić, anch’egli arrestato nel 2008 e sulla cui testa pendeva una taglia di 5 milioni di Dollari offerta dagli Stati Uniti per la sua cattura, hanno praticamente passato sotto silenzio una sconvolgente notizia. Una notizia a cui ha dato spazio nel nostro Paese soltanto il quotidiano Rinascita, diretto dall’amico Ugo Gaudenzi, e fa finalmente piena luce sui fatti di Srebrenica, stabilendo che la colpa non fu dei vituperati Serbi, ma dei musulmani bosniaci.

Ibran Mustafić, veterano di guerra e politico bosniaco-musulmano, probabilmente perché spinto dal rimorso o da una crisi di coscienza, ha rilasciato ai media una sconcertante confessione: almeno mille civili musulmano-bosniaci di Srebrenica vennero uccisi dai loro stessi connazionali, da quelle milizie che in teoria avrebbero dovuto assisterli e proteggerli, durante la fuga a Tuzla nel Luglio 1995, avvenuta in seguito all’occupazione serba della città. E apprendiamo che la loro sorte venne stabilita a tavolino dalle autorità musulmano-bosniache, che stesero delle vere e proprie liste di proscrizione di coloro a cui «doveva essere impedito, a qualsiasi costo, di raggiungere la libertà».

Come riporta Enrico Vigna su Rinascita, Ibran Mustafić ha pubblicato un libro, Caos pianificato, nel quale alcuni dei crimini commessi dai soldati dell’esercito musulmano della Bosnia-Erzegovina contro i Serbi sono per la prima volta ammessi e descritti, così come il continuo illegale rifornimento occidentale di armi ai separatisti musulmano-bosniaci, prima e durante la guerra, e – questo è molto significativo – anche durante il periodo in cui Srebrenica era una zona smilitarizzata sotto la protezione delle Nazioni Unite.

Mustafić racconta inoltre, con dovizia di particolari, dei conflitti tra musulmani e della dissolutezza generale dell’amministrazione di Srebrenica, governata dalla mafia, sotto il comandante militare bosniaco Naser Orić. A causa delle torture di comuni cittadini nel 1994, quando Orić e le autorità locali vendevano gli aiuti umanitari a prezzi esorbitanti invece di distribuirli alla popolazione, molti bosniaci fuggirono volontariamente dalla città. «Coloro che hanno cercato la salvezza in Serbia, sono riusciti ad arrivare alla loro destinazione finale, ma coloro che sono fuggiti in direzione di Tuzla ( governata dall’esercito musulmano) sono stati perseguitati o uccisi», svela Mustafić. E, ben prima del massacro dei civili musulmani di Srebrenica nel Luglio 1995, erano stati perpetrati da tempo crimini indiscriminati contro la popolazione serba della zona. Crimini che Mustafić descrive molto bene nel suo libro, essendone venuto a conoscenza già nel 1992, quando era fuggito da Sarajevo a Tuzla.

«Lì – egli scrive – il mio parente Mirsad Mustafić mi mostrò un elenco di soldati serbi prigionieri, che furono uccisi in un luogo chiamato Zalazje. Tra gli altri c’erano i nomi del suo compagno di scuola Branko Simić e di suo fratello Pero, dell’ex giudice Slobodan Ilić, dell’autista di Zvornik Mijo Rakić, dell’infermiera Rada Milanović. Inoltre, nelle battaglie intorno ed a Srebrenica, durante la guerra, ci sono stati più di 3.200 Serbi di questo e dei comuni limitrofi uccisi».

Mustafić ci riferisce a riguardo una terribile confessione del famigerato Naser Orić, confessione che non mi sento qui di riportare per l’inaudita credezza con cui questo criminale di guerra descrive i barbari omicidi commessi con le sue mani su uomini e donne che hanno avuto la sventura di trovarsi alla sua mercé. Ma voglio citare il racconto di uno zio di Mustafić, anch’esso riportato nel libro: «Naser venne e mi disse di prepararmi subito e di andare con la Zastava vicino alla prigione di Srebrenica. Mi vestii e uscii subito. Quando arrivai alla prigione, loro presero tutti quelli catturati precedentemente a Zalazje e mi ordinarono di ritrasportarli lì. Quando siamo arrivati alla discarica, mi hanno ordinato di fermarmi e parcheggiare il camion. Mi allontanai a una certa distanza, ma quando ho visto la loro furia ed il massacro è iniziato, mi sono sentito male, ero pallido come un cencio. Quando Zulfo Tursunović ha dilaniato il petto dell’infermiera Rada Milanovic con un coltello, chiedendo falsamente dove fosse la radio, non ho avuto il coraggio di guardare. Ho camminato dalla discarica e sono arrivato a Srebrenica. Loro presero un camion, e io andai a casa a Potocari. L’intera pista era inondata di sangue».

Da quanto ci racconta Mustafić, gli elenchi dei ‘bosniaci non affidabili’ erano ben noti già da allora alla leadership musulmana ed al Presidente Alija Izetbegović, e l’esistenza di questi elenchi è stata confermata da decine di persone. «Almeno dieci volte ho sentito l’ex capo della polizia Meholjić menzionare le liste. Tuttavia, non sarei sorpreso se decidesse di negarlo», dice Mustafić, che è anche un membro di lunga data del comitato organizzatore per gli eventi di Srebrenica. Secondo Mustafić, l’elenco venne redatto dalla mafia di Srebrenica, che comprendeva la leadership politica e militare della città sin dal 1993. I ‘padroni della vita e della morte nella zona’, come lui li definisce nel suo libro. E, senza esitazione, sostiene: «Se fossi io a dover giudicare Naser Orić, assassino conclamato di più di 3.000 Serbi nella zona di Srebrenica (clamorosamente assolto dal Tribunale Internazionale dell’Aja!) lo condannerei a venti anni per i crimini che ha commesso contro i Serbi; per i crimini commessi contro i suoi connazionali lo condannerei a minimo 200.000 anni di carcere. Lui è il maggiore responsabile per Srebrenica, la più grande macchia nella storia dell’umanità».

Ma l’aspetto più inquietante ed eclatante delle rivelazioni di Mustafić  è l’ammissione che il genocidio di Srebrenica è stato concordato tra la comunità internazionale e Alija Izetbegović , e in particolare tra Izetbegović e il presidente USA Bill Clinton, per far ricadere la colpa sui Serbi, come Ibran Mustafić afferma con totale convinzione.
«Per i crimini commessi a Srebrenica, Izetbegović e Bill Clinton sono direttamente responsabili. E, per quanto mi riguarda, il loro accordo è stato il crimine più grande di tutti, la causa di quello che è successo nel Luglio 1995. Il momento in cui Bil Clinton entrò nel Memoriale di Srebrenica è stato il momento in cui il cattivo torna sulla scena del crimine», ha detto Mustafić. Lo stesso Bill Clinton, aggiungo io, che superò poi se stesso nel 1999, con la creazione ad arte delle false fosse comuni nel Kosovo (altro clamoroso esempio di ‘false flag’), nelle quali i miliziani albanesi dell’UCK gettavano i loro stessi caduti in combattimento e perfino le salme dei defunti appositamente riesumate dai cimiteri, per incolpare mediaticamente, di fronte a tutto il mondo, l’esercito di Belgrado e poter dare il via a due mesi di bombardamenti sulla Serbia.

Come sottolinea sempre Mustafić, riguardo a Srebrenica ci sono inoltre state grandi mistificazioni sui nomi e sul numero reale delle vittime. Molte vittime delle milizie musulmane non sono state inserite in questo elenco, mentre vi sono stati inseriti ad arte cittadini di Srebrenica da tempo emigrati e morti all’estero. E un discorso simile riguarda le persone torturate o che si sono dichiarate tali. «Molti bosniaci musulmani – sostiene Mustafić – hanno deciso di dichiararsi vittime perché non avevano alcun mezzo di sostentamento ed erano senza lavoro, così hanno usato l’occasione. Un’altra cosa che non torna è che tra il 1993 e il 1995 Srebrenica era una zona smilitarizzata. Come mai improvvisamente abbiamo così tanti invalidi di guerra di Srebrenica?».

Egli ritiene che sarà molto difficile determinare il numero esatto di morti e dei dispersi di Srebrenica. «È molto difficile  – sostiene nel suo libro – perché i fatti di Srebrenica sono stati per troppo tempo oggetto di mistificazioni, e il burattinaio capo di esse è stato Amor Masović, che con la fortuna fatta sopra il palcoscenico di Srebrenica potrebbe vivere allegramente per i prossimi cinquecento anni! Tuttavia, ci sono stati alcuni membri dell’entourage di Izetbegović che, a partire dall’estate del 1992, hanno lavorato per realizzare il progetto di rendere i musulmani bosniaci le permanenti ed esclusive vittime della guerra».

Il massacro di Srebrenica servì come pretesto a Bill Clinton per scatenare, dal 30 Agosto al 20 Settembre del 1995, la famigerata Operazione Deliberate Force, una campagna di bombardamento intensivo, con l’uso di micidiali bombe all’uranio impoverito, con la quale le forze della NATO distrussero il comando dell’esercito serbo-bosniaco, devastandone irrimediabilmente i sistemi di controllo del territorio. Operazione che spinse le forze croate e musulmano-bosniache ad avanzare in buona parte delle aree controllate dai Serbi, offensiva che si arrestò soltanto alle porte della capitale serbo-bosnica Banja Lukae che costrinse i Serbi ad un cessate il fuoco e all’accettazione degli accordi di Dayton, che determinarono una spartizione della Bosnia fra le due parti (la croato-musulmana e la serba). Spartizione che penalizzò fortemente la Republika Srpska, che venne privata di buona parte dei territori faticosamente conquistati in tre anni di duri combattimenti.

Alija Izetbegović, fautore del distacco della Bosnia-Erzegovina dalla federazione jugoslava nel 1992, dopo un referendum fortemente contestato e boicottato dai cittadini di etnia serba (oltre il 30% della popolazione) è rimasto in carica come Presidente dell’autoproclamato nuovo Stato fino al 14 Marzo 1996, divenendo in seguito membro della Presidenza collegiale dello Stato federale imposto dagli accordi di Dayton fino al 5 Ottobre del 2000, quando venne sostituito da Sulejman Tihić. È morto nel suo letto a Sarajevo il 19 Ottobre 2003 e non ha mai pagato per i suoi crimini. Ha anzi ricevuto prestigiosi premi e riconoscimenti internazionali, fra cui le massime onorificenze della Croazia (nel 1995) e della Turchia (nel 1997). E ha saputo bene far dimenticare agli occhi della ‘comunità internazionale’ la sua natura di musulmano fanatico e fondamentalista ed i suoi numerosi arresti e le sue lunghe detenzioni, all’epoca di Tito, (in particolare dal 1946 al 1949 e dal 1983 al 1988) per attività sovversive e ostili allo Stato.

Nella sua celebre Dichiarazione Islamica, pubblicata nel 1970, dichiarava: «non ci sarà mai pace né coesistenza tra la fede islamica e le istituzioni politiche e sociali non islamiche» e che «il movimentoislamico può e deve impadronirsi del potere politico perché è moralmente e numericamente così forte che può non solo distruggere il potere non islamico esistente, ma anche crearne uno nuovo islamico». E ha mantenuto fede a queste sue promesse, precipitando la tradizionalmente laica Bosnia-Erzegovina, luogo dove storicamente hanno sempre convissuto in pace diverse culture e diverse religioni, in una satrapia fondamentalista, con l’appoggio ed i finanziamenti dell’Arabia Saudita e di altri stati del Golfo e con l’importazione di migliaia di mujahiddin provenienti da varie zone del Medio Oriente, che seminarono in Bosnia il terrore e si resero responsabili di immani massacri.

Slobodan Milošević, accusato di ‘crimini contro l’umanità’ (accuse principalmente fondate su una sua presunta regia del massacro di Srebrenica), nonostante abbia sempre proclamato la sua innocenza, venne arrestato e condotto in carcere all’Aja. Essendo un valente avvocato, scelse di difendersi da solo di fronte alle accuse del Tribunale Penale Internazionale, ma morì in circostanze mai chiarite nella sua cella l’11 Marzo 2006. Sono insistenti le voci secondo cui sarebbe stato avvelenato perché ritenuto ormai prossimo a vincere il processo e a scagionarsi da ogni accusa, e perché molti leader europei temevano il terremoto che avrebbero scatenato le sue dichiarazioni.

Radovan Karadžić, l’ex Presidente della Repubblica Serba di Bosnia, e il Generale Ratko Mladić, comandante in capo dell’esercito bosniaco, sono stati anch’essi arrestati e si trovano in cella all’Aja. Sul loro capo pendono le stesse accuse di ‘crimini contro l’umanità’, fondate essenzialmente sul massacro di Srebrenica.

Adesso che su Srebrenica è finalmente venuta fuori la verità, dovrebbe essere facile per loro arrivare ad un’assoluzione, a meno che qualcuno non abbia deciso che debbano fare la fine di Milošević.

Ma chi restituirà a loro e al defunto Presidente Jugoslavo la dignità e l’onorabilità? Tutte le grandi potenze occidentali, dagli Stati Uniti all’Unione Europea, dovrebbero ammettere di aver sbagliato, ma dubito sinceramente che lo faranno.

 

1035.- Il Kosovo si arma, ira di Belgrado. Fallimento o ipocrisia della NATO?

La regione del Kosovo e Metohija (o Kosmet) torna in balia degli spettri del passato. Preludio di una nuova escalation ai danni della minoranza serba o è solo la crescita in tutto il Paese del Partito Radicale Serbo (SRS) che innervosisce Priština?  Le attenzioni della comunità internazionale sono troppo spesso lontane da questa terra dove sopravvivono le criticità di una guerra difficile da dimenticare. Sta di fatto che i dissapori tra Belgrado e Pristina rallentano a dismisura sia il processo di integrazione europea per Serbia e Kosovo sia la stabilizzazione dei Balcani, minacciata anche dal fenomeno Isis. Qualche anno fa, ad esempio, dalla capitale kosovara era stato promesso di concedere maggiore autonomia alle municipalità serbe nel Nord del Paese, riconoscendo loro un presidente, un parlamento, una bandiera. Il progetto, denominato “Associazione delle municipalità serbe”, non è mai decollato e ha trovato strenua opposizione negli ambienti politici di Pristina. La netta linea di demarcazione che separa serbi e kosovari è del resto ancora oggi tracciata a livello fisico: simbolo di tutte le divisioni resta il ponte sul fiume Ibar, che spezza in due la città di Mitrovica. I serbi vivono a nord del fiume, gli albanesi a sud. Periodicamente viene tentata la riapertura al traffico automobilistico del ponte. Puntualmente, il tentativo fallisce perché minacce, granate e colpi d’arma interrompono quello che la buona volontà di alcuni cerca di ottenere. Intanto Bruxelles aspetta. Anche perché lo stesso Kosovo ha avanzato le sue istanze circa l’entrata nella Ue e, ovviamente, non ha nessuna intenzione di rinunciare a quell’indipendenza autoproclamata e riconosciuta da molti Stati della comunità internazionale, ma non da tutti. L’imbarazzo dei vertici europei inizia ad essere palese. Portare in Europa un conflitto mai risolto non gioverebbe ad una Ue già debole e, parimenti, ignorare le richieste di chi vuole entrare non si può. Vi sono anche altri aspetti che rendono problematico l’ingresso del Kosovo nell’Ue. A partire dalla situazione occupazione, con un dato ufficiale di disoccupazione che, per i giovani tra i 25 ed i 35 anni, ha raggiunto il 65%. Il ricorso al lavoro nero è sempre più abituale mentre cresce la voglia dei giovani di abbandonare il Kosovo per andare a cercare la fortuna all’estero. Mentre le rimesse di chi è già emigrato ed ha trovato lavoro all’estero, servono per mantenere le famiglie rimaste in Kosovo ed a tamponare le falle delle finanze kosovare.Di fronte a tutto questo, il processo di integrazione è impantanato.  Non è ancora tutto. Nel 2015, la Kosovo Police ha investigato 28 casi legati al terrorismo jihadista, arrestando 21 persone. Ma per 15 casi le indagini sono state chiuse con l’assoluzione di 46 persone. Per il tenente colonnello Nexhmi Krasniqi, comandante della Kosovo Police di Prizen (cittadina graziosa, musulmana nel sud del Paese Balcanico), sono state introdotte pene severe, sino all’ergastolo, per i foreign fighters. Lo stesso comandante, però, ammise con l’inviato del Nodo di Gordio Luca Tatarelli, che tre jihadisti provenienti dalla zona di Prizen erano morti in Siria. Ancora più preoccupante fu la dichiarazione successiva: “La notizia è arrivata ai parenti ma non a noi”.

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La Serbia, sempre più attratta dalla prospettiva europeista, è disposta a compiere tutti i passi che le vengono richiesti, tranne uno. “Non riconosceremo mai l’indipendenza del Kosovo”, ha confermato l’ufficio del presidente serbo Tomislav Nicolic e Stanislava Pak, consigliere del Capo di Stato serbo, ha ribadito che il presidente “non violerà mai la Costituzione”. Come ben si sa, la Costituzione elenca il Kosovo tra le province della Serbia.

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Il Kosovo potrebbe presto avere un suo esercito. Questo è il messaggio lanciato negli ultimi giorni da Pristina, ed è una chiamata alle armi che desta preoccupazione non soltanto nei Balcani, ma anche, inevitabilmente, in Europa e fra tutte le potenze interessate al quadro politico balcanico, in primis Stati Uniti e Russia.

La volontà di creazione di un esercito regolare per il Kosovo non è un’idea nata negli ultimi giorni, ma è un progetto che il governo di Pristina aveva già ampiamente valutato nel 2014, anno in cui furono molteplici i comunicati dell’allora primo ministro Thaçi, oggi Presidente della Repubblica, con i quali era stato affermato non soltanto il desiderio dell’istituzione di un ministero della Difesa per il Kosovo, ma anche la formazione, nell’arco di un quinquennio, di un esercito regolare. Già da allora, le velleità belliche di Pristina avevano destato notevoli preoccupazioni sia fra i suoi avversari che fra i suoi alleati.

In particolare, sul fronte alleato, la Nato, alleata della neonata repubblica kosovara ma soprattutto artefice della stessa nascita della repubblica, aveva da subito bloccato l’istituzione di un esercito regolare che sostituisse la Forza di Sicurezza del Kosovo, in quanto avrebbe rappresentato un cambiamento radicale nell’operatività di quest’ultima, posto che la Ksf doveva rappresentare una forza non militare, di polizia, utile nella stabilizzazione del territorio kosovaro. Una forza quindi nata con l’obiettivo di costituire la forza di sicurezza della repubblica e che avrebbe dovuto rappresentare una possibilità di integrazione per le diverse minoranze entiche in una forza dell’ordine dotata di poteri più ampi.

Il tutto, ovviamente, sotto la guida e le protezione della Nato, che si sarebbe impegnata nella sua costituzione e nel suo addestramento, ma che avrebbe in sostanza mantenuto il controllo militare sul territorio e sul confine con la Serbia. Sul fronte avversario, la Serbia ha naturalmente sempre condannato in maniera ferma l’idea kosovara di un esercito regolare. I motivi sono chiaramente dettati da due fattori: in prima battuta, la ferrea volontà di Belgrado di non riconoscere l’indipendenza del Kosovo, autoproclamatosi indipendente dalla Serbia senza al cuna legittimazione da parte di quest’ultima; ma soprattutto, la creazione di un esercito regolare avrebbe portato ad una rivoluzione nelle relazioni con Pristina e negli accordi con i quali Serbia e Nato si erano accordati per il mantenimento di una sudata pace.

Ora, dopo tre anni da quelle dichiarazioni, il problema è tornato a farsi sentire con forza. Il governo kosovaro ha annunciato l’attivazione del processo di regolarizzazione delle forze di sicurezza kosovare, piano che potrebbe iniziare già nella seconda metà del 2017. Questa scelta, secondo Pristina, è stata dettata dalla necessitò di costituire una difesa in grado di tutelare la repubblica dalle operazioni congiunte sul territorio serbo di truppe di Belgrado e russe. Fonti kosovare hanno infatti dato ampio risalto alle manovre svolte sul territorio serbo dall’aeronautica di Mosca, ed hanno fatto sì che fossero queste manovre a diventare la leva su cui fondare le rinnovate pretese belliche. Durissime le reazioni da parte di tutti gli schieramenti. La Nato, con le parole del segretario Stoltenberg, ha immediatamente chiesto al presidente Thaçi di fermare qualsiasi decisione per la formazione di un esercito regolare, minacciando lo stesso impegno della Colazione Atlantica sul territorio in caso di proseguimento del progetto. Belgrado ha immediatamente chiesto l’intervento della comunità internazionale per bloccare qualsiasi tentativo di regolarizzazione della KFS. Per il governo serbo, questo atto rappresenterebbe senza alcun dubbio la fine di ogni tentativo di normalizzazione delle relazioni con Pristina, nonché il primo passo verso un’escalation di tensione che comporterebbe anche il ritorno di uno scontro bellico fra serbi e kosovari. La Russia, dal canto suo, ha tutto l’interesse a tutelare l’alleato serbo, in quanto pedina fondamentale nello scacchiere balcanico. Se il Kosovo ha rappresentato la vittoria territoriale più importante della NATO nei Balcani, in quanto ha sradicato una parte i territorio al più importante alleato di Mosca nella regione, adesso, la decisione di Pristina di negare validità alla risoluzione della comunità internazionale con cui si limitavano i compiti della KSF potrebbe essere un grandioso trampolino di lancio per rafforzare non soltanto la solidità dell’alleanza con Belgrado, ma anche un punto a favore fondamentale nella guerra diplomatica fra Washington e Mosca. Il governo serbo ha infatti chiesto subito l’intervento di Unione Europea, Stati Uniti e Russia per fermare sul nascere questa tragica scelta kosovara, e Putin potrebbe sfruttare immediatamente la debolezza della geopolitica americana per riaffermare come sia un fedelissimo alleato atlantico a voler interrompere il difficile processo di pace nei Balcani, rivelandosi ancora una volta come guida nella pacificazione dei conflitto in cui è coinvolta la Nato.

880.- BALCANI: Allargamento, il passo falso dell’UE

Per la prima volta, nel 2016, il Consiglio UE non ha trovato l’accordo sul testo delle annuali Conclusioni sulla politica d’allargamento. Complice la “testardaggine” austriaca sulla questione della Turchia, ma anche varie questioni aperte dalla Croazia. E’  stato giusto denunciare le nefandezze di Erdogan, ma, secondo taluni analisti, questa denuncia non doveva essere fine a se stessa. Doveva, piuttosto, mettere Erdogan sotto pressione, costringendolo – per quanto possibile – con le spalle al muro. Invece, sia con l’accordo sui migranti sia con l’interruzione dei negoziati gli si è concesso un potere enorme, subito sfruttato a nostro danno. La politica d’allargamento procede, invece, nei riguardi della Serbia e della Bosnia ed Erzegovina.

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Croazia

Il Consiglio UE aveva deciso, martedì 20 settembre, di dare seguito alla candidatura d’adesione all’UE della Bosnia ed Erzegovina, depositata lo scorso 15 febbraio. I 28 stati membri hanno quindi chiesto alla Commissione UE di redigere un’opinione sulla Bosnia ed Erzegovina e su quali riforme saranno necessarie al paese per aderire all’Unione. Si è aperto così il processo formale di adesione anche per Sarajevo, che ancora è alla casella iniziale come “stato potenzialmente candidato”.

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Serbia

Analizzeremo più avanti il perché i paesi europei vogliono uscire dall’Unione europea, mentre la Bosnia ed Erzegovina e la Serbia confermano la loro volontà di proiettarsi verso il continente europeo. Seguiamo Andrea Zambelli.

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Foto: Miroslav Lajcak, EU Council

Il Consiglio UE “Affari Generali” del 13 dicembre si è chiuso senza un accordo sulle annuali conclusioni sulla politica d’allargamento. E’ la prima volta che ciò avviene dagli anni ’90 – e una delle poche volte in generale che il Consiglio non riesce a trovare un accordo tra i suoi membri.

L’Austria si mette di mezzo sulla Turchia al Consiglio UE e fa affondare la barca

La ragione del tonfo, questa volta, sta nella testardaggine dell’Austria. Vienna si è opposta fino all’ultimo ad un testo consolidato, approvato dagli altri 27, che dava il suo appoggio alla continuazione dei negoziati d’adesione con la Turchia. Secondo il ministro degli esteri austriaco, il giovane conservatore Sebastian Kurz, invece, i negoziati d’adesione con Ankara sarebbero dovuti essere immediatamente sospesi.

“Quando in centinaia di migliaia sono agli arresti, quando dissidenti e politici dell’opposizione sono in prigione… è qualcosa che non corrisponde allo spirito e ai valori fondamentali dell’UE“, ha dichiarato Kurz riferendosi alle estese purghe che hanno fatto seguito al tentato colpo di stato di metà luglio in Turchia. Lo stesso Kurz era finito nella bufera, solo pochi giorni prima, per il sostegno offerto durante la campagna elettorale al governo macedone uscente di Nikola Gruevski, accusato di estese intercettazioni e di tendenze autoritarie.

La volontà di rovesciare il tavolo da parte di Kurz, che durante la scorsa campagna elettorale per le presidenziali austriache si è posizionato sempre più a destra, non è stata ben accolta dagli altri 27. “Non considero questa una politica estera responsabile”, ha dichiarato il ministro degli esteri tedesco – e futuro presidente della repubblica federale, Walter Steinmeier. “Aiutiamo il popolo turco in questo modo? Io credo di no”, ha rimarcato l’omologo lussemburghese Jean Asselborn. E l’Hofburg ha messo in imbarazzo anche lo stesso Commissario europeo all’allargamento, Johannes Hahn, che con Kurz condivide paese d’origine e partito politico.

La politica d’allargamento in uncharted waters

Non è la prima volta che Kurz incrocia le corna con i turchi – si ricordano i suoi scambi con l’ex ministro agli affari europei Egemen Bagis – ma in questo caso l’intransigenza di Vienna è andata oltre, e ha fatto affondare tutta la barca. Perché senza l’accordo di Vienna sul capitolo turco non è stato possibile dare alla luce l’intero testo delle conclusioni del Consiglio sull’allargamento, inclusi i paesi dei Balcani occidentali, sui quali un accordo sarebbe stato invece trovato – nonostante varie questioni aperte, soprattutto da parte della Croazia, per quanto riguarda Serbia, contro cui Zagabria solleva accuse strumentali riguardo alla protezione della minuscola minoranza croata per giustificare la volontà di non aprire il capitolo 26 sull’istruzione, e Bosnia-Erzegovina.

La presidenza slovacca del Consiglio UE ha quindi cercato di raccogliere i cocci, pubblicando “un set di conclusioni che hanno ricevuto il sostegno della grande maggioranza delle delegazioni [degli stati membri] nel corso delle discussioni” come dichiarazione della Presidenza, dall’incerto valore legale – anziché le Conclusioni del Consiglio UE, un atto unanime di indirizzo politico vincolante per le altre istituzioni UE. Secondo il ministro degli esteri slovacco, Miroslav Lajčák, così “abbiamo riaffermato il nostro impegno all’allargamento come politica cruciale per l’UE e investimento strategico nella stabilità, democrazia e prosperità in Europa. Consideriamo di grande importanza la credibilità dell’allargamento come processo bidirezionale – se un paese introduce le necessarie riforme, l’UE deve tenere fede ai suoi impegni”.

Un testo senza accordo, alla mercé di interpretazioni di parte

La mossa della Presidenza di pubblicare le sue conclusioni non è stata scevra da critiche. In primo luogo perché il testo pubblicato come dichiarazione della Presidenza non è lo stesso che era stato approvato solo pochi giorni prima dagli ambasciatori dei paesi membri. Nella ricerca di un compromesso all’ultimo minuto, hanno trovato la propria strada nella dichiarazione della Presidenza varie formulazioni che durante la discussione tra i ministri degli esteri avevano sollevato l’opposizione di diversi stati membri.

Tra queste, per quanto riguarda la Bosnia-Erzegovina, fa risalto soprattutto l’ultima frase del paragrafo 62, in cui il Consiglio sottolinea la necessità di garantire “l’eguaglianza di bosgnacchi, serbi e croati e di tutti i cittadini della Bosnia ed Erzegovina”. Una formulazione paradossale, che mette insieme due principi in contraddizione: il principio etnico dei tre popoli costituenti sancito nella Costituzione di Dayton, contro cui si è espressa più e più volte la Corte europea dei diritti umani, dal caso Sejdic-Finci in poi; e il principio civico dell’uguaglianza in diritti e doveri di tutti i cittadini bosniaco-erzegovesi, che dal primo è negato. Una formulazione che soddisfa soprattutto la Croazia, che intende usarla come grimaldello per sostenere il diritto alla “piena eguaglianza” della propria minoranza nazionale in Bosnia.

Una formulazione che ha fatto sollevare più di un sopracciglio a Sarajevo – dove la Commissione europea ha appena consegnato un esteso questionario di pre-adesione – e che come era prevedibile è stata colta al balzo dalla diplomazia croata. Il neo-ministro degli esteri HDZ, Davor Ivo Stier, in visita a Roma, ha dichiarato come “è importante sottolineare che tutti i 28 stati membri hanno espresso il loro accordo a tale formulazione”. Una evidente falsità. Ma quei croato-bosniaci, che secondo il censimento del 2013 costituiscono il 15% della popolazione, sono un importante bacino elettorale per Zagabria – e quindi meritano di essere “un po’ più uguali degli altri“.

E’ la prima volta che il Consiglio non pubblica conclusioni annuali sulla politica d’allargamento. Di fatto cambierà poco: per tutti i paesi dei Balcani la Commissione ha comunque un mandato a procedere, anche solo in base alle ultime conclusioni del Consiglio UE dello scorso settembre. Resta un segnale poco rassicurante. E l’evidenza che la politica d’allargamento è sempre meno un business as usual e sempre più vulnerabile alle tendenze populiste e alle questioni bilaterali aperte da questo o quello stato membro.

Andrea Zambelli