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6070.- Nel Medio Oriente diviso su Israele, prevale la cautela saudita

Il presidente iraniano “Ibrāhīm Raisi al vertice islamico tenutosi in Arabia Saudita guida la linea oltranzista: «Armare i palestinesi fino alla vittoria». Ma gli arabi sono divisi sulle sanzioni allo Stato ebraico. Gli Accordi di Abramo con Israele hanno lasciato il segno.

Riad, lo show di Raisi al vertice islamico: “Bacio le mani ad Hamas, resiste a Israele”

“Ibrāhīm Raisi al vertice islamico: “Bacio le mani ad Hamas che resiste a Israele”

Da Affari Internazionali, di Eleonora Ardemagni, 13 Novembre 2023

Diviso, dunque impotente. Il super vertice arabo-islamico di Riyadh (Lega Araba e Organizzazione per la Cooperazione Islamica insieme) ha messo a nudo la frammentazione del Medio Oriente di fronte alla dura offensiva militare di Israele nella Striscia di Gaza. Un’offensiva seguita al 7 ottobre, ovvero all’attacco, con modalità terroristiche, di Hamas contro Israele. Dal summit d’emergenza organizzato dall’Arabia Saudita non è emersa alcuna azione concreta, né proposta nuova: soltanto un simbolico invito all’embargo sulla vendita di armi a Israele. Occorre ricordare però che le armi comprate da Israele provengono per tre quarti da Stati Uniti e Germania, dunque non da partner mediorientali. Chiedendo una risoluzione vincolante che blocchi le azioni militari israeliane, i paesi arabi e islamici ributtano poi, per mascherare le loro divisioni, la ´palla della politica` nel campo del Consiglio di Sicurezza Onu, anch’esso più che mai diviso e bloccato.

Di certo, l’offensiva israeliana su Gaza ha offuscato le divergenze arabe su Hamas, in particolare tra le monarchie del Golfo. La notizia, però, sta proprio in ciò che il vertice organizzato dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman Al Saud non ha deciso: nessuna rottura delle relazioni diplomatiche con Tel Aviv (per chi ha normalizzato i rapporti), né embarghi petroliferi. Insomma, i proclami del presidente iraniano Ebrahim Raisi, presente al summit, hanno ottenuto un palco mediatico ma nessun consenso politico sufficiente a orientare la politica delle principali istituzioni arabo-islamiche.

Per MbS, la prova di leadership regionale è riuscita solo a metà. Infatti, la linea prevalsa è quella saudita (oltreché degli Emirati Arabi) della cautela verso Israele, anche se emergono i limiti di una posizione faticosamente intermedia fra il tradizionale appoggio alla causa palestinese e le recenti aperture a Israele. Perché anche i sovrani del Golfo, al di là dei consueti richiami alla creazione di uno stato palestinese, sembrano non avere idea del ‘come fare’.

Il summit di Riyadh

Nel comunicato finale del vertice congiunto fra Lega Araba (22 paesi) e Organizzazione per la Cooperazione Islamica (57 paesi inclusi quelli arabi), svoltosi a Riyadh il 10-11 novembre, i partecipanti hanno chiesto il cessate il fuoco immediato a Gaza e al Consiglio di Sicurezza Onu di approvare una risoluzione “vincolante” per porre fine “all’aggressione israeliana”. Nel testo, in cui manca la condanna dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, si chiede a tutti gli stati di attuare un embargo sulla vendita di armi e munizioni a Israele, nonché alla Corte Penale Internazionale di indagare sui “crimini di guerra commessi da Israele ”.

La bozza precedente, della sola Lega Araba, non aveva raggiunto la maggioranza dei voti: il testo chiedeva, su iniziativa di Iran e Siria, l’interruzione completa delle relazioni diplomatiche con Israele ipotesi avversata da alcuni paesi. Anche per superare lo stallo, la presidenza saudita ha così riunito i due vertici in un’unica sessione.

MbS condanna Israele ma senza strappi

Il principe ereditario saudita ha dichiarato che “le autorità d’occupazione israeliane sono responsabili di crimini contro la popolazione palestinese” e ha invocato, durante il bilaterale con Raisi, “il rilascio degli ostaggi e dei detenuti”. Il ministro degli esteri saudita Faisal bin Farhan ha poi criticato l’inattività dell’Onu, sottolineando la “necessità di ristrutturare la struttura di sicurezza internazionale“.

Eppure, dopo oltre un mese di guerra, il ministro degli investimenti saudita Khalid Al Falih ha affermato che l’ipotesi di normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Israele è “ancora sul tavolo, seppur “dipendente da una risoluzione pacifica della questione palestinese”. Le parole di MbS verso il governo israeliano sono state fin qui dure -non aspre però come quelle di Qatar e Turchia –  ma senza strappi.

Il Bahrein, firmatario degli Accordi di Abramo nel 2020, si è spinto un passo più in là, ma anche qui senza arrivare alla rottura: la Camera bassa (Majlis al Shura, senza potere legislativo) ha approvato il ritiro dell’ambasciatore e la cessazione delle relazioni economiche con Israele. Non sono però arrivate conferme né annunci dal governo di Manama.

Anche i media del Golfo riflettono le divergenze fra governi

Le differenti vedute dei governi arabi del Golfo sulla guerra Hamas-Israele e il contesto regionale si riflettono anche sulla stampa araba. Così, la qatarina Al Jazeera sottolinea che i leader arabi e islamici “non hanno un meccanismo per spingere il cessate il fuoco ”, criticando le “parole vaghe” del comunicato finale, utili solo “per il pubblico interno”. Invece, l’emiratino The National si sofferma sulla bocciatura della bozza  in cui si chiedeva lo stop alle relazioni diplomatiche con Israele.

Il vertice invoca l’embargo alla vendita di armi a Israele: è interessante notare però che i paesi firmatari degli Accordi di Abramo sono stati i destinatari, nel 2022, del 24% dell’export di armi israeliane (era il 7% nel 2021). Secondo i dati diffusi dal ministero della difesa di Tel Aviv, i partner arabi hanno comprato da Israele soprattutto droni, ma anche missili, razzi e sistemi di difesa aerea. Ciò che nel Golfo serve, insomma, a difendersi dagli attacchi delle milizie filo-Teheran.

Il gioco dell’Iran

Il bilaterale di Riyadh fra MbS e Raisi conferma che i sauditi e le monarchie non hanno interesse all’escalation regionale.Razionalmente non ce l’ha neppure l’Iran che sa di non poter vincere una guerra convenzionale. Ma non solo per questo. Infatti, più l’offensiva di Israele a Gaza continua, più gli Accordi di Abramo rischiano di logorarsi: questo sarebbe un punto in favore di Teheran, ostile alle normalizzazioni e a un equilibrio mediorientale di cui gli Stati Uniti sono il regista.

Se però le milizie filo-iraniane aprissero altri fronti di guerra (Libano, Yemen), le monarchie del Golfo percepirebbero una minaccia diretta più forte e ciò accrescerebbe la convergenza con Israele, a discapito così degli obiettivi di Teheran. In fondo, quando si tratta degli attacchi degli houthi dallo Yemen, sauditi, emiratini e israeliani devono già difendersi, di fatto, da missili e droni provenienti dallo stesso nemico. Anche questo fattore ha un peso nella perdurante cautela saudita su Israele.

4002.- Biden vende armi a Netanyahu. Fa il gioco di Hamas e cancella la pace di Trump.

Biden, e l’ “accordo del secolo”?

Israele-Gaza o Israele-Hamas? O, peggio! Hamas-Linkud? Linkud è il partito di Netanyahu. L’orrore fa salire Netanyahu, nei consensi, ma ad Hamas manca la dimensione della vasta partecipazione popolare come quelle del 1987 o del 2000. All’insaputa di larga parte del Congresso, Biden vende armi a guida di precisione a Israele per 735 milioni di dollari e rafforza gli estremisti ebrei,  poco prima degli attacchi di Hamas sulla striscia di Gaza, in risposta alla feroce repressione di Israele a Gerusalemme contro la proteste per gli sfratti nel distretto di Sheikh Jarrah. Bandiere rosse levate per alcuni membri della Camera più aperti a mettere in discussione il sostegno della DC a Netanyahu, suggerendo che la vendita venga condizionata e utilizzata come leva. La vendita riguarda le munizioni ad attacco diretto congiunto (JDAMS) che trasformano le cosiddette bombe “stupide” in missili a guida di precisione. Israele ha già acquistato JDAMS in precedenza, spiegando la sua scelta: gli attacchi aerei a Gaza guidati con precisione negli appartamenti e sulle famiglie dei capi di Hamas aiutano a evitare la morte tra i civili.

Dove sono finiti gli accordi di normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi racchiusi nella “Peace to Prosperity”, nome ufficiale della proposta di pace di Trump per il Medio Oriente, benedetta come “accordo del secolo”. La road map del piano andava sostanzialmente incontro agli interessi israeliani; ma non a quelli elettorali di Netanyahu. Ma, allora, c’è un legame fra l’elezione di Biden e la rielezione di Netanyahu?

Dal punto di vista operativo, le 181 pagine della “Peace to Prosperity”presentavano chiaramente un doppio framework (politico ed economico), nel quale emergevano almeno quattro punti critici:

1.- Israele mantiene la stragrande maggioranza di Gerusalemme come sua capitale sovrana e indivisa, lasciando ai palestinesi la periferia della città (in pratica l’area di Abu Dis) come loro capitale;

2.- I palestinesi non vedono riconosciuto alcun diritto al ritorno;

3.- Vengono ridisegnati i confini principalmente tra Israele e Cisgiordania, con i primi che annettono anche la valle del fiume Giordano, un’area fertile che rappresenta circa il 30% del territorio stesso, in cambio di piccole aree desertiche nel Negev vicino al confine con il Sinai e alcuni villaggi del cosiddetto “triangolo arabo”;

4.- È sancita la creazione di uno stato smilitarizzato per i palestinesi.

A questi elementi meramente politici si affiancavano le disposizioni economiche, che prevedevano, tra le altre cose, investimenti per 50 miliardi di dollari nei Territori occupati, senza spiegare bene come e dove sarebbero stati investiti questi fondi e senza affrontare i problemi esistenti sul terreno, come la situazione umanitaria al collasso nella Striscia di Gaza o la scarsa libertà di circolazione dei palestinesi in Cisgiordania. Nell’arco temporale di un quadriennio, gli israeliani si sarebbero impegnati, seppur senza alcun tipo di vincolo concreto, a congelare qualsiasi nuova costruzione di insediamenti nei territori occupati. 

Conclusioni:

Benjamin Netanyahu mette sempre più in un angolo la cosiddetta “soluzione dei due stati”, che dal 1967 la comunità internazionale considera la base di compromesso per risolvere la disputa territoriale fra israeliani e palestinesi e il piano Trump andava sostanzialmente incontro agli interessi israeliani, ma è stato vanificato dall’elezione di Biden. È una conclusione e anche una domanda.

Ocasio e Sanders incalzano Biden: «Non possiamo avere la linea di Trump». Perché?

Bene fa l’Antidiplomatico a ricordare all’esercito di occupazione israeliano le parole dello scrittore uruguaiano Edoardo Galeano, scritte nel 2012:

L’esercito israeliano, il più moderno e sofisticato al mondo, sa chi uccide. Non uccide per errore. Uccide per orrore. Le vittime civili sono chiamate danni collaterali, secondo il dizionario di altre guerre imperiali. A Gaza, su dieci danni collaterali, tre sono bambini. E ci sono migliaia di mutilati, vittime della tecnologia dello smembramento umano, che l’industria militare sta testando con successo in questa operazione di pulizia etnica.”

Intervista a Tom Segev:

La parola a Segev, autore di opere fondamentali sulla storia di Israele e commentatore del quotidiano Ha’aretz, che insiste sull’unicità della nuova ondata di violenze: “Uniti dal Covid, ora spazio agli estremisti … La guerra rafforza Hamas e Netanyahu: gli scontri etnici sono la novità, ma non è un’intifada»

CORRIERE DELLA SERA

Parlano le immagini:

Razzi, scontri e già 224 morti: cosa c’è dietro le nuove tensioni tra Israele e i palestinesi?
 Aerei israeliani e bombe americane hanno colpito l’abitazione di Yehiyeh Sinwar, il principale leader di Hamas. 

Israele-Gaza, Segev: «La guerra rafforza Hamas e Netanyahu: gli scontri etnici sono la novità, ma non è un’intifada»

Intervista a Tom Segev, autore di opere fondamentali sulla storia di Israele e commentatore di Ha’aretz, che insiste sull’unicità della nuova ondata di violenze. «Uniti dal Covid, ora spazio agli estremisti»

di Lorenzo Cremonesi, il Corriere.

Nelle immagini dell’abitazione distrutta, abbiamo visto le macerie nelle stanze, i giocattoli dei più piccoli. Si tratta del bilancio più drammatico provocato da un singolo attacco nella Striscia dall’inizio dell’offensiva dell’esercito israeliano

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«Questa non è una terza intifada. O almeno non lo è ancora diventata e non credo lo sarà. Manca la dimensione della vasta partecipazione popolare come quelle del 1987 o del 2000. Hamas da Gaza detta il ritmo del conflitto militare. Mi ha però molto colpito lo scontro interno ai confini di Israele del 1948 tra cittadini arabi ed ebrei. Non ce lo aspettavamo tanto violento». Tom Segev ci parla da Gerusalemme. Autore di alcune opere fondamentali sulla storia di Israele, per decenni commentatore per il quotidiano Ha’aretz, Segev insiste sull’unicità di questa nuova ondata di violenze.

Che cosa vede di nuovo?
«L’intensità dei disordini in località che sono al cuore dello Stato. Lod, la vecchia Lydda araba dove oggi si trova l’aeroporto internazionale: qui bande di ragazzini hanno bruciato tre sinagoghe. Come anche le aggressioni di Ramla, Acri e Giaffa, alle porte di Tel Aviv. Nel 1948 l’esercito israeliano aveva espulso praticamente tutta la vecchia comunità palestinese. Poi però una parte degli abitanti originari era tornata. Con i decenni erano diventati luoghi modello di coesistenza, pur se con grossi problemi di povertà e droga. Mi ha sinceramente sorpreso il saccheggio all’hotel di Acri, non lo ritenevo possibile. Sino a pochi mesi fa i nostri media raccontavano con entusiasmo del ruolo fondamentale giocato dai medici e dagli infermieri arabi negli ospedali mobilitati per l’emergenza Covid. Arabi nati e cresciuti tra noi, israeliani a tutti gli effetti. Avevamo scoperto che gran parte delle nostre farmacie era tenuta da farmacisti arabi. Però, attenzione, non credo si tratti di pogrom, o di “Notte dei Cristalli”, sono gravi violenze organizzate come abbiamo visto di recente in Francia o negli Stati Uniti».

Come lo spiega?
«Sono una minoranza. Ma aggressiva, ostile. La polizia non ha saputo contrastarla. A Lod, per esempio, il sindaco ha imposto il coprifuoco. Ma nessuno lo ha rispettato. Come pochi mesi fa, del resto, le forze dell’ordine non riuscivano a obbligare gli ebrei ortodossi ad indossare la mascherina e restare in casa. Abbiamo scoperto di essere un Paese poco governabile, quasi anarchico. Ne hanno approfittato anche gli estremisti ebrei».

In che modo?
«Gruppi legati alla destra nazionalista e religiosa hanno agito in modo coordinato per attaccare le zone arabe. Penso per esempio alla “Familia”, che è l’organizzazione violenta della tifoseria più fanatica e razzista della squadra di calcio del Betar Gerusalemme. Sono arrivati con gli autobus, centinaia di giovani decisi a vandalizzare, linciare, impaurire».

La chiamano terza intifada.
«No. Non credo sia corretto. Per ora domina lo scontro militare tra il nostro esercito e gli estremisti di Hamas. Quasi una guerra convenzionale, con missili, artiglierie e droni».

Chi vince?
«Per ora Hamas. Un fatto molto grave, sono fondamentalisti pericolosissimi, terroristi che sparano sulle città in nome della guerra santa. Usano gli aiuti che giungono dall’estero per costruire armi. Sono riusciti a imporsi come i difensori di Gerusalemme di fronte al mondo islamico e della causa palestinese. Ci hanno obbligati a chiudere il nostro aeroporto più importante e di fatto stanno paralizzando la vita civile. Però, rimane un evento limitato a poche minoranze di fanatici combattenti. Non è una rivolta generalizzata».

Le conseguenze politiche?
«Benjamin Netanyahu resta al potere, o comunque pare più forte di prima. Ci aveva fatto credere che si potevano annettere i territori occupati nel 1967 senza troppi problemi e ora ne paghiamo le conseguenze. Però, la sua politica di dividere i palestinesi a scapito dei moderati dell’Olp di Abu Mazen e beneficio invece dei fanatici di Hamas, alla fine per lui paga. Nonostante sia sotto processo per corruzione e politicamente molto debole, Netanyahu adesso fa leva sulla necessità dell’unità nazionale nell’emergenza. La grande novità sarebbe stata la partecipazione dei quattro deputati del Partito Arabo Unito guidato dal super-pragmatico Mansour Abbas nella coalizione di centro-destra assieme ai partiti di Yair Lapid e Naftali Bennett. Sarebbe stata l’unica coalizione alternativa al Likud di Netanyahu. Ma adesso non è più possibile».

2542.- Guerra tra Arabia Saudita e Yemen: perché nessuno parla di questa tragedia?

 

Da quasi quattro anni nello Yemen infuria una guerra civile che vede militarmente coinvolta anche l’Arabia Saudita: perché nessuno parla di questo conflitto così simile alla Siria?

Guerra tra Arabia Saudita e Yemen: perché nessuno parla di questa tragedia?

Nello Yemen è in corso una tragica guerra civile dove l’Arabia Sauditain modo diretto, oltre all’Iran in modo indiretto, gioca un ruolo determinante per questo conflitto che dura ormai dal 2015.

Se ci mettiamo poi che nel più che mai diviso territorio dello Yemen esistono anche zone del paese controllate dall’Isis e da Al-Qa’ida, ecco che allora lo scacchiere assomiglia sempre di più a quello della Siria.

L’assedio da parte di nove paesi arabi sunniti, guidati dall’Arabia Saudita e sostenuti dagli Stati Uniti, nei confronti dei ribelli sciiti, vicini all’Iran, che dal 2015 controllano la capitale San’a sta provocando infinite sofferenze ai civili.

Il blocco all’arrivo di qualsiasi rifornimento e medicinale sta portando circa 7 milioni di yemeniti alla fame, con un’epidemia di colera che soltanto negli ultimi tre mesi del 2017 ha provocato 2.000 morti. Ma perché l’Occidente e le Nazioni Unite tacciono di fronte a questa tragedia?

Leggi anche Perché c’è la guerra in Siria

L’Arabia Saudita e la guerra civile nello Yemen

Dopo una lunga divisione, nel 1990 lo Yemen del Nord e lo Yemen del Sud decidono di riunirsi in un unico stato, con San’a che diventa la nuova capitale. Presidente è Ali Abdullah Saleh, che all’epoca era alla guida del Nord fin dal lontano 1978.

A seguito nel 2012 delle rivolte nella parte meridionale del paese in quella Primavera araba che sconvolse molti paesi islamici, Saleh rassegna le sue dimissioni e al suo posto arriva il sunnita Abd Rabbuh Mansur Hadi, con il compito di guidare per due anni lo Yemen fino a nuove elezioni.

Visto il timore però che le elezioni sarebbero potute essere soltanto un miraggio e che il regno di Hadi potesse continuare invece per altri anni, nel febbraio 2015 il gruppo armato sciita degli Huthi, proveniente dal Nord del paese, conquista la capitale San’a e costringe alle dimissioni il presidente Hadi che si rifugia a Sud ad Aden, che così diventa una seconda capitale dello Yemen.

Da quel caos si arriva a un paese diviso in due: a Nord ci sono gli sciiti con il governo di Saleh nella capitale San’a, mentre a Sud nella città di Aden si è insediato il Presidente spodestato Hadi, l’unico riconosciuto dall’Occidente e dalle Nazioni Unite.

In tutto ciò Al-Qa’ida è riuscito a entrare in possesso di vaste zone nella parte orientale del paese, con anche l’Isis che si è stabilizzato in diversi villaggi facendo sentire la sua tragica voce con attentati fatti soprattutto contro gli sciiti di San’a.

Nel marzo 2015 l’Arabia Saudita sunnita si mette a capo di una coalizione di paesi sunniti comprendente anche Marocco, Egitto, Sudan, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain e Qatar.

Questa lega araba formata da nove paesi e capeggiata da Riyad inizia così un massiccio bombardamento in Yemen nei territori controllati al Nord dai ribelli Huthi, che da allora in pratica resistono a questo assedio con il supporto, paventato, soltanto dell’Iran ovvero il più grande stato sciita.

Il dramma dei civili

Lo stato di perenne assedio ha però fiaccato l’alleanza tra gli Huthi e il ras del Nord l’ex presidente Saleh. Quest’ultimo infatti, dopo aver cercato invano rifugio oltre confine, è stato catturato e ucciso dai ribelli fino a poco tempo fa suoi alleati.

Lo Yemen del Nord quindi ora è nel caos più totale ed è controllato dagli Huthi. Vista la debolezza creata dalla faida interna, sono aumentati i bombardamenti da parte della coalizione sunnita che sta aggravando ancora di più la situazione umanitaria.

Un conflitto che sta diventando sempre più cruento, visto che anche di recente ci sono stati violentissimi scontri tra lealisti e ribelli: 142 morti tra i militari dei due schieramenti, mentre 7 sono state le vittime civili.

Oltre ai militari uccisi, altissimo infatti è anche il bilancio delle vittime civili. Non sono soltanto le bombe saudite a fare strage di civili ma anche la fame(lo Yemen è lo stato più povero del Medio Oriente) e il colera.

Anche se da noi viene vista come una malattia ormai debellata, nello Yemensi parla di almeno 500.000 persone contagiate, con il colera che ha provocato soltanto negli ultimi tre mesi la morte di 2.000 persone.

Il blocco dei paesi arabi vicini imposto a San’a sta stritolando la popolazione del Nord, tra quella che sembrerebbe essere l’indifferenza generale anche delle Nazioni Unite che nulla hanno fatto finora per salvare la popolazione civile da questa atroce fine.

L’indifferenza dell’Occidente

Nel 2016 parlando della problematica situazione in Siria Ban Ki-moon, segretario generale dell’Onu, dichiarò che “la morte per fame utilizzata come arma rappresenta un crimine di guerra”.

Peccato però che per la guerra civile nello Yemen non sia stato rivolto lo stesso pensiero. L’Arabia Saudita non è stata mai sanzionata per i bombardamenti e, come se non bastasse, si è sempre opposta alla creazione di corridoi umanitari per permettere di inviare cibo e medicinali alla popolazione civile.

In pratica si starebbe utilizzando la fame e le epidemie come un’arma d’assedio, per convincere i ribelli Huthi a cedere visto che le bombe sganciate su San’a finora non hanno prodotto gli effetti sperati.

Immagine simbolo di questa tragedia è quella di Amal, bambina yemenita fotografata in un campo profughi dal premieo Pulitzer Tyler Hicks pochi giorni prima di morire per fame a soli sette anni.

Nicholas Ferrante, Money

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Amal Hussain, la bambina yemenita di 7 anni denutrita, è morta. Diritto alla vita negato.

Per ultimo c’è stata la tristemente famosa strage di bambini, con 43 morti e 60 feriti per un autobus che è stato colpito mentre si stava recando a un mercato situato nel Nord del paese, oltre al più recente bombardamento da parte dell’aviazione saudita di un ospedale di Save the Children che ha provocato 7 morti tra cui 4 bambini.

Il sentore è che la guerra nello Yemen sia un altro tassello della delicata partita a scacchi che si sta giocando in Medio Oriente. I ribelli che controllano la capitale San’a sono sciiti come l’Iran, storici alleati della Russia e del regime di Assad in Siria.

Si può dire invece che tutto il resto del Medio Oriente, Isis compreso, sia al contrario sunnita. Far cadere i ribelli Huthi nello Yemen vorrebbe dire per Stati Uniti e Arabia Saudita indebolire l’Iran, grande nemica di entrambi i paesi.

Alessandro Cipolla