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6140.- La sicurezza condiziona il Piano Mattei

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Migranti, Meloni ai ministri: “Serve un modello Caivano per l’Africa: tutti dobbiamo andare”

Da Il Secolo d’Italia del 5 Feb 2024 19:05 – di Sveva Ferri

Un “modello Caivano” per dare seguito agli intenti del Piano Mattei e chiudere spazio ai trafficanti nelle nuove rotte che hanno identificato, dopo gli interventi positivi che hanno frenato gli arrivi di migranti dalla Tunisia: è quello che il premier Giorgia Meloni ha presentato al governo, nel corso della sua informativa in Consiglio dei ministri sul tema dell’immigrazione.

La centralità del Piano Mattei e “il diritto a non emigrare”

“Prima con la Conferenza Internazionale su Sviluppo e Migrazioni, poi con la conferenza Italia-Africa si è avviato il percorso del Piano Mattei. Il tratto che nessuno deve dimenticare è che non abbiamo in mente un modello di cooperazione predatorio con le Nazioni africane bensì collaborativo, e rivendichiamo tra i tanti diritti da tutelare anche il diritto a non emigrare”, ha ribadito Meloni ai ministri.

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La cooperazione condivisa con i Paesi africani anche per colpire i trafficanti

“Dobbiamo insistere con le Nazioni della regione del Mediterraneo allargato e dell’Africa Sub-Sahariana, per un metodo di lavoro condiviso -ha aggiunto Meloni – che faccia contrastare insieme gli sbarchi di migranti sulle nostre coste, cooperando per colpire la rete dei trafficanti e aiutando le economie più fragili per rimuovere le cause che spingono a migrare”. “Crediamo in questo metodo e ci sentiamo confortati da piccoli segnali di speranza. Pensiamo – ha spiegato il presidente del Consiglio – al consistente calo degli sbarchi negli ultimi 4 mesi: comparando le settimane di inizio anno rispetto all’analogo periodo del 2023 siamo al – 41%”.

Sugli sbarchi di migranti “segnali di speranza”, ma nessuna facile illusione

I risultati conseguiti, però, ha di fatto avvertito Meloni, non devono far dimenticare la difficoltà della sfida. “È tuttavia una rincorsa continua”, ha avvertito il premier, ricordando che “contenere gli arrivi lungo una rotta porta all’attivazione o riattivazione di un’altra direttrice”. Così, “se 5 mesi fa la nostra prima preoccupazione erano gli arrivi dalla Tunisia, oggi lo è divenuta la costa della Tripolitania, che sta facendo registrare un incremento di partenze”. Meloni ha ricordato che “fra le nuove fonti di pressione vi sono anche gli arrivi dal Sudan, a seguito del conflitto iniziato nell’aprile 2023: i profughi sudanesi non si fermano più in Egitto, ma giungono in Libia, e da lì vengono da noi; e la decisione della giunta golpista in Niger di decriminalizzare in traffico di migranti, con conseguente aumento dei movimenti migratori da quell’area”.

Il “modello Caivano” per l’Africa, a partire da Libia e Tunisia: tutti i ministri devono andare

Dunque, “dobbiamo tenere alta l’attenzione. E per questo – ha chiarito il premier – ho bisogno di tutto il governo, poiché quello che immagino operativamente, e mediaticamente, è un “modello Caivano” da proporre per il nord del Continente africano, in modo particolare per la Tunisia e la Libia, ben consapevoli delle differenze sussistenti tra Tripolitania e Cirenaica”. “Dobbiamo sforzarci di far sentire ad entrambe le Nazioni la nostra vicinanza e il nostro reale spirito di solidarietà. Pensiamo innanzitutto a impostare tavoli ministeriali che rafforzino la collaborazione”, è stata dunque l’indicazione. “Andiamo tutti in Libia e Tunisia, sviluppiamo progetti, controlliamone l’esecuzione, coordinando, come per Caivano, le presenze, in modo – ha concluso il premier – che siano cadenzate e diano il senso della continuità”.

6139.- Il caos in Senegal inguaia ancora Ecowas

Il Nuovo Piano Mattei è la base fondante dell’interconnessione regionale tra MedAtlantic e IndoMed e conferirà autorevolezza alla politica italiana impegnata a valorizzare il capitale umano dell’Africa. A partire dal Magreb, ma in particolare nel Sahel, i problemi di istruzione e la povertà sono importanti quanto quelli dell’economia e la situazione nel Senegal è considerata solo leggermente migliore. Le giunte militari golpiste di Mali, Niger e Burkina Faso e i disordini che scuotono il Senegal non sono gestibili da Ecowas e rappresentano l’esca che agevola la penetrazione neocolonialista russa e cinese. Ecco un motivo per procedere alla rifondazione dell’Unione europea, a farne un soggetto politico sovrano, potente, capace di impegnare le sue risorse in politiche di solidarietà attiva. Lo stimolo dell’economia potrà sostenere la crescita sociale e culturale di questi Paesi e non quella economica di Russia e Cina. Per condurre queste politiche, serve radicarci nella società africana, ma prima di tutto coesione e comunanza di obiettivi nella nostra politica, vista come alfiere di civiltà e non come strumento di potere. Questa è senz’altro una missione degna del Capo dello Stato.

Da di Emanuele Rossi | 18/02/2024 – 

Il caos in Senegal inguaia ancora Ecowas

Mentre il Consiglio costituzionale senegalese ha annullato lo spostamento delle elezioni voluto dal presidente Sall, continua una fase opaca per il Paese, che mette in ulteriore difficoltà Ecowas, organizzazione cardine della regione dell’Africa settentrionale in profonda crisi di autorevolezza

I leader della Economic Community of West African States (nota con l’acronimo Ecowas) si dovevano riunire giovedì per parlare della decisione senza precedenti di lasciare l’organizzazione presa a fine gennaio dalle giunte golpiste di Mali, Niger e Burkina Faso. Invece si sono ritrovati a parlare di una situazione complessa (che però ha avuto diversi precedenti nella storia di Ecowas): il Senegal sta piombando nel caos, perché il suo presidente, Macky Sall, ha deciso di posporre al 15 dicembre le elezioni – che erano programmate per domenica 25 febbraio. Dakar è piombata nel caos, proteste di piazza sotto slogan tipo “Sall è un dittatore”, scontro con le forze di sicurezza che hanno usato le maniere forti e procurato alcune vittime — “scontri provocati dall’arresto ingiustificato del processo elettorale”, che fanno “sanguinare il cuore di ogni democratico”, per dirla come il sindaco della capitale senegalese.

Bola Tinubu, presidente nigeriano che guida Ecowas, doveva recarsi personalmente a palare con Sall, ma le condizioni di sicurezza l’hanno portato a evitare il viaggio, dato che qualsiasi cosa di negativo gli fosse successo avrebbe avuto una eco complessa. L’organizzazione soffre una fase di criticità profonda: per dire, ha invitato il Senegal a “ripristinare urgentemente il calendario elettorale”, ma il blocco è consapevole che la sua influenza è praticamente inesistente. A maggior ragione in un momento in cui tre nazioni guidate da governi militari stanno già sfidando le sue richieste. Ora l’opaca situazione in Senegal la mette ancora più in difficoltà, dato che Dakar è considerata un bastione democratico — senza un golpe o un tentativo di alterazione del processo istituzionale dalla nascita della democrazia, nel 1960.

Nelle ore in cui questa analisi viene scritta, il Consiglio costituzionale senegalese ha annullato il rinvio delle elezioni presidenziali di questo mese, “una decisione storica che apre un campo di incertezza per la nazione tradizionalmente stabile dell’Africa occidentale”, spiega Fabio Carminati su Avvenire. Resta che la posposizione è stata votata da un parlamento assediato dalle forze di sicurezza lealiste, che hanno anche arrestato parlamentari di opposizione. Attenzione: il Consiglio di fatto ha dichiarato “impossibile organizzare le elezioni presidenziali nella data inizialmente prevista”, ma ha invitato “le autorità competenti a tenerle il prima possibile” – ossia non accetta il 15 dicembre, ma è “impossibile” votare il domenica 25 febbraio.

Cosa farà il presidente? Sall cercava un terzo mandato, e senza la possibilità di guidare il Paese ha cercato di spianare la strada a una sua successione a suon di repressione (i suoi oppositori sono stati in più occasioni arrestati nei mesi scorsi con accuse di insurrezione o pretestuose). Secondo i critici, arrivato a ridosso del voto ha percepito che il suo candidato (il primo ministro in carica) non avrebbe avuto una vittoria sicura, e allora ha spostato le elezioni per prendere tempo e aver dieci mesi in più di governo e campagna elettorale — forse addirittura sostituire il candidato.

Le critiche scoppiate per lo slittamento del voto sono frutto di un risentimento già esistente: Salò ha prodotto politiche che molti giovani senegalesi non hanno visto come efficaci nel fornire loro posti di lavoro, e molti hanno cercato rotte di migrazione irregolare verso l’Europa. Il Senegal ha problemi di istruzione, povertà e capitale umano, ed è considerato solo leggermente meglio dei Paesi guidati da giunte militari nel Sahel (e lì le condizioni sono pessime e prive di sbocchi). Sall nega ogni accusa, rivendica una scelta costituzionalmente corretta. Ma la sua mossa non ha solo messo nel caos il Paese, piuttosto ha ulteriormente danneggiato l’immagine dell’organizzazione che si dovrebbe occupare della stabilità in quella articolata regione — i cui effetti si allargano facilmente verso l’Europa in termini di sicurezza (dal terrorismo alle migrazioni, fino ad arrivare agli equilibri con attori rivali e competitivi come la Russia). 

Per dire, quando la scorsa estate il Niger è stato oggetto di un colpo di Stato, Ecowas aveva minacciato un intervento militare che Nigeria e Senegal avrebbero dovuto guidare. Nel frattempo, dopo che Ecowas ha fallito nell’attività di deterrenza e Niamey è rimasta in mano ai golpisti, Niger e Burkina Faso hanno comunicato non solo di abbandonare la Comunità, ma anche la West African Economic and Monetary Union (basata sul franco francese) e stanno pensando a una confederazione alternativa con il Mali.

6138.- Dalla Via della Seta al Quad, Terzi traccia la nuova strategia italiana

Il Nuovo Piano Mattei rappresenta la base delle interconnessioni tra MedAtlantic e IndoMed, tra le regioni del Mediterraneo e degli oceani Indiano, Pacifico e Atlantico, interconnessioni che fin d’ora non sono limitate agli aspetti economici. É questa la via per costruire una politica europea capace di accogliere anche la Federazione Russa.

Da Formiche.net, di Emanuele Rossi, 24/02/2024 

Dalla Via della Seta al Quad, Terzi traccia la nuova strategia italiana

Nell’intervento del senatore Giulio Terzi di Sant’Agata al Raisina Dialogue, l’importante conferenza indiana sulla politica internazionale, si delineano gli interessi dell’Italia nel grande dossier delle interconnessioni tra Mediterraneo allargato e Indo Pacifico. Connettività, sicurezza e visioni comuni

Dall’impegno italiano lungo le rotte indo-mediterranee martellate dalle armi iraniane degli Houthi, all’impegno italiano nell’Indo Pacifico che passa anche dal passaggio di consegne Meloni-Kishida alla guida del G7, fino alle rinnovate relazioni con l’India: il senatore di Fratelli d’Italia Giulio Terzi di Sant’Agata, presidente della Commissione Politiche europee ed ex ministro degli Esteri, descrive il quadro ampio della politica estera italiana, invitato nella capitale indiana per il ruolo alla camera alta italiana nonché come presiedente del Gruppo di amicizia parlamentare Italia-India. La cornice è quella del Raisina Dialogue, la grande conferenza sulla politica internazionale organizzata a New Delhi, dove Terzi ha avuto anche un incontro riservato con l’ospite dell’evento, il ministro degli Esteri Subrahmanyam Jaishankar, una serie di iniziative laterali e particolare attenzione da parte dei media locali — segno anche di un’attenzione riservata all’Italia.

“È chiaro che la comunità euro-atlantica si aspetta di interagire sempre di più con la dimensione indo-pacifica e di esserne percepita come parte integrante, soprattutto quando si tratta di coalizioni di sicurezza, crescita economica, scienza e tecnologia, Stato di diritto e diritti umani”, spiega Terzi intervenuto anche durante il panel “The Europe Files” del Raisina e toccando alcuni dei temi che hanno caratterizzato tutti l’evento indiano: le interconnessioni tra MedAtlantic e IndoMed, tra le regioni del Mediterraneo e degli oceani Indiano, Pacifico e Atlantico.

Iniziative specifiche che già coinvolgono alcuni membri europei e la Nato sono chiari esempi di certi impegni. Tra questi, l’istituzione di un gruppo di lavoro intraparlamentare sul Quad negli Stati Uniti, che per Terzi dimostra come l’integrazione della dimensione della sicurezza tra la regione euro-atlantica e quella indo-pacifica è un dato di fatto. Una volontà concreta espressa anche nella ministeriale del G7 organizzata durante l’altra grande conferenza di questa settimana, quella sulla sicurezza di Monaco di Baviera.

Congiunzioni che intersecano settori articolati, dal commercio all’energia, dagli scambi culturali alla connettività infrastrutturale (fisica e digitale): settori dove il controllo geopolitico, politico internazionale e securitario, sta crescendo. “Il mercato globale sta cambiando radicalmente. Oltre alle esigenze di salvaguardia della libertà di commercio, è sempre più vitale garantire la sicurezza degli approvvigionamenti, attraverso le rotte e i corridoi marittimi”, spiega Terzi, aggiungendo che “è in questo contesto che l’Italia si è ritirata dall’iniziativa cinese della Via della Seta e dal MoU firmato da un precedente governo italiano. Questa decisione è stata presa per rispettare pienamente le politiche commerciali dell’Ue e gli impegni assunti con il mercato unico”.

Ricordando la recente Conferenza Italia-Africa, durante la quale è stato presentato l’approccio che il Paese intende prioritarie verso il continente usando come ponte il Piano Mattei, il senatore ricorda che “l’Italia sta compiendo notevoli sforzi per contribuire alla ridefinizione delle politiche europee in aree critiche. Non solo per quanto riguarda la crescita economica, ma anche la dimensione cibernetica, l’intelligenza artificiale e la migrazione attraverso approcci concreti e realistici”.

Il tema della difesa e della sicurezza, per anni forse trascurato, è tornato al centro del dibattito e delle agende politiche, fa notare l’ex ministro italiano delineando come parte dell’apprezzamento internazionale al governo Meloni (che Terzi sostiene) derivi anche dalla rassicurazione data dall’Italia sul sostegno all’Ucraina. Rassicurazione che nelle prossime ore potrebbe prendere maggiore concretezza con la prima riunione tra leader del G7 che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni dovrebbe presiedere da Kyiv. Una posizione solida quella italiana, che collima con impegni arrivati anche dal bacino indo-pacifico, come testimoniano i nuovi aiuti all’Ucraina varati da Tokyo nei giorni scorsi, per esempio.

Sollecitato con una domanda sulle questioni comuni che riguardano l’Ue, oltre al tema securitario e politico dell’immigrazione, Terzi ha citato il Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa (Imec) che fa da simbolo delle interconnessioni in corso nell’Indo Mediterraneo, le quali seguono anche la necessità di costruire nuove catene del valore e di approvvigionamento. L’Italia è parte del progetto, lanciato dal vertice G20 di New Delhi lo scorso settembre, che è a sua volta uno dei grandi punti di contatto Roma-India. “La partnership strategica tra Italia e India firmata dai primi ministri Narendra Modi e Meloni lo scorso marzo è da considerarsi un vero e proprio punto di svolta sia per le nostre relazioni bilaterali che per le relazioni strategiche con l’India”, sottolinea Terzi.

Non a caso, Imec e le sue opportunità saranno al centro del “The India Forum” che si terrà a Roma il prossimo giugno, dove la connettività internazionale sarà tra i grandi temi anche del G7 a guida italiana.

”Ma mi piace pensare che tra Italia e India non ci sarà solo una vicinanza in termini economici, ma anche in termini sociali e culturali”, dice Terzi elevando il livello del ragionamento e ricordando l’ispirazione indiana che ha mosso capolavori del design come la lampada ‘Ashoka’ di Ettore Sottsass, creazione “omaggio ad Ashoka il Grande che, come noto, è un esempio di non violenza, di diritti e doveri reciproci e di pace. Ashoka ha lasciato anche un dono importante, un regalo e un messaggio: l’Ashoka Chakra, oggi ben visibile al centro della bandiera dell’India. Ettore Sottsass sembra aver saputo cogliere alcune radici profonde della cultura indiana. Per questo motivo, credo che la sua esperienza rappresenti un armonico scambio culturale: un’ispirazione per tutti noi”.

6137.- In assenza di contenuti, l’opposizione sfida il Governo con manichini capovolti, bruciati e cortei non autorizzati.

Manifestare è un diritto se si seguono le pur semplici prescrizioni. Invece, prima si violano le regole e, poi, “Basta manganelli”. Andando alla radice, il messaggio del Presidente Mattarella può essere letto come una scusa per gli organizzatori, ma non richiesta. Discutere degli oltraggi continui all’autorità da parte di una parte politica elettoralmente sconfitta ci porta lontano. Bisogna farlo anche se vengono in campo le massime istituzioni. Anche la guerra in Medio Oriente, che suscita orrore, esprime una situazione complessa fuori della portata delle piazze, che ci riguarda e su cui informare e dibattere.
La manifestazione irregolarmente tenuta avrebbe potuto essere preannunciata e, eventualmente, autorizzata, anziché tradursi in una violazione dell’autorità. Questo dovrebbe essere oggetto di discussione in Parlamento e di un richiamo del Capo dello Stato. La condivisione del ministro rispetto al richiamo vale come segno di grande rispetto. Detesto i manganelli, ultima ratio, quindi, “ratio” e non fallimento. Il fallimento comincia quando l’autorità non viene rispettata e se ne contesta in piazza l’autorevolezza violando le regole. Non è questo il modo di tenere l’agone politico e, perciò, il messaggio del Presidente può presentarsi parziale. Sono modi di sentire diversi.
Il sentire di un popolo muta e si evolve. Oserei dire che un doppio mandato, per quattordici anni, non consente a nessun Presidente della Repubblica, nemmeno se fosse Gesù Cristo, di rappresentare sempre e al meglio sia il Popolo sia il Governo espresso dalle urne. Sarebbe molto democratico riprendere i lavori dei costituenti e dibattere civilmente su questo vulnus creato da Giorgio Napolitano e proseguito da Lei, sicuramente buona mente, ma con effetti che, nel tempo, possono risultare politicamente divisivi. Dall’Africa al Medio Oriente, all’Asia Transcaucasica la scena in cui operano i Governi è rovente. Con fiducia e con rispetto, ambirei chiederLe se pensa di poter mettere un freno a questo modo almeno irrituale di fare politica, oppure, se insulti, manichini capovolti, bruciati e cortei non autorizzati debbano accompagnare i governi espressi dai partiti diversi da quelli all’opposizione, che l’hanno anche eletta.

Mattarella sente Piantedosi: “I manganelli esprimono un fallimento”. Nel ministro trova “condivisione”

Da Il Secolo d’Italia, 24 Feb 2024, di Sveva Ferri

mattarella piantedosi

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è intervenuto sugli scontri di piazza che si sono verificati ieri a Pisa e Firenze, con una telefonata al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, resa pubblica dal Quirinale. Il Capo dello Stato, si legge nella nota del Colle, “ha fatto presente al ministro dell’Interno, trovandone condivisione, che l’autorevolezza delle Forze dell’Ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni. Con i ragazzi – è la conclusione – i manganelli esprimono un fallimento”.

Mattarella “trova condivisione” in Piantedosi

È notizia di stamattina, inoltre, che Piantedosi ha avuto una serie di contatti telefonici con i leader sindacali per fissare un incontro, previsto lunedì alle 12, sui “recenti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine”, come confermato dal Viminale. Ieri, lo stesso Dipartimento di Pubblica sicurezza aveva rilasciato una nota nella quale aveva contestualizzato gli scontri nelle difficoltà che si generano “dal mancato rispetto delle prescrizioni adottate dall’autorità ovvero dal mancato preavviso o condivisione dell’iniziativa da parte degli organizzatori”, ribadendo che il proprio impegno ”è da sempre proteso a garantire il massimo esercizio della libertà di manifestazione e nel contempo ad assicurare la necessaria tutela degli obiettivi sensibili presenti sul territorio nazionale”.

La “riflessione” del Dipartimento di pubblica sicurezza su Firenze e Pisa

Nella nota, però, era stato aggiunto anche un altro passaggio: “Quanto verificatosi nelle città di Firenze e di Pisa costituirà, come sempre, momento di riflessione e di verifica sugli aspetti organizzativi ed operativi connessi alle numerose e diversificate tipologie di iniziative, che determinano l’impiego quotidiano di migliaia di operatori delle forze dell’ordine”. Dunque, prima ancora del netto richiamo di Mattarella, lo stesso Viminale nelle sue articolazioni amministrative si era posto il problema della dinamica di piazza. Quanto alla sua guida politica, appare chiaro che la riunione fissata con i sindacati è un segnale che Piantedosi vuole dare.

L’appello di FdI ad abbassare i toni

Sulla necessità di abbassare i toni e fare il possibile per contemperare il diritto alla libertà di manifestare con le esigenze di sicurezza si è espresso anche il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli. Il ministro, Francesco Lollobrigida, poi, ha invitato le forze politiche ad avere un atteggiamento di fiducia nelle forze dell’ordine e non a considerarle in partenza “soggetti da accusare che si devono giustificare”. Messaggi, dunque, improntati alla responsabilità, rispetto ai quali resta da capire cosa vorrà fare quella sinistra che soffia sul fuoco delle piazze. E che mentre oggi si spertica nel condividere le parole di Mattarella, ieri ne ha accolto con una certa freddezza l’avvertimento sull’esigenza di assumere un atteggiamento degno nell’agone politico, rigettando le “intollerabili manifestazioni di violenza” di cui è stata fatta oggetto il premier.

6203.- “L’Italia è una Repubblica democratica”? Esistono forme di governo repubblicano non democratiche?

In risposta a una domanda di Quora, 2 febbraio 2024, Aggiornato il 2 febbraio 2024.

Dovremmo esaminare diversi fattori: l’uscita da una dittatura e da una guerra, durante una guerra civile e una occupazione militare ancora presente, l’ignoranza conseguente delle masse nella politica, delle donne in particolare, la presenza dello Stato della Chiesa nello Stato, i vincoli in politica estera dell’articolo 16 del trattato di pace. Tutto sommato, alla fine della Prima Guerra Mondiale, ma anche della Seconda, non ci fosse stato il pericolo delle bande armate comuniste, la monarchia costituzionale avrebbe avuto bisogno soltanto di un cambio di casata: gli Aosta, per esempio e, perché no, i Borbone. É questa attuale una forma repubblicana democratica più all’apparenza che nella sostanza, nella quale le più alte cariche non provengono dal voto del popolo sovrano, le elezioni politiche non indicano il Capo del Governo e l’art. 49, che imponeva i partiti come mezzo di partecipazione alla politica della Nazione, rimane molto condizionato nel suo misero indirizzo del “come”: “con metodo democratico”, anzi deviato, dalla presenza di un forte partito comunista con obiettivi per niente democratici. E il partito comunista ha insegnato a occupare il potere, ha colonizzato l’apparato statale e non ha insegnato la democrazia. Ciò non toglie che ci furono costituenti comunisti di pregio, come Umberto Elia Terracini, senatore, che non approvò la rieleggibilità del Capo dello Stato. Per il vero, nemmeno la negò, trovandola indegna di alcun cenno: Un capo per 14 anni non è democrazia. Non può rappresentare nessuno per tanto tempo. É – con rispetto per la carica – un impostore! Sicuramente, l’attuale forma repubblicano-democratica, con i partiti leadership, in lotta per il potere, non è l’ideale, ma può piacere, anche se il cittadino consapevole vede difficilmente soddisfatte le sue possibilità di dialogo. Può e potrà piacere finché alla base mancherà una società consapevole dei valori comuni. Ecco che la “leadership” consente di raggiungere l’apparenza della coesione intorno al leader. Resta fuori chi dissente o vorrebbe argomentare, però. Per queste brevi note, trovo coerente il progetto di elezione diretta del Capo del Governo, ma anche del Capo dello Stato e, già che ci diciamo europei, anche del Capo o della Capa della Commissione.

Sulla riforma costituzionale del Governo

La riforma sostanzia un compromesso soddisfacente, ma pericoloso. In parte, mi significa che la deriva dei partiti verso la leadership non è stata sufficiente a dare stabilità ai governi della Repubblica. Sicuramente il quinquennato potrà raggiungere meglio questo obiettivo. Bisognerà però che nei partiti – anche’essi, a cascata, divenuti leadership – si garantisca qualcosa di meglio del “metodo democratico”, Il partito comunista, ieri perché oggi non sa cosa volere, mirava alla conquista (anche armata) della Repubblica operaia. Di fatto, mirava a sostituirsi al Partito Nazionale Fascista e una più attenta disciplina dei partiti politici lo avrebbe ostacolato. Oggi siamo maggioranza, ma tremo all’ipotesi di un presidente di sinistra, per 7+7 anni, insieme a un premier eletto per 5 anni e, qui, sta il pericolo. A mio modestissimo parere, la vera riforma si avrà quando sarà ridefinita la figura e non solo i poteri, del Capo dello Stato, sopratutto la procedura per la sua messa in stato d’accusa in caso di devianza. Parole gravi, che traggono da un più grave accadimento e parlo di eversione, quale è stato lo scandalo C.S.M. non seguito dal suo scioglimento a’ sensi di legge: L. 24 marzo 1958, n. 195. É senza senso parlare ancora di divisione dei poteri, quindi di democrazia, a fronte della autodichiarazione di politicizzazione del C.S.M. già super partes, rilasciata da un suo membro di spicco e della confessione della avvenuta sua cooptazione da parte del suo presidente e Capo dello Stato, finalizzata a alterare il corso democratico della Repubblica. Quella che chiamai eversione rossa. Dio ce ne guardi.

6198.- Summit Italia-Africa, un cambio di paradigma? Scrive Martini (Ecco)

Da Formiche.net, di Lorena Stella Martini | 28/01/2024 – 

Summit Italia-Africa, un cambio di paradigma? Scrive Martini (Ecco)

Con la presidenza del G7, nel 2024 l’Italia ha lo spazio politico a livello internazionale per portare avanti un cambio di passo che contribuisca davvero a sbloccare le potenzialità del continente. L’analisi di Lorena Stella Martini, policy advisor di politica estera del think tank Ecco

In occasione del Summit Italia-Africa che si terrà a Roma da oggi a domani 29 gennaio, il governo presenterà la cornice politica e le direttive del Piano Mattei per lo sviluppo dei Paesi africani, condividendole con i numerosi leader africani che affolleranno la capitale.

Affinché il Piano renda davvero giustizia al nome che porta e costituisca un approccio paritario al continente africano come promette, all’Italia serve una strategia innovativa e coraggiosa, che definisca un vero e proprio cambio di paradigma rispetto ai modelli del passato. Solo così l’obiettivo ultimo del Piano, ovvero promuovere stabilità e sviluppo in Africa, andando ad agire sulle cause alla radice dei movimenti migratori, potrà essere raggiunto e mantenuto. Ciò anche in considerazione dell’esponenziale crescita demografica del continente e dei sempre più pesanti impatti del cambiamento climatico.

Il focus sull’Africa è fondamentale per la proiezione esterna del nostro Paese sotto diversi punti di vista: sia a livello politico e securitario, sia economico, dove l’energia – o in altre parole, l’approvvigionamento di combustibili fossili – ha sempre giocato un ruolo principe. Ciò, ancor più in seguito alla crisi energetica esacerbata dall’invasione russa dell’Ucraina, quando l’Italia ha portato avanti una massiccia politica di investimenti nei combustibili fossili africani. Un modello che, per svariati motivi, appare oggi obsoleto e non più in linea con gli obiettivi e gli interessi dell’Italia.

Infatti, né l’argomento della sicurezza energetica del nostro Paese – che è già garantita – né un’analisi delle tendenze al ribasso della domanda e dei prezzi del gas a livello italiano ed europeo giustificano nuovi investimenti e garanzie per lo sfruttamento del gas in Africa. Uno sfruttamento che sarebbe peraltro in contraddizione con gli impegni assunti dall’Italia sulla via della decarbonizzazione.

Inoltre, se la volontà è quella di favorire uno sviluppo dei Paesi africani, che sia sostenibile e di lungo termine, è bene riflettere sulla retorica secondo la quale il gas sarebbe veicolo di sviluppo economico-sociale e stabilità politica. L’assaggio dell’instabilità dei mercati internazionali di oil&gas che abbiamo avuto nel corso degli ultimi due anni ha infatti dimostrato come sulle fonti fossili non si possa basare la crescita stabile, costante, sostenibile e inclusiva di cui i Paesi africani hanno bisogno. A ciò si aggiunge l’impatto di un tale modello di sviluppo sul cambiamento climatico, che in Africa corre più veloce che altrove, con risultati sempre più disastrosi: si stima che nel solo 2022 eventi estremi dal punto di vista atmosferico, climatico e idrogeologico abbiano generato in Africa danni per 8.5 miliardi di dollari.

Per diventare un partner davvero strategico per il continente africano sul lungo periodo, l’Italia deve allora guardare altrove, in particolare abbracciando l’opportunità rappresentata dalla crescita verde e dalla transizione energetica. Ciò significa, in primis, focalizzarsi sulle energie rinnovabili, ma anche sulle materie prime critiche, e affiancare alla promozione di politiche di mitigazione anche politiche di adattamento agli impatti del cambiamento climatico.

Sono tutti punti, questi, emersi come centrali nelle dichiarazioni degli stessi leader africani, che all’African Climate Summit dello scorso settembre hanno messo in luce la volontà di orientarsi verso un modello di sviluppo sostenibile basato sulla crescita verde e su un’economia a basse emissioni, lontana da modelli di sfruttamento estrattivi. Rivendicazioni riscontrabili anche in seno alle eterogenee declinazioni della società civile africana, il cui coinvolgimento è imprescindibile al fine di elaborare un Piano che sia davvero co-costruito con i partner africani – laddove i partner non siano solo le élite – e che si configuri come non predatorio e paritario. Ciò implica in ogni settore, anche in quelli più innovativi, allontanarsi da quelle logiche di sfruttamento che tanto a lungo hanno caratterizzato il rapporto con i Paesi africani, per favorire innanzitutto la creazione e la crescita di catene del valore locali, foriere di uno sviluppo africano a 360 gradi.

Complice anche la presidenza del G7, nel 2024 l’Italia ha lo spazio politico a livello internazionale per portare avanti un cambio di passo che contribuisca davvero a sbloccare le potenzialità dell’Africa. Una relazione che deve estendersi anche sul piano finanziario, attraverso la riforma dell’architettura finanziaria internazionale, della quale l’Italia può farsi portavoce in sede G7, e con soluzioni che contribuiscano a fornire un sostegno immediato alla liquidità e a ripristinare la sostenibilità del debito dei Paesi africani. La posta in gioco è alta. Il Piano Mattei saprà essere la giusta cornice per questo cambio di paradigma?

6189.- Meloni-Erdogan, l’ex ambasciatore ad Ankara: missione fortemente simbolica. L’intesa sui migranti rilancia il Piano Mattei

Un passo del Governo Meloni decisivo verso il futuro dell’area mediterranea allargata, foriero di stabilità per la Nuova Via della Seta e il Nuovo Corridoio Arabo-Indiano; e non sarà stato facile accompagnare Recep Tayyip Erdoğan a questo risultato. Sulla questione libica, il governo turco seppe unire l’approccio politico a quello militare, andando incontro alle richieste di aiuto di Tripoli.

Da Il Secolo d’Italia, 21 Gen 2024 11:58 – di Ginevra Sorrentino

Meloni Erdogan

L’ex ambasciatore italiano in Turchia Carlo Marsili non ha dubbi a riguardo: quella della Meloni in Turchia da Erdogan è una missione «importante e significativa anche dal punto di vista simbolico», che arriva in un momento in cui ci sono «problemi di carattere internazionale che riguardano da vicino i due Paesi, innanzitutto il conflitto in Medio Oriente». Ma anche il conflitto russo-ucraino, su cui «si possono raggiungere convergenze maggiori». Una riflessione pregna di significato e di rimandi, quella che il diplomatico affida all’Adnkronos, e in cui sottolinea come un tempo ci fossero «rapporti strettissimi» fra i due Paesi, seguiti poi da un «raffreddamento negli ultimi nove, dieci anni». Un contesto in cui il bilaterale di ieri tra la premier e il Sultano ha avuto senza dubbio il merito di aver focalizzato l’attenzione istituzionale dei due Paesi sull’incremento dei «progressi sul piano bilaterale per cercare di incrementare ancora gli scambi tra due Paesi».

Summit Meloni-Erdoğan, l’ambasciatore Marsili: Israele e Ucraina in agenda, col pensiero a migranti e “Piano Mattei”

In particolare, allora, nella sua disamina l’ambasciatore pensa alla prossima Conferenza Italia-Africa, un «tentativo del governo di rilanciare il Piano Mattei» e, relativamente all’incontro di ieri, al «tipo di collaborazione che la Turchia potrà dare all’Italia sul piano dei rapporti con l’Africa e sul contrasto all’immigrazione irregolare, che passa per la Libia», dove la «presenza turca è fortemente consolidata», «perché la Turchia ha avuto in questi ultimi anni una penetrazione molto forte nei Paesi africani», sia a livello di «rapporti politici che di collaborazione sul piano economico e commerciale».

Marsili: la missione della Meloni da Erdogan, «importante e significativa anche dal punto di vista simbolico»

Allora, le due ore di bilaterale sul Bosforo tra la premier Meloni e il Sultano Erdogan condensano in un incontro i temi in cima all’agenda politica e al centro dello scacchiere internazionale. Un primo incontro, quello tra i due leader a confronto sulla gestione dei flussi migratori, i nodi della crisi in Medio Oriente e il conflitto tra Russia e Ucraina che poi, come il protocollo prevede, ha affidato alla diplomazia il compito dei dettagli e della ratifica dei punti fissati nel summit: il primo vero summit a due, e rigorosamente “chiuso alla stampa”, nonostante presidente del Consiglio italiano e presidente della Turchia si fossero già incrociati in diverse occasioni istituzionali internazionali. L’ultima delle quali a Dubai in dicembre.

Le contraddizioni del Sultano mediatore

Uno di fronte all’altro, allora, Meloni – a Istanbul anche in qualità di presidente di turno del G7 – e Erdogan analizzano i dossier sul tavolo e i punti nevralgici dello scenario internazionale in cui, come noto, la Turchia si è fin qui ritagliata un ruolo di mediazione centrale nella ricerca degli equilibri possibili. Un impegno per cui la premier ha comunque ringraziato Erdogan per «i costanti sforzi di mediazione diplomatica di Ankara» sulla «riattivazione della Black sea grain initiative» mirata a «sbloccare l’invio di grano dai porti ucraini dopo che nel luglio scorso la Russia non ha rinnovato l’accordo». Ma su cui, al tempo stesso, non possono sfuggire le contraddizioni in essere.

Mediazione e ambivalenze

Contraddizioni che animano ruoli e mansioni sullo scacchiere internazionale, in cui Erdogan si è proposto in funzione di arbitro mediatore, senza però risolvere fin qui –come rileva oggi Il Giornale in edicola – le evidenti ambivalenze in campo. La Turchia – scrive allora il quotidiano milanese – «è occidentale ma musulmana. Fa parte della Nato (secondo contributore di truppe dopo gli Stati Uniti) ma parla e fornisce materiale bellico a Vladimir Putin. E si fa forte di queste contraddizioni per trattare e mediare: dagli ostaggi israeliani prigionieri di Hamas ai corridoi sul grano di Kiev, una delle armi di ricatto di Mosca nei confronti dell’Occidente».

Migranti, Meloni e Erdogan al lavoro su un’intesa sulla rotta nord-africana

Una partita complessa, quella in corso, che al momento vede fischietto e cartellini nelle mani della Turchia, e che interseca il delicatissimo fascicolo immigrazione, con la Libia punto di approdo e di ripartenza ormai da anni di flotte di scafisti e migranti sulla sua rotta. Un tema nevralgico spiccato tra i punti all’ordine del giorno del bilaterale di ieri a Istanbul, con Meloni e Erdogan impegnati a ridefinire e rinvigorire linee d’intervento e operatività sul fronte della cooperazione migratoria. Un fronte che, come rilevato già ieri, lo scorso anno ha portato ad una riduzione del 56% dei flussi irregolari lungo il corridoio Italia-Turchia.

Migranti, Turchia e Libia: lo snodo cruciale del summit di ieri

Un punto su cui ha lavorato energicamente anche il ministro dell’Interno Piantedosi, e che ora mira anche a un’intesa sulla rotta nord-africana. E su questo, spiegano da Palazzo Chigi, sinergie e  cooperazione saranno sempre più strette, e su cui i rispettivi ministeri di Italia e Turchia intendono coordinarsi e raggiungere un’intesa a breve. Proprio sulla Libia, infatti, spiega l’inviato a Istanbul de Il Giornale, «il confronto era stato avviato a settembre scorso, quando – a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York – Antonio Tajani, vicepremier e titolare della Farnesina, aveva avuto un lungo confronto con il suo omologo turco. Ora i due dovrebbero a breve sottoscrivere un memorandum d’intesa tra Italia e Turchia». Un punto che già poco prima che il vertice Meloni-Erdogan cominciasse, l’ambasciatore Marsili aveva evidenziato, inserendolo tra quelli più significativi del confronto tra i due leader.

6177.- Premierato elettivo e organi di garanzia. Toccare la Costituzione “con mano tremante”

Il senatore Umberto Terracini presidente della seconda Commissione dell’Assemblea Costituente, che votò il no alla rieleggibilità del Capo dello Stato.

Elezione popolare del presidente del Consiglio ed elezione parlamentare del Capo dello Stato, conferiranno al premier finalmente una forza politica ben maggiore di quella del presidente della Repubblica. Non dovremo temere altre intercettazioni choc come quella di Palamara: “Sergio Mattarella è uno di noi.” O l’altra: “Fu Napolitano a indirizzarmi a Palamara.”” Possiamo legittimamente sperare che sarà ristabilita la divisione dei poteri, fondamenta della democrazia.

L’analisi di Questione Giustizia.

di Nello Rossi, 08/01/2024 
direttore di Questione Giustizia

L’insediamento, al centro del sistema politico-istituzionale, del blocco monolitico costituito dal presidente del consiglio dei ministri eletto dal popolo e dalla “sua” maggioranza, che in virtù del premio iscritto in Costituzione sarà almeno del 55%, avrà ricadute a cascata sugli organi di garanzia contemplati in Costituzione, dispiegando una decisiva influenza tanto sulla loro provvista quanto sul loro funzionamento. Il premierato elettivo ridurrà drasticamente il tasso di pluralismo delle nostre istituzioni, compromettendo gli equilibri tra i poteri disegnati nell’attuale Costituzione, senza incidere su nessuno dei reali fattori di crisi della nostra democrazia.

Sommario: 1. Verso una democrazia plebiscitaria? – 2. Sui fattori di crisi della democrazia italiana. – 3.La proposta del premierato elettivo: le interne contraddizioni e l’incognita del sistema elettorale. – 4.Gli effetti del “combinato disposto” del premio di maggioranza e della riduzione del numero dei parlamentari. – 5.La drastica riduzione del ruolo del presidente della Repubblica. – 6. La “provvista” e il funzionamento degli organi di garanzia. – 7. Toccare la Costituzione “con mano tremante”.

1. Verso una democrazia plebiscitaria? 

Nel dibattito politico corrente sono state già profuse a piene mani molte suggestioni, grossolane e insidiose, sulla riforma costituzionale mirante all’introduzione del premierato elettivo. 

La proposta di revisione costituzionale è stata presentata con enfasi come “la madre di tutte le riforme”. 

Ed è stato ripreso, per l’occasione, lo slogan “diamo un potere in più ai cittadini”. Un evergreen di tutte le operazioni demagogiche. 

Addirittura, per l’elezione diretta del presidente del consiglio dei ministri è stata del tutto impropriamente evocata la “democrazia diretta”. 

L’impressione che se ne ricava è che siano cominciate con largo anticipo due diverse campagne politiche. 

La campagna elettorale per le elezioni europee che, nel nostro Paese, rischia di essere dominata o almeno largamente influenzata dal tema del premierato. 

La campagna per il referendum previsto dall’art. 138 della Costituzione, di conferma della legge di modifica della Costituzione che ci si propone di approvare. 

Referendum solo eventuale – in quanto subordinato alla mancata approvazione della legge di revisione costituzionale con una maggioranza dei due terzi ed alla domanda di «un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali» – ma con ogni probabilità non sgradito alla maggioranza di destra che governa il Paese che aspira a trasformarlo in un plebiscito. 

Un plebiscito destinato a valere come suggello di un progetto di democrazia con tratti fortemente plebiscitari nel quale la priorità assoluta è rappresentata dalla concentrazione e verticalizzazione del potere nelle mani di un leader mentre non vengono affrontati e sono destinati a rimanere irrisolti i molti problemi aperti della democrazia italiana. 

Che sia così è reso chiaro innanzitutto da quello che “non c’è” nelle intenzioni, nelle priorità e nelle proposte della maggioranza di destra. 

2. Sui fattori di crisi della democrazia italiana

Per effetto del sistema delle liste elettorali bloccate, risalente al 2005, epoca del governo Berlusconi, e mai seriamente rimesso in discussione dai partiti di ogni colore, l’Italia ha un sistema elettorale per le elezioni delle Camere che non consente al cittadino di scegliere i suoi rappresentati in parlamento, giacché l’elezione è integralmente condizionata dalla posizione occupata dal candidato nella lista elettorale. 

Nonostante questa criticabilissima peculiarità del meccanismo elettorale, che ha dato vita a parlamenti dei “nominati” dalle direzioni dei partiti ed ha sfornato parlamentari spesso privi di ogni significativo rapporto con gli elettori, coloro che propongono il premierato non si preoccupano di dire quale nuovo sistema elettorale immaginano per il Paese ma solo di scrivere in Costituzione che dovrà esservi un premio di maggioranza del 55 per cento per il partito o la colazione collegati al premier vittorioso, rimandando tutte le altre scelte ad una fase politica successiva all’introduzione del premierato elettivo. 

L’accattivante parola d’ordine del dare “un potere in più” ai cittadini attraverso l’elezione diretta del presidente del Consiglio sembra solo destinata a nascondere il fatto che, ormai da quasi vent’anni, gli elettori hanno “un potere in meno”, essendo stati privati della possibilità di scegliere i propri rappresentanti in parlamento. 

Per altro verso il panorama politico è caratterizzato dalla prevalenza di “partiti personali” o comunque dalla presenza di formazioni politiche che, anche quando non hanno una impronta interamente personale, non vivono una vita democratica intensa e partecipata e non conoscono una reale dialettica interna, paragonabile a quella dei partiti di altri grandi Paesi europei come la Germania o l’Inghilterra. 

E però, nella maggioranza di governo nessuno pensa che alla rivitalizzazione dei partiti politici – indispensabile per una democrazia funzionante – potrebbe quanto meno “concorrere” una legge quadro, che fissi una cornice democratica per la loro esistenza e la loro attività e li renda più aperti e contendibili (beninteso da quanti partecipano attivamente alla loro vita interna e non da volenterosi simpatizzanti che votano una tantum per poi ritornare ad estraniarsi dalle scelte politiche). 

Infine è sotto gli occhi di tutti che il parlamento è indebolito, fiaccato, mortificato e che è difficile rivendicarne il primato, a causa della sua clamorosa crisi di rappresentatività, della sua riduzione a organo di ratifica di decreti legge e della sua incapacità ad offrire soluzioni ai temi più controversi e spinosi, dalla disciplina del fine vita a quella dell’ergastolo ostativo. 

Se sono questi i tratti della democrazia italiana non c’è da stupirsi che, nel giro di qualche decennio, il nostro sia divenuto un paese politicamente apatico, connotato da un alto e preoccupante tasso di astensionismo nelle competizioni elettorali di diverso ordine e grado e da bassi livelli di partecipazione politica. 

Dati allarmanti, questi, sinistri scricchiolii dell’edificio democratico che ci consegnano l’immagine di un paese passivo, nel quale l’effettiva partecipazione alla vita politica è stata sostituita dai continui “sondaggi” elettorali, sempre più simili alle “sonde” che si inseriscono in un corpo malato per monitorarlo senza curarne i mali e senza promuoverne la guarigione. 

Nell’agenda politica della destra – e per la verità anche in quella delle forze di opposizione- mancano proposte puntuali e credibili di rinnovamento sui temi sin qui evocati. 

Ad occupare il campo sta invece il progetto di una forma di governo, formalmente ancora parlamentare, ma con forti tratti plebiscitari, personalistici, carismatici, che viene presentata come unico rimedio possibile alla crisi della democrazia e all’instabilità dei governi. 

3. La proposta del premierato elettivo: le sue interne contraddizioni e l’incognita del sistema elettorale

Nel dibattito pubblico in corso sono state già svolte puntuali ed incisive osservazioni sulle interne contraddizioni del nuovo meccanismo costituzionale che si vorrebbe introdurre. 

E’ stato, infatti, efficacemente evocato lo “spettro” del secondo premier, che, pur privo di una diretta investitura popolare, sarebbe più forte del primo, perché impossibile da sfiduciare senza lo scioglimento del Parlamento e perciò dotato di un fortissimo potere di condizionamento dei parlamentari. 

Ed è stata oggetto di pertinenti rilievi la mancata attribuzione al presidente del Consiglio di quei poteri che da soli – anche in assenza di una elezione diretta – sarebbero in grado di rafforzare il ruolo del primo ministro e consentirebbero di realizzare l’obiettivo di una maggiore stabilità dei governi: il potere di nomina e revoca dei ministri e l’istituto della sfiducia costruttiva. 

Le principali ragioni di critica e i maggiori fattori di inquietudine per il progetto riformatore nascono però dalle incognite che gravano su altri elementi del quadro istituzionale, primo tra tutti il sistema elettorale, e dal potenziale impatto che, nel medio periodo, i poteri del premier e della “sua” maggioranza potrebbero avere sulla provvista e sul ruolo degli organi di garanzia. 

Sull’intero progetto di modifica della Costituzione aleggia infatti l’incognita relativa alla normativa sulle elezioni del parlamento e del premier. 

Normativa che con leggerezza viene indicata come un posterius rispetto all’introduzione del premierato elettivo mentre essa è per più versi decisiva ai fini di una complessiva valutazione della riforma. 

Se si scorrono i cinque articoli destinati ad introdurre in Costituzione la “riforma del premierato” sono molti gli interrogativi che rimangono senza risposta. 

Non è infatti dato di sapere se verrà prevista una soglia di voti minima per l’aggiudicazione del premio di maggioranza del 55 per cento; se sarà contemplato un ballottaggio tra i due contendenti che raggiungono il maggior numero di voti nell’ambito di una prima tornata elettorale; con quale sistema elettorale verrà eletto il parlamento e dunque quale sarà il grado di rappresentatività e autorevolezza dei singoli parlamentari. 

Rappresentatività ed autorevolezza che saranno più elevate se i parlamentari saranno scelti effettivamente dai cittadini – attraverso collegi uninominali o attraverso il voto di preferenza – o risulterà più modesto se, come ormai avviene dal lontano 2005, i membri del parlamento continueranno ad essere eletti in larga parte su liste bloccate, risultando spesso sconosciuti ai loro elettori. 

4. Gli effetti del “combinato disposto” del premio di maggioranza e della riduzione del numero dei parlamentari

Tra tante incognite l’unico dato certo è, sinora, quello dell’inserimento in Costituzione di un premio di maggioranza alle liste ed ai candidati collegati al Presidente del Consiglio.

Infatti il testo dell’art. 92 Cost. che si vorrebbe introdurre prevede che: «Le votazioni per l’elezione del Presidente del Consiglio e delle Camere avvengono contestualmente (in una prima formulazione: «tramite un’unica scheda elettorale»). La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi nelle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei ministri». 

Il Presidente del Consiglio disporrà dunque di una maggioranza in parlamento di almeno il 55% dei seggi anche se non è escluso che, in presenza di un forte effetto di traino elettorale della persona del leader e di particolari scelte legislative sul sistema elettorale, possa disporre di una maggioranza ancora più ampia. 

L’elevato numero di seggi attribuito al premier ed alla “sua” maggioranza va poi letto unitamente al dato della riduzione del numero dei parlamentari, frutto della recente modifica costituzionale che ha tagliato del 36,5% il numero dei componenti di entrambi i rami del parlamento riducendo a 400 (da 630) i seggi della Camera dei deputati e a 200 (da 315) i seggi elettivi al Senato. 

Il combinato disposto del futuro premio di maggioranza al 55% e del già diminuito numero di parlamentari rende infatti particolarmente agevole il raggiungimento della soglia dei tre quinti dei componenti del parlamento in seduta comune, quorum deliberativo per l’elezione dei cinque giudici della Corte costituzionale di nomina parlamentare e dei membri laici del CSM. 

Per misurare un tale “effetto” basterà far riferimento alla situazione verificatasi nell’attuale parlamento, nato da una tornata elettorale nella quale la compatta coalizione di centro destra, misurandosi con uno schieramento antagonista diviso, ha ottenuto in seggi una maggioranza addirittura superiore al 55%. 

Con il 43,8 % dei voti validi la coalizione di centro destra dispone oggi di una maggioranza di 350 parlamentari su un totale di 600 parlamentari, pari al 58,3 % della totalità dei membri delle Camere mentre il quorum deliberativo di tre quinti richiesto per l’elezione dei giudici della Corte e dei membri laici del CSM è di 360 parlamentari. 

Ciò significa che all’attuale maggioranza basta ottenere il voto di altri 10 parlamentari per raggiungere i 360 voti necessari per eleggere giudici costituzionali e membri laici del CSM. 

Una situazione di questo tipo – che può considerarsi il frutto di una congiuntura politica particolare e difficilmente ripetibile -rischia di divenire la norma quando il premio di maggioranza sarà previsto in Costituzione. 

5. La drastica riduzione del ruolo del Presidente della Repubblica

Queste prime considerazioni aprono la strada ad ulteriori riflessioni sull’impatto che la concentrazione di potere nella persona del premier e nella maggioranza a lui collegata può avere sugli altri organi costituzionali. 

A cominciare dal Presidente della Repubblica. 

I sostenitori del premierato insistono sul fatto che le prerogative ed i poteri del presidente della Repubblica non sono incisi dal progetto di riforma costituzionale. 

Se è vero che nessuna delle nuove norme investe direttamente la figura del Capo dello Stato è innegabile che nella nuova architettura costituzionale essa risulterà per più versi sminuita e fortemente condizionata dal premier e dalla maggioranza di cui questi disporrà in parlamento. 

Non c’è solo l’ovvio rilievo che le differenti modalità di investitura dei due organi – elezione popolare del presidente del Consiglio ed elezione parlamentare del Capo dello Stato – conferiranno al premier una forza politica ben maggiore di quella del presidente della Repubblica. 

Né l’altrettanto scontata considerazione che il presidente della Repubblica viene privato del potere di nomina del capo del governo (dovendosi limitare a conferire l’incarico al presidente del Consiglio eletto), perde di fatto il potere di rifiutare la nomina di un ministro indicato dal premier e deve procedere allo scioglimento delle Camere nel caso di sfiducia dei premier espressione della maggioranza, senza poter affidare l’incarico di formare il governo a figure tecniche come avvenuto sin qui in momenti di crisi. 

Oltre a questi effetti immediati, le ripercussioni del premierato elettivo sulla posizione e sul ruolo del Presidente della Repubblica potranno essere, nel medio periodo, ancora più profonde. 

In primo luogo, il premier svolgerà un ruolo determinante nell’elezione del presidente della Repubblica.

Infatti, dopo il terzo scrutinio, per eleggere il capo dello Stato sarà sufficiente la maggioranza assoluta dell’assemblea (art. 83, 3 comma Cost.), obiettivo a portata di mano della maggioranza di governo collegata al premier, anche a prescindere dai delegati regionali. 

Inoltre, anche se si tratta di una ipotesi estrema, sarà ancora la maggioranza assoluta dei membri delle due Camere – cioè quella collegata al premier – a poter decretare la messa in stato di accusa del presidente della Repubblica per alto tradimento o attentato alla Costituzione (art. 90, secondo comma Cost.) 

Tanto nella fase dell’elezione quanto nello svolgimento del mandato, il presidente della Repubblica sarà dunque fortemente condizionato dal continuum presidente del consiglio – maggioranza parlamentare a lui collegata, il che renderà problematico lo svolgimento di un ruolo di arbitro e mediatore nelle situazioni di crisi. 

6. La “provvista” e il funzionamento degli organi di garanzia

L’insediamento, al centro del sistema politico-istituzionale, del “monolite” costituito dal premier e dalla sua maggioranza avrà ricadute a cascata sugli organi di garanzia contemplati in Costituzione, incidendo tanto sulla loro provvista quanto sul loro funzionamento.

Nel nuovo contesto creato dal premierato è forte il rischio che sia vanificata l’istanza pluralista che ha ispirato la previsione costituzionale di un quorum funzionale di 3/5 dei voti del parlamento in seduta comune per l’elezione dei cinque giudici costituzionali eletti dalle Camere e dei membri laici del Consiglio Superiore della magistratura. 

Come si è in precedenza accennato, il quorum deliberativo potrebbe essere raggiunto anche senza confronti complessivi con l’opposizione, grazie all’aggiunta di pochi parlamentari alla maggioranza di governo. 

Di più. L’elezione di un presidente della Repubblica politicamente omogeneo alla maggioranza di governo, destinata a divenire una costante quando il premierato entrerà a regime, farà sì che la nomina di ben dieci giudici costituzionali- i cinque eletti dal parlamento e i cinque nominati dal presidente della Repubblica – avverrà nell’orbita politica e culturale della maggioranza parlamentare. 

Analoghi rischi di pedissequo allineamento alla maggioranza di governo si verificheranno sul versante del Consiglio Superiore della Magistratura non solo in ragione di una composizione meno articolata e pluralistica della componente laica ma anche in conseguenza del legame genetico del presidente della Repubblica che è anche presidente del CSM con la maggioranza di governo. 

In definitiva si ridurrà il tasso di interno pluralismo che – come segnala l’elevato quorum deliberativo previsto in Costituzione per l’elezione dei loro membri – dovrebbe caratterizzare la composizione di organi di garanzia come la Corte costituzionale ed il Consiglio Superiore della Magistratura. 

7. Toccare la Costituzione “con mano tremante”

I fautori del premierato elettivo sono inclini a giustificare le contraddizioni e gli squilibri connessi all’introduzione del premierato elettivo come sacrifici necessari da celebrare sull’altare della stabilità dei governi. 

Non è così. Come si è in precedenza accennato, più voci, e tutte molto autorevoli, hanno sostenuto che la stabilità dell’esecutivo può essere rafforzata senza alterare radicalmente l’architettura dei poteri, limitandosi ad introdurre nel nostro ordinamento l’istituto della sfiducia costruttiva che preclude al parlamento di votare la sfiducia al governo in carica se, nel contempo, non concede la fiducia ad un nuovo esecutivo. 

Replicando così nel nostro Paese una soluzione sperimentata con successo in molti regimi democratici – dalla Germania al Belgio ed alla Spagna – dai tratti simili al nostro. 

Del pari può essere rinvigorita la posizione del presidente del Consiglio dei ministri ed affermata la sua primazia nella compagine governativa, non ricorrendo all’investitura popolare diretta ma riconoscendogli il potere di nominare e revocare i membri dell’esecutivo. 

Bisogna toccare la legge “con mano tremante”, ammoniva Montesquieu, invitando alla “solennità”, alle “precauzioni” ed alla “chiarezza” chi volesse assumersi il compito di cambiarla. 

Non sembra che questo saggio ammonimento – che viene da un lontano passato ma conserva intatta la sua validità per la legge fondamentale – sia rispettato nella procedura che sta per prendere le mosse. 

Tralasciando la “solennità”, che sembra avere abbandonato da tempo molti palazzi della politica italiana, è certamente la “chiarezza” a far difetto nel progetto di riforma costituzionale come attestano i numerosi interrogativi senza risposta suscitati dal testo reso noto all’opinione pubblica. 

Né può dirsi osservato il principio di “precauzione” che suggerisce di introdurre in Costituzione solo le modifiche strettamente necessarie a conseguire gli obiettivi dichiarati e di cui si è ragionevolmente in grado di prevedere gli effetti sui complessivi equilibri costituzionali. 

Dismettere i toni enfatici con cui la riforma costituzionale è stata presentata; calibrare attentamente le innovazioni sulle finalità da raggiungere; premettere ad ogni mutamento della Costituzione l’indispensabile riforma del sistema elettorale; rinunciare, in favore di una effettiva razionalizzazione dell’esecutivo, al progetto di democrazia plebiscitaria perseguito da ampi settori dello schieramento di maggioranza; sembrano queste le condizioni necessarie per realizzare, attraverso un ampio consenso, modifiche della Costituzione in grado di rendere più stabili gli esecutivi. 

L’alternativa è quella di una riforma unilateralmente decisa e votata, comunque divisiva e dannosa, seguita da un referendum destinato a svolgersi all’insegna dello scontro frontale. 

Comunque non un grande guadagno per la democrazia italiana. 

[*]

Testo dell’intervento svolto al seminario del 23.11.2023 sul tema del premierato elettivo organizzato presso l’Università “La Sapienza” di Roma da Fondazione Basso, Associazione Salviamo la Costituzione e Movimento Europeo. 

08/01/2024

6172.- Le mani di Meloni nelle nostre tasche

Il bollo dell’auto va pagato anche se si tiene il veicolo fermo in garage perché è una tassa sul possesso; ma, non basta. Ora, è fatto obbligo anche di assicurare le auto incidentate o, comunque, ferme in area privata; e non basta ancora: Ecco l’IVA al 22% sul Gas. Un altro colpo alle famiglie italiane. Silenzio!

Gas: torna l’Iva ordinaria. Costi in aumento del 13% per le famiglie

Gas: torna l’Iva ordinaria. Costi in aumento del 13% per le famiglie

 Da Finanza.com, di Pierpaolo Molinengo, 11 Gennaio 2024

Ad essere stati coinvolti nel passaggio dal mercato tutelato del gas al mercato liberosono qualcosa come 3,5 milioni di utenti. A renderlo noto è stata direttamente l’Arera, ossia l’Autorità Pubblica dell’Energia.

Complessivamente, in Italia, sono 6.027.000 gli utenti del mercato tutelato del gas, su una platea complessiva di 20.430.000. 2,5 milioni di questi sono delle famiglie vulnerabili.

Sono diverse le novità che vanno ad impattare direttamente sulla bolletta del gas proprio da questo mese di gennaio.

Le famiglie, dopo due anni di aliquota agevolata al 5%, si vedranno addebitare l’Iva ordinaria sulle forniture di gas.

Secondo una stima effettuata da Segugio.it l’imposta sul valore aggiunto ripristinato andrà ad impattare direttamente sulle finanze degli utenti causando un aumento del 13% della spesa, annullando l’effetto positivo del calo del prezzo all’ingrosso della materia prima avvenuto tra dicembre 2023 e gennaio 2024.

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Ma entriamo un po’ di più nel dettaglio.

Bolletta del gas: il passaggio al mercato libero

Stando a quanto reso noto direttamente all’Arera, ad essere stati coinvolti dal passaggio dal mercato tutelato al mercato libero sono 3,5 milioni di utenti.

In Italia, complessivamente parlando, ci sono 20.430.000 di utenti, dei quali 6.026.00 fanno parte del mercato tutelato, di questi:

  • 2,5 milioni rientrano tra i soggetti vulnerabili. Sono, in altre parole, in una situazione economica svantaggiata, malati, disabili o risiedono in zone disastrate o nelle isole che non sono interconnesse. O, più semplicemente, hanno più di 75 anni;
  • 3,5 milioni sono gli utenti considerati non vulnerabili.

I primi hanno la possibilità di continuare a rimanere all’interno del mercato tutelato: potranno beneficiare delle tariffe fissate dallo Stato.

I secondi, invece, sono passati al mercato libero, anche se potranno beneficiare delle tariffe Placet: un assaggio del mercato libero, ma sotto la tutela dell’Arera.

Torna l’Iva al 22% sul gas

Il mese di gennaio 2024 è caratterizzato non solo dalla fine del mercato tutelato del gas, ma anche dalla conclusione dell’aliquota dell’Iva agevolata al 5% sulle forniture.

Secondo una stima effettuata da Segugio.it, il ritorno dell’Iva nella misura ordinaria comporterà un aumento del 13% sui consumi medi delle famiglie, andando ad annullare completamente l’effetto positivo del calo del prezzo all’ingrosso del gas, che è avvenuto nel periodo compreso tra il mese di dicembre 2023 e quello di gennaio 2024.

L’Iva ordinaria è arrivata dopo un periodo di due anni nell’arco dei quali sono state introdotte alcune misure di sostegno per le famiglie.

Ricordiamo, infatti, che nel corso del quarto trimestre 2021, mentre arrivavano i primi segnali di una crisi che sarebbe peggiorata nel corso dei mesi seguenti e per tutto il 2022, attraverso il Decreto Taglia Bollette venne ridotta l’Iva al 5% per il gas.

L’agevolazione veniva garantita indipendentemente dagli scaglioni di consumo. L’Iva ridotta è andata, quindi, a sostituire quella ordinaria – pari al 10% fino a 480 Smc di consumo, che saliva al 22% oltre i 480 Smc e al superamento di alcune quote fisse – fino allo scorso mese di dicembre.

Ma il Governo Meloni non ha rinnovato l’agevolazione: a questo punto sulle bollette del gas verrà applicata l’aliquota ordinaria.

Continuando a rimanere fisse tutte le altre condizioni, Segugio ha messo in evidenza che l’Iva ordinaria comporterà una spesa maggiore del 13% per la famiglia tipo, con un consumo annuo pari a 1.400 Smc e con un’utenza attiva nel comune di Milano.

Su una famiglia con consumi ridotti – inferiori ai 400 Smc annui – l’impatto, ovviamente, è minore e si attesta su un +8%.

Situazione diversa, invece, per chi ha attivato una tariffa indicizzata al PSV.

In questo caso è possibile sfruttare, nel corso del primo mese del 2024, un prezzo più basso del gas:

l’indice del mercato all’ingrosso, infatti, è sceso da 45 centesimi a 38 centesimi per Smc, registrando un -15%.

In generale, il prezzo del gas per il 2024 è previsto attualmente a ridosso dei 40 centesimi per Smc, valore simile a luglio 2021, prima della crisi energetica –spiega Segugio.it -. Combinando l’effetto dell’IVA e il calo dei prezzi all’ingrosso, risulta che una famiglia tipo registrerà un rincaro della spesa del +6% (a parità di consumo) tra dicembre 2023 e gennaio 2024.

6139.- Il Niger sceglie Mosca e Pechino e rafforza l’alleanza con Mali e Burkina Faso

Da Bruxelles soltanto delusioni

Chi lo dice al presidente Meloni, tornata molto soddisfatta del lavoro che è stato fatto dal Consiglio europeo, che il Nuovo Piano Mattei è sta andando a ramengo? Quanto potrà e quanto reggerà l’Italia nel Sahel dopo la rottura di Niger, Mali e Burkina Faso con Parigi e Bruxelles? Giorgia Meloni e l’amico Rishi Sunak sono entrambi soci della potente associazione Fabian Society, cosa ne pensano della cancellazione degli accordi di difesa e sicurezza siglati dalla giunta militare del Niger con l’Unione Europea, diretti a “combattere il terrorismo, la criminalità organizzata e l’immigrazione irregolare” e, poi, come affronteranno il rafforzamento della presenza militare della Federazione Russa in questi paesi? E la Cina? Non è più questione di una staffetta fra la Francia e l’Italia. Nemmeno di assecondare la politica di Washington per averne un appoggio per la nostra – illuminata politica – in Africa. L’Italia è la porta dell’Africa per l’Europa, ma troppo spesso viene a trovarsi in difficoltà per i giochi, inconcludenti, condotti a Bruxelles. Non ci risulta che questi temi siano stati presenti nell’agenda del Consiglio europeo.

Mario Donnini

Da Pagine esteri, di Marco Santopadre, 14 dicembre 2023

Il Niger sceglie Mosca e Pechino e rafforza l’alleanza con Mali e Burkina Faso

Pagine Esteri, 14 dicembre 2023 – Niger, Mali e Burkina Faso, i paesi del Sahel dove negli ultimi tre anni si sono imposte altrettante giunte militari grazie a colpi di stato, sembrano avviati sulla via di una collaborazione sempre più stretta.
Nei mesi scorsi, infatti, i governi militari di Niamey, Bamako e Ouagadougou hanno già firmato un accordo di cooperazione militare dopo aver espulso le truppe francesi da anni presenti sul loro territorio, indebolendo fortemente l’influenza di Parigi nell’area.

L’Alleanza degli Stati del Sahel si rafforza
Il 16 settembre i leader di Mali, Niger e Burkina Faso avevano ufficializzato la nascita dell’Alleanza degli Stati del Sahel (Aes), un’iniziativa di natura diplomatica e militare diretta a «garantire l’indipendenza dei tre paesi nei confronti degli organismi regionali e internazionali».
Se all’inizio l’Aes è nata come un patto di difesa comune, diretta a unire le rispettive risorse militari per combattere i gruppi ribelli e jihadisti attivi nel Sahel – per contrastare i quali i governi precedenti avevano chiesto in passato l’intervento delle truppe francesi e dell’Onu – sembra che ora le tre giunte golpiste puntino ad allargare la cooperazione anche ad altri campi.

Recentemente i rappresentanti dei tre paesi si sono nuovamente incontrati a Bamako e al termine della riunione hanno annunciato la firma di protocolli aggiuntivi, l’istituzione di organismi istituzionali e giuridici dell’Alleanza e la «definizione delle misure politiche e del coordinamento diplomatico». I tre governi hanno affermato di voler rafforzare gli scambi commerciali, realizzare insieme progetti energetici e industriali, creare una banca di investimenti e persino una compagnia aerea comune.

Il colonnello Yevkurov firma accordi in Niger

Il Niger diventa una potenza petrolifera
Nei giorni scorsi, poi, il generale golpista Omar Abdourahamane Tchiani, salito al potere lo scorso 26 luglio, ha annunciato l’intenzione di avviare con gli altri due paesi una collaborazione di tipo anche politico e monetario. Tchiani ne ha parlato nel corso di un’intervista rilasciata all’emittente nigerina “Rts”, affermando che «oltre al campo della sicurezza, la nostra alleanza deve evolversi nel campo politico e in quello monetario».

Nell’intervista Tchiani ha informato che Niamey intende esportare già a gennaio i primi barili di greggio sfruttando il nuovo oleodotto che collegherà il giacimento nigerino di Agadem al porto di Seme, in Benin. La realizzazione dell’oleodotto, lungo 2000 km e con una capacità di 90 mila barili al giorno, è ormai in fase conclusiva ed è stata avviata a novembre grazie ai finanziamenti di PetroChina. L’infrastruttura permetterà al Niger di diventare una piccola potenza petrolifera aggirando almeno in parte le sanzioni imposte al paese dopo la deposizione del governo filoccidentale. Secondo il capo del settore della raffinazione del petrolio, la produzione petrolifera potrebbe generare un «quarto del Prodotto interno lordo del Paese». La Cnpc, un’impresa di proprietà del governo cinese, è inoltre impegnata nello sfruttamento del bacino del Rift di Agadem e nella costruzione del gasdotto Niger-Benin sostenuto con un investimento da 6 miliardi di dollari.

Che l’avvio della cooperazione monetaria vada in porto o meno, i tre paesi sembrano intenzionati a rompere del tutto i legami con la Cedeao – la Comunità Economica dei Paesi dell’Africa occidentale – che dopo i colpi di stato ha sospeso Bamako, Ouagadougou e Niamey dall’alleanza alla quale fino ad un certo punto Parigi chiedeva di intervenire militarmente per ripristinare i governi estromessi prima di decidere il ritiro delle proprie missioni militari dal Niger chiesta a gran voce dai golpisti.

L’annuncio del generale Tchiani è giunto dopo che domenica scorsa i leader dell’organismo regionale hanno deciso di confermare le sanzioni alla giunta golpista del Niger, che si è rifiutata di rilasciare il presidente deposto Mohamed Bazoum in cambio della loro revoca.

La rottura con Parigi e Bruxelles
Sempre la scorsa settimana i governi di Mali e Niger avevano denunciato, tramite un comunicato stampa congiunto, le convenzioni firmate con la Francia dai governi precedenti miranti al superamento della doppia imposizione fiscale e che disciplinano le norme per la tassazione dei redditi e per le successioni. La decisione di abolire le convenzioni in questione entro tre mesi – afferma la nota – risponde al «persistente atteggiamento ostile della Francia» e al «carattere squilibrato» degli accordi in questione che causano «un notevole deficit per il Mali e il Niger». Se effettivamente attuata, la misura avrà serie ripercussioni sia per i privati che per le imprese domiciliate in Francia e che svolgono attività in Mali e in Niger e viceversa.
Nelle settimane scorse, inoltre, la giunta militare del Niger ha già annunciato la cancellazione degli accordi di difesa e sicurezza siglati con l’Unione Europea, diretti a «combattere il terrorismo, la criminalità organizzata e l’immigrazione irregolare».

Già a fine novembre i golpisti avevano abrogato una legge, precedentemente concordata con la Francia e l’Unione Europea, che puniva il «traffico illecito di migranti» e bloccava il loro transito verso la Libia, spiegando che la decisione risponde alla necessità di una «decolonizzazione dall’occidente».

In un comunicato, lo scorso 4 dicembre il ministro degli Esteri di Niamey ha annunciato di voler revocare anche l’accordo stipulato con l’Ue relativo alla missione civile europea denominata Eucap Sahel Niger, attiva dal 2012 e che attualmente conta su 130 gendarmi e agenti di polizia europei, impegnati finora nell’addestramento dei militari nigerini.

Inoltre la giunta nigerina ha comunicato di aver ritirato il consenso al dispiegamento della “Missione di partenariato militare dell’Ue in Niger” (Eumpm), attualmente a guida italiana. Entro la fine di dicembre, inoltre, si concluderà il ritiro dei circa 1500 militari francesi schierati finora nel paese; secondo quanto riferito da fonti militari francesi citate dall’emittente “Rfi”, rimane da evacuare soltanto la base aérea di Niamey, dove restano circa 400 uomini. In Niger per ora rimangono 1100 militari statunitensi e 250 soldati italiani.

Manifestanti filorussi in Niger

Sempre più vicini a Mosca
Nello stesso giorno dell’annuncio sulla fine della cooperazione con l’UE, a Niamey era giunto in visita il viceministro della Difesa della Federazione Russa, il colonnello Junus-bek Yevkurov, che dopo aver fatto tappa prima in Mali, in Burkina Faso e poi in Libia è stato ricevuto dal generale Tchiani e dal Ministro della Difesa del Niger Salifou Modi con i quali ha siglato un accordo che prevede il rafforzamento della cooperazione militare fra i due paesi.

A Bamako la delegazione russa è stata ricevuta dal capo del “governo di transizione maliano”, il colonnello Assimi Goita. Al termine dei colloqui il ministro dell’Economia e delle Finanze del paese africano, Alousseni Sanou, ha riferito che con i russi si è parlato della costruzione di una rete ferroviaria, di uno stabilimento per la lavorazione dell’oro estratto nelle miniere maliane e di un accordo per la realizzazione di una centrale nucleare. La realizzazione di una centrale nucleare in Burkina Faso è stata invece al centro dei colloqui tra i rappresentanti di Mosca e la giunta di Ouagadougou.

Basta alle missioni Onu
Come se non bastasse, il 2 dicembre il Niger e il Burkina Faso hanno annunciato il proprio ritiro dal gruppo “G5 Sahel”, creato nel 2014 grazie ai finanziamenti dell’Unione Europea per coordinare la lotta contro il terrorismo jihadista. L’anno scorso era stato il Mali ad abbandonare il progetto che coinvolge ora soltanto la Mauritania e il Ciad che però hanno già informato di voler sciogliere il coordinamento ormai privo di senso.

La giunta militare di Bamako, al potere dal 2021, ha invece deciso recentemente di mettere fine a dieci anni di presenza in Mali della Missione militare dell’Onudenominata Minusma, avviata nel 2012 per contrastare l’insurrezione jihadista. L’11 dicembre i vertici della missione internazionale, nel corso di una mesta cerimonia, hanno ammainato la bandiera delle Nazioni Unite dal quartier generale delle truppe dell’Onu. Il ritiro del contingente internazionale dalle 12 basi sparse per il Mali, che ospitavano 12 mila caschi blu e 4300 dipendenti civili, dovrebbe concludersi entro il 31 dicembre proprio mentre le milizie jihadiste intensificano gli attacchi contro l’esercito e conquistano nuovi territori.

I jihadisti avanzano nonostante la Wagner
A fine agosto i miliziano dei “Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani” (Jnim) hanno occupato Timbuctù, infliggendo un duro colpo alle forze fedeli alla giunta militare maliana che, nel tentativo di contrastare l’offensiva jihadista, ha stretto un accordo con le milizie mercenarie russe della Wagner. La decisione ha però scatenato le proteste dei movimenti tuareg che in molte aree costituiscono l’unico baluardo efficace contro i combattenti fondamentalisti. In alcuni territori le milizie tuareg indipendentiste, riunite nel “Coordinamento dei movimenti dell’Azawad”, hanno ingaggiato violenti scontri con l’esercito regolare e i paramilitari della Wagner, che recentemente avrebbe iniziato ad operare utilizzando la denominazione di “Africa Corps”. Secondo molti analisti la compagnia mercenaria, dopo la morte dei suoi vertici in un “incidente aereo” nell’agosto scorso, sarebbe meno autonoma dal governo di Mosca rispetto alla Wagner e dovrebbe limitare le proprie attività proprio al continente africano in stretta sintonia con le esigenze politiche ed economiche del Cremlino. Pagine Esteri