Archivio mensile:giugno 2018

1872.- LA DELIBERA SUI TAGLI AI VITALIZI PARLAMENTARI

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L’ufficio presidenza della Camera ha avviato l’iter ufficiale per il superamento dei vitalizi dei parlamentari e per la rideterminazione dei coefficienti pensionistici degli ex parlamentari, cavallo di battaglia da sempre del M5S. E’ approdata oggi, infatti, sul tavolo dell’ufficio di presidenza la delibera, il cui fine, come illustrato dal presidente dell’assemblea di Montecitorio Roberto Fico è quello di “sforbiciare” oltre 1.300 assegni degli ex deputati. Il provvedimento sarà votato nella settimana tra il 9 e il 13 luglio, mentre entro il 5 luglio potranno essere presentati emendamenti, per entrare in vigore poi dal 1° novembre 2018. Il provvedimento stima un risparmio di circa 40 milioni di euro ogni anno andando ad agire su un totale di circa 1.400 vitalizi erogati dalla Camera, di cui 1.338 saranno ricalcolati al ribasso, mentre i rimanenti pur senza subire modifiche non potranno aumentare per via della clausola di sterilizzazione che li congela al 31 ottobre 2018, giorno precedente all’entrata in vigore delle nuove regole. Infatti, prevede il provvedimento che a decorrere dal 1° novembre 2018, gli importi degli “assegni vitalizi, diretti e di reversibilità, e delle quote di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata, diretti e di reversibilità, maturati, sulla base della normativa vigente, alla data del 31 dicembre 2011, sono rideterminati secondo le modalità previste dalla presente deliberazione” che prevede tagli dal 40 al 60% e introduce un tetto minimo applicabile. Inoltre si prevede che l’importo di tutti i trattamenti indicati, come “rideterminati ai sensi della presente deliberazione è rivalutato annualmente sulla base dell’indice ISTAT di variazione dei prezzi al consumo (FOI) sino alla data del 31 ottobre 2018”.

XVIII LEGISLATURA
Rideterminazione della misura degli assegni vitalizi e delle quote di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata nonché dei trattamenti di reversibilità, relativi agli anni di mandato svolti fino al 31 dicembre 2011.

L’UFFICIO DI PRESIDENZA
Visto l’articolo 12 del Regolamento della Camera dei deputati;
Visto il Regolamento della previdenza per i deputati approvato dall’Ufficio di Presidenza il 30 ottobre 1968, e successive modificazioni;
Visto il Regolamento per gli assegni vitalizi degli onorevoli deputati approvato dall’Ufficio di Presidenza il 12 aprile 1994;
Visto il Regolamento per gli assegni vitalizi dei deputati approvato dall’Ufficio di Presidenza il 30 luglio 1997, nel testo modificato dalle deliberazioni dell’Ufficio di Presidenza n. 300 del 5 aprile 2001 e n. 73 del 23 luglio 2007;
Visto il Regolamento per il trattamento previdenziale dei deputati approvato dall’Ufficio di Presidenza in data 30 gennaio 2012, e successive modificazioni;
Considerato che, alla luce della sequenza degli atti normativi sopra richiamati e in coerenza con quanto da ultimo ribadito nella sentenza n. 3/2018 del Collegio d’appello della Camera dei deputati, risulta del tutto non controversa e pienamente conforme all’assetto dell’ordinamento giuridico-costituzionale la prerogativa della Camera di disciplinare la materia dei trattamenti previdenziali dei deputati cessati dal mandato attraverso deliberazioni adottate nell’esercizio dell’autonomia normativa ad essa attribuita dalla Costituzione, ai sensi dall’articolo 64 della carta costituzionale;
Considerato altresì che, nella riunione dell’Ufficio di Presidenza del 9 aprile 2018, il Presidente della Camera ha conferito al Collegio dei Questori il mandato a svolgere un’istruttoria al fine di individuare possibili proposte volte al ricalcolo, secondo il metodo contributivo, dell’attuale sistema dei vitalizi erogati in favore dei deputati cessati dal mandato, valutando con particolare attenzione, per un verso, l’impatto delle varie ipotesi sui trattamenti più bassi e, per altro verso, l’opportunità di fissare un limite massimo al fine di evitare che il ricalcolo del trattamento in essere possa determinarne un importo superiore a quello erogato attualmente;
Udita la relazione svolta dal Collegio dei Questori nella riunione dell’Ufficio di Presidenza del 26 aprile 2018, nel corso della quale il Collegio ha riferito circa i primi esiti degli approfondimenti compiuti sulla base del mandato conferito dal Presidente della Camera;
Considerato che, successivamente alla riunione testé citata, al fine di ampliare la base informativa a disposizione dell’Ufficio di Presidenza in vista delle determinazioni di competenza nella materia in questione, è stata richiesta al presidente dell’INPS la disponibilità a fornire un supporto di carattere tecnico-metodologico con specifico riferimento alla determinazione dei coefficienti di trasformazione del monte contributivo maturato dai percettori delle prestazioni previdenziali, attraverso l’elaborazione di un’apposita serie di coefficienti – attualmente non previsti dall’ordinamento vigente – per gli
anni anteriori al 1996 e per le età precedenti i 57 anni e superiori a 70 anni;
Visti i coefficienti di trasformazione appositamente elaborati dall’INPS nel contesto sopra delineato e considerato che la metodologia utilizzata per determinarli risulta conforme alle valutazioni successivamente formulate in proposito dall’ISTAT su richiesta del Presidente della Camera, nell’ambito del principio della leale collaborazione tra istituzioni pubbliche;
Ritenuta l’esigenza, alla luce degli approfondimenti istruttori compiuti, di procedere ad una rideterminazione secondo il metodo di calcolo contributivo della misura degli assegni vitalizi, delle quote di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata e dei trattamenti di reversibilità maturati sulla base della normativa vigente alla data del 31dicembre 2011;

 DELIBERA


Art. 1
(Rideterminazione della misura
degli assegni vitalizi, diretti e di reversibilità, e delle quote
di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata, diretti e di reversibilità)
1. A decorrere dal 1° novembre 2018 gli importi degli assegni vitalizi, diretti e di reversibilità, e delle quote di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata, diretti e di reversibilità, maturati, sulla base della normativa vigente, alla data del 31 dicembre 2011, sono rideterminati secondo le modalità previste dalla presente deliberazione.
2. La rideterminazione di cui al comma 1 è effettuata moltiplicando il montante contributivo individuale per il coefficiente di trasformazione relativo all’età anagrafica del deputato alla data della decorrenza dell’assegno vitalizio o del trattamento previdenziale pro rata.
3. Si applicano i coefficienti di trasformazione di cui alla tabella 1 allegata alla presente deliberazione.
4. L’ammontare degli assegni vitalizi, diretti e di reversibilità, e delle quote di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata, diretti e di reversibilità, rideterminati ai sensi della presente deliberazione, non può comunque superare l’importo dell’assegno vitalizio, diretto o di reversibilità, o della quota di assegno vitalizio del trattamento previdenziale pro rata, diretto o di reversibilità, previsto per ciascun deputato dal Regolamento in vigore alla data dell’inizio del mandato parlamentare.
5. L’ammontare degli assegni vitalizi, diretti e di reversibilità, e delle quote di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata, diretti e di reversibilità, rideterminati ai sensi della presente deliberazione non può comunque essere inferiore all’importo determinato moltiplicando il montante contributivo individuale maturato da un deputato che abbia svolto il mandato parlamentare nella sola XVII legislatura, rivalutato ai sensi del successivo
articolo 2, per il coefficiente di trasformazione corrispondente all’età anagrafica di 65 anni vigente alla data del 31 ottobre 2018.
6. Nel caso in cui, a seguito della rideterminazione operata ai sensi della presente deliberazione, l’ammontare degli assegni vitalizi, diretti e di reversibilità, e delle quote di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata, diretti e di reversibilità rideterminati, risulti ridotto in misura superiore al 50 per cento rispetto all’importo dell’assegno vitalizio, diretto o di reversibilità, o della quota di assegno vitalizio del trattamento previdenziale pro rata, diretto o di reversibilità, previsto per ciascun deputato dal Regolamento in vigore alla data dell’inizio del mandato parlamentare, l’ammontare minimo determinato ai sensi del comma 5 è aumentato della metà.
Art. 2
(Montante contributivo individuale)
1. Il montante contributivo individuale è determinato applicando alla base imponibile contributiva l’aliquota determinata ai sensi del comma 3. L’ammontare così ottenuto si rivaluta su base composta al 31 dicembre di ciascun anno, con esclusione della contribuzione dello stesso anno, al tasso annuo di capitalizzazione di cui al comma 6.
2. La base imponibile contributiva è determinata, secondo quanto previsto dalle
disposizioni per i dipendenti pubblici, sulla base dell’ammontare dell’indennità
parlamentare lorda definito dalla normativa vigente nel periodo di riferimento, con esclusione di qualsiasi ulteriore indennità.
3. La quota di contribuzione a carico del deputato è pari all’aliquota percentuale della base imponibile prevista dalla normativa di riferimento, ivi ricomprendendo l’aliquota della eventuale contribuzione ai fini del completamento volontario del quinquennio della legislatura e della eventuale contribuzione aggiuntiva finalizzata al trattamento di reversibilità, secondo le modalità di cui ai successivi commi 4 e 5. La quota di contribuzione a carico della Camera dei deputati è pari a 2,75 volte quella a carico del deputato.
4. Le quote di contribuzione finalizzate al completamento volontario del quinquennio di ciascuna legislatura sono determinate sulla base dell’indennità parlamentare lorda e dell’aliquota di contribuzione a carico del deputato vigenti nell’ultimo giorno di ciascuna legislatura completata e si considerano versate in pari data.
5. Le quote di contribuzione aggiuntiva finalizzate al trattamento di reversibilità, che non siano state trattenute sull’indennità parlamentare, sono determinate sulla base dell’indennità parlamentare lorda e dell’aliquota di contribuzione a carico del deputato vigenti in ciascun mese delle legislature alle quali si riferiscono e si considerano versate in pari data.
6. Il tasso annuo di capitalizzazione è dato dalla variazione media quinquennale del prodotto interno lordo (PIL) nominale, appositamente calcolata dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), con riferimento al quinquennio precedente l’anno da rivalutare, sino alla data di decorrenza del diritto all’assegno vitalizio e alle quote di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata.
7. Nel caso in cui, dopo la data di maturazione dell’assegno vitalizio, siano stati versati dal deputato ulteriori contributi in relazione allo svolgimento di un successivo mandato parlamentare, i contributi medesimi concorrono a formare un nuovo e diverso montante, che viene trasformato applicando i coefficienti di trasformazione corrispondenti all’età anagrafica del deputato alla data di cessazione dal successivo mandato. La prestazione così determinata si somma alla precedente già maturata.
8. L’importo degli assegni vitalizi, diretti e di reversibilità, e delle quote di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata, diretti e di reversibilità, rideterminati ai sensi della presente deliberazione è rivalutato annualmente sulla base dell’indice ISTAT di variazione dei prezzi al consumo (FOI) sino alla data del 31 ottobre 2018.
Art. 3
(Rivalutazione del trattamento previdenziale rideterminato)
1. L’importo del trattamento previdenziale rideterminato è rivalutato annualmente secondo le modalità di cui all’articolo 11 del Regolamento per il trattamento previdenziale dei deputati. Ai fini della prima rivalutazione, si considera il periodo 1° novembre 2018-31 dicembre 2019.
Art. 4
(Trattamenti di reversibilità)

1. A decorrere dal 1° novembre 2018, ai trattamenti previdenziali di reversibilità si applicano le aliquote di reversibilità di cui all’articolo 9 del Regolamento per il trattamento previdenziale dei deputati.
Art. 5
(Disposizione attuativa)

1. Il Collegio dei deputati Questori sovrintende all’attuazione della presente deliberazione e delibera in merito alle questioni connesse all’applicazione delle relative disposizioni.

1871.- Il principio Tempus regit actum e la tutela delle posizioni soggettive nel procedimento amministrativo

La questione dell’abolizione dei vitalizi pone nuovamente all’attenzione la tematica della irretroattività della legge con i suoi ambiti, le sue deroghe e i suoi limiti; ma, astraendo dal particolare dei diritti acquisiti e più in generale, accenta le difficoltà di salvaguardare i principi fondanti dell’Ordinamento democratico con il venir meno della divisione dei poteri. È utile riproporre la lettura di questo saggio di Lo Biundo Leonardo del 10 gennaio 2008.

Nell’ambito delle questioni relative al diritto amministrativo, assume particolare rilevanza l’individuazione di una linea di comportamento che possa servire, al contempo, ad affrontare la questione della sopravvenienza di norme nel corso del procedimento e a garantire le posizioni soggettive degli interessati. La soluzione che viene tradizionalmente utilizzata dalla dottrina e dalla giurisprudenza per determinare la disciplina giuridica da applicare in queste circostanze si fonda sul principio tempus regit actum.
Il principio in esame trova il suo riconoscimento nell’ordinamento tramite l’art 11 delle Disposizioni sulla legge in generale, che statuisce come la legge disponga solamente per l’avvenire, recependo la naturale avversione nei confronti della norma che tolga certezza al passato. Questa regola esprime un principio di ordine generale, applicabile ad ogni branca del diritto, dal diritto privato al diritto pubblico, dalle situazioni negoziali a quelle legali; dalle situazioni patrimoniali a quelle di qualsivoglia natura.
Essa manifesta l’esigenza che la legge non sia ordinariamente retroattiva; ovvero che lo sia solo se, derogando al principio generale d’irretroattività, si qualifichi espressamente come tale.
In virtù di tale disposizione, ogni atto deve trovare il proprio regime giuridico di riferimento nella disciplina normativa in vigore nel tempo in cui è stato posto in essere. L’eventuale applicazione alla fattispecie della disciplina originaria comporta, per l’opinione prevalente, l’esistenza di un caso di ultrattività delle norme abrogate e di differimento dell’efficacia delle norme sopravvenute. Questa posizione sembra legittimare solamente la regola dell’applicazione immediata della normativa sopravvenuta agli atti non ancora venuti ad esistenza. [1]
La norma sopravvenuta dovrà essere applicata alle fattispecie successive alla sua entrata in vigore, mentre quella precedente, oramai abrogata, continuerà ad aver vigore nei riguardi di tutti i rapporti giuridici che siano nati prima dell’abrogazione stessa e siano ancora pendenti.
Sulla scorta dell’usuale interpretazione, una concorde valutazione sostiene che ciascun atto giuridico si debba realizzare nel concorso delle circostanze e degli atti preparatori richiesti dalla legge al tempo in cui viene alla luce.[2]
Il procedimento non viene giudicato come una fattispecie unitaria a formazione complessa, ma è, al contrario, sezionato nei singoli atti che lo compongono. Siamo di fronte ad una concezione che si pone all’interno di una logica attizia, per la quale non viene in rilievo il procedimento come “luogo” proprio in cui sia concentra lo svolgimento dell’attività amministrativa, ma l’atto singolarmente considerato.
Anche la Giurisprudenza prevalente si è richiamata all’usuale canone interpretativo, mettendo in risalto che tutti gli atti ed i provvedimenti amministrativi devono essere formati nel rispetto della normativa vigente al momento della loro emanazione. [3] Nelle sentenze giudiziali si può anche desumere la convinzione che, quando risultasse esaurito il subprocedimento per l’emanazione di un atto subprocedimentale, la nuova norma non potrà esplicare alcuno degli effetti previsti nei confronti del procedimento ancora in corso.[4] Nel caso in cui la nuova norma dovesse vietare l’adozione di un provvedimento, mentre la vecchia regola lo avesse consentito, sarebbe allora irrilevante il fatto che l’inizio del procedimento fosse stato posto sotto la vecchia legge, l’Amministrazione sarebbe, infatti, autorizzata a chiudere il procedimento con esito negativo.[5]
Se il principio tempus regit actum indica che ciascun atto amministrativo deve essere valutato sulla base della disciplina vigente al momento della sua adozione, esso non sembra tuttavia idoneo a cogliere l’importanza che il procedimento ha assunto nell’ambito dello svolgimento della funzione amministrativa. L’accezione tradizionale del principio rappresenta, infatti, il frutto di una concezione che fa leva sul valore del singolo atto, a discapito di elementi qualificanti del procedimento amministrativo come l’unità e l’organicità. La regola da un lato, è stata utilizzata per legittimare la coesistenza di discipline giuridiche diverse all’interno dello stesso procedimento. D’altro canto, essa impedisce che norme giuridiche sopravvenute possano pregiudicare la validità di atti amministrativi già posti in essere.
Manca usualmente, invece, la considerazione del procedimento come una vicenda unitaria, tramite la quale l’amministrazione opera per determinare un nuovo assetto delle posizioni giuridiche dei soggetti interessati.
Un recente studio ha elaborato un’interessante teoria sul principio tempus regit actum, finora considerato come una delle regole più pacifiche dell’intero diritto pubblico.[6] La tesi proposta si discosta, per la sua impostazione dogmatica, da tutte le analisi relative al diritto intertemporale che hanno visto finora luce. L’assunto di partenza è che l’interpretazione usuale del principio sia viziata da una concezione che fa leva, solamente, su un esame dei singoli atti del procedimento. Il nuovo orientamento rileva, invece, che punto di partenza di ogni studio sul diritto amministrativo deve essere il procedimento amministrativo, considerato come unitaria vicenda di durata. Il suo intero svolgimento deve potersi dispiegare attraverso l’azione di un’unica normativa giuridica. La critica maggiore si concentra sulla concezione secondo cui ciascun atto del procedimento dovrà essere disciplinato dalla normativa in vigore nel momento in cui esso è posto in essere. Quest’impostazione è ritenuta la risultante di un orientamento che parcellizza il procedimento in una serie distinta di atti autonomi, che ne sacrifica la dimensione unitaria.
Il principio tempus regit actum viene sostituito da una nuova massima: “Tempus regit actionem”. La nuova costruzione volge la propria attenzione al procedimento, ritenuto lo schema unitario tipico attraverso il quale si esercita la funzione amministrativa. Tutti gli atti o fatti che lo compongono sono elementi essenziali ed indefettibili, nell’ambito di una relazione in cui ciascun fattore rileva in termini di compartecipazione al risultato finale della fattispecie. L’intero procedimento sarà disciplinato dalla normativa in vigore al momento in cui esso ha avuto inizio, senza che il diritto sopravvenuto possa trovare applicazione immediata nel corso dello sviluppo delle fasi endoprocedimentali. L’attuazione delle norme sopravvenute potrebbe provocare un’alterazione dei presupposti giuridici della funzione amministrativa, impedendo alla procedura avviata di dispiegarsi secondo la disciplina vigente al momento dell’avvio.
La stabilità delle norme è reputata preferibile anche rispetto all’applicazione immediata della normativa che presenti un contenuto più favorevole al privato.L’ attuazione della norma più favorevole rappresenterebbe un ritorno al passato, ad un tipo di rapporto tra pubblica amministrazione e cittadini, basato su un vincolo di autorità della prima sui secondi.
La stabilità delle norme di riferimento dell’intero procedimento viene contrapposta all’usuale tendenza ad individuare il quadro normativo in cui si trova inserito solamente il singolo atto.
L’ accertamento della normativa che disciplina uno specifico provvedimento è teso a garantire agli interessati la possibilità di poter usufruire di forme di tutela in fase giurisdizionale.
La tesi che sostiene il principio Tempus regit actionem, concentra la propria attenzione sulla natura del procedimento, non più una sequela di atti distinti coordinati per il raggiungimento di un dato risultato, bensì una vicenda unitaria in cui si articola il confronto tra gli interessi delle parti, al fine di arrivare all’adozione del provvedimento conclusivo. La condizione necessaria affinché le posizioni giuridiche degli interessati possano essere efficacemente garantite diviene la stabilità e l’unicità delle regole giuridiche che presiedono allo svolgimento della funzione amministrativa.
La disciplina che dovrebbe trovare applicazione sarebbe quella in vigore all’inizio della fase istruttoria, in questo momento, infatti, viene definita la decisione finale rispetto alla quale il provvedimento conclusivo costituirà solo un mero riepilogo.
Qualsiasi modifica normativa, che dovesse intervenire sullo svolgimento dell’istruttoria, rappresenterebbe un inquinamento delle conclusioni dell’intero procedimento ed un potenziale pregiudizio per le situazioni giuridiche dei soggetti interessati.
Solamente la “perpetuatio” della normativa di riferimento potrà garantire maggiore certezza nello svolgimento delle varie fasi del procedimento e proteggere le aspettative che i cittadini hanno maturato nel momento in cui questo ha preso avvio. L’interesse legittimo, infatti, prende consistenza solamente nel momento iniziale del procedimento in cui si avvia il confronto con il potere pubblico. Esso nasce con l’atto o col fatto con cui ha inizio la procedura, cioè con la costituzione del rapporto amministrativo, e nel corso di questo si realizza o si attua.
Il principio tempus regit actionem mira a creare un nuovo rapporto con l’amministrazione, basato sul confronto e sulla collaborazione. Esso vuole rappresentare un mezzo che garantisca protezione al cittadino rispetto allo stato di incertezza che deriverebbe dall’applicazione immediata delle norme sopravvenute a tutti i procedimenti pendenti. Solamente l’ applicazione della disciplina in vigore nel momento in cui sorga il dovere di procedere potrebbe eliminare ogni rischio derivante dall’intersecarsi di più normative differenti.
Il procedimento diviene lo spazio ideale in cui realizzare l’incontro della realtà concreta con le norme giuridiche che tale realtà intendono governare. La prima, caratterizzata dalla presenza di differenti interessi, vincolerà l’amministrazione ad agire per rinnovare assetti precedenti non più validi, le seconde consentiranno di determinare i poteri e le funzioni necessarie per la loro utilizzazione.

BIBLIOGRAFIA

[1] G.U. Rescigno, L’ atto normativo, Bologna, 1998, 103
2 A. M. Sandulli, Il procedimento amministrativo, Milano, 1940, 419 “Ogni provvedimento, per qualsiasi aspetto che riguardi la sua essenza, la struttura o i requisiti, deve essere sottoposto alla legge del tempo in cui è posto in essere”.
3 Cons. Stato. sez IV, 7 Maggio 1999 n. 799, in Foro amm., 1999, 972 “Il sopravvenire di una legge durante lo svolgimento del procedimento da ingresso al principio “Tempus regit actum”, nel senso che ciascuna delle fasi va considerata sottoposta alla disciplina della legge vigente nel tempo in cui venne compiuta”
4 Cons. Stato sez V, 13 Aprile 1994 n. 513, In Cons. Stato 1994; “In caso di annullamento giurisdizionale di atti di concorso, la rinnovazione dovrà partire dal primo degli atti annullati, lasciando immutati gli atti non travolti dall’annullamento”
5 P. Virga, Dir Amministrativo, vol II, Milano, 1999, 88
6 G.D. Comporti, Tempus regit actum, Torino, 2001, 78 ss

1870.- Flat tax irrealizzabile e rivolta delle imprese: i sogni di Lega e Cinque Stelle si schiantano sull’economia

904881f1-ff13-4f00-9286-a4168fe4890f_smallDecreto dignità e reddito di cittadinaza sono fermi e si allontanano. Le imprese si lamentano. Le banche non sono contente. Ecco perché dal punto di vista dell’economia il governo Carioca fa acqua da tutte le parti. E non uscirà facilmente dall’impasse. Il sottosegretario M5S all’Economia Castelli parla di “manovrina”. Dopo il nodo coperture sul dl Dignità, per Di Maio si fa dura.
Cari Salvini e Di Maio,dopo la parziale affermazione di Conte a Bruxelles,l’immigrazione continuerà. A Roma,è sempre la squadra di Padoan (FMI) a condizionarvi dai ministeri della spesa. Ogni promessa del contratto passa, perciò, per il dicastero guidato da Tria. Conte, Salvini, Di Maio, bocciate al centro.

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29 Giugno 2018 – 07:30
Il decreto dignità ha subito una battuta d’arresto, vittima delle contraddizioni in senso al popolo; il reddito di cittadinanza (che poi non è per davvero di cittadinanza) viene rinviato, vittima delle contraddizioni in seno al governo; la flat tax (che non è così piatta come la si è dipinta) finisce fuori dalla legge di bilancio per le contraddizioni in seno alla finanza pubblica e per quelle tra Roma e Bruxelles (è in corso un difficile negoziato allo scopo ottenere flessibilità sul bilancio pubblico, proprio come ai vecchi tempi di Matteo Renzi).

È passato meno di un mese dal giuramento del nuovo governo italiano davanti al presidente della Repubblica e le promesse giallo-verdi in tema di politica economica e sociale sono in ritirata di fronte alla realtà. Intendiamoci, non è che Matteo Salvini e Luigi Di Maio abbiano intenzione di rinunciare, ma debbono fare quel che finora hanno sempre rinviato: cioè fare i conti con le risorse e con gli interessi dei ceti che li sostengono, delle categorie, delle lobby e delle corporazioni che finora li hanno appoggiati.

Prendiamo la Confcommercio che ha tributato una standing ovation a Di Maio quando alla loro assemblea ha detto: «L’Iva non aumenterà, io sono con voi». Adesso il presidente Carlo Sangalli, letto il provvedimento del ministro del lavoro, lo dichiara senza mezzi termini «inaccettabile» perché è «un ritorno al passato sui contratti a termine»: le possibilità di proroga vengono ridotte da 5 a 4, e sono reintrodotte le causali, senza contare il contributo aggiuntivo di mezzo punto per ogni rinnovo. L’irrigidimento del mercato del lavoro non piace nemmeno alla Confesercenti, tanto meno alla Confindustria che ha lanciato un attacco ad ampio spettro: il partito della crescita contro il partito dei sussidi, quello che vuole produrre il reddito e quello che vuole distribuire il reddito che non è stato prodotto. Il presidente Vincenzo Boccia è uscito anche dai confini della economia in senso stretto per tirare una bordata contro uno dei principi fondamentali del Movimento 5 Stelle: “Se non vuoi sentire i corpi intermedi – ha detto – puoi fare pure la democrazia diretta, ma non si capisce chi ascolti”.

È passato meno di un mese dal giuramento del nuovo governo italiano davanti al presidente della Repubblica e le promesse giallo-verdi in tema di politica economica e sociale sono in ritirata di fronte alla realtà
“Sono con la Coldiretti” aveva proclamato Salvini lanciando la sua campagna contro il riso cambogiano. Salvo poi che il ministro dell’agricoltura, il leghista Gian Mario Centinaio, adesso mette in guardia dal protezionismo. Va bene il riso (sul quale c’è un contenzioso aperto da parte di tutti i paesi europei produttori, quindi non si tratta di una specificità italiana), ma «Salvini e Di Maio sbagliano dal punto di vista tecnico – sostiene Centinaio -, gli Stati Uniti vogliono mettere dazi sull’olio spagnolo. Se dovessero fare la stessa cosa con l’olio, il vino e la pasta italiana? Dovremo chiudere le aziende. Dazi chiamano dazi» Insomma con il protezionismo e con l’isolazionismo non si va da nessuna parte.

Gli industriali sono allarmati anche dall’idea di imporre sanzioni fino al 200% per chi delocalizza pur avendo preso sostegni dallo stato (per esempio i macchinari acquistati con gli incentivi di industria 4.0). A parte la difficoltà di farlo e a parte il fatto che non è chiaro se la legge Calenda verrà prorogata o no, è in ballo una questione di fondo: chi fa le scelte produttive, il governo o l’imprenditore? Tira un’aria da Gosplan che non può certo tranquillizzare le aziende. Nemmeno il salario minimo per legge convince la Confindustria, e non solo perché limita la contrattazione tra le parti sociali, ma perché, senza una riforma della rappresentanza e una revisione dei livelli a favore dei contratti aziendali, introduce un fardello in più, inutile se il salario minimo è uguale o inferiore a quello dei contratti nazionali, dannoso se è superiore, senza alcun collegamento con la produttività e la prestazione lavorativa.

C’è poi la posizione del ministro delle infrastrutture, il grillino Danilo Toninelli, il quale intende bloccare le grandi opere (come la Tav, la Tap, il Terzo valico) a favore di quelle che ha chiamato “opere piccole”. Mentre Di Maio sta sbattendo la testa di fronte all’Ilva. Adesso dice che deve studiare 23 mila pagine e rimanda tutto a settembre, quando arriverà la resa dei conti anche per l’Alitalia. I leghisti stanno alla finestra e pensano sempre al mitico rilancio di Malpensa. I pentastellati vorrebbero una nazionalizzazione usando la Cassa depositi e prestiti e trovando (chissà dove) altri capitali coraggiosi. Giuseppe Guzzetti a nome delle fondazioni bancarie, azioniste di minoranza della Cdp, ma dotate di un forte potere di veto, ha detto che si opporrà minacciando addirittura di uscire. Se ciò accadesse, la Cassa entrerebbe dritta dritta nel perimetro del debito pubblico. Di rinvio in rinvio c’è anche la fatturazione elettronica per i distributori di carburante (e perché non anche per altre categorie?). E altro seguirà certamente. A cominciare probabilmente dalla flat tax.

Qui esiste sia un problema di risorse sia una questione di equità. I messaggi finora inviati sono contraddittori. Salvini ha promesso una “pace fiscale”, cioè un mega condono per chi deve meno di centomila euro, con il quale finanziare almeno in parte la riforma dell’Irpef. A sentir parlare di condono s’è leccato i baffi tutto “il popolo delle partite Iva”. Poi sono arrivate le simulazioni sulla flat tax (si tratterebbe di due aliquote e quattro scaglioni come effetto di deduzioni e detrazioni che debbono rendere progressiva una imposta di per sé proporzionale). Sono ipotesi ancora di scuola, ma mostrano che i benefici maggiori vanno ai redditi più elevati. Del resto Salvini aveva detto che voleva ridurre le imposte ai ricchi perché consumano di più e così facendo aiutano tutta l’economia, facendo sfoggio di reaganismo padano.

Tra i ripensamenti e gli avvertimenti c’è quello di Carlo Messina, il capo della banca Intesa Sanpaolo. La settimana scorsa ha pronunciato una frase allarmante che poca eco ha avuto sulla stampa e nessuna in televisione. Ha detto che la minicrisi dello spread è costata cara alla sua banca la quale ha visto ridursi da 53 a 43 miliardi il suo valore azionario: «Eravamo la terza banca europea – ha detto Messina – adesso siamo la quinta. E si è ridotta anche la nostra forza: a 33 miliardi diventiamo contendibili», cioè scalabili
Fatti i conti in tasca e visto che il condono non darà in ogni caso risorse sufficienti, i contribuenti cominciano a farsi il loro conto dei costi e dei benefici. Tanto più che emergono altre idee non del tutto tranquillizzanti: una patrimoniale sugli immobili che s’aggiunge alle imposte già esistenti e un taglio alle pensioni. Si parla di quelle oltre i cinquemila euro mensili, ma chi tocca le pensioni muore, lo si è visto con la legge Fornero.
Ma lo si è visto anche nel 2011 quando fu la Lega Nord di Umberto Bossi a mettere in crisi il governo Berlusconi il quale, incalzato dalla Bce (ricordate la ormai famosa lettera dell’agosto?) aveva deciso di mettere mano a una riforma. Capofila della rivolta di palazzo allora fu Roberto Calderoli che è ancora politicamente vivo, vegeto e pimpante.

Insomma, per governare non bastano annunci e proclami. Di Maio se la prende con la bollinatura e altre astrusità burocratiche. A parte il fatto che si tratta di verificare la fattibilità delle misure immaginate, il vicepresidente del Consiglio è stato parlamentare nonché vicepresidente della Camera, quindi di queste cose deve aver sentito parlare, sia pure nel mitico corridoio dei passi perduti che attraversa il palazzo di Montecitorio.
Tra i ripensamenti e gli avvertimenti c’è quello di un grande banchiere come Carlo Messina, il capo della banca Intesa Sanpaolo. La settimana scorsa ha pronunciato una frase allarmante che poca eco ha avuto sulla stampa e nessuna in televisione. Ha detto che la minicrisi dello spread è costata cara alla sua banca la quale ha visto ridursi da 53 a 43 miliardi il suo valore azionario: «Eravamo la terza banca europea – ha detto Messina – adesso siamo la quinta. E si è ridotta anche la nostra forza: a 33 miliardi diventiamo contendibili», cioè scalabili. È un memento di grande importanza, perché ricorda ai partiti, ai ministri e all’opinione pubblica che la politica non è chiacchiera da caffè: gli atti si pesano su una bilancia crudele che può far pendere il piatto contro gli interessi del paese, dei cittadini, del “popolo”. Ma non solo gli atti, a volte le parole stesse diventano macigni.
di Stefano Cingolani

1869.- IL CAPO DELLA BUNDESBANK SI È LASCIATO SCAPPARE COSA VOGLIONO I TEDESCHI DALL’ITALIA

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Di un mese fa, ma viste le acque in cui naviga l’Unione … Se il capo della Bundesbank Weidmann dovesse sostituire Draghi?

Da qualche tempo i tedeschi hanno fatto trapelare l’ipotesi e l’interessato stesso non ha smentito questa possibilità nell’intervista appena rilasciata alla Rai. Già il fatto che l’unica intervista rilasciata da Weidmann sia stata ai media italiani la dice lunga sull’avanzamento del progetto e infatti Weidmann ha lanciato un messaggio piuttosto chiaro su cosa dovrebbe essere fatto nei nostri confronti.

E cosa diamine avrà mai il presidente della Bundesbank che non va? La fiatella? Gli puzzano i piedi? Ha le chiappe chiacchierate? Strozza le vecchiette per hobby? Se fosse solo per queste cosucce non sarebbe tanto diverso da un Brunetta qualsiasi, il guaio è che Jens Weidmann conserva dell’Italia l’immagine stereotipata trasmessa dai film americani degli anni Cinquanta (pizza, mafia e mandolino), ma soprattutto non si capacita di come questi cialtroni mediterranei possiedano una ricchezza privata media superiore a quella di un tedesco. Weidmann lo dice col sorriso tirato tipico dei primi della classe, ma lo dice chiaramente e proprio nell’intervista messa in onda ieri da RaiUno nella trasmissione di Lucia Annunziata.«Sa che è stata fatta una ricerca tra i paesi dell’area euro nella quale si evidenzia che le famiglie italiane hanno più patrimonio delle famiglie tedesche? Non penso però che qualcuno auspichi un trasferimento di patrimoni dall’Italia alla Germania…»

Così ha detto Weidmann all’intervistatrice, sfoggiando un bel sorriso sarcastico. I passaggi dell’intervista sono piuttosto lunghi e numerosi e tutti i giornalisti, in queste ore, si stanno soffermando sulle dichiarazioni del Presidente della Bundesbank con riferimento al quantitative easing di Mario Draghi, che per Weidmann è stato un fallimento, o sulla necessità che l’Italia provveda quanto prima a ridurre il debito pubblico. Invece, il punto chiave è quello evidenzaito dal sottoscritto: LE FAMIGLIE ITALIANE HANNO PIU’ PATRIMONIO DI QUELLE TEDESCHE!E’ di assoluta evidenza, per uno studioso del fenomeno capitalistico, che l’ultracapitalismo non può reggersi a lungo quando consente alla maggior parte della popolazone di tutelarsi attraverso il risparmio. Se ci facciamo caso, i paesi maggiormente capitalistici, come gli Stati Uniti, promuovono la spesa dei privati tramite carte di credito, tramite i “pagherò”, ma non certo tramite il risparmio. E persino la prima casa è molto più tassata che in Italia. Lasciamo perdere le faraoniche idiozie che ha raccontato Berlusconi per anni, la verità è che nei paesi capitalistici i patrimoni sono riservati ai ricchi e che anche gli alti stipendi della middle class vengono puntualmente sputtanati in tasse, assicurazioni e cianfrusaglie da comprare (tipo il suv coi rostri per i bufali, anche se abiti a New York City).

Per gli americani avere una casa di proprietà (e non essere in affitto) vuol dire veramente avercela fatta nella vita. Difatti, a parte i ricchi ricchi, praticamente nessuno ne ha un’altra, la famosa seconda casa. Bene, ora guardatevi un po’ attorno: quanti impiegati e operai conoscete, in Italia, che hanno una seconda casa? Io abito in Veneto e oserei dire, almeno una famiglia su tre. Ma al di là delle impressioni personali, quel che è certo, è che i tedeschi non sono nelle nostre stesse condizioni e non si capacitano del perchè, nonostante il loro efficentismo e i loro (ex) alti stipendi, siano più poveri degli italiani come beni rifugio accumulati. Ma Weidmann lo sa (welfare e tasse basse sul patrimonio) ed è lì che andrà a picchiare se diventerà il nuovo inquilino della Bce a Francoforte. Con Weidmann al posto di Draghi il debito italiano non avrà più alcuna copertura e diventerà facile occasione di vendite allo scoperto per gli speculatori. Il governo italiano, qualsiasi esso sia, dovrà porvi rimedio attraverso alte tasse sui patrimoni della classe media italiana, trasferendo di fatto quella ricchezza alle banche tedesche, finalmente monopolio del board della Bce. Se c’è una cosa bella dei tedeschi è che non sanno mentire. Purtroppo, troppi italiani non capiscono e non sanno trarre le conclusioni politiche dalle confessioni d’oltralpe.
di Massimo Bordin

1868.- Lo diceva Craxi nel ‘90: aiutiamoli veramente a casa loro e il mondo guarirà entro il 2020.

Bastava cancellare il debito del Terzo Mondo. Ma non si è fatto niente. E il 2020 è praticamente arrivato e quei paesi, sempre più poveri, vomitano disperati sulle sponde del Mediterraneo.

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«Proporre ai paesi poveri del mondo un “contratto di solidarietà” che rompa, entro il 2020, il ciclo infernale della miseria e della fame». Così parlava Bettino Craxi a Parigi nel lontanissimo 1990. La proposta: cancellare il debito del Terzo Mondo. Noi cos’abbiamo fatto, in trent’anni, su quel fronte? Meno di zero. Il 2020 è praticamente arrivato, e quei paesi (sempre più poveri) vomitano disperati sulle sponde del Mediterraneo. Rileggere oggi le parole di Craxi – riportate all’epoca dai quotidiani – fa semplicemente piangere: qualcuno ricorda una sola sillaba, di tenore paragonabile, pronunciata negli ultimi decenni da uno qualsiasi dei famosi campioni dell’Unione Europea? Siamo sgovernati da infimi ragionieri e grigi yesmen al servizio del capitale finanziario neoliberista che i tipi come Craxi li ha esiliati in Tunisia, trasformandoli in profughi politici – corsi e ricorsi, nell’amara ironia della storia: importiamo derelitti, dopo aver cacciato leader autorevoli e dotati di visione strategica. Nel ‘90, Craxi intervenne nella capitale francese in qualità di rappresentante personale del segretario generale dell’Onu per i problemi del debito del Terzo Mondo, dinanzi alla Conferenza parigina dei 41 paesi più poveri del pianeta.

Un discorso, scrisse Franco Fabiani su “Repubblica” – nel quale Craxi ha ripercorso quelli che ha definito «i sentieri statistici della povertà che solcano il globo con la loro sfilata di drammatici indici della miseria e del sottosviluppo, dall’America latina

all’Asia, dal Medio Oriente all’Africa subsahariana». Circa un miliardo di persone definite povere nelle statistiche ufficiali della Banca Mondiale (senza comprendere la Cina) costrette a fare i conti con risorse inferiori a quelle che occorrono per il minimo vitale. Erano quattro, per Craxi, i maggiori problemi da affrontare: nodi che – ieri come oggi – turbano, in questo contesto drammatico, «la ricerca dell’equilibrio e della prosperità di tutto il nostro pianeta: le guerre, la povertà, il debito, il degrado ecologico e ambientale». Africa e Asia, Medio Oriente, America Latina: aree tormentate negli anni ‘80 da guerre, guerriglie tra Stati e popoli e gruppi di diverse ideologie. Tragedie che hanno prodotto «distruzioni e persecuzioni, ma anche e soprattutto costi economici enormi, che hanno aumentato a dismisura l’indebitamento». Di qui la ricetta di Craxi, proposta alle 150 delegazioni presenti a Parigi: sviluppare una cooperazione con questi paesi per mettere fine ai conflitti e alleviare il debito, cominciando dai paesi che rispettano i diritti umani.

In una parola: «Concentrare gli sforzi politici e finanziari per spezzare l’intreccio perverso guerra-povertà». E quindi, innnanzitutto: fare il possibile per evitare nuove guerre. Quella in agenda nel ‘90 era la prima Guerra del Golfo, a cui il “profeta” Craxi si opponeva: un conflitto nel Golfo, sosteneva, «trascinerebbe con sé un carico incalcolabile di distruzioni e di conseguenze tragiche di cui proprio i paesi più poveri sarebbero le prime vittime». Ed ecco la proposta strategica: «Cancellare sino al 90% del debito bilaterale, mentre il restante 10% dovrebbe essere convertito in moneta locale, per farlo affluire ai progetti di sviluppo economico, di formazione di capitale umano e di tutela dell’ambiente». La cancellazione del debito verso i paesi poveri «comporterebbe un onere annuo pari al 10% del Pil dei paesi donatori, cui si dovrebbe aggiungere almeno una percentuale identica di nuovi aiuti». In questo modo, secondo Craxi, «si potrebbe avere una robusta crescita dei paesi più poveri che consentirebbe loro di debellare la fame entro il 2020». Unica condizione: la stabilità del prezzo del petrolio, e quindi la pace. Un simile discorso, oggi, in Europa, avrebbe bisogno di un traduttore specializzato: la lingua di Craxi sembra estinta, come quella dei Sumeri.

1867.- Vertice UE migranti, parla Becchi: “Stavolta l’Europa salta davvero”

Siamo giunti al “Vertice EU sulla questione migranti: “Giuseppe Conte minaccia di porre il Veto sulle decisioni non concordate e “la Merkel incontra Conte per un colloquio a quattr’occhi”prima della riunione generale”.
Prima questa Europa salterà, prima potremo rifondarla; ma senza potenze coloniali e stati privilegiati. Mario Donnini ha aggiunto.
Sbaglia chi pensa che l’Italia oggi rischi l’isolamento, è vero l’esatto contrario. Oggi sul tema dei migranti e dell’eurozona siamo al centro di tutti i giochi e Conte farà finalmente valere i nostri interessi, con buona pace di Merkel e Macron e – aggiungo – dei loro padroni.

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C’è chi ritiene che oggi sia in gioco il destino dell’Europa. Il vertice della Ue si annuncia ad alta tensione soprattutto su due temi in particolare: la gestione dell’immigrazione e i rapporti con la Russia. L’Italia è pronta a fare la voce grossa e a minacciare il veto se sull’immigrazione non arriveranno risposte convincenti in ordine alla condivisione dei salvataggi in mare. Del fatto che l’Europa sia ormai ad un bivio è convinto il filosofo Paolo Becchi che a Lo Speciale evidenzia come il nuovo ruolo dell’Italia, potrà essere davvero determinante per porre fine all’asse franco-tedesco che fino ad oggi ha guidato i destini della Ue.

Cosa si aspetta dal vertice europeo di oggi?

“Oggi può arrivare il punto di svolta. L’Italia nel pre-vertice della settimana scorsa ha messo in chiaro la sua posizione che spero vivamente resti quella decisa dal Governo. Conte ha fatto capire chiaramente che sull’immigrazione non basterà cambiare il Trattato di Dublino ma andare oltre. Serve un nuovo trattato che prenda atto della situazione attuale, che non è più la stessa di allora. La Germania e la Francia devono riconoscere di aver sbagliato tutto e ammettere che la politica migratoria da loro imposta a tutta l’Europa è stata completamente fallimentare”.

C’è chi addirittura intravede la possibilità che l’Europa possa saltare. Siamo a questo punto?

“L’Italia potrà porre il veto sulle decisioni che non condividerà o rifiutarsi di sottoscrivere gli accordi. Di certo la Germania è uscita dai mondiali di calcio, ma sta entrando in una situazione molto complessa. Non sappiamo neanche quanto il Governo Merkel potrà durare. Sbaglia chi pensa che l’Italia oggi rischi l’isolamento, è vero l’esatto contrario. La nostra posizione è stata talmente dirompente da aver messo in crisi gli equilibri che si erano creati in Germania. Il ministro dell’Interno Seehofer si mostra sempre più scettico circa la permanenza in vita della Grande Coalizione tedesca facendo capire che dal primo luglio sarà pronto a rivoluzionare la politica dell’immigrazione portata avanti fino ad oggi dalla Cancelliera. Se non gli sarà consentito, potrà far cadere il Governo dal momento che i voti della Csu sono determinanti. Macron non sta affatto meglio visto che la Francia è la principale responsabile dell’emergenza immigrazione, prima per aver creato la crisi libica e poi per la dissennata gestione del franco francese che sta distruggendo le ex colonie in Africa. O l’Europa cambia marcia oppure Francia e Germania resteranno isolate. Il dato di fatto importante è che oggi Conte al vertice conterà davvero”.

C’è poi il nodo della Russia. Cosa potrà accadere?

“Nel programma del Governo gialloverde c’è la ridiscussione delle sanzioni alla Russia. L’Italia non può continuare a tollerare una situazione come quella attuale che vede la Germania fare affari indirettamente con Mosca mentre noi siamo obbligati a rispettare i vincoli. La nostra economia è fortemente danneggiata da queste sanzioni, quindi anche qui dovremo battere i pugni sul tavolo ed ottenere a tutti i costi la revoca delle restrizioni contro la Russia. Sicuramente francesi e tedeschi non saranno d’accordo, ma anche qui non possiamo suicidarci per far piacere loro”.

Le ultime elezioni amministrative hanno rafforzato o meno il Governo Conte?

“Lo hanno sicuramente rafforzato nel momento stesso in cui hanno sancito la morte delle opposizioni. Il Pd è defunto dopo aver perso le storiche roccaforti della sinistra, e dovrà ripartire da zero, ricostruire tutto dalle fondamenta, per poter riuscire a rimettere in piedi un’alternativa di governo. Penso che da adesso alle prossime elezioni europeee l’Esecutivo potrà lavorare in tutta tranquillità e senza grossi impedimenti. Fa bene Matteo Salvini a portare avanti la sua politica sulla sicurezza e contro l’immigrazione che sta già dando ottimi risultati, ma spero che quanto prima analoghi risultati si vedano anche sul piano sociale. Dobbiamo dare risposte decisive sul grande tema del lavoro. La disoccupazione purtroppo non cenna a diminuire e tanta gente continua a vivere al di sotto della soglia di povertà. Dobbiamo coniugare il sovranismo identitario con quello sociale e solidale e per fare questo dovremo sfondare il patto di stabilità e trasgredire i vincoli europei. Altrimenti non ne usciremo”.

Dopo le europee cosa potrà accadere?

“Qui il discorso diventa più complesso. Senza dubbio l’orientamento di Salvini è chiaro, contribuire alla creazione di un grande blocco sovranista ed euroscettico insieme ai paesi di Visegrad che porti a rifondare l’Europa contrapponendosi ai due schieramenti fino ad oggi dominanti, popolari e socialisti. Cosa farà il M5S? Aderirà al blocco sovranista? Manterrà una posizione autonoma? Si schiererà con i liberali? Con i verdi? Su posizioni euroscettiche o no? Questo il grande dilemma. A quel punto in base alla collocazione che i 5S sceglieranno in Europa potrebbero presentarsi seri problemi per la tenuta del Governo. Ma è prematuro parlarne ora. Adesso per un anno penso si procederà senza intoppi e con risultati secondo me anche molto positivi. Se il buongiorno si vede dal mattino! Oggi l’Italia sul tema dei migranti e dell’eurozona è al centro di tutti i giochi. Come andrà a finire nessuno lo sa, ma di certo nulla sarà più come prima”.

1866.- LIBIA, TRUPPE FRANCESI DIRIGONO CLANDESTINI VERSO L’ITALIA

Il nemico europeo degli italiani, oggi, è Emmanuel Macron che si è permesso di confrontare le nostre preoccupazioni sull’incredibile immigrazione di persone in atto con un’epidemia di “lebbra”. E, ieri,ha ottenuto,per la sua politica migratoria,la benedizione di un altro nemico: il Papa.I Patti Lateranensi non esistono più, non c’è alcun rispetto della nostra sovranità nella politica dello Stato della Chiesa, quindi, perché averlo della loro?
Anche il trattato di Dublino NON VALE PIU’ e che con i flussi di questi anni va rivisto col metodo Lifeline redistribuzione immediata.
Redistribuzione perché? Perché l’economia di 14 paesi africani è sottomessa e non riesce a sviluppare sotto il peso del franco CFA coloniale, infatti, la Banca di Francia riscuote ogni anno 500 miliardi dai 14 Stati africani come garanzia per il rapporto di cambio euro – CFA. Parigi è il male assoluto, più di Berlino. . Domani GiuseppeConte usi il DIRITTO DI VETO per proposte che ci penalizzano.

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I francesi vogliono indebolire l’Italia e ci aiutano con la invasione.

Le truppe francesi stanziate tra il Niger e la Libia lasciano passare indisturbati migranti e trafficanti di uomini. Lo sostengono Jamal Adel, giornalista libico che vive nella zona sud-est dell’oasi di Kufra, e il Fezzan Libya Group, l’organizzazione che monitora il traffico di persone nella capitale libica del sud di Sebha.

Dopo la proposta del ministro dell’Interno Matteo Salvini di creare dei centri di accoglienza nei Paesi confinanti con la Libia, i libici che si trovano vicini al confine mettono ora in guardia Roma: “I francesi non stanno facendo nulla per fermare il traffico di persone perché non ne soffrono le conseguenze. Quelli che soffrono davvero sono i libici e gli italiani”, dice Adel a Gli Occhi della Guerra.

Le truppe francesi, infatti, starebbero fornendo sostegno medico ai migranti, senza però farli tornare nei loro Paesi d’origine. Anzi: i francesi permetterebbero ai migranti di passare il confine libico dove trovano alcuni trafficanti che li conducono sulle coste per poi iniziare il loro viaggio della speranza verso l’Italia.

Sia la Francia che il Niger ignorano il traffico di persone che avviene sul territorio sotto il loro controllo. “I trafficanti passano liberamente sotto il naso delle truppe francesi”, aggiunge l’organizzazione di Fezzan. “Se il Niger e la Francia pensano che il traffico di persone sia secondario, l’Italia e la Libia pensano sia un problema primario perché sono direttamente colpiti da questo fenomeno”.

Queste le dichiarazioni raccolte dal team di Fausto Biloslavo nella zona da cui passa il 99% dei clandestini che poi prendono i barconi verso l’Italia.

Se poi teniamo presente che la più grande Ong impegnata nel traffico umanitario – la famigerata Méditeranée/Msf, quella dell’Aquarius – è francese, e che appena Malta, pressata dalla chiusura dei porti italiani, ha deciso di cessare il suo appoggio logistico ha fatto rotta verso Marsiglia per rifornirsi, è facile capire chi gestisce il traffico di clandestini verso l’Europa.

Non dimentichiamo, poi, che fu proprio la Francia di Sarkozy a ‘stappare’ il blocco libico con la guerra e l’assassinio di Gheddafi.

Evidentemente, l’élite al potere che gestisce lo Stato francese è impegnata in un’opera di sovversione demografica ai danni degli altri Paesi europei, soprattutto l’Italia. I motivi, al momento, ci sfuggono.

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Correva il mese di aprile…e Alberto Negri editorialista dell’”Analisi” titolava: ” i calci negli stinchi della Francia all’Italia, i nostri soldati cacciati dal Niger e dalla Tunisia”.
Per la Francia non si tratta soltanto della lotta al terrorismo jihadista o ai flussi migratori clandestini ma del mantenimento dei rapporti di dipendenza delle ex colonie e del controllo su un’area in cui Parigi ha profondi interessi economici

La Francia ci assesta, dopo l’incursione dei suoi doganieri armati a Bardonecchia, un altro calcio negli stinchi. Lo fa attraverso le autorità del Niger che costringono l’Italia ad annullare la missione militare nel Paese africano dopo che era stata approvata in gennaio dal Parlamento sulla scorta degli accordi intercorsi tra Roma e Niamey. E come se non bastasse è cancellato anche l’invio di soldati in italiani per il contingente Nato in Tunisia: i nostri dirimpettai della Sponda Sud reclamano la collaborazione italiana in campo economico ma non hanno nessuna intenzione che ficchiamo il naso in casa loro per arginare l’immigrazione clandestina e il terrorismo jihadista.

Non è una situazione così nuova. Ogni volta che l’Italia è coinvolta in una missione militare ricordiamoci dell’Iraq, della Somalia e dell’Afghanistan. Non siamo autonomi. In Somalia nel’92 gli americani non ci davano neppure il permesso di atterrare a Mogadiscio. Come ex potenza coloniale non eravamo graditi. Francesi, americani e britannici nel 2011 hanno bombardato Gheddafi senza farci neppure una telefonata. I nostri alleati, che sono anche dei concorrenti, ci ricordano sempre che abbiamo perso la guerra. Se è vero che sulla marcia indietro del Niger hanno influito le critiche interne alla crescente presenza militare straniera (americana e francese), hanno pesato ancora di più le resistenze della Francia all’arrivo degli italiani _ che non avrebbero svolto missioni di combattimento _ non solo perché Roma “sconfina” nell’area africana sotto influenza di Parigi ma anche perché i nostri militari avevano pianificato di realizzare la loro base a Niamey accanto a quella statunitense, non a quella francese o a quella tedesca.

In poche parole i francesi volevano che gli italiani rispondessero ai loro comandi per combattere i jihadisti alle loro dipendenze nell’Operazione Barkhane insieme ai Paesi del G-5 (Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad e Mauritania).
Con un sistema militare e di sicurezza che ha preso le mosse dall’intervento francese in Mali del 2013 contro Al Qaeda, Parigi ha organizzato un ritorno in forze di “Francafrique”, nel continente dove nell’ultimo mezzo secolo ha compiuto una cinquantina di missioni militari senza contare le operazioni segrete e clandestine. La Francia oggi ha settemila militari in Africa e oltre a Gibuti ha una presenza importante in Senegal, Gabon, Costa d’Avorio e un ruolo decisivo tra il Mali, il Niger il Ciad e il Centrafrica. Insomma i nostri 470 militari in Niger erano un discreto contingente ma in posizione del tutto ancillare rispetto alla Francia: questo avremmo dovuto capirlo subito, come si era già detto e scritto.
Per la Francia non si tratta soltanto della lotta al terrorismo jihadista o ai flussi migratori clandestini ma soprattutto del mantenimento dei rapporti di dipendenza delle ex colonie e del controllo su un’area in cui Parigi ha profondi interessi economici, legati alle materie prime e alle commesse delle aziende francesi. La Total, per esempio, mette a bilancio in Africa un terzo della sua produzione mondiale di petrolio.

Soltanto in Niger la società francese Areva estrae il 30% del fabbisogno di uranio per le centrali nucleari. Il controllo dell’uranio e del petrolio del Sahel sono pilastri della geopolitica francese in Africa. Poi ci sono le armi e la finanza. La Francia nel 2016 è il secondo esportatore di armi nel mondo dopo gli Usa e il Sahel, insieme all’Africa occidentale e centrale, è uno dei suoi clienti di riguardo, anche se meno redditizio delle monarchie del Golfo. Si impongono adesso alcune serie considerazioni sul rapporto tra la Francia e l’Italia e una valutazione sul ruolo di Parigi ostile all’Italia in Africa e nel Mediterraneo, a cominciare dalla Libia fin dalla guerra del 2011. I finanziamenti di Gheddafi per la campagna elettorale 2008 all’ex presidente Nicolas Sarkozy hanno riacceso i riflettori sui veri motivi che spinsero Parigi ad attaccare Gheddafi trascinando Gran Bretagna e Stati Uniti nella disgregazione del maggiore alleato dell’Italia nel Mediterraneo.
E’ stata questa la peggiore sconfitta italiana dal secondo dopoguerra che è costata miliardi, centinaia di migliaia di profughi e rivoluzionato con l’argomento immigrazione e sicurezza, dominante in campagna elettorale, il quadro politico interno.

Si dovrebbe riflettere anche sulle intese bilaterali in ballo, dal cosiddetto “Trattato del Quirinale” _ che in gennaio doveva sancire la cooperazione Francia-Italia _ all’accordo sulla cantieristica e l’industria della difesa fino alla cessione di aree marittime del Tirreno alla sovranità francese. Non è un caso che le tensioni con la Francia si siano riaccese in contemporanea con la decisione del governo italiano di far acquistare alla Cassa depositi e prestiti il 5% della Tim in alleanza con il Fondo Elliot nella partita finanziaria contro la Vivendi francese. In una ventina d’anni francesi hanno fatto acquisizioni in Italia per oltre 100 miliardi di euro contro la metà delle aziende italiane in quelle transalpine: da Bnl, Cariparma, Edison, Parmalat, alla fusione Luxottica Essilor. La Francia è insomma un nostro partner ma anche un concorrente che approfitta della nostra storica vulnerabilità in politica estera e, ovviamente, anche di quella economica.

1865.- COSA C’È DIETRO L’IMMIGRAZIONE DI MASSA

Cause, interessi occulti e terribili conseguenze: il parere di Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”. FEDERICO CENCI

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Giovani africani in partenza dalla Libia

Negli ultimi anni l’opinione pubblica europea ha imparato a conoscere e in qualche modo a metabolizzare il fenomeno dell’immigrazione di massa. Frotte di uomini, donne e bambini assiepano scomodi barconi che salpano il mar Mediterraneo fin quando non vengono raggiunti dalle imbarcazioni delle ormai arcinote ong, le quali si assumono il compito di traghettare i migranti sulle coste settentrionali. È questo solo l’ultimo stadio di un processo che inizia nei Paesi d’origine degli immigrati, ma che affonda le radici nei meccanismi finanziari che regolano l’economia globale.
Austerity, debito, maltusianesimo
Del tema se n’è parlato giovedì scorso presso la Sala Teatro della Fondazione Cristo Re, a Roma. Relatori Enzo Pennetta, biologo, docente e scrittore, e Ilaria Bifarini, economista, autrice dei libri Neoliberismo e manipolazione di massa (2017) e I Coloni dell’austerity: Africa, Neoliberismo e migrazioni di massa (2018). È un’analisi dei fatti che parte da lontano quella offerta dalla Bifarini, che si definisce una “bocconiana redenta”, dal nome della prestigiosa università dove ha studiato, la “Bocconi” di Milano, fabbrica dei futuri manager dell’alta finanza.

L’austerity, a suo avviso, e prima ancora il debito, sarebbero le cause scatenanti dell’immigrazione di massa nonché della globalizzazione della povertà. Austerity che, nell’introduzione di Pennetta, troverebbe una correlazione con il maltusianesimo, dottrina economica ispirata all’inglese Thomas Malthus secondo cui la popolazione crescerebbe in maniera superiore alle risorse disponibili. Di qui la necessità, promossa dai seguaci di questa teoria, di ridurre l’assistenza sociale perché essa incentiva la crescita demografica. E proprio i tagli alla spesa pubblica sono il punto di contatto tra Malthus e l’austerity.

Il ricatto all’Africa
Quest’ultima, diventata tema ricorrente in Occidente, “trova nell’Africa, e nel Terzo Mondo in generale, il proprio laboratorio di sperimentazione”, ha affermato la Bifarini. La sua riflessione è partita dalla crisi del debito del Terzo Mondo del 1982, quando – ha detto – “le politiche ultraliberiste occidentali irrompono nel continente africano attraverso i piani di aggiustamento strutturale, ossia una serie di riforme economiche imposte dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Centrale, poste come condizioni per la concessione di prestiti”.

Che tipo di riforme? Presto detto: privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, liberalizzazioni. Una congerie di ricette economiche ultraliberiste che – ha osservato la Bifarini – “hanno prodotto un aumento della disuguaglianza, della povertà e, conseguentemente, dell’emigrazione”. Non è un caso che i Paesi che presentano una superiore propensione all’emigrazione sono proprio quelli con un debito pubblico più ridotto, cioè quelle che hanno versato più “lacrime e sangue”, per usare un’espressione famigerata. L’economista ha tenuto a precisare che prima di questo corto circuito, benché a piccoli passi, anche diversi Paesi africani avevano iniziato a crescere, e lo avevano fatto attraverso politiche keynesiane, cioè con interventi statali per incentivare la domanda. Metodo che – ha aggiunto – è stato usato anche in Occidente per far fronte e superare la grande depressione del 1929.

A chi giova l’immigrazione di massa
Oggi invece, per rimanere all’Occidente, la crisi economica del 2008 viene affrontata non promuovendo maggiori investimenti pubblici, bensì assecondando le spinte ultraliberiste. Questo atteggiamento – ha rilevato la Bifarini – “applicato già nel Terzo Mondo, creerà anche qui da noi, anche attraverso l’emigrazione incontrollata di quelle stesse vittime africane del neoliberismo, una globalizzazione della povertà che non risparmia nessuno e che è linfa vitale della finanza speculatrice internazionale”.

Il flusso migratorio è ormai rodato e gradito ai mercati. “L’Africa – ha detto la Bifarini – si trova ad affrontare una crescita demografica esponenziale, che nel 2050 porterà la popolazione del continente a raddoppiare, passando da 1,2 a 2,5 miliardi di abitanti. Al contrario l’Occidente è stretto nella morsa della denatalità e dell’invecchiamento della popolazione”. È così che – ha proseguito – “attraverso la migrazione di massa, da una parte i Paesi africani si liberano della popolazione eccedente, dall’altra l’Occidente aggira il compito ineludibile di attuare politiche del lavoro e di tutela delle famiglie”.

L’esercito industriale di riserva
Non solo, l’arrivo di masse di disperati, disposti a tutto pur di avere un impiego, abbassa notevolmente il costo del lavoro, permettendo ai Paesi occidentali di competere nel mercato globale con le cosiddette economie emergenti, le quali spesso non hanno una tradizione in diritto alla tutela del lavoro. Essi rappresentano – ha sottolineato Pennetta – quello che Karl Marx chiamava “esercito industriale di riserva”, moltitudini di persone pronte ad accontentarsi di retribuzioni da fame e di cattive condizioni lavorative. A tal proposito, Pennetta ha citato la dichiarazione di un esponente del Pd, che nel corso di una trasmissione tv nel 2016 ha detto che “uno dei parametri” a cui l’Italia è inchiodata è quello della “disoccupazione strutturale”. “Nel Def – ha chiarito l’esponente politico – abbiamo scritto che nei prossimi anni la disoccupazione non scenderà sotto il 12%, come obiettivo quasi dichiarato del governo”. Ciò significa – la riflessione di Pennetta – che si vuole che almeno un cittadino su dieci sia disoccupato, “di modo che sia disposto ad accettare stipendi sempre più bassi, per creare una concorrenza tanto sleale da far scendere sempre più retribuzioni e tutele”.

E per centrare l’obiettivo neoliberista c’è bisogno, inoltre, di quella che la Bifarini ha chiamato la “depoliticizzazione”, per cui lo Stato nazionale assume sempre meno valenza e cede la propria sovranità ad organi sovranazionali. “Nei Paesi africani – la sua riflessione – è stata repressa in nuce la nascita di Stati nazionali indipendenti nel periodo postcoloniale, che sono stati subito sostituiti da élite locali al servizio della finanza e delle multinazionali”. È ciò che sta avvenendo oggi anche in Occidente, ha rilevato la Bifarini. Ma la soppressione dello Stato non fa altro che generare una schizofrenia socioeconomica per cui non si investe più per risanare l’economia reale, quella delle imprese che producono beni e servizi, ma si alimenta il drago invisibile dell’economia virtuale, quella dei mercati, dei flussi di denaro che si muovono dietro lo schermo di un pc.

Cristo Re

La profezia di Sankara

Infine la Bifarini ha voluto citare la figura di Thomas Sankara, storico presidente del Burkina Faso tra il 1983 e il 1987. Egli denunciò e combatté l’inganno del debito, visto come una sorta di neocolonialismo nei confronti dell’Africa, e per questo fu assassinato dal suo vice, con la presunta complicità di alcuni tra i maggiori Stati occidentali. Secondo Sankara – ha detto l’economista – “le masse popolari europee non sono contro le masse popolari africane, ma gli stessi che vogliono depredare l’Europa sono quelli che hanno sfruttato l’Africa”. Pertanto il nemico – ha concluso la Bifarini – è lo comune a tutti i popoli: “l’elite neoliberista che specula sulla miseria e trae profitto dall’immigrazione di massa e dalla globalizzazione della povertà”.
Ilaria Bifarini e Enzo Pennetta

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1864.- LA PROPOSTA DI CONTE PER SUPERARE DUBLINO SI INTITOLA «EUROPEAN MULTILEVEL STRATEGY FOR MIGRATION» ED È COMPOSTA DA UNA PREMESSA E 10 OBIETTIVI

Si è conclusa la riunione informale sul tema migrazione a Bruxelles e rientriamo a Roma decisamente soddisfatti. Abbiamo impresso la giusta direzione al dibattito in corso (Non si può discutere dei “secondary movements” senza prima aver affrontato l’emergenza dei “primary movements”). Ci rivediamo giovedì al Consiglio Europeo.

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Ecco il documento di sintesi della proposta italiana avanzata dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte al vertice informale di Bruxelles sui migranti. Si intitola «European Multilevel Strategy for Migration» e consta di una premessa e 10 obiettivi.
«L’Europa – vi si legge – è chiamata ad una sfida cruciale. Se non riesce a realizzare un’efficace politica di regolazione e gestione dei flussi migratori, rischia di perdere credibilità tutto l’edificio europeo. Occorre un approccio integrato, multilivello che coniughi diritti e responsabilità. L’Italia vuole contribuire costruttivamente alla formulazione di questo nuovo approccio. Dobbiamo passare dalla gestione emergenziale, alla gestione strutturale del fenomeno immigrazione. Ciò si realizza in primo luogo con la regolazione dei flussi primari (ingressi) in Europa, solo così si potranno regolare successivamente i flussi secondari (spostamenti intraeuropei).

1. Intensificare accordi e rapporti tra Unione europea e Paesi terzi da cui partono o transitano i migranti e investire in progetti. Ad esempio la Libia e il Niger, col cui aiuto abbiamo ridotto dell’80% le partenze nel 2018.

2. Centri di protezione internazionale nei Paesi di transito. Per valutare richieste di asilo e offrire assistenza giuridica ai migranti, anche al fine di rimpatri volontari. A questo scopo l’Ue deve lavorare con UNHCR e OIM. Perciò è urgente rifinanziare il Trust Fund UE-Africa (che ha attualmente uno scoperto complessivo di 500milioni di euro) che incide anche su contrasto a immigrazione illegale su frontiera Libia-Niger.

3. Rafforzare le frontiere esterne. L’Italia sta già sostenendo missioni UE (EUNAVFOR MED Sophia e Joint Operation Themis) e supportando la Guardia Costiera Libica, occorre rafforzare queste iniziative.

4. Superare Dublino (obiettivo più complesso). Nato per altri scopi, è ormai insufficiente. Solo il 7% dei migranti sono rifugiati. Senza intervenire adeguatamente rischiamo di perdere la possibilità di adottare uno strumento europeo veramente efficace. Il Sistema Comune Europeo d’Asilo oggi è fondato su un paradosso: i diritti vengono riconosciuti solo se le persone riescono a raggiungere l’Europa, poco importa a che prezzo.

5. Superare il criterio Paese di primo arrivo. Chi sbarca in Italia, sbarca in Europa. Riaffermare responsabilità-solidarietà come binomio, non come dualismo. È in gioco Schengen.

6. Responsabilità comune tra Stati membri sui naufraghi in mare. Non può ricadere tutto sui Paesi di primo arrivo. Superare il concetto di `attraversamento illegale´ per le persone soccorse in mare e portate a terra a seguito di Sar. Bisogna scindere tra porto sicuro di sbarco e Stato competente ad esaminare richieste di asilo. L’obbligo di salvataggio non può diventare obbligo di processare domande per conto di tutti.

7. L’Unione europea deve contrastare, con iniziative comuni e non affidate solo ai singoli Stati membri, la `tratta di esseri umani´ e combattere le organizzazioni criminali che alimentano i traffici e le false illusioni dei migranti.

8. Non possiamo portare tutti in Italia o Spagna. Occorrono centri di accoglienza in più paesi europei per salvaguardare i diritti di chi arriva e evitare problemi di ordine pubblico e sovraffollamento.

9. Contrastare i movimenti secondari. Attuando principi precedenti, gli spostamenti intra-europei di rifugiati sarebbero meramente marginali. Così i movimenti secondari potranno diventare oggetto di intese tecniche tra paesi maggiormente interessati.

10. Ogni Stato stabilisce quote di ingresso dei migranti economici. È un principio che va rispettato, ma – conclude il documento – vanno previste adeguate contromisure finanziare rispetto agli Stati che non si offrono di accogliere rifugiati».

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Below are the leaders’ comments on arriving for talks.

German Chancellor Angela Merkel

“One large part of today’s discussions will be protecting the outside borders and how we reduce illegal migration to Europe. There will also be a discussion about secondary migration, how do we treat each other fairly inside Schengen, how can we find a reasonable balance.”

1863.- Macron: psicopatico in crisi di nervi. Il piano coloniale gli scoppia in mano. Di Stefano Alì

L’Unione Europea è, può dirsi fallita grazie all’arrivismo di Francia e Germania; ma l’appetito insaziabile della Francia è molto più pericoloso per i nostri interessi dell’egoismo della Germania. Fino a ieri, da Prodi e D’Alema ai governi Napolitano siamo stati messi in situazioni dispari con queste due nazioni. Ricordiamo che i soldati in Niger ce li hanno mandati il pesce lesso Gentiloni e la pulzella e che sono lì a far la guardia alle pietre, all’uranio “No” e alla pista dei migranti “Nemmeno”, ciò non di meno, ci restano, obbediscono in silenzio al loro dovere. Oggi, a Bruxelles, al vertice UE sull’immigrazione, Conte incontra un Emmanuel Macron che sta sbroccando di brutto. Con la questione dei migranti (e non solo) gli sta saltando il piano coloniale per la Libia. Ma non è tutto: Intanto, che il nostro Conte, “isolato”, fa tremare gli equilibri dell’Unione Europea, il governo “forte” della Merkel è ad un passo dalla caduta, sotto la pressione del ministro dell’Interno Seehofer e dei bavaresi, domani Salvini incontrerà al-Serray a Tripoli. Bello questo articolo su Il Cappello Pensatore

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Emmanuel Macron – uno psicopatico in crisi di nervi

Uno spettacolo da non perdere. Il narcisista psicopatico Emmanuel Macron è in piena crisi di nervi. Per la prima volta l’Italia “osa” fare i suoi interessi e non quelli della Francia.
Per inquadrare il discorso è necessario ascoltare le parole del Prof. Adriano Segatori. Segatori è psichiatra-psicoterapeuta, membro della sezione scientifica “Psicologia Giuridica e Psichiatria Forense” dell’Accademia Italiana di Scienze Forensi.

Quindi Emmanuel Macron è fondamentalmente uno psicopatico. La “favola” dell’amore infantile coronato dal matrimonio con la sua professoressa è una narrazione che dovrebbe fare inorridire. Infatti la verità nuda e cruda è la seguente: è stato vittima di abuso sessuale.

L’Italia serva sciocca
Perché Macron sbrocca? Ma semplice. Era abituato (lui e la Merkel) a una Italia sempre agli ordini. Era abituato a una Italia che alimentava il suo delirio di onnipotenza. Una Italia che non si sarebbe sognata di sollevare un sopracciglio alle intemperanze francesi.

Il bombardamento della Libia
Per rimanere alla storia contemporanea, partiamo brevemente dall’intervento militare in Libia, giusto per rettificare la narrazione.

«Fu Giorgio Napolitano (Re Giorgio) a imporlo a Berlusconi».

Forse, ma siccome la forma italiana di Governo è la Repubblica Parlamentare (e non Presidenziale), Berlusconi e il Parlamento avrebbero potuto (e dovuto) dire di no.

Ciò per tutta una serie di motivi, non ultimi i rapporti economici privilegiati e, sopratutto, il fatto che la Libia di Gheddafi costituisse un tappo. La Libia di Gheddafi impediva che il Mediterraneo venisse travolto dalle contraddizioni e dai conflitti che percorrevano (e percorrono) l’Africa.

Dall’altra parte ci stava la Francia.

Non aveva alcun interesse a mantenere il “tappo” perché la sua deflagrazione avrebbe coinvolto l’Italia, come poi è avvenuto
Non sopportava l’asse economico privilegiato fra Libia e Italia
Circolano anche altre “aggravanti”. Un finanziamento di Gheddafi alla campagna elettorale dell’ex Presidente Francese Sarkosy.

Il trattato di Caen
Immediatamente prima della tornata elettorale del 4 marzo era scoppiato il caso della cessione di porzioni di mare italiano alla Francia.

Con un semplice trattato (il trattato di Caen), infatti, il Ministro degli Esteri Gentiloni aveva ceduto alla Francia porzioni di mare italiano. Porzioni pescosissime in cui, ad esempio, viene catturato il famosissimo gambero rosso.

Il bello è che tutto era avvenuto in assoluto silenzio.

Ci si è accorti della cessione solo perché la Francia ha immediatamente esercitato il suo “diritto di proprietà”.

A gennaio 2018 viene multato e sequestrato il peschereccio “Mina” che pescava i gamberi, come al solito, al largo di Sanremo.

La storia si ripete in Sardegna. Anche in Sardegna, infatti, avviene un episodio simile: nessuna multa né sequestro, ma un’intimazione a un equipaggio italiano di allontanarsi dalle acque francesi.

Con l’insediamento del nuovo governo, la Francia ci riprova. Con atti unilaterali prova ad appropriarsi porzioni di mare a nord della Sardegna.

Ma questa volta viene stoppata dal neo Ministro Danilo Toninelli.

Mi sono già occupato del “caso Niger” nel post Militari italiani in Niger. Per i migranti o per l’uranio francese? e quindi non ci torno.

Mi fermo a questi esempi, giusto per far comprendere il fatto inedito: l’Italia si riappropria di un ruolo cui aveva abdicato da ormai troppi anni.

Il colonialismo francese
Altro elemento da tenere in considerazione è l’ambizione coloniale della Francia.

La quasi totalità dei migranti che sbarcano parlano il francese e di certo non perché lo abbiano studiato alla Sorbona.

Tutta la zona dell’Africa occidentale (esclusa la Libia) e centrale, per un totale di 14 Paesi erano colonie francesi fino agli anni ’60.

La truffa del Franco CFA
In realtà la condizione coloniale non è mai cessata.

Tutte le ex colonie francesi adottano la stessa moneta, il Franco CFA. La sigla, originariamente, significava Colonie Francesi d’Africa (Colonies Françaises d’Afrique). Dopo l’acquisizione della “indipendenza” perfino l’acronimo è rimasto identico. È solo cambiato il suo significato: Comunità Finanziaria Africana.

Le regole:

La zona franco deve applicare quattro regole, formalizzate in due trattati firmati dalla Francia e dai 14 Paesi in questione nel 1959 e nel 1962. Eccole

la Francia garantisce la convertibilità illimitata del CFA in euro;
il tasso di conversione tra CFA e euro (prima franco) è fisso: 1 euro=655,957 franco CFA;
i trasferimenti di capitali tra la zona franco e la Francia sono liberi;
come contropartita di questi primi tre principi il 50% delle riserve di cambio dei Paesi della zona franco devono essere depositate su un conto della Banca di Francia, a Parigi.
Da Italia Oggi:

Con l’avvento dell’euro, il Franco Cfa non è scomparso, ma il suo valore è stato fissato alla valuta europea (100 Cfa = 0,15 euro). Come detto, però, è sempre il Tesoro francese e non la Bce che continua a garantirne la convertibilità. Come sia possibile tutto ciò ancora non è dato sapere.

Parigi, quindi, detiene le riserve auree di 14 Paesi africani!

Scrive vociglobali.it

Le riserve del franco CFA nella Banca di Francia sono stimate approssimativamente in 10 miliardi di euro, denaro che – dice chi critica fortemente questo sistema – potrebbe essere utilizzato per piani di sviluppo dei Paesi in questione. Evitando, d’altra parte la richiesta di prestiti che non fanno che aumentare il debito nei confronti delle istituzioni finanziarie europee e dei singoli Paesi..

Guai a lamentarsi. Ci pensa Boko Haram
Ci si potrebbe chiedere “ma perché i Paesi africani non si sganciano dal Franco CFA?”

Più facile a dirsi che a farsi.

Da ultimo ci ha provato il Ciad.

Sempre Italia Oggi

Sia come sia, a ottobre 2015 (due mesi dopo il niet del Ciad alle scuse chieste da Parigi e dopo la contestuale esternazione di voler uscire dal regime del franco coloniale) Boko Haram ha attaccato per la prima volta un villaggio nel paese centrafricano, causando dieci morti. Ma questa è solo una tendenziosa coincidenza. Come, del resto, è una curiosa coincidenza che Boko Haram, movimento radicale islamista recentemente affiliatosi al Daesh, sia un fenomeno che colpisce solo le ex colonie francesi dotate di franco coloniale. Più la potente e ricca Nigeria che ambisce al ruolo di player geopolitico nell’area.

E, come si legge nello stesso articolo, è proprio la Francia ad armare Boko Haram.

Macron e la Libia
La totale acquiescenza italiana ha consentito a Emmanuel Macron di alimentare il suo delirio di onnipotenza nell’espandere il colonialismo francese alla Libia.

Il Sole 24 Ore

Pur cercando assiduamente di portare i due rivali al tavolo dei negoziati, l’Italia ha sempre sostenuto le autorità di Tripoli. Non è peraltro irrilevante il fatto che la maggior parte dei giacimenti dove opera l’Eni si trovi proprio in Tripolitania. Parigi non stava a guardare. Sotto la presidenza di François Hollande, forze speciali francesi si erano già insediate in Cirenaica. Con un abile equilibrismo diplomatico Parigi sosteneva ufficialmente il Gnc, ma al contempo, stava al fianco del suo nemico. Di nascosto. Fino al 20 luglio 2016, quando la morte di tre soldati francesi precipitati con un elicottero nei pressi di Bengasi, dove Haftar stava combattendo contro milizie islamiste, costrinse il ministero francese della Difesa a uscire allo scoperto: la Francia aveva inviato forze speciali in Libia. A fianco di chi, è facile immaginarlo.

L’idea è semplice e si sviluppa in tre mosse:

“conquistare” la Libia
cacciare l’ENI
riempire l’Italia di “migranti” generati dal colonialismo francese
Da qui l’accordo che aveva stretto con la Merkel per rispedire in Italia e in Grecia tutti i migranti che si trovino in un qualsiasi Paese Europeo.

Gli accordi Macron-Merkel: l’Italia servita PER cena
Il fallimento dell’Italia e l’occupazione era già pronta.

Da una parte

Macron e Merkel mettono all’angolo le banche italiane sui crediti deteriorati ma si scordano dei derivati tedeschi e francesi. (Business Insider)

Con questo meccanismo, le banche italiane andrebbero in estrema sofferenza, mentre le banche francesi e tedesche tirerebbero un sospiro di sollievo. Giusto per ricordare, la situazione di Deutsche Bank è ben peggiore. Proprio il 22 giugno 2018 è stata declassata a BBB+.

Dall’altra predispongono da soli il documento finale che sarebbe dovuto uscire da un vertice.

Evidentemente erano abituati così. È stato così che l’Italia ha sottoscritto tutti i trattati. È stato così che ha messo la testa nel cappio. Così l’Italia ha sottoscritto gli accordi di Dublino.

L’accordo
L’accordo che avevano preparato, pronto per essere – come al solito – firmato dall’Italia senza fiatare, era una vera e propria trappola.

Tutti i migranti che si trovano in Europa sarebbero dovuti ritornare nei Paesi di primo approdo. Quindi Italia e Grecia.

La reazione del Governo italiano ha costretto Angela Merkel alla retromarcia, lasciando Emmanuel Macron con il cerino in mano.

Nel frattempo l’Ambasciatore presso l’UE, Maurizio Massari, avanza una riserva formale dell’Italia sui fondi per la Turchia e quelli per l’Africa.

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Facendo saltare i piani di Macron che non voleva che ai fondi per l’Africa accedesse la Libia. I fondi servirebbero, tra l’altro, per creare “hot spot” nei Paesi di transito e di partenza.

Se per alcuni Paesi Macron è felicemente favorevole (le “ex” colonie di cui ho scritto), per la Libia no.

Secondo Macron la situazione in Libia è troppo instabile per poter aprire centri di identificazione, e gestire la situazione in autonomia.

Certo, dimentica un passaggio: La Francia è stata in prima fila nella decisione di deporre Gheddafi, alimentando dunque l’attuale caos libico. Ed è a causa di ciò che l’Italia deve dunque fare i conti con una Tripoli sempre più nodo fondamentale per la rotta mediterranea.

E Macron sbrocca
La ritrovata dignità italiana ha fatto dare di matto Emmanuel Macron.

La diagnosi del Prof. Segatori (video all’inizio del post) è del Maggio 2017:

Vediamo le crisi isteriche di Macron nel momento in cui l’ammirazione viene meno

Figurarsi. Con il nuovo governo italiano non gliene sta andando bene una. Altro che crisi isteriche!