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6128.- Mossad e Shin Bet, al Cairo, fissano la linea al Qatar e alla CIA. Ombre su Netanyahu e appello di Abbas.

Breve nota di Mario

Acclarato che sia il potere di Hamas che di Netanyahu regge sopratutto sulla vendetta, che Tel Aviv non intende retrocedere nei propri confini, quale altra via se non il genocidio e la diaspora dei palestinesi possono garantire a Israele un percorso di pace e, al mondo, la stabilità del Medio Oriente? Questi morti: i patrioti, i terroristi e gli innocenti, non siano morti invano. C’è concordo sulla soluzione dello Stato palestinese, ma ci sembra prioritario che l’ONU decida i confini di Israele. Può solo pensarlo? Sono in ballo due potenze nucleari: Israele e l’Iran. Alle spalle, c’è chi alimenta la guerra della NATO alla Federazione Russa e la guerra di Putin all’Ucraina. Entrambe impediscono a Washington e a Mosca di dettare, insieme, condizioni a Tel Aviv e a Teheran. Tutto il mondo è in agitazione: dall’Armenia, al Mar Rosso, alle Coree, a Taiwan. Potrebbero? Su tutto ciò sorvola la banalità di Tajani, che, tardi, ma punta al nocciolo della questione: “Da Israele reazione sproporzionata, troppe vittime civili che non c’entrano nulla con Hamas”. In questo momento, mentre l’inverno volge al termine, nella Striscia, ci sono 14°, poche nuvole, pochissimo cibo, acqua, niente elettricità. C’é l’odore dei morti, magari, di mamma e papà.

Appello dell’Anp a Hamas: “Accettate l’accordo con Israele, i palestinesi vanno salvati dalla catastrofe”

anp hamas

Da Il Secolo d’Italia, di Luciana Delli Colli, 14 febbraio 2024

Continueranno per tre giorni i colloqui al Cairo tra Stati Uniti, Israele, Qatar ed Egitto per cercare di raggiungere un accordo per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e il rilascio degli ostaggi in cambio dei detenuti palestinesi dopo che, finora, i negoziati non hanno portato a risultati. A scriverlo è il New York Times citando, a condizione di anonimato, un funzionario egiziano. Il tenore dei colloqui finora è ”positivo”, ha spiegato la fonte. Anche il Times of Israel ha parlato dell’estensione dei negoziati, mentre un lungo retroscena di Haaretz ha gettato ombre sulla volontà del premier Benjamin Netanyahu di arrivare davvero a un accordo. Intanto, il presidente dell’Anp, l’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, oggi, ha lanciato un appello a Hamas affinché accetti un accordo per fermare la guerra.

I negoziati al Cairo per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi

I negoziati sono stati aperti al Cairo da una delegazione di vertice, guidata dal capo del Mossad David Barnea, accompagnato dal capo dello Shin Bet, Ronen Bar. I due funzionari hanno incontrato il primo ministro e ministro degli Esteri del Qatar Mohammed bin Abdulrahman Al Thani e il capo della Cia William Burns. Poi hanno fatto rientro in Israele. Il tavolo ora proseguirà a livelli inferiori. Egitto Qatar e Stati Uniti stanno cercando ancora una volta di raggiungere un cessate il fuoco più lungo per la Striscia di Gaza. In cambio, gli ostaggi ancora nell’enclave palestinese dovrebbero essere liberati, così come alcuni detenuti palestinesi nelle carceri di Israele.

L’appello dell’Anp a Hamas: “Accettate l’accordo per salvare il popolo palestinese dalla catastrofe”

Oggi il presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas, ha rivolto un appello a Hamas, che è suo rivale politico, affinché accetti un accordo con Israele per fermare la guerra nella Striscia di Gaza. ”Chiediamo al movimento di Hamas di accettare velocemente l’accordo sui prigionieri per risparmiare il nostro popolo palestinese dalla calamità di un altro evento catastrofico con conseguenze terribili, non meno pericolose della Nakba del 1948”, ha detto Abbas, citato dall’agenzia di stampa palestinese Wafa. Il presidente dell’Anp ha poi ”invitato l’Amministrazione americana e i fratelli arabi”, ovvero i mediatori di Egitto e Qatar, ”a lavorare diligentemente per raggiungere un accordo sui prigionieri il più rapidamente possibile, al fine di risparmiare al popolo palestinese il flagello di questa guerra devastante”.

Il retroscena di Haaretz sulle intenzioni di Netanyahu

Secondo un’analisi del quotidiano israeliano Haaretz, però, a non considera un accordo come una priorità sarebbe prima di tutti Netanyahu. Il giornale riferisce che il premier avrebbe concesso alla delegazione guidata da Barnea un margine di manovra limitato, proprio perché non avrebbe fretta di arrivare alla sottoscrizione del patto. Il capo del governo israeliano, si legge nell’edizione web, continuerebbe a insistere sul fatto che le pressioni militari alla fine porteranno a un accordo con condizioni migliori per Israele, indipendentemente dalle proteste delle famiglie degli ostaggi, che oggi per altro, in una delegazione di circa un centinaio, si sono recate all’Aja per denunciare formalmente Hamas al Tribunale internazionale per crimini di guerra. Haaretz ricorda anche che Tel Aviv ha definito inaccettabili finora le richieste avanzate da Hamas, sottolineando il fatto che a confermare che lo stesso Netanyahu non creda molto a un accordo in questa fase ci sarebbe anche l’assenza nella delegazione volata ieri al Cairo del generale Nitzan Alon, capo dell’unità dell’esercito incaricata di raccogliere intelligence sugli ostaggi. Il quotidiano, inoltre, ha richiamato anche il pressing degli Usa contro la linea aggressiva di Netanyahu, il quale però l’ha confermata rilanciando l’offensiva a Rafah.

Tajani: “Hamas vuole una reazione dura di Tel Aviv per isolarla”

“Noi siamo amici di Israele, abbiamo condannato con grande fermezza ciò che è accaduto il 7 ottobre, abbiamo riconosciuto il diritto di Israele a difendersi e a colpire le centrali di Hamas a Gaza perché quello che è accaduto è stata una caccia all’ebreo: sono scene che hanno provocato una giusta reazione”, ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani, sottolineando anche che “noi però abbiamo come obiettivo la pace, vogliamo che ci sia un cessate il fuoco perché non bisogna permettere a Hamas di raggiungere il suo obiettivo”, che è quello “di mettere Israele in un angolo”. “Hamas sta usando la popolazione civile come scudo. Hamas vuole che Israele abbia una reazione ancora più dura per poi dire ‘isoliamo Israele’. È il disegno di Hamas. Non bisogna cadere nella trappola di Hamas”, ha quindi avvertito Tajani, sottolineando che ”senza uno Stato palestinese rischiamo che Hamas diventi l’unica speranza per i palestinesi”, ma ”Hamas è una organizzazione militare terroristica”.  Il vicepremier, quindi, ha ricordato che “l’Italia è protagonista in tutte le iniziative politiche” volte a mettere fine ai combattimenti tra Israele e Hamas e che è ”importante sostenere il dialogo in corso al Cairo tra Stati Uniti, Qatar, Israele ed Egitto per la sospensione dei combattimenti, aiutare la popolazione civile palestinesi e liberare gli ostaggi”. ”Netanyahu sta usando la linea dura, ma è nell’interesse di tutti lavorare per una de-escalation”, ha proseguito il titolare della Farnesina, che questo fine settimana a Monaco di Baviera incontrerà anche i ministri degli Esteri dei Paesi Arabi “con i quali potrò consolidare il dialogo”.

6070.- Nel Medio Oriente diviso su Israele, prevale la cautela saudita

Il presidente iraniano “Ibrāhīm Raisi al vertice islamico tenutosi in Arabia Saudita guida la linea oltranzista: «Armare i palestinesi fino alla vittoria». Ma gli arabi sono divisi sulle sanzioni allo Stato ebraico. Gli Accordi di Abramo con Israele hanno lasciato il segno.

Riad, lo show di Raisi al vertice islamico: “Bacio le mani ad Hamas, resiste a Israele”

“Ibrāhīm Raisi al vertice islamico: “Bacio le mani ad Hamas che resiste a Israele”

Da Affari Internazionali, di Eleonora Ardemagni, 13 Novembre 2023

Diviso, dunque impotente. Il super vertice arabo-islamico di Riyadh (Lega Araba e Organizzazione per la Cooperazione Islamica insieme) ha messo a nudo la frammentazione del Medio Oriente di fronte alla dura offensiva militare di Israele nella Striscia di Gaza. Un’offensiva seguita al 7 ottobre, ovvero all’attacco, con modalità terroristiche, di Hamas contro Israele. Dal summit d’emergenza organizzato dall’Arabia Saudita non è emersa alcuna azione concreta, né proposta nuova: soltanto un simbolico invito all’embargo sulla vendita di armi a Israele. Occorre ricordare però che le armi comprate da Israele provengono per tre quarti da Stati Uniti e Germania, dunque non da partner mediorientali. Chiedendo una risoluzione vincolante che blocchi le azioni militari israeliane, i paesi arabi e islamici ributtano poi, per mascherare le loro divisioni, la ´palla della politica` nel campo del Consiglio di Sicurezza Onu, anch’esso più che mai diviso e bloccato.

Di certo, l’offensiva israeliana su Gaza ha offuscato le divergenze arabe su Hamas, in particolare tra le monarchie del Golfo. La notizia, però, sta proprio in ciò che il vertice organizzato dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman Al Saud non ha deciso: nessuna rottura delle relazioni diplomatiche con Tel Aviv (per chi ha normalizzato i rapporti), né embarghi petroliferi. Insomma, i proclami del presidente iraniano Ebrahim Raisi, presente al summit, hanno ottenuto un palco mediatico ma nessun consenso politico sufficiente a orientare la politica delle principali istituzioni arabo-islamiche.

Per MbS, la prova di leadership regionale è riuscita solo a metà. Infatti, la linea prevalsa è quella saudita (oltreché degli Emirati Arabi) della cautela verso Israele, anche se emergono i limiti di una posizione faticosamente intermedia fra il tradizionale appoggio alla causa palestinese e le recenti aperture a Israele. Perché anche i sovrani del Golfo, al di là dei consueti richiami alla creazione di uno stato palestinese, sembrano non avere idea del ‘come fare’.

Il summit di Riyadh

Nel comunicato finale del vertice congiunto fra Lega Araba (22 paesi) e Organizzazione per la Cooperazione Islamica (57 paesi inclusi quelli arabi), svoltosi a Riyadh il 10-11 novembre, i partecipanti hanno chiesto il cessate il fuoco immediato a Gaza e al Consiglio di Sicurezza Onu di approvare una risoluzione “vincolante” per porre fine “all’aggressione israeliana”. Nel testo, in cui manca la condanna dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, si chiede a tutti gli stati di attuare un embargo sulla vendita di armi e munizioni a Israele, nonché alla Corte Penale Internazionale di indagare sui “crimini di guerra commessi da Israele ”.

La bozza precedente, della sola Lega Araba, non aveva raggiunto la maggioranza dei voti: il testo chiedeva, su iniziativa di Iran e Siria, l’interruzione completa delle relazioni diplomatiche con Israele ipotesi avversata da alcuni paesi. Anche per superare lo stallo, la presidenza saudita ha così riunito i due vertici in un’unica sessione.

MbS condanna Israele ma senza strappi

Il principe ereditario saudita ha dichiarato che “le autorità d’occupazione israeliane sono responsabili di crimini contro la popolazione palestinese” e ha invocato, durante il bilaterale con Raisi, “il rilascio degli ostaggi e dei detenuti”. Il ministro degli esteri saudita Faisal bin Farhan ha poi criticato l’inattività dell’Onu, sottolineando la “necessità di ristrutturare la struttura di sicurezza internazionale“.

Eppure, dopo oltre un mese di guerra, il ministro degli investimenti saudita Khalid Al Falih ha affermato che l’ipotesi di normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Israele è “ancora sul tavolo, seppur “dipendente da una risoluzione pacifica della questione palestinese”. Le parole di MbS verso il governo israeliano sono state fin qui dure -non aspre però come quelle di Qatar e Turchia –  ma senza strappi.

Il Bahrein, firmatario degli Accordi di Abramo nel 2020, si è spinto un passo più in là, ma anche qui senza arrivare alla rottura: la Camera bassa (Majlis al Shura, senza potere legislativo) ha approvato il ritiro dell’ambasciatore e la cessazione delle relazioni economiche con Israele. Non sono però arrivate conferme né annunci dal governo di Manama.

Anche i media del Golfo riflettono le divergenze fra governi

Le differenti vedute dei governi arabi del Golfo sulla guerra Hamas-Israele e il contesto regionale si riflettono anche sulla stampa araba. Così, la qatarina Al Jazeera sottolinea che i leader arabi e islamici “non hanno un meccanismo per spingere il cessate il fuoco ”, criticando le “parole vaghe” del comunicato finale, utili solo “per il pubblico interno”. Invece, l’emiratino The National si sofferma sulla bocciatura della bozza  in cui si chiedeva lo stop alle relazioni diplomatiche con Israele.

Il vertice invoca l’embargo alla vendita di armi a Israele: è interessante notare però che i paesi firmatari degli Accordi di Abramo sono stati i destinatari, nel 2022, del 24% dell’export di armi israeliane (era il 7% nel 2021). Secondo i dati diffusi dal ministero della difesa di Tel Aviv, i partner arabi hanno comprato da Israele soprattutto droni, ma anche missili, razzi e sistemi di difesa aerea. Ciò che nel Golfo serve, insomma, a difendersi dagli attacchi delle milizie filo-Teheran.

Il gioco dell’Iran

Il bilaterale di Riyadh fra MbS e Raisi conferma che i sauditi e le monarchie non hanno interesse all’escalation regionale.Razionalmente non ce l’ha neppure l’Iran che sa di non poter vincere una guerra convenzionale. Ma non solo per questo. Infatti, più l’offensiva di Israele a Gaza continua, più gli Accordi di Abramo rischiano di logorarsi: questo sarebbe un punto in favore di Teheran, ostile alle normalizzazioni e a un equilibrio mediorientale di cui gli Stati Uniti sono il regista.

Se però le milizie filo-iraniane aprissero altri fronti di guerra (Libano, Yemen), le monarchie del Golfo percepirebbero una minaccia diretta più forte e ciò accrescerebbe la convergenza con Israele, a discapito così degli obiettivi di Teheran. In fondo, quando si tratta degli attacchi degli houthi dallo Yemen, sauditi, emiratini e israeliani devono già difendersi, di fatto, da missili e droni provenienti dallo stesso nemico. Anche questo fattore ha un peso nella perdurante cautela saudita su Israele.

5970.- Israele congela i conti crittografici di Hamas

Premessa

Hamas, “Movimento Islamico di Resistenza” sunnita di estrema destra è stato fondato nel 1987 ed è stato dichiarato gruppo terroristico, dalle Nazioni Unite, nel 2018. Dal 2007, Hamas amministra la Striscia di Gaza, un’exclave del territorio palestinese confinante con Israele ed Egitto nei pressi della città di Gaza. Hamas invoca la lotta armata (jihad), contro lo Stato di Israele, la scomparsa dello Stato ebraico e l’istituzione di uno Stato islamico palestinese. Mohammed Deif è la testa pensante delle Brigate Ezzedine al Qassam. 

Nel quinto giorno di guerra contro Hamas, Israele ha bombardato la casa di Mohammed Deif, capo o coordinatore delle brigate al-Qassam, l’ala militare dell’organizzazione palestinese. Nell’attacco a Khan Younis hanno perso la vita il padre, il fratello, il figlio e i parenti del comandante dei miliziani. Nel 2014 gli hanno ucciso una moglie e una figlia. Deif era stato il primo a rivendicare il blitz di sabato scorso. Nel frattempo le vittime israeliane sono arrivate a 1.200.

L’attacco di Hamas contro Israele è inedito per ampiezza, portata, coordinamento e danni causati, soprattutto in termini di perdite di vite umane. Era dalla guerra del 1973 che non si verificava un’offensiva simile.

È impossibile, allo stato attuale, prevedere cosa accadrà ora. Le razioni delle diplomazie internazionali si dividono tra un incondizionato appoggio a Israele dal mondo occidentale, totalmente compatto. E chi invece – Egitto, Russia, Paesi del Golfo – predica calma, prudenza e invita ad evitare escalation.

Le ragioni che hanno provocato l’attacco sono legate probabilmente al tentativo di normalizzazione dei rapporti tra Israele ed alcune nazioni, Arabia Saudita in testa. Ma non potrebbe bastare a scatenare un simile inferno, se non ci fossero anche decenni di discriminazioni, di bombardamenti quotidiani, di ghettizzazioni nella Striscia di Gaza, di vessazioni in Cisgiordania, di colonie imposte nonostante siano state dichiarate illegali dalle Nazioni Unite, di embarghi, povertà, fame, mancanza di scuole, di elettricità, di cibo, di ospedali e di medicine.

I maggiori finanziatori di Hamas sono l’Iran e il Qatar, ma la rete è complessa.

Difficile stimare l’entità del supporto finanziario dell’Iran. L’Iran persegue la destabilizzazione perpetua del Medio Oriente e, perciò, offre supporto finanziario ad Hamas. Il Dipartimento di Stato americano stima che l’Iran, dai 30 milioni di dollari del 1992, ultimamente ,abbia trasferito ad Hamas e alla Jihad islamica palestinese più di 100 milioni all’anno. Ma rimane “estremamente difficile, se non impossibile, offrire una stima precisa del supporto finanziario offerto ad Hamas”.

«Ci congratuliamo con i combattenti palestinesi» ha detto il consigliere della Guida suprema iraniana Ali Khamenei, Rahim Safavi. «Saremo al fianco dei combattenti palestinesi fino alla liberazione della Palestina e di Gerusalemme», afferma Safavi, secondo quanto riporta l’agenzia semi-ufficiale iraniana Isna.

La posizione del Qatar è molto diversa dall’Iran e si ispira, almeno a parole, ad alleviare la sofferenza del popolo palestinese e alla normalizzazione dei rapporti con Israele

 10 ottobre 10:22

La Rete finanziaria di Hamas, chi finanzia il terrorismo?

Gaza, Hamas attacca Israele con 5000 razzi 8/10/23

Il sequestro dei portafogli di criptovaluta di Hamas

ОКТОМВРИ 11 ottobre 2023. Traduzione automatica.

Le autorità israeliane hanno sequestrato conti di criptovaluta appartenenti al gruppo militante palestinese Hamas in seguito ai suoi ultimi attacchi.

Si ritiene che Hamas abbia dirottato i fondi raccolti attraverso i social network verso portafogli di criptovaluta su un exchange di criptovalute.

Lahav 433, un’organizzazione israeliana simile al Federal Bureau of Investigation (FBI), sta guidando l’operazione con il supporto di Binance. Dopo la scoperta, i fondi dei portafogli di Hamas sono stati trasferiti nelle casse del governo israeliano.

Il co-fondatore di Binance He Yi ha chiarito che la cooperazione di Binance con Israele è apolitica e riguarda solo Hamas, non l’area palestinese più ampia. L’accordo dello scambio sulla richiesta delle forze dell’ordine è dovuto alla classificazione di Hamas come gruppo terroristico da parte delle Nazioni Unite.

Inoltre, l’anno scorso le autorità israeliane hanno congelato i fondi nei conti Binance che ritenevano fossero collegati ad Hamas.
A marzo, la US Futures Trading Commission (CTFC) ha intentato una causa contro Binance, sostenendo un approccio lassista nell’individuare attività criminali. Finora, tuttavia, non è stata adottata alcuna misura punitiva contro l’exchange.

Gli Stati Uniti, da parte loro, hanno deciso di schierare un gruppo d’attacco di portaerei e aerei da guerra più vicino a Israele, in parte per spaventare l’Iran. Alcune potenze occidentali, compresi gli Stati Uniti, hanno imposto sanzioni all’Iran per il suo programma di arricchimento dell’uranio, considerato un atto prodromico dello sviluppo delle armi nucleari.

L’anno scorso, un rapporto di Reuters suggeriva che Binance avesse consentito all’Iran di utilizzare la sua piattaforma per eludere le sanzioni statunitensi imposte nel 2018. All’epoca, l’exchange di criptovalute dichiarò di aver liquidato tutti i conti appartenenti agli iraniani quell’anno, cosa che alcuni utenti iraniani contestarono.

5969.- Chi finanzia Hamas? La rete che porta denaro all’organizzazione

Da Redazione Adnkronos, 10 ottobre 2023

Le risorse che arrivano dagli Stati complici, Iran e Qatar su tutti. Le somme sottratte agli aiuti umanitari 

Le bandiere di Hamas

La celebre indicazione che riceve Bob Woodward dalla sua fonte ‘Gola profonda’ nell’inchiesta sullo scandalo Watergate, ‘follow the money’, vale anche per Hamas e il finanziamento del terrorismo palestinese. Con un problema fondamentale in più: seguire il flusso di denaro che finisce nelle casse dell’organizzazione militare che ha attaccato Israele è piuttosto complicato per una serie di ragioni.

L’intreccio degli interessi in Medio Oriente, gli Stati complici

La prima è che la rete che finanzia Hamas è fatta da maglie diverse. Ci sono dietro gli Stati che hanno interesse a impedire qualsiasi percorso di pace in Medio Oriente, Iran e Qatar su tutti, e altri Stati che nel corso del tempo hanno contribuito a vario titolo, Arabia Saudita, Egitto, Sudan, Algeria, Tunisia, tutti in chiave anti israeliana. Ci sono potenze che negano il proprio coinvolgimento, come Russia e Cina, che hanno però aperto i loro rubinetti, anche in via indiretta, in chiave anti americana. Su questi fronti si intrecciano le accuse israeliane, le ricostruzioni di parte filo palestinese e i pochi dati ufficiali a disposizione, in un contesto in cui il flusso del denaro, milioni di dollari ogni anno, è direttamente proporzionale al groviglio di interessi che si muovono intorno alla polveriera mediorientale.

Gli aiuti umanitari sottratti alla popolazione palestinese

C’è poi un tema ancora più complesso da trattare, che riguarda il flusso di denaro sotto forma di aiuti umanitari. Si tratta di risorse fondamentali per la sopravvivenza del popolo palestinese, a Gaza e nei territori occupati. In assenza di uno Stato autonomo, con un’economia disastrata e con la costante pressione coloniale israeliana, assicurano la spesa sociale e sanitaria, i salari e le pensioni del personale amministrativo, gli assegni sociali alla popolazione.

Arrivano soprattutto dall’Onu, dall’Unione Europea, dalla Norvegia, dal Giappone, dall’Australia. Ci sono però anche i finanziamenti che passano per diverse Ong internazionali e che, secondo le accuse israeliane, vengono sottratti da Hamas alla loro destinazione formale, i progetti umanitari. Che una parte del flusso di denaro che arriva in Palestina per scopi umanitari possa contribuire a finanziare Hamas è una probabilità concreta ma è stato da sempre considerato un rischio calcolato, considerando costi e benefici.

I soldi della Ue che arrivano in Palestina, la trasparenza e le polemiche 

I fondi europei sono diretti per la quasi totalità all’Autorità nazionale palestinese (Anp), che controlla la Cisgiordania e che a Gaza ha perso la competizione con Hamas. Andando a consultare la pagina sulla trasparenza finanziaria del sito della Commissione Ue, e cercando la destinazione Palestina, si ottiene una mappa dettagliata.

Dal 2014 al 2021 si contano 14 programmi e 223 beneficiari, con l’Anp che incassa 1292,83 milioni di euro su un totale di 1587,47 milioni. Le polemiche di queste ore riguardano l’opportunità di questi finanziamenti e l’accusa esplicita di chi la contesta è che Hamas possa essere indirettamente finanziato anche dall’Unione europea. 

“Non tutti i palestinesi sono terroristi”, le parole di Borrell

Anche quando si parla dei flussi di denaro e del finanziamento di Hamas, non si può non tenere conto di un fattore fondamentale. L’organizzazione terroristica non coincide né con la popolazione palestinese né con la popolazione di Gaza, che di fatto è ostaggio dei fondamentalisti. In questo senso si inquadrano le parole dell’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza, Josep Borrell: “Dobbiamo distinguere Hamas e l’Autortità Nazionale Palestinese. La prima è un’organizzazione terroristica, la seconda un partner. Non tutti i palestinesi sono terroristi. C’è stata una netta maggioranza, con due o tre eccezioni, secondo la quale il sostegno all’Anp deve continuare e i pagamenti non vanno interrotti”. (Di Fabio Insenga)

5620.- Cosa porta Il ritorno della Siria alla Lega Araba, spiegato bene

Parliamo di Lega Araba, Siria, quindi, vengono in campo l’Islam ortodosso, l’Iran, il Libano – da sempre considerato dall’Iran come il prolungamento naturale della Siria di Assad, con gli Hezbollah in Siria, in Libano e con l’Iran dietro gli Hezbollah. L’Islam ortodosso ha grande memoria e, perciò, è lecito pensare che il ritorno della Siria alla Lega Araba sia legato al riavvicinamento tra Arabia Saudita e Iran, mediato dalla Cina. Circa dieci anni fa, dopo l’assassinio del presidente libanese Hariri, forse ad opera di Hezbollah, la leadership sunnita del Golfo, il principe saudita Abdullah, decretò la Fatwa per Assad padre. Oggi, Arabia Saudita e Qatar dialogano con il leader sciita Iran e, attraverso la Lega Araba, nuovamente con la Siria. Alle spalle di questo mondo arabo c’è la Cina, con la sua Via della Seta, il Libano, i Palestinesi, c’è il Mediterraneo e, perché no? il nostro Piano Mattei. C’è, poi sempre, la grande eminenza grigia degli USA e c’è la Russia. Restiamo in grande attesa.

 Da Maurizio Blondet  11 Maggio 2023. Dell’ambasciatore MK Bhadrakumar

Il Cairo, 7 maggio 2023, riunione di Emergenza dei ministri degli Esteri della Lega Araba per la riammissione della Siria

Quando da un giorno all’altro una semplice sottotrama assume un’abitazione e un nome, diventa più affascinante della stessa trama principale. Il ritorno della Siria alla Lega Araba dopo la sua decennale esclusione può essere considerato un sottotrama del riavvicinamento mediato dalla Cina tra Arabia Saudita e Iran. D’altra parte, la Cina e l’Iran non sono di per sé parte del processo.

Il ritorno della Siria alla Lega Araba è visto come un’iniziativa araba, ma è essenzialmente un progetto guidato da Riyadh in stretta consultazione e coordinamento con Damasco, ignorando qualche mormorio da parte di un gruppo di Stati arabi e palesemente sfidando la tagliente opposizione di Washington.

Sullo sfondo della lotta epocale per un nuovo ordine mondiale caratterizzato dal multipolarismo e dalla resistenza all’egemonia occidentale, la Russia e la Cina hanno silenziosamente incoraggiato Riyad a muoversi in tale direzione.

Una cosa avvincente della decisione presa dai ministri degli Esteri delle sette nazioni della Lega Araba all’incontro di domenica al Cairo è il suo buon tempismo. Perché questo è l’80° anniversario della costituzione del partito Ba’ath a Damasco nel 1943, che sposava un’ideologia di interessi nazionalisti arabi e antimperialisti che sono recentemente riapparsi nella geopolitica dell’Asia occidentale.

La Siria ha una tradizione di autonomia strategica. Negli ultimi dieci anni, si è preoccupato di combattere il progetto di cambio di regime sponsorizzato dagli Stati Uniti, con l’aiuto di Russia e Iran. Mentre gira l’angolo e si sta stabilizzando, l’autonomia strategica della Siria sarà sempre più evidente. Questa è una cosa.

Tuttavia, le relazioni strategiche con la Russia e l’Iran continueranno a rimanere speciali e su questo punto non dovrebbero esserci malintesi. Ma la Siria è capace di ingegnosità e acume diplomatico per crearsi uno spazio di manovra, poiché la geopolitica passa in secondo piano e Assad dà la priorità alla stabilizzazione e alla ricostruzione dell’economia, che richiede la cooperazione regionale.

La recente visita del presidente iraniano Ebrahim Raisi in Siria testimonia la “diplomazia morbida” di Teheran, trasudando pragmatismo che da un lato ha fatto capire che nonostante il recente riavvicinamento tra Damasco e i paesi arabi, i legami siriano-iraniani sono ancora forti e hanno anche evidenziato la ruolo nella resistenza a Israele – con Raisi che ha tenuto un incontro a Damasco con alti funzionari palestinesi, compresi i leader di Hamas e della Jihad islamica – mentre, d’altra parte, i negoziati con la leadership siriana riguardavano in gran parte la cooperazione economica.

Raisi ha affermato che l’Iran è pronto a prendere parte attiva alla ricostruzione postbellica della Siria. L’Iran deve affrontare la concorrenza dei paesi del Golfo che hanno tasche profonde. Nel frattempo, all’ordine del giorno c’è anche il riscaldamento delle relazioni tra Siria e Turchia, che sicuramente porterà a un aumento degli scambi e stimolerà il flusso di investimenti.

Per mettere le cose in prospettiva, le esportazioni iraniane verso la Siria attualmente ammontano a una misera somma di 243 milioni di dollari. Tuttavia, dall’inizio del conflitto in Siria, l’Iran è stato uno sponsor chiave delle autorità siriane. Nel gennaio 2013 Teheran ha aperto la prima linea di credito di 1 miliardo di dollari per Damasco, soggetta a sanzioni internazionali, grazie alla quale il governo ha potuto pagare il cibo importato. Questo è stato seguito da un prestito di $ 3,6 miliardi per l’acquisto di prodotti petroliferi. Il terzo prestito di 1 miliardo di dollari è stato prorogato nel 2015. Teheran ha anche stanziato fondi a Damasco per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici, il che ha contribuito a preservare le istituzioni statali. Nel 2012 è entrato in vigore un accordo di libero scambio tra i paesi. L’Iran sta anche spendendo miliardi per finanziare le milizie sciite in Siria e fornire loro armi. Naturalmente,

La Siria sta valutando, giustamente, che la normalizzazione con i vicini arabi e la Turchia sarà un punto di svolta. Ma, mentre tutti parlano della “riammissione nella famiglia araba” della Siria come di una concessione, Damasco ha reagito alla decisione della Lega Araba in modo misurato.

La dichiarazione del ministero degli Esteri siriano ha affermato domenica: “La Siria ha seguito le tendenze e le interazioni positive che si stanno attualmente verificando nella regione araba e ritiene che queste avvantaggino tutti i paesi arabi e favoriscano la stabilità, la sicurezza e il benessere dei loro popoli .

“La Siria ha accolto con interesse la decisione emessa dalla riunione del Consiglio della Lega degli Stati arabi”. La dichiarazione ha proseguito sottolineando l’importanza del dialogo e dell’azione congiunta per affrontare le sfide che devono affrontare i paesi arabi. Ha ricordato che la Siria è un membro fondatore della Lega araba e ha sempre avuto una posizione forte a favore del rafforzamento dell’azione araba congiunta.

Cosa più importante, la dichiarazione concludeva riaffermando che la fase successiva richiede “un approccio arabo efficace e costruttivo a livello bilaterale e collettivo sulla base del dialogo, del rispetto reciproco e degli interessi comuni della nazione araba”.

A quanto pare, la stessa dichiarazione della Lega Araba era una “dichiarazione di consenso” redatta con grande sensibilità dall’Arabia Saudita.

In un’intervista con Al-Mayadeen, Raisi ha detto prima della sua partenza per Damasco che “la Siria è sempre stata sull’asse della resistenza… Sosteniamo inequivocabilmente tutti i fronti dell’asse della resistenza, e la mia visita in Siria rientra nel quadro di questa sostegno, e stiamo lavorando per rafforzare il fronte della resistenza, e non esiteremo in questo”. In effetti, l’arrivo di Raisi in Siria ha coinciso con l’aumento degli attacchi israeliani da parte di Israele contro le strutture militari iraniane, compreso l’aeroporto di Aleppo.

Senza dubbio, l’Iran rimane il principale alleato della Siria e l’influenza iraniana a Damasco è ancora forte. L’Iran vede la Siria come il suo territorio strategico attraverso il quale Teheran può stabilire legami con il Libano e affrontare Israele.

Ciò che funziona a vantaggio della Siria qui è che la distensione saudita-iraniana si basa su una visione comune a Riyadh e Teheran secondo cui devono coesistere in una forma o nell’altra, dal momento che la loro inimicizia e rivalità regionale si è rivelata un “perdere-perdere”. proposta che non ha migliorato la loro posizione regionale. Basti dire che il loro interesse nazionale derivante dal loro riavvicinamento prevale sulle passate rivalità. La Siria sarà un banco di prova in cui le vere intenzioni e la condotta degli altri saranno oggetto di un attento esame.

La parte buona è che i sauditi hanno concluso che il presidente Assad è saldamente in sella, avendo resistito alla guerra più devastante dalla seconda guerra mondiale, e ricucire le relazioni con Damasco può essere una “vittoria” per Riyadh.

Detto questo, la Siria è un cardine strategico in cui Riyadh dovrà bilanciare i suoi legami strategici con gli Stati Uniti e i suoi taciti legami con Israele. Ma poi, il nuovo calcolo strategico dell’Arabia Saudita include anche Cina e Russia. Quando si tratta della Siria, la Russia è un punto fermo per Assad, mentre la Cina è sempre stata dalla parte giusta della storia.

L’amministrazione Biden è spinta alla frenesia dai venti di cambiamento che spazzano la regione: la morte definitiva dell’agenda neocon della primavera araba in Siria; l’ondata di nazionalismo arabo e la crescente resistenza all’egemonia occidentale che creano nuove esigenze di panarabismo; il fascino nascosto del multipolarismo; l’ascesa della Cina; la crisi esistenziale in Israele; la dialettica della tradizione e della modernità negli stati regionali tra le aspirazioni delle società giovanili e così via. Paradossalmente, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e Assad oggi avrebbero interessi comuni su molti di questi fronti.

Biden, che è come una balena spiaggiata nel panorama politico dell’Asia occidentale, ha incaricato il suo consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan di precipitarsi in Arabia Saudita , tenendo le mani delle sue controparti indiane ed emiratine per compagnia per salvare la faccia e salvare il naufragio della regione degli Stati Uniti strategie!

La saggezza sta nel fatto che Washington usi i sauditi (e gli emiratini e gli indiani) per aprire una linea con Damasco. Tuttavia, Assad porrà a Washington la stessa condizione non negoziabile per la normalizzazione che ha insistito con la Turchia: cessazione dell’occupazione statunitense. Al di là di ciò c’è, ovviamente, l’annessione israeliana delle alture del Golan…

3145.- Libia, Haftar: stiamo combattendo guerra santa contro invasore turco. Putin entra in guerra.

In questa guerra alle porte di casa, il governo italiano sembra muoversi con le braghe piene di cacca!

Dopo il contrattacco di Al-Sarraj di 4 giorni fa, Haftar è stato costretto a indietreggiare.

Mercenari al soldo di al-Sarraj

Conquistata la base di Al Watiya, l’aviazione filo al-Sarraj si è concentrata nelle ultime ore sulla città di Tarhuna, 80 chilometri a sud-est della capitale, ritenuta nevralgica per l’LNA.

Dall’alba del 20 maggio, i jet libici, sostenuti dai turchi, hanno fatto piovere decine di missili contro le postazioni dei miliziani che puntavano a conquistare Tripoli. Alla sera, secondo il comando dell’operazione Vulcano di Rabbia, erano stati distrutti da quattro a sette sistemi antiaerei russi Pantsir-S1. Un duro colpo non solo per il maresciallo di campo, ma anche per i suoi due principali sponsor: Emirati e Russia. Il portavoce dell’autoproclamato Esercito nazionale libico, Ahmed al Mismari, ha annunciato una “ritirata di 2-3 chilometri da tutte le linee del fronte a Tripoli.

In campo ci sono i mercenari russi del Gruppo Wagner, mentre Erdogan, oltre ad aver fornito armi e blindati e droni Bayraktar Tb2, schiera i mercenari della compagnia militare privata Sadat, etichettata da alcuni come “l’esercito ombra di Erdogan”. Si tratta di gruppi di contractor formati da ex militari, selezionati dai servizi segreti turchi (Mit). Alla testa di Sadat è Adnan Tanriverdi, comandante in pensione dell’esercito, che ha specificato che la compagnia “fornisce sostegno e addestramento militare in 22 Paesi del mondo islamico e dell’Asia Centrale”.  Sadat è stata impegnata in operazioni spesso clandestine, come l’addestramento delle milizie siriane da opporre al regime di Bashar al-Assad. L’intervento di Sadat nei Paesi coinvolti nelle “primavere arabe” è servito a Erdogan per spingere nell’orbita turca realtà in profondo cambiamento, come appunto quella libica, molto spesso attraverso la raccolta di informazioni e interventi diretti circoscritti. 

La Turchia per avere la meglio sul campo in Libia si affida anche ai mercenari siriani. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani negli ultimi mesi Ankara ha portato sul fronte a Tripoli 9.600 mercenari e altri 3.300 li sta addestrando nei campi siriani, pronti a partire. Tra le reclute, segnala l’Osservatorio, vi sono circa 180 minori di età compresa tra 16 e 18 anni. 

Esultazione di Ankara: “Decisivo il nostro intervento”. Il Messaggio audio di Haftar per fine Ramadan: “non sarà mostrata alcuna pietà”

Libia, Haftar: stiamo combattendo guerra santa contro invasore turco

Roma, 24 mag. (askanews) – I militari dell’autoproclamato Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar “stanno combattendo” in Libia “una guerra santa contro l’invasore turco”. Lo ha detto lo stesso generale della Cirenaica, in un messaggio audio inviato in occasione della fine del mese sacroi del Ramadan, secondo quanto riportato dal sito Al Marsad. 

Secondo Haftar si tratta una guerra che “ha per obiettivo la vittoria” e “qualsiasi elemento turco sarà considerato un obiettivo legittimo nei confronti del quale non sarà mostrata alcuna pietà”.

Putin entra in guerra anche in Libia: con la Turchia replica l’effetto-Siria

Luca Geronico, sabato 23 maggio 2020.

La Russia ha schierato aerei da combatttimento MiG-29 e bombardieri Su-24, che fanno parte delle sue forze aerospaziali (VKS), in Libia, martedì 26 maggio. Lo riporta il comando africano delle forze armate statunitensi.
A Russian Army Sukhoi Su-34 fighter jet on landing

 L’invio di 8 caccia russi ad Haftar segna l’impegno ufficiale nel conflitto, dopo il paravento dei mercenari. Con Erdogan che appoggia Tripoli si prefigura uno schema di dominio e spartizione.

Nello specifico, si tratta di sei caccia MiG 29 e due cacciabombardieri Sukhoi 24 partiti dalla base siriana di Hmeimim scortati “da due SU-35 dell’Aviazione russa”. Il capo delle forze aeree del Lna: “Le prossime ore saranno molto dolorose”

Convoglio di mezzi militari del goveno di Tripoli lascia Misurata

Convoglio di mezzi militari del goveno di Tripoli lascia Misurata – Reuters 

Decisamente roboante l’annuncio di mercoledì del capo dell’aviazione dell’Esercito libero siriano: presto ci sarà «la più grande campagna aerea della storia libica». Non pare realistico che una offensiva nei cieli, a compensare dopo un anno di assedio la ritirata fallimentare da Tripoli delle forze di Khalifa Haftar malcelata dietro le celebrazioni di fine Ramadan, possa superare i raid aerei compiuti, sotto l’ombrello Nato, dalla Francia di Nicolas Sarkozy nel marzo 2011. Ma non è solo propaganda. Di certo l’arrivo due giorni fa in Cirenaica, dalla base russa di Latakia in Siria, di sei Mig e due Sukhoi-24 rappresenta un salto di qualità militare. Ma soprattutto assistiamo a una temibile svolta in “chiave russo-turca” di una guerra civile sinora – nonostante gli sforzi Onu e i numerosi vertici, promossi anche dalla Farnesina – senza soluzione. All’inizio dell’offensiva su Tripoli, nell’aprile dello scorso anno, il generale Haftar poteva contare solo su una quindicina di velivoli, tecnicamente desueti. Un portavoce dell’Esercito nazionale libico ha annunciato ieri di aver ripristinato altri quattro caccia, mentre numerosi elicotteri russi sono già stati forniti ad Haftar dall’Egitto e dagli Emirati Arabi Uniti, spesso grazie a finanziamenti sauditi. Sono loro gli alleati di ferro dell’uomo forte in Cirenaica, ma la predominanza russa – finora demandata ai mercenari del gruppo Wagner e alla fornitura di batterie contraeree Pantsir – è ora espressa dal controllo diretto di questi otto caccia: i piloti sono infatti mercenari siriani, emiratini e bielorussi, debitamente addestrati dalle Forze armate del Cremlino. Una guerra per procura, con migliaia di mercenari siriani che, per circa mille dollari al mese, vanno a combattere con Haftar: l’11 maggio il volo Svw 351 della compagnia Ali del Levante, decollato da al-Bayda, ha portato ad Haftar un altro centinaio di presunti miliziani siriani arruolati nella Wagner. La discesa ufficiale in campo – o meglio nei cieli – della Russia, le attribuisce il ruolo di “master mind” della Libia orientale. Anche Fayez al-Sarraj dispone, nelle basi di Mitiga e Misurata, di una quindicina di jet sovietici, dei ferri vecchi della Guerra fredda, rinforzati dall’arrivo dei droni turchi, assieme ad equipaggiamenti e uomini della compagnia privata Sadat. 

Sarebbero, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, già 9.600 i mercenari turchi o siriani arruolati dai turchi, mentre oltre 3mila in sarebbero addestramento nei campi siriani nella zona sotto il controllo turco. Tutte forze militari ed equipaggiamenti che Recep Tayyip Erdogan ha inviato a sostenere il Governo di accordo nazionale di al-Sarraj. Ma questo ha un alto costo politico. E per tutto il Mediterraneo. L’invito del ministro degli Esteri Sergeij Lavrov, nelle stesse ore in cui inviava gli otto jet, a «riprendere il processo politico» per giungere a una tregua in Libia, dopo la telefonata al collega turco Mehmet Cavusoglu, suona come l’avvio di una spartizione del Paese. Si ripropone così, a pochi chilometri dalle coste italiane, il modello della spartizione della Siria, in particolare della regione di Idlib, pianificato lo scorso ottobre al vertice di Sochi, presente anche l’Iran. 

Un progetto di spartizione della Libia che, secondo indiscrezioni, sarebbe partito allora e finalizzato in un vertice segreto tenutosi di recente a Malta. Ieri le telefonate del segretario di Stato Usa Mike Pompeo a Fayez al-Sarraj, e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio al turco Cavusoglu hanno caldeggiato una «soluzione politica». Sempre auspicabile un cessate il fuoco, ma ora ci sono attori più aggressivi e armati attorno alla “torta libica”. Non solo il controllo degli idrocarburi gestiti dalla Noc (National Oil Corporation) con importanti contratti all’Eni, è in gioco, ma l’intero asse mediterraneo. Il 27 novembre, assieme all’accordo militare con Sarraj, Erdogan ha firmato un memorandum che ha dato il via alle trivellazioni turche nel Mediterraneo orientale. Attività che Francia, Grecia, Cipro, Egitto ed Emirati Arabi hanno più volte denunciato come «illegali». 

2819.- ISRAELE È IN PERICOLO. LA MIGLIOR DIFESA È L’ATTACCO.

Il presidente degli Stati Uniti Trump usa la benzina per spengere l’incendio e conta sul dissenso che serpeggia in Iran contro gli Ayatollah.
Trump sta mandando minacce violente all’Iran per fermare le ritorsioni per la morte di Soleimani. Sta fornendo un alibi agli Ayatollah?

2020-01-05

Quanto gioverà a Trump e a Netanyahu questo avventurismo?

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha risposto alle minacce della leadership iraniana di vendicarsi in seguito all’assassinio del comandante del generale della forza Quds, Qassem Soleimani.

Usando il suo account Twitter ufficiale, Trump ha minacciato di colpire l’Iran “MOLTO VELOCE E MOLTO DURO” se tentano di vendicare la morte di Soleimani

“L’Iran sta parlando in modo molto audace di prendere di mira alcuni beni statunitensi come vendetta per aver liberato il mondo del loro leader terrorista che aveva appena ucciso un americano e ferito gravemente molti altri, per non parlare di tutte le persone che aveva ucciso durante la sua vita, tra cui recentemente….”

Trump ha quindi accusato Soleimani di aver ucciso centinaia di manifestanti iraniani e di aver compiuto l’attacco all’ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad.

“… . Stava già attaccando la nostra ambasciata e si stava preparando per ulteriori colpi in altre località. L’Iran non è stato altro che problemi per molti anni. Lascia che ciò serva da AVVERTIMENTO, che se l’Iran colpisce qualche americano o beni americani, abbiamo preso di mira 52 siti iraniani (che rappresentano i 52 ostaggi americani presi dall’Iran molti anni fa), alcuni ad un livello molto alto e importante per l’Iran e per la cultura iraniana, e quegli obiettivi, e l’Iran stesso, SARANNO COLPITI MOLTO VELOCEMENTE E IN UN MODO MOLTO DURO. Gli Stati Uniti non vogliono più minacce! “

Queste ultime minacce arrivano pochi giorni dopo aver ordinato l’assassinio di Soleimani a Baghdad.

Migliaia di persone si sono riversate nelle strade di Karbala per assistere alla processione funebre di Soleimani

A migliaia hanno invaso sabato la città santa di Karbala per partecipare a una processione d’addio per il generale iraniano Qasem Soleimani e il comandante iracheno Abu Mahdi al-Muhandis, che sono stati uccisi in un attacco aereo americano vicino all’aeroporto di Bagdad.

Il funerale ebbe luogo presso il Santuario di al-Abbas. I partecipanti al lutto sfilarono davanti alle bare all’interno del santuario e protestarono il loro rispetto ai comandanti uccisi. Alla cerimonia hanno partecipato anche vari leader religiosi sciiti.

Processioni di addio simili dovrebbero svolgersi nella città santa di Najaf in Iraq e successivamente ad Ahvaz, Mashhad e Teheran in Iran. Il corpo di Soleimani verrà messo a riposo nella sua città natale, Kerman, la prossima settimana.

La bandiera rossa di “vendetta” per Soleimani issata sulla Moschea sacra di Jamkaran.

Il Primo Ministro del Qatar incontra il presidente iraniano. Il mondo arabo è scosso dopo l’assassinio di Soleimani

2020-01-05

Sabato il ministro degli Esteri del Qatar Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani ha incontrato il presidente iraniano Hassan Rouhani a Teheran, secondo quanto riferito per offrire le sue condoglianze per la morte del generale iraniano Quds Force Qasem Soleimani.

Nell’incontro, i due diplomatici senior hanno discusso degli ultimi sviluppi nelle relazioni bilaterali tra Iran e Qatar e dei più importanti sviluppi regionali e internazionali, in particolare le nuove condizioni in Iraq e l’assassinio del generale Qassem Soleimani.

Descrivendo come delicata e preoccupante l’attuale situazione di stress nella regione a seguito degli sviluppi del 3 gennaio, il ministro degli Esteri del Qatar ha affermato che deve essere trovata una soluzione pacifica per ridurre le tensioni e ripristinare la calma nella regione.

Da parte sua, il ministro degli Esteri Zarif ha denunciato la misura terroristica delle forze militari americane per assassinare il generale Soleimani, ha ritenuto responsabile il regime USA per le conseguenze dell’attacco e ha aggiunto: “La Repubblica islamica dell’Iran non cerca tensioni nella regione, ma la presenza e l’interferenza delle forze straniere ed extra-regionali hanno causato instabilità, insicurezza ed escalation di tensioni nella nostra delicata regione “.

Anche i ministri degli esteri iraniano e del Qatar hanno salutato le ottime relazioni bilaterali in tutti i campi e hanno sottolineato la necessità di espandere e approfondire i legami.

Conversazioni telefoniche fra Iran e Cina

Sabato il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif e la sua controparte cinese hanno avuto una conversazione telefonica. Zarif sta tessendo una rete di contatti importante.

Sabato il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif e la sua controparte cinese, qui in una foto di repertorio, hanno avuto una lunga conversazione telefonica.
Durante i colloqui, le due parti hanno conferito sugli ultimi sviluppi regionali e internazionali, in particolare sulle conseguenze dell’assassinio del generale martirizzato, Qassem Soleimani.

Kata’eb Hezbollah avverte le truppe irachene di stare lontano dalle basi statunitensi

2020-01-04

Ieri sera, un nuovo attacco alle posizioni di Kataebeb Hezbollah è stato segnalato lungo il confine Iraq-Siria vicino alle città di Al Qa’im (Al-Anbar, Iraq) e Albukamal (Deir Ezzor, Siria).
Nessun gruppo ha rivendicato la responsabilità di questo attacco; tuttavia, alcuni attivisti nell’area hanno accusato la coalizione degli Stati Uniti di aver effettuato gli scioperi che hanno ucciso cinque persone.

Kata’eb Hezbollah, una delle fazioni delle Unità di mobilitazione popolari (Hashd Al-Sha’abi), ha invitato le forze irachene ad allontanarsi dalle basi americane nel paese, apparentemente in preparazione per una risposta alle incursioni statunitensi sul posizioni della fazione di recente, oltre all’uccisione del vice capo dell’organizzazione, Abu Mahdi Al-Muhandis, in un raid.

Una dichiarazione rilasciata da Kata’eb Hezbollah affermava: “I fratelli nei servizi di sicurezza iracheni devono allontanarsi dalle basi del nemico americano per una distanza non inferiore a 1.000 metri, a partire da domenica sera”.

2542.- Guerra tra Arabia Saudita e Yemen: perché nessuno parla di questa tragedia?

 

Da quasi quattro anni nello Yemen infuria una guerra civile che vede militarmente coinvolta anche l’Arabia Saudita: perché nessuno parla di questo conflitto così simile alla Siria?

Guerra tra Arabia Saudita e Yemen: perché nessuno parla di questa tragedia?

Nello Yemen è in corso una tragica guerra civile dove l’Arabia Sauditain modo diretto, oltre all’Iran in modo indiretto, gioca un ruolo determinante per questo conflitto che dura ormai dal 2015.

Se ci mettiamo poi che nel più che mai diviso territorio dello Yemen esistono anche zone del paese controllate dall’Isis e da Al-Qa’ida, ecco che allora lo scacchiere assomiglia sempre di più a quello della Siria.

L’assedio da parte di nove paesi arabi sunniti, guidati dall’Arabia Saudita e sostenuti dagli Stati Uniti, nei confronti dei ribelli sciiti, vicini all’Iran, che dal 2015 controllano la capitale San’a sta provocando infinite sofferenze ai civili.

Il blocco all’arrivo di qualsiasi rifornimento e medicinale sta portando circa 7 milioni di yemeniti alla fame, con un’epidemia di colera che soltanto negli ultimi tre mesi del 2017 ha provocato 2.000 morti. Ma perché l’Occidente e le Nazioni Unite tacciono di fronte a questa tragedia?

Leggi anche Perché c’è la guerra in Siria

L’Arabia Saudita e la guerra civile nello Yemen

Dopo una lunga divisione, nel 1990 lo Yemen del Nord e lo Yemen del Sud decidono di riunirsi in un unico stato, con San’a che diventa la nuova capitale. Presidente è Ali Abdullah Saleh, che all’epoca era alla guida del Nord fin dal lontano 1978.

A seguito nel 2012 delle rivolte nella parte meridionale del paese in quella Primavera araba che sconvolse molti paesi islamici, Saleh rassegna le sue dimissioni e al suo posto arriva il sunnita Abd Rabbuh Mansur Hadi, con il compito di guidare per due anni lo Yemen fino a nuove elezioni.

Visto il timore però che le elezioni sarebbero potute essere soltanto un miraggio e che il regno di Hadi potesse continuare invece per altri anni, nel febbraio 2015 il gruppo armato sciita degli Huthi, proveniente dal Nord del paese, conquista la capitale San’a e costringe alle dimissioni il presidente Hadi che si rifugia a Sud ad Aden, che così diventa una seconda capitale dello Yemen.

Da quel caos si arriva a un paese diviso in due: a Nord ci sono gli sciiti con il governo di Saleh nella capitale San’a, mentre a Sud nella città di Aden si è insediato il Presidente spodestato Hadi, l’unico riconosciuto dall’Occidente e dalle Nazioni Unite.

In tutto ciò Al-Qa’ida è riuscito a entrare in possesso di vaste zone nella parte orientale del paese, con anche l’Isis che si è stabilizzato in diversi villaggi facendo sentire la sua tragica voce con attentati fatti soprattutto contro gli sciiti di San’a.

Nel marzo 2015 l’Arabia Saudita sunnita si mette a capo di una coalizione di paesi sunniti comprendente anche Marocco, Egitto, Sudan, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain e Qatar.

Questa lega araba formata da nove paesi e capeggiata da Riyad inizia così un massiccio bombardamento in Yemen nei territori controllati al Nord dai ribelli Huthi, che da allora in pratica resistono a questo assedio con il supporto, paventato, soltanto dell’Iran ovvero il più grande stato sciita.

Il dramma dei civili

Lo stato di perenne assedio ha però fiaccato l’alleanza tra gli Huthi e il ras del Nord l’ex presidente Saleh. Quest’ultimo infatti, dopo aver cercato invano rifugio oltre confine, è stato catturato e ucciso dai ribelli fino a poco tempo fa suoi alleati.

Lo Yemen del Nord quindi ora è nel caos più totale ed è controllato dagli Huthi. Vista la debolezza creata dalla faida interna, sono aumentati i bombardamenti da parte della coalizione sunnita che sta aggravando ancora di più la situazione umanitaria.

Un conflitto che sta diventando sempre più cruento, visto che anche di recente ci sono stati violentissimi scontri tra lealisti e ribelli: 142 morti tra i militari dei due schieramenti, mentre 7 sono state le vittime civili.

Oltre ai militari uccisi, altissimo infatti è anche il bilancio delle vittime civili. Non sono soltanto le bombe saudite a fare strage di civili ma anche la fame(lo Yemen è lo stato più povero del Medio Oriente) e il colera.

Anche se da noi viene vista come una malattia ormai debellata, nello Yemensi parla di almeno 500.000 persone contagiate, con il colera che ha provocato soltanto negli ultimi tre mesi la morte di 2.000 persone.

Il blocco dei paesi arabi vicini imposto a San’a sta stritolando la popolazione del Nord, tra quella che sembrerebbe essere l’indifferenza generale anche delle Nazioni Unite che nulla hanno fatto finora per salvare la popolazione civile da questa atroce fine.

L’indifferenza dell’Occidente

Nel 2016 parlando della problematica situazione in Siria Ban Ki-moon, segretario generale dell’Onu, dichiarò che “la morte per fame utilizzata come arma rappresenta un crimine di guerra”.

Peccato però che per la guerra civile nello Yemen non sia stato rivolto lo stesso pensiero. L’Arabia Saudita non è stata mai sanzionata per i bombardamenti e, come se non bastasse, si è sempre opposta alla creazione di corridoi umanitari per permettere di inviare cibo e medicinali alla popolazione civile.

In pratica si starebbe utilizzando la fame e le epidemie come un’arma d’assedio, per convincere i ribelli Huthi a cedere visto che le bombe sganciate su San’a finora non hanno prodotto gli effetti sperati.

Immagine simbolo di questa tragedia è quella di Amal, bambina yemenita fotografata in un campo profughi dal premieo Pulitzer Tyler Hicks pochi giorni prima di morire per fame a soli sette anni.

Nicholas Ferrante, Money

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Amal Hussain, la bambina yemenita di 7 anni denutrita, è morta. Diritto alla vita negato.

Per ultimo c’è stata la tristemente famosa strage di bambini, con 43 morti e 60 feriti per un autobus che è stato colpito mentre si stava recando a un mercato situato nel Nord del paese, oltre al più recente bombardamento da parte dell’aviazione saudita di un ospedale di Save the Children che ha provocato 7 morti tra cui 4 bambini.

Il sentore è che la guerra nello Yemen sia un altro tassello della delicata partita a scacchi che si sta giocando in Medio Oriente. I ribelli che controllano la capitale San’a sono sciiti come l’Iran, storici alleati della Russia e del regime di Assad in Siria.

Si può dire invece che tutto il resto del Medio Oriente, Isis compreso, sia al contrario sunnita. Far cadere i ribelli Huthi nello Yemen vorrebbe dire per Stati Uniti e Arabia Saudita indebolire l’Iran, grande nemica di entrambi i paesi.

Alessandro Cipolla