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6186.- Gli USA inviano altre armi a Israele: più di 2.000 bombe da sganciare su Gaza

GAZA. Armi dagli Stati uniti per l’attacco più violento

Così Biden & Co. festeggeranno la Pasqua cristiana con i Palestinesi. Come Bernie Sanders ha commentato la notizia criticando l’amministrazione Biden: “Non possiamo dire a Netanyahu di smetterla di bombardare civili e il giorno dopo mandargli migliaia di bombe.

Gli USA inviano altre armi a Israele: più di 2.000 bombe da sganciare su Gaza

Da Pagine Esteri, di Eliana Riva | 30 Mar 2024

Fonti di sicurezza americane hanno rivelato al Washington Post che negli ultimi giorni l’amministrazione Biden ha segretamente autorizzato il trasferimento a Israele di oltre 2.000 bombe e 25 aerei da guerra per miliardi di dollari.

Ipocriti! Chi nasce tondo, non muore quadro.

Nonostante gli Stati Uniti critichino il modo in cui Netanyahu sta gestendo la guerra a Gaza e si dicano preoccupati per un attacco su larga scala a Rafah, dove la maggior parte della popolazione palestinese è rifugiata, il sostegno armato non viene assolutamente messo in discussione. Secondo rivelazioni pubblicate a marzo, dal 7 ottobre gli USA hanno inviato 100 carichi di armi a Tel Aviv.

Su richiesta di Biden, alcuni funzionari di sicurezza israeliani avrebbero dovuto recarsi alla Casa Bianca ad ascoltare le proposte americane per limitare il numero dei morti civili. Ma Netanyahu ha annullato la visita in seguito alla decisione degli Stati Uniti di astenersi e non porre il veto sulla risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiede un cessate il fuocotemporaneo a Gaza e il rilascio di ostaggi, senza subordinare la prima istanza alla seconda.

Washington consegnerà 1.800 bombe MK84 da 900 chilogrammi, e 500 bombe MK82 da 225 chilogrammi. Si tratta di armi con una potenza tale da demolire interi isolati e che non vengono più, di norma, utilizzate dagli eserciti su strutture civili o in contesti densamente abitati. Tuttavia, Israele ne ha fatto largo uso sulla Striscia, come nel caso dell’attacco al campo profughi di Jabalya, lo scorso 31 ottobre, che uccise circa 100 persone. Gli Stati Uniti hanno sganciato numerose MK84 durante la guerra del Vietnam e durante l’attacco all’Iraq del 1991, nell’operazione da loro denominata “Desert Storm”. Si tratta di ordigni utilizzati quando gli obiettivi principali richiedono forza e vastità della deflagrazione, piuttosto che precisione, nel colpire il bersaglio. 

Non sanno fare altro. Ecco la foto aerea d’una bomba M84 sganciata in Vietnam nel 1972

Dal 7 ottobre l’esercito israeliano ha sganciato 70.000 tonnellate di esplosivo su Gaza, utilizzando armi fornite principalmente da Stati Uniti e Germania.

25 caccia F-35A che Washington ha trasferito la scorsa settimana a Tel Aviv hanno un valore di 2,5 miliardi di dollari.

Lo scorso ottobre, l’F-35A è stato omologato al trasporto delle bombe nucleari B-61-12.

L’IRAN dovrà guardarsi da questo wing. La cessione potrebbe essere il risultato di un “do ut des”.

La risposta ufficiale dell’amministrazione USA è che l’accordo di fornitura era stato approvato prima della guerra e che per questo non richiedeva notifica pubblica. Lo stesso varrebbe per il nuovo pacchetto di 2.300 bombe.

Ma non sono i democratici, compresi alcuni alleati del presidente Biden, che ritengono che il governo degli Stati Uniti abbia la responsabilità di non consegnare armi fin quando Israele non si impegnerà seriamente a limitare le vittime civili e a far entrare aiuti a Gaza assediata sull’orlo della carestia? Quelli che chiedono maggiore trasparenza e condivisione nelle decisioni sul sostegno militare a Tel Aviv?

Il senatore statunitense Bernie Sanders ha commentato la notizia criticando l’amministrazione Biden: “Non possiamo dire a Netanyahu di smetterla di bombardare civili e il giorno dopo mandargli migliaia di bombe”.

La notizia dell’invio segue una visita a Washington del ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, durante la quale ha chiesto all’amministrazione Biden di accelerare la consegna di armi.

In 175 giorni nella Striscia di Gaza sono state uccise 32.600 persone, di cui 8.850 donne e 13.800 bambini.

Questa mattina a Rmeish, nel sud del Libano, è stato colpito un veicolo delle Nazioni Unite appartenente all’UNIFIL, la forza di interposizione ONU. L’esplosione ha causato almeno quattro feriti. Israele nega di aver effettuato il raid. All’inizio del mese, tuttavia, un drone israeliano ha colpito e distrutto un veicolo proprio nell’area di Naqoura, non lontano da Rmeish, uccidendo 3 persone.

Forze di interposizione ONU presenti in Libano

Sempre a Naqoura, alla fine di ottobre un missile aveva colpito la base militare dell’UNIFIL, senza causare vittime, come nel mese di novembre, quando i colpi di Israele hanno raggiunto invece una delle pattuglie ONU. All’inizio di marzo l’UNIFIL ha presentato la relazione finale dell’inchiesta sull’uccisione in Libano, nell’ottobre 2023, del giornalista di Reuters Issa Abdallah. Il report denuncia la volontà israeliana di colpire deliberatamente i civili presenti lungo il confine, chiaramente identificabili come giornalisti. L’Italia è presente in Libano con un contingente di circa 1.000 soldati. L’UNIFIL è composta da circa 10.000 militari provenienti da 49 diversi Paesi. Pagine Esteri

6157.- Si scrive Germania e NATO e si legge Londra e Washington

Germania e NATO colte in flagrante nella pianificazione della guerra contro la Russia

Di Sabino Paciolla, 13 Marzo 2024

Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori del mio blog l’articolo scritto da Finian Cunningham e pubblicato su Strategic Culture Foundation. Visitate il sito e valutate liberamente le varie opzioni offerte e le eventuali richieste. Ecco l’articolo nella traduzione da me curata. Così, Sabino Paciolla

guerra-russia-ucraina-italia

I capi militari tedeschi possono aver commesso una sciocchezza nelle loro discussioni private sui piani operativi contro la Russia. Tuttavia, la sicurezza della loro comunicazione incompetente – per quanto risibile – non diminuisce la serietà di ciò che si stava discutendo.

Il tenente generale Ingo Gerhartz e i suoi aiutanti stavano valutando seriamente i mezzi tecnici e propagandistici con cui colpire la Russia con missili balistici a lungo raggio. In breve, un membro della NATO è stato colto in flagrante mentre covava un atto di guerra contro la Russia.

Dopo che i media russi hanno pubblicato l’audio della conversazione, la reazione tedesca è stata quella di liquidare il tutto come un cervellotico esercizio di war-gaming e come un tentativo della disinformazione russa di minare il governo di Olaf Scholz.

L’offuscamento da parte di Berlino non sarà sufficiente. Il fatto incontrovertibile è che i comandanti tedeschi stavano deliberando su come “ottimizzare” la capacità offensiva ucraina di colpire obiettivi russi con il missile da crociera tedesco a lungo raggio Taurus. L’arma non è ancora stata fornita al regime ucraino a causa delle preoccupazioni di alcuni politici tedeschi, che temono che ciò comporti un’escalation della guerra con la Russia. Dal nastro audio emerge chiaramente che i capi militari tedeschi sono frustrati dal fatto che i politici non ordinino la fornitura del Taurus.

Gerhartz, il capo delle forze aeree tedesche, dice ai suoi subordinati senza mezzi termini: “Ora stiamo combattendo una guerra che utilizza una tecnologia molto più moderna della nostra buona vecchia Luftwaffe”.

Ecco: il massimo comandante tedesco dice inequivocabilmente: “Ora stiamo combattendo una guerra”.

E continua rivelando che i militari americani, britannici e francesi sono profondamente coinvolti nella logistica e nella pianificazione degli attacchi delle forze ucraine.

Sappiamo da numerose altre fonti che i militari della NATO sono impegnati sul terreno in Ucraina a combattere contro le forze russe. I sistemi missilistici americani HIMARS e Patriot, e i missili da crociera britannici Storm Shadow e francesi Scalp sono utilizzati con le competenze militari di questi membri della NATO.

Tuttavia, ciò che risulta estremamente dannoso dalla fuga di notizie sulle forze armate tedesche è la misura in cui i comandanti cercano di nascondere il coinvolgimento della Germania in una guerra con la Russia. La tortuosa conversazione su come evitare l’imputazione dei militari tedeschi rende chiaro che l’alto comando tedesco conosce bene la gravità di ciò che sta organizzando. Stanno discutendo la conduzione di una guerra segreta contro la Russia. Questo equivale al crimine di aggressione e corre il rischio di scatenare una guerra vera e propria che senza dubbio degenererebbe in una conflagrazione nucleare.

A un certo punto della discussione con i suoi interlocutori, il tenente generale Gerhartz parla della necessità di nascondere il coinvolgimento militare diretto della Germania nella fornitura dei missili Taurus all’Ucraina.

Dice: “Capisco di cosa state parlando. I politici potrebbero essere preoccupati per il collegamento diretto e chiuso tra Büchel [base aerea tedesca] e l’Ucraina, che potrebbe diventare una partecipazione diretta al conflitto ucraino. Ma in questo caso, possiamo dire che lo scambio di informazioni avverrà attraverso MBDA [il produttore tedesco di Taurus], e che invieremo uno o due dei nostri specialisti a Schrobenhausen. Naturalmente si tratta di un trucco, ma da un punto di vista politico potrebbe sembrare diverso. Se le informazioni vengono scambiate attraverso il produttore, allora questo non è associato a noi”.

Questa è la prova autoincriminante che l’alto comando tedesco partecipa a una cospirazione per espandere la guerra contro la Russia. L’unica riserva è quella di non essere identificati pubblicamente nel condurre azioni di guerra. Con il massimo cinismo, i capi militari tedeschi stanno cercando un modo per rivendicare una smentita plausibile dopo il crimine.

L’ex presidente russo Dmitry Medvedev, ora vicepresidente del Consiglio di sicurezza nazionale, ha detto bene quando ha affermato che le cassette audio trapelate mostrano che la Germania sta pianificando una guerra contro la Russia.

Berlino ha liquidato l’affermazione di Medvedev come “assurda”. È Berlino ad essere assurda se pensa che le conversazioni dei suoi leader militari possano essere spacciate come semplici chiacchiere e giochi di guerra teorici.

Nei 38 minuti di discussione, il comandante della Luftwaffe e i suoi sottoposti parlano esplicitamente di fornire fino a 100 missili Taurus alle forze del regime ucraino per colpire in profondità la Russia. I vertici tedeschi si riferiscono al Taurus come a un “super strumento” e identificano specificamente la distruzione di un importante ponte a est, presumibilmente il ponte di Kerch che collega la Russia continentale alla Crimea.

Il missile tedesco ha una gittata di oltre 500 chilometri, il doppio di quello britannico o francese.

Sembra che l’esercito tedesco stia assumendo il compito di condurre attacchi in profondità in Russia. Londra starebbe sollecitando Berlino a fornire i missili Taurus, nonostante l’imbarazzo della conversazione privata trapelata.

Questa settimana è stato riportato che un ponte ferroviario è stato distrutto nella provincia russa sudoccidentale di Samara, vicino alla città di Chapaevsk. La località è più a est di Mosca e dista circa 1.000 km dalle linee del fronte del regime di Kiev, sostenuto dalla NATO, in Ucraina. L’attacco sembra essere stato un attacco di precisione.

Come hanno osservato i comandanti tedeschi nelle loro discussioni, il crollo di un ponte è una delle operazioni aeree più difficili che richiede capacità di precisione e una sofisticata elusione dei radar. La conversazione è avvenuta il 19 febbraio. La fuga di notizie è stata pubblicata lo scorso fine settimana. Secondo i media, il governo tedesco si oppone a firmare la fornitura dei missili. Ma con tutto ciò che accade alle spalle dell’opinione pubblica, chi può sapere se e quando queste armi verranno rilasciate? Sono già state rilasciate?

Se sarà confermato che il ponte vicino a Chapaevsk è stato colpito da un missile, allora sembrerebbe che la guerra della NATO contro la Russia abbia raggiunto una nuova inquietante soglia.

Alcuni media occidentali hanno commentato che la pubblicazione russa dell’audiocassetta della Luftwaffe, avvenuta lo scorso fine settimana, aveva lo scopo di mettere in imbarazzo il cancelliere tedesco Olaf Scholz, spingendolo a escludere definitivamente qualsiasi fornitura di missili Taurus all’Ucraina. Tuttavia, tali speculazioni presuppongono che Scholz abbia il controllo dei suoi comandanti militari. Molto probabilmente non rispondono a lui, ma alla potenza occupante in Germania, gli Stati Uniti.

Finian Cunningham

6182.- Israele è l’avamposto dell’Occidente nel Mediterraneo Orientale.

C’è l’Iran al centro della politica americana nel Medio Oriente e alle spalle le due grandi potenze asiatiche, Cina e India, due per ora, che si fanno strada fra i Paesi arabi per sboccare in Mediterraneo. In Mar Rosso, gli Houthi godono dell’appoggio dell’Iran e sono contro Israele, contro gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Hanno di fronte l’Arabia Saudita. Ci troviamo in un momento decisivo senza uno stratega e, sul genocidio di Netanyahu, i governi arabi chiedono aiuto alla Cina.

Israele è il numero uno del Mediterraneo Orientale, l’avamposto dell’Occidente, è il “cavallo” per noi europei; ma Netanyahu guarda al suo orto, non guarda lontano, semina morte, odio e la sua guerra chiama l’antisemitismo e la vendetta. Combatte Hamas, stuzzica gli Hezbollah, ma, senza di essi, il suo potere vacillerebbe. Se così è, gli Stati Uniti devono porre un freno a Netanyahu. Gli Accordi di Abramo erano la strada giusta. Ma è l’Arabia Saudita il “re” per noi, per Israele, per il Medio Oriente e il 20–21 maggio Donald Trump incontrerà il re Salman e altri ufficiali sauditi a Riyadh. Dio voglia Donald, che tu sia il presidente e che “re” Mohammad bin Salman veda lontano. Se proseguirà la normalizzazione tra Iran e Arabia Saudita, se ha le carte per ridefinire le dinamiche regionali in Medio Oriente, nel viaggio di Trump c’è molto di più di una nuova alleanza del petrolio con l’Arabia Saudita: Anche la fine della guerra e la stabilità nel Mar Rosso e, perché no? in Libia. E non dimentichiamo che, nel 2018, proprio Trump, da presidente Usa, aveva ritirato unilateralmente gli Stati Uniti dall’accordo nucleare con l’Iran, contro il parere dell’Ue. Affermò che avrebbe negoziato un accordo più forte. Per Israele è importante che questo avvenga. La nostra domanda è, ora: “Saranno Riyadh e Teheran a ridefinire le dinamiche del Medio Oriente?”

Israele deve dialogare con tutto il mondo arabo, ma anche l’Europa deve far sentire il suo peso. Può farlo? e, sopratutto, può farlo con la Germania alla fame, la Francia di Macron in crisi politica, una guerra in Mar Rosso e un’altra con la Russia? Non può farlo e non può contare sul sostegno degli Stati Uniti per l’economia, che hanno privata scientemente del gas e dei mercati russi. Non può contare su Biden per un cessate il fuoco in Ucraina e a Gaza, ma il Mediterraneo ha bisogno di pace, non di Netanyahu, non di Biden e nemmeno di Erdoĝan: Pace!

Fonte Immagine: AP Photo/Vahid Salemi

L’America chiede a Netanyahu una conversione sulla via di Riad

Da Huffpost, di Janiki Cingoli, 16 Gennaio 2024

La missione di Blinken rilancia lo Stato palestinese, per coinvolgere gli arabi nella ricostruzione di Gaza. Il governo di destra si ribellerebbe alla soluzione a due Stati. Ma per Bibi è il costo politico per ottenere il premio della normalizzazione saudita che insegue da anni e del fronte unico contro l’Iran. E per la sua sopravvivenza politica, che oggi appare compromessa.

La missione che Antony Blinken, segretario di Stato americano, ha effettuato in Medio Oriente a inizio gennaio, la quarta dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, è stata giudicata con scetticismo dalla maggior parte degli analisti internazionali. Tuttavia, David Ignatius, editorialista principe del Washington Post, dà una interpretazione differente. Egli sottolinea come l’esponente statunitense abbia rovesciato l’abituale itinerario delle sue missioni, che iniziava da Israele per poi continuare nelle maggiori capitali arabe.

6124.- Ucraina verso il tracollo. Una sconfitta anche per l’Occidente

USA e UE si stanno progressivamente smarcando dalla loro propaganda e dagli aiuti all’Ucraina che, dopo il fallimento della controffensiva, si avvicina alla sconfitta. Intanto la Russia torna sulla scena internazionale e va verso le elezioni.

Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Gianandrea Gaiani, 09 dicembre 2023Zelensky (21 nov 2023, foto Ap by LaPresse)

La Russia torna improvvisamente protagonista della scena diplomatica internazionale. Dopo la partecipazione di Vladimir Putin al G20 virtuale (in teleconferenza) del 27 novembre, nei giorni scorsi il presidente russo si è recato in Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti confermando gli stretti rapporti con i vertici del modo arabo con intese in ambito petrolifero (per mantenere alti i prezzi del greggio) ma anche militare e diplomatico.

Russia e Cina potrebbero infatti avere un ruolo rilevante nella definizione del futuro della Striscia di Gaza, una volta terminata l’operazione militare israeliana, coinvolgendo la Turchia e lasciando “fuori fai giochi” un Occidente (USA ed Europa) che avrebbe voluto emarginare la Russia ma che invece rischia di trovarsi isolato. Tema al centro anche della visita del presidente iraniano Ebrahim Raisi, arrivato ieri a Mosca per incontrare Putin, con cui ha affrontato anche diversi altri dossier, inclusa la cooperazione militare dopo le forniture di droni iraniani a Mosca e di aerei da combattimento ed elicotteri russi a Teheran. La guerra in Ucraina ha del resto determinato l’evoluzione in vera e propria alleanza delle relazioni russo-iraniane mentre la mediazione cinese, che ha normalizzato i rapporti tra monarchie arabe del Golfo e Iran, ha creato il contesto ideale per intese a tutto campo che vedono marginalizzato il ruolo occidentale.

Il ritorno della Russia sulla scena internazionale coincide poi con il progressivo tracollo dell’Ucraina nel conflitto in atto da 22 mesi e con il crescente distacco di USA ed Europa da Kiev. Della guerra in Ucraina la gran parte dei nostri media non parlano più non perché sia più rilevante il conflitto a Gaza ma perché le notizie da riferire sarebbero pessime per gli ucraini e i loro alleati (cioè noi) e perché gli stessi media e leader politici che ci hanno “bombardato” per due anni di ridicola propaganda ucraino-euro-atlantista sono oggi in difficoltà a far combaciare le loro fake-news con la cruda realtà dei fatti. Ricordate? Le nostre sanzioni avrebbero dovuto distruggere l’economia russa in poche settimane e, del resto, le truppe di Mosca erano senza missili, senza munizioni (combattevano con le pale!), non avevano razioni di cibo, rubavano le schede elettroniche dagli elettrodomestici ucraini per metterle nei missili, e altre “perle” con le quali ci hanno deliziato tanti leader in Europa, a cominciare da Ursula von der Leyen e Mario Draghi.

La realtà è invece ben diversa. Il fallimento della controffensiva scatenata il 4 giugno scorso e costata secondo diverse fonti oltre 100 mila morti e feriti agli ucraini ha demoralizzato l’esercito ucraino, costretto a ripiegare su diversi fronti e carente di munizioni e rifornimenti, mentre a Kiev si accentua lo scontro politico tra Volodymyr Zelensky e il capo delle forze armate, generale Valery Zaluzhny. Collaboratori del presidente ucraino parlano apertamente dell’accordo mediato dalla Turchia che avrebbe fatto cessare il conflitto a fine marzo 2022 ma che Gran Bretagna e Stati Uniti sabotarono imponendo all’Ucraina di continuare la guerra che avrebbe «logorato la Russia», la cui economia oggi cresce invece del 2,2% (fonte: Fondo Monetario Internazionale) a differenza dell’economia recessiva dell’Europa.

Mosca ha fissato per il 17 marzo le elezioni presidenziali che Zelensky ha annullato in Ucraina perché «c’è la guerra». Ci si attende che il presidente russo rinnovi la sua candidatura: a 71 anni, ha diritto teoricamente a restare al Cremlino per altri due mandati di sei anni ognuno, cioè fino al 2036. In settembre, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato che se Putin decidesse di candidarsi per un nuovo mandato, «nessuno sarà in grado di competere con lui nella fase attuale». E la vittoria in Ucraina non farebbe che aumentare il suo prestigio in Russia come in tutto il mondo.

A conferma di come i media statunitensi incrementino le critiche a Kiev e ai suoi leader per preparare il terreno allo sganciamento di Washington dal conflitto, a fine novembre Newsweek ricordava in un commento che l’Ucraina non può essere considerata democratica poiché Zelensky ha soppresso i partiti di opposizione, chiuso tv e giornali incarcerando giornalisti e vietato le elezioni. Tutto vero, ma la gran parte di questi atti antidemocratici li ha compiuti nella primavera 2022, quando chi lo evidenziava veniva bollato come «filorusso e putiniano». Perché Newsweek e altri media statunitensi se ne accorgono solo ora? Forse perché le incombenti elezioni per la Casa Bianca impongono agli USA di defilarsi dal conflitto?

Sui fronti ucraini, i russi ancora non hanno scatenato offensive su vasta scala ma avanzano regolarmente di uno o due chilometri al giorno su quasi tutti i fronti e in particolare nel Donbass, da Kupyansk a Siversk, da Bachmut a Vuhledar. La roccaforte di Marinka è ormai in mani russe, se si escludono alcune postazioni alla periferia ovest ancora in mano agli ucraini. Avdiivka, probabilmente la città del Donbass maggiormente fortificata dagli ucraini, è ormai circondata con l’impossibilità di rifornire la guarnigione e con la zona industriale in mano ai russi.

Il calo degli aiuti occidentali sta impoverendo la linea dei rifornimenti delle truppe ucraine. Fonti statunitensi hanno riferito alla Abc che le munizioni giunte a Kiev sono calate del 30 % da quando Washington deve rifornire anche le forze israeliane, ma il 7 dicembre il Kiel Institute for the World Economy (IfW Kiel), ha reso noto che «le dinamiche del sostegno all’Ucraina sono rallentate» e «hanno raggiunto un nuovo minimo tra agosto e ottobre 2023, con un calo di quasi il 90% rispetto allo stesso periodo del 2022».

Per Christoph Trebesch, capo del team che ha realizzato lo studio Ukraine Support Tracker, «le prospettive non sono chiare, dal momento che il più grande impegno di aiuti in sospeso – da parte dell’Unione Europea – non è stato approvato, e gli aiuti da parte degli Stati Uniti sono in calo. I nostri dati confermano l’impressione di un atteggiamento più esitante da parte dei donatori negli ultimi mesi. Data l’incertezza su ulteriori aiuti statunitensi, l’Ucraina può solo sperare che l’UE approvi finalmente il pacchetto di sostegno da 50 miliardi di euro annunciato da tempo. Un ulteriore ritardo rafforzerebbe chiaramente la posizione di Putin». Il grafico presente nel rapporto (vedi in fondo) fotografa impietosamente come il flusso di aiuti a Kiev abbia raggiunto il culmine nel giugno di quest’anno, guarda caso in concomitanza con l’avvio della controffensiva, il cui fallimento è stato rapidamente recepito dall’Occidente, che nei mesi immediatamente successivi ha ridotto al lumicino gli aiuti. In Italia «si sta valutando l’ipotesi» di un nuovo pacchetto di aiuti militari all’Ucraina, ha detto ieri il ministro degli Esteri, Antonio Tajani.

Le bugie di Ue e Nato sugli aiuti militari e il «sostegno a Kiev fino alla vittoria» hanno le gambe davvero molto corte. Consegnati solo 300 mila del milione di proiettili d’artiglieria promessi, molte nazioni hanno cessato di fatto di inviare armi e munizioni (Italia inclusa) per ragioni ben illustrate dal ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius, che in un’intervista ha evidenziato come le scorte cedibili si sono esaurite e i piani industriali per nuove produzioni richiedono anni.

La consapevolezza della sconfitta si sta affermando anche in Germania dove nei giorni scorsi Die Welt ha titolato “Kiev ha già perso?” un articolo sul fallimento delle forze armate ucraine al fronte, sul fallimento della strategia di Kiev e sullo scontro interno all’Ucraina Zelensky-Zaluzhny. Anche dagli USA giungono pessime notizie. È stato annunciato un nuovo pacchetto di aiuti militari da appena 175 milioni di dollari che include munizioni per i sistemi Himars, armi anticarro e antiradar, ma al Senato di Washington i repubblicani del Senato hanno bloccato il pacchetto di aiuti militari per Ucraina, Israele e Taiwan sostenendo che bisogna rafforzare la difesa dei confini meridionali statunitensi dai flussi migratori clandestini.

In questo contesto fa quasi sorridere l’ultima lista della spesa presentata dall’Ucraina al Pentagono e resa nota dall’agenzia Reuters in cui Kiev chiede cacciabombardieri F/A-18 “Hornet”, droni armati ed elicotteri Apache e Blackhawk. Armi del valore di molti miliardi che gli ucraini non hanno mai utilizzato e che in ogni caso richiederebbero anni per diventare operative.

6113.- Ucraina nella NATO: “Un sogno remoto”

Aspettando Donald Trump. Poi, subito la Federazione Russa nella NATO.

Mosca annuncia il ritiro delle prime truppe mentre proseguono le mediazioni. Putin vede Scholz e avverte: “Mai la Nato ai nostri confini”.

la NATO ora lo ammette: “situazione critica, prepariamoci al peggio”

Da L’Indipendente, di Giorgia Audiello, 4 dicembre 2023

In un’intervista concessa sabato all’emittente televisiva tedesca Ard e ripresa dall’agenzia di stampa russa Tass, il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha ammesso che l’Ucraina si trova in una «situazione critica» e che in futuro bisognerà essere «preparati anche alle cattive notizie» per quanto riguarda la situazione di Kiev sul campo di battaglia. Tuttavia, Stoltenberg ha sottolineato che le guerre si sviluppano in fasi e bisogna essere pronti a «sostenere l’Ucraina sia nei momenti buoni che in quelli cattivi». Il segretario dell’Alleanza ha anche spiegato che serve aumentare la produzione di munizioni e che «i paesi della NATO non sono stati in grado di soddisfarne la crescente domanda». Ha comunque rifiutato di consigliare a Kiev cosa dovrebbe fare: «Lascerò che siano gli ucraini e i comandanti militari a prendere queste difficili decisioni operative», ha detto Stoltenberg. Al contempo, in Ucraina la situazione politica è sempre più instabile, in quanto le opposizioni stanno intensificando le pressioni e le critiche verso il presidente Volodymyr Zelensky che vede sempre più a rischio il suo ruolo istituzionale soprattutto a causa del fallimento della cosiddetta “controffensiva”. È in atto, dunque, una lotta per il potere, considerato anche che sono vicine le elezioni, previste per il marzo 2024 e che, a causa dell’insuccesso sul campo, Zelensky è diventato facile bersaglio dell’establishment politico, ingaggiando anche una battaglia in tal senso con il comandante in capo delle forze armate ucraine, Valery Zaluzhny. Inoltre, il tentativo di reprimere il dissenso da parte del presidente non fa altro che inasprire la situazione, tanto che Ivanna Klympush-Tsintsadze, vicepresidente durante gli anni di Poroshenko al potere, ha parlato di «involuzione autoritaria» e aspre critiche sono arrivate anche dallo stesso ex presidente Petro Poroshenko e dall’attuale sindaco di Kiev, Vitali Klitschko.

L’insieme delle dichiarazioni di Stoltenberg e dei principali esponenti dell’opposizione ucraina lasciano intendere la volontà, se non di sostituire, quantomeno di ridimensionare il ruolo di Zelensky, spingendolo eventualmente anche ad eventuali trattative col Cremlino e diventato scomodo da diverso tempo anche per gli “alleati” occidentali a causa degli scarsi risultati sul campo che hanno prolungato indefinitamente il conflitto. Il sindaco di Kiev, Klitschko, in un’intervista al notiziario svizzero 20 Minuten, ha accusato il presidente di aver commesso diversi errori, chiedendo onestà riguardo alla reale situazione dell’Ucraina sul campo: «Zelensky sta pagando per gli errori che ha commesso», ha affermato Klitschko. «Naturalmente possiamo mentire al nostro popolo e ai nostri partner, ma non si può farlo per sempre», ha aggiunto, offrendo allo stesso tempo un chiaro appoggio al capo di stato maggiore ucraino, il generale Valery Zaluzhny. Proprio con quest’ultimo, Zelensky ha intrattenuto recentemente un aspro confronto, in quanto il generale ha ammesso in un’intervista all’Economist che i combattimenti sono arrivati ad una fase di stallo. Il presidente ucraino ha reagito rimproverando al generale di non essere capace di scegliere i titoli e lo ha ammonito di stare lontano dalla politica. I detrattori di Zelensky, però, sostengono il generale, che è uno dei principali concorrenti nella lotta di potere che si sta svolgendo nelle stanze di comando di Kiev. Con riferimento all’intervista del capo di Stato maggiore, Klitschko ha asserito che «ha detto la verità. A volte le persone non vogliono sentire la verità. Ha spiegato e giustificato qual è la situazione attuale».

Tensioni si sono verificate anche con l’ex presidente Poroshenko al quale è stato impedito di lasciare l’Ucraina, in quanto aveva intenzione di incontrare il primo ministro ungherese Viktor Orban, secondo quanto riferito dai servizi di sicurezza di Kiev, la SBU, che hanno respinto alla frontiera l’ex capo politico. Orban è mal visto da Kiev a causa della sua vicinanza con la Russia e perché “esprime sistematicamente una posizione anti-ucraina”, secondo quanto dichiarato dalla SBU. Inoltre, l’intelligence ucraina sostiene che l’incontro sarebbe stato utilizzato da Mosca “nelle sue operazioni informative e psicologiche”. Il tutto non ha fatto altro che intensificare le accuse di autoritarismo nei confronti di Zelensky: «Ad un certo punto non saremo più diversi dalla Russia, dove tutto dipende dal capriccio di un uomo», ha dichiarato il sindaco di Kiev.

Per quanto riguarda gli sviluppi sul campo, Stoltenberg ha detto che non ci sono stati progressi significativi negli ultimi mesi e ha rifiutato di anticipare una prospettiva su ciò che potrebbe accadere una volta cessato il conflitto. Tuttavia, il ministero della Difesa russo – che comunica quotidianamente i risultati dal fronte – ha reso noto che le forze russe hanno migliorato le posizioni sia lungo la linea del fronte nell’area di Donetsk, che nell’area di Kupyansk (nell’oblast di Charkiv): la scorsa settimana, il gruppo tattico russo meridionale ha continuato a migliorare le sue posizioni in prima linea nell’area di Donetsk, dove ha conquistato l’insediamento di Artyomovskoye. In direzione di Kupyansk, invece, le unità del Gruppo tattico occidentale russo hanno migliorato le loro posizioni vicino alla località di Sinkovka nella regione di Kharkov e hanno respinto 18 attacchi nemici. Il ministero della Difesa ha anche riferito che le forze ucraine hanno tentato senza successo di sbarcare sulla riva sinistra del fiume Dnepr vicino a Kherson e che, durante l’operazione, le truppe di Kiev hanno perso fino a 450 militari e 62 unità di equipaggiamento. Inoltre, l’esercito russo pare vicino alla conquista della città strategicamente significativa di Avdiivka (a Donetsk), che l’Ucraina detiene dal 2014.

Anche per via dell’andamento del conflitto sul campo, secondo le ultime indiscrezioni starebbero aumentando le pressioni su Zelensky affinché avvii dei colloqui di pace con Mosca, mentre il sostegno occidentale all’Ucraina appare sempre più incerto anche a causa della situazione in Medio Oriente. Lo stesso presidente ucraino ha ammesso che il tentativo dell’Ucraina di forzare la ritirata russa non ha ottenuto i risultati desiderati e alla domanda se si senta sotto pressione per avviare negoziati di pace ha risposto «non ancora», aggiungendo però che «certe voci vengono sempre ascoltate». Anche le dichiarazioni di Stoltenberg circa la «situazione critica» di Kiev potrebbero essere lette come il tentativo di predisporre il terreno per delle trattative di pace, preparando in tal senso sia l’amministrazione ucraina che l’opinione pubblica occidentale.

[di Giorgia Audiello]

Putin ha detto: “Noi non vogliamo la guerra, ma non accetteremo mai l’allargamento della Nato fino ai nostri confini, è una minaccia che noi percepiamo chiaramente.

Il commento di Paolo Magri, Vice Presidente Esecutivo di ISPI

C’è una prima, possibile svolta nella crisi al confine ucraino: Mosca ha annunciato l’inizio del ritiro delle truppe dopo la “conclusione delle esercitazioni militari”. Lo ha detto il portavoce del ministero della Difesa russo spiegando che le unità si stanno spostando nelle loro postazioni militari permanenti. Se confermata, la smobilitazione – che era “già pianificata” e “non dipende dall’isteria occidentale”, ha detto il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov – costituirebbe un chiaro segnale di de-escalation nella peggior crisi militare tra Russia e Nato dai tempi della Guerra fredda. “Il 15 febbraio è il giorno del fallimento della propaganda di guerra dell’Occidente. Annientati senza sparare un colpo”, ha scritto la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova in riferimento alla speculazione statunitense di un possibile attacco il 16 febbraio. Intanto il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha incontrato a Mosca il presidente Vladimir Putin: “Non vogliamo una guerra – ha detto Putin – ma non accetteremo mai l’allargamento della Nato fino ai nostri confini, è una minaccia che noi percepiamo chiaramente”. Scholz, da parte sua, ha sottolineato come la sicurezza dell’Europa non possa “essere costruita contro la Russia ma in cooperazione con la Russia”. Intanto i deputati della Duma – il ramo basso del Parlamento russo – hanno approvato un appello affinché Mosca riconosca le autoproclamate repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, nel Donbass ucraino, dove la Russia è accusata da tempo di sostenere i separatisti. La Russia controlla già la penisola di Crimea che ha occupato illegalmente nel 2014 e sostiene le forze separatiste che hanno preso il controllo di parti dell’Ucraina orientale, in un conflitto che ha causato più di 14.000 vittime.

Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov suggerisce al presidente Putin di continuare a percorrere il dialogo diplomatico.

Mosca verso il ritiro?

Non è ancora chiaro quante unità siano coinvolte nel ritiro e quale impatto avrà la decisione di Mosca sul numero complessivo di truppe che circondano l’Ucraina. Secondo i dati in circolazione, sono circa 130mila le unità russe schierate lungo frontiera comune. “Unità dei distretti militari meridionali e occidentali, che hanno completato i loro compiti, hanno già iniziato a caricare i mezzi di trasporto ferroviari e terrestri e oggi inizieranno a rientrare alle proprie basi – ha dichiarato in una nota il maggiore generale Igor’ Evgen’evič Konašenkov capo del Dipartimento dell’informazione e delle comunicazioni esterne del Ministero della Difesa nonché portavoce ufficiale dello stesso – mentre le misure per l’addestramento al combattimento si avvicinano alla conclusione, le truppe, come sempre avviene, effettueranno marce combinate alle proprie basi permanenti”. La decisione di Mosca di ritirare le truppe dalla frontiera potrebbe essere legata alle risposte ricevute da Washington riguardo alle richieste di sicurezza avanzate dal Cremlino. Il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha infatti dichiarato che gli Usa e la Nato hanno dato una risposta “positiva” ad “alcune delle iniziative” russe “sulla sicurezza” che erano state “respinte per lungo tempo”: “L’Occidente alla fine ha risposto, quando si è reso conto che stiamo discutendo seriamente la necessità di cambiamenti radicali nel campo della sicurezza – ha spiegato – La sua risposta è stata positiva ad alcune delle iniziative che aveva respinto per lungo tempo”.

Nato: un sogno remoto?

A contribuire ad un allentamento delle tensioni avevano contribuito ieri le dichiarazioni del presidente ucraino Volodymyr Zelensky che – in una conferenza stampa congiunta con il cancelliere tedesco Olaf Scholz – aveva affermato che l’ingresso di Kiev nella Nato “potrebbe essere solo un sogno remoto”. Sebbene abbia sottolineato che l’Ucraina è ancora desiderosa di aderire all’alleanza militare, Zelensky ha anche riconosciuto che la decisione non spetta a Kiev. Scholz aveva rincarato la dose, aggiungendo che Mosca “sta facendo pressione su un tema che non è in alcun modo in agenda”. Messaggi chiaramente indirizzati alla controparte che – a sua volta – ha pubblicato un video inconsueto in cui il ministro degli Esteri Lavrov suggerisce al presidente Putin di continuare a percorrere il dialogo diplomatico. “Credo che le nostre possibilità siano tutt’altro che esaurite”, dice Lavrov nel video, riferendosi ai negoziati della Russia con l’Occidente. “Proporrei di continuarli e intensificarli”. Il video si conclude con Putin che risponde: “Bene”. 

Nessuno vuole la guerra?

Al termine dell’incontro con Scholz, il presidente russo Putin ha detto: “Noi non vogliamo la guerra, ma non accetteremo mai l’allargamento della Nato fino ai nostri confini, è una minaccia che noi percepiamo chiaramente. Le risposte dell’Alleanza sulla sicurezza non soddisfano le nostre richieste” ha aggiunto, ma ci sono dei “ragionamenti” su cui la Russia “è pronta a lavorare”. Scholz, da parte sua, ha sottolineato come la sicurezza dell’Europa non possa essere costruita contro la Russia ma in cooperazione con la Russia”. Sulla possibile adesione dell’Ucraina alla Nato, Scholz ha commentato: “Sono stato chiaro che su alcune posizioni non ci sono possibilità di negoziare”. Quanto al riconoscimento da parte di Mosca delle repubbliche separatiste filo-russe del Donbass, dove il presidente russo ha detto essere in corso “un genocidio”, il cancelliere tedesco ha parlato di una “catastrofe politica” e una “violazione degli accordi di Minsk”. Scholz ha anche approfittato per lanciare una frecciatina nei confronti di Putin. Quella dell’espansione della Nato ad est “non è una questione immediata e non sarà affrontata mentre saremo al governo” ha detto, aggiungendo: “Ma non so quanto il presidente intenda restare ancora”.

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A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications) 

6081.- È il caos nell’opposizione a tenere in vita il governo. Ma per quanto? L’opinione di Sisci

La mia opinione.

É vero che l’assenza di una politica di seria opposizione nuoce all’esecutivo e ne rende meno immediata la percezione dell’opera, ma sul partito pesa anche il ritmo straordinario della crescita impresso dalla volontà e dall’impegno della presidente, e sopratutto, dalla presidente. C’è un che di eroico in questo impegno pragmatico, che Giorgia Meloni ha voluto improntare a senso pratico e a concretezza, senza cedere a pregiudiziali … Così nella politica estera, in particolare nel Mediterraneo e così nel rapporto, a nostro sentire non semplice, con il capo dello Stato. Se dovesse avverarsi l’ipotesi di un cedimento, come sembra paventare Sisci, dovremmo addebitarlo anche a quei quadri intermedi del partito – non tutte e tutti certamente – che al proselitismo hanno anteposto le loro faide interne che, purtroppo, caratterizzano la democrazia in Italia. Ma se l’opposizione della sinistra italiana è carente nei soggetti e nei contenuti, possiamo dire che la politica del governo, malgrado i nostri limiti, si confronta meglio in Europa e nel Magreb, come testimonia il rispetto di Rishi Sunak, Olaf Scholtz, Edi Rama, Abdelmadjid Tebboune, Kaïs Saïed e, non ultimo, di Recep Tayyip Erdoğan, per l’impulso dato dal Nuovo Piano Mattei.

Mario Donnini

Da Formiche.net, di Francesco Sisci, 19/11/2023  

È il caos nell’opposizione a tenere in vita il governo. Ma per quanto? L’opinione di Sisci

In un momento di grande volatilità internazionale e incertezza governativa la debolezza dell’opposizione non rafforza l’esecutivo. Apre le porte ai tecnici. Meloni deve dare una scossa o verrà travolta. L’analisi di Francesco Sisci

Non tanto per valor proprio, quanto per infamia altrui. Due ottave di sapore ottocentesco possono spiegare succintamente la permanenza al potere di Giorgia Meloni. Nel suo anno di potere ha sfornato progetti e politiche (lo dico come abbreviazione) velleitarie (fermiamo la migrazione, lanciamo il Piano Mattei, portiamo i migranti in Albania) e idee (lo dico sempre come abbreviazione) balzane (il premierato). Invece ha trascurato l’economia, il Pnrr ed emergenze come l’acciaieria di Taranto che potrebbero fare esplodere il Paese.

Il suo proposito, intendiamoci, era buono: affrontiamo il problema dell’immigrazione, quello della dispersione dei poteri. Ma le proposte non erano (non sono) “ingegnerizzate”, anche perché non si capisce bene la fisica che sta alle spalle.

La migrazione e questioni annesse, l’abbiamo scritto più volte, è un problema internazionale che non può essere affrontato dalla sola Italia. Né in Africa si può ignorare che la Francia ha forse 20mila militari lì da secoli, mentre l’Italia potrebbe portarne solo qualche centinaio ora. Sul premierato ha scritto bene Giuseppe Boschini (qui), è una formula senza precedenti che crea più problemi di quanto miri a risolverne.

D’altro canto invece, il fatto di trascurare il Pnrr ha ridotto a un rivolo il fiume di denaro che sarebbe potuto arrivare in Italia in mezzo a un’ondata di inflazione, tassa iniqua contro i redditi più bassi. La questione Ilva (a un passo dalla chiusura) potrebbe portare all’esplosione della provincia di Taranto, 500mila abitanti, e della Puglia, con effetti di contagio devastanti su tutto il sud.

Di fronte a ciò l’opposizione fa peggio. Il M5S di Giuseppe Conte è immune al malo morbo della contraddizione, dice tutto e il contrario di tutto. Ciò gli da spazio in palazzo mentre tiene viva l’anima feroce di una minoranza di masanielli bramanti solo il furto di un pezzo di argenteria. Il Pd non riesce ad articolare una frase di senso sotto la guida della povera Elly Schlein, sballottata poi dal leader della Cgil Maurizio Landini, lui ignaro del misero stato dell’economia nazionale.

D’altro canto l’opposizione interna alla maggioranza, guidata dalla lega di Matteo Salvini, cerca di aizzare la piazza, per esempio ordinando precettazioni in uno sciopero che altrimenti sarebbe stato destinato a fallire. Ma poi si ritira prima del passo fatale. Il suo gioco sembra quello di lacerare i poveri nervi di Meloni.

Così, il caos degli altri oggettivamente mantiene il governo al suo posto, ma non è chiaro per quanto tempo. La confusione da entrambi i lati del parlamento, in un momento di grave incertezza internazionale, con due guerre aperte, in Ucraina e a Gaza, e un’altra, più grande, con la Cina, che arde sotto la cenere crea una situazione simile a quella che portò alla fine del secondo governo Conte durante il Covid.

Cioè le sfide interne e internazionali richiedono un colpo di reni che se Meloni non saprà imprimere lo dovrà invece dare un altro esecutivo, più o meno tecnico. Ciò sarebbe un fallimento della democrazia italiana, ma non un tradimento della volontà degli elettori, anzi. Quando alla votazione suppletiva al Senato a Monza di presenta solo il 18% degli aventi diritto c’è la bocciatura di tutta la rappresentanza parlamentare.

L’impressione è confermata poi dal silenzio corale con cui il parlamento ha accolto tale risultato, segno di una “coda di paglia”, incapacità, indisponibilità ad affrontare la questione della mancanza di contatto con il popolo.

Questo non è un voto a un premier o presidente eletto dal popolo con minoranze rionali, ma un suffragio quasi universale per un governo che vada al di là del Parlamento, un esecutivo “tecnico”. Il prolungamento della guerra in Ucraina, il fatto che le operazioni a Gaza potrebbero proseguire per alcuni mesi, le complicazioni con la Cina e nell’Indo-Pacifico non blindano Meloni. Può essere il contrario. Se tempi difficili si prospettano può essere meglio mettere qualcun altro al timone, per il bene di tutti, per evitare che la nave italiana vada a fondo.

6078.- Hamas ed Eurofighter, tutte le spine tra Erdogan e Scholz

Ma non è tutto: Erdogan va in Germania ad agitare la piazza islamica.

Da Formiche.net, di Francesco De Palo, 18/11/2023 – 

Hamas ed Eurofighter, tutte le spine tra Erdogan e Scholz

Le parole del presidente turco su Gaza (“Türkiye non cadrà mai nella trappola di definire Hamas un’organizzazione terroristica. Considero Hamas un partito politico che ha vinto le elezioni in Palestina”) e quelle del cancelliere tedesco (“Gaza è ostaggio di Hamas”) segnano un solco che non si ricorda tra i due Paesi. L’incognita Ue e il nodo dei migranti

Una delle visite meno calorose degli ultimi anni, quella del presidente Recep Tayyip Erdoğan in Germania. Molti i punti di frizione tra Ankara e Berlino, come Hamas e gli Eurofighter, rispetto ai punti in comune, anche perché le parole che i tre interlocutori hanno pronunciato (il presidente turco, il cancelliere Olaf Scholz e il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier) sono state all’insegna delle algide rivendicazioni di posizioni. Anche la piazza ha avuto un “microfono”, con manifestazioni contro il presidente turco da parte dei curdi.

Cosa si è detto sui caccia

Erdogan ha dichiarato che la Turchia ha delle alternative se la Germania si rifiutasse di vendere ad Ankara 40 Eurofighter. Una di esse è il caccia stealth Kaan sviluppato internamente, presentato dalla compagnia aerea statale Turkish Aerospace Industries (Tai), che già produce elicotteri, aerei da addestramento e Uav. Il caccia di quinta generazione sarà pronto dal 2028. Un’altra è rappresentata dagli F-16 americani, su cui il Congresso è spaccato tra repubblicani e democratici, su tutti il senatore Bob Menendez, contrario.

Ma Erdogan, annunciando di voler acquistare 40 Eurofighter (il caccia multiruolo europeo prodotto da un consorzio di Airbus, BAE Systems e Leonardo), apparentemente come soluzione provvisoria in risposta agli acquisti greci dei Rafale francesi e in prospettiva degli F-35, ha fatto un passo in avanti verso l’Ue: il ministro della Difesa Yaşar Güler lo ha annunciato due giorni fa, anche se la Germania sembra opporsi all’idea. Durante la conferenza stampa congiunta con il cancelliere, Erdoğan ha affermato provocatoriamente che la Germania non è l’unico paese che produce aerei da combattimento.

La questione Hamas

Nella cena tra il cancelliere tedesco e il presidente turco sono state ripetute le gravi accuse turche contro la condotta della guerra da parte di Israele (“Stato terrorista”, “genocidio”) e la difesa tedesca del diritto di Israele all’autodifesa (“Gaza è ostaggio di Hamas”). Anche Steinmeier ha affrontato la questione del Medio Oriente definendo terroristico l’attacco di Hamas contro Israele. Un distinguo che è emerso anche dalle parole di Gökay Sofuoglu, presidente della folta comunità turca in Germania, secondo cui “questi slogan sui media non aiutano la gente”, riferendosi alle parole di Erdogan.

Numerose sono state, dopo l’attacco di Hamas contro Israele all’inizio di ottobre, le manifestazioni filo-palestinesi in Germania, con slogan antisemiti, e la volontà di mettere in discussione il diritto di esistere di Israele.

Ue e migranti

Un altro fronte critico tra i due Paesi è rappresentato dalla “coda” delle posizioni anti-Netanyahu di Erdogan, ovvero Ue e migranti. A Bruxelles, dopo aver ascoltato i suoi strali contro il governo israeliano, si moltiplicano le voci contrarie alla candidatura della Turchia per un’eventuale adesione.

Diversi stati membri si oppongono già apertamente all’adesione della Turchia, che è sostanzialmente congelata dal 2005. Non c’è evidentemente solo il conflitto a Gaza a rappresentare un freno. Se il dossier migranti, dalla guerra in Siria in poi, aveva ritrovato una certa quadra (anche in virtù della nuova stagione distensiva imposta a Grecia e Turchia), dopo l’attacco di Hamas a Israele il rischio di nuove ondate migratorie si fa pressante. Libano, Egitto, Grecia e nordafrica (senza sottovalutare il corridoio balcanico) sono in allerta per carovane che potenzialmente potrebbero partire da suolo turco.

La relazione annuale dell’Ue sui progressi dei Paesi candidati pubblicata questa settimana scrive che “la retorica della Turchia a sostegno del gruppo terroristico Hamas in seguito ai suoi attacchi contro Israele è in completo disaccordo con l’approccio dell’Ue”. Secca la replica di Erdogan: “L’Unione europea la pensa esattamente come Israele nei confronti di Hamas. Ma noi non la pensiamo come loro. Türkiye non cadrà mai nella trappola di definire Hamas un’organizzazione terroristica. Considero Hamas un partito politico che ha vinto le elezioni in Palestina”.

Berlino e Bruxelles hanno cerchiato in rosso due date: 21 e 28 novembre. La prima segnerà la visita in Algeria di Erdogan, ricevuto da Abdelmadjid Tebboune; la seconda l’incontro in Turchia tra Ebrahim Raisi e Erdogan. Migranti e Gaza saranno due dossier attenzionati e su cui si vocifera che le policies turche procederanno spedite.

Foto: Twitter Nato profile

Ma non è tutto:

Erdogan va in Germania ad agitare la piazza islamica

Erdogan sferza la Germania per la sua alleanza con Israele e accusa lo Stato ebraico di crimini di guerra. Nessuna diplomazia e toni da comizio in una visita di Stato, ma parla soprattutto ai musulmani turchi in Germania.

Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Stefano Magni, 18.11.2023Recep Tayyip Erdogan a Berlino (La Presse)

Berlino attendeva con timore la visita del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Ogni volta che viaggia in Germania i suoi discorsi lasciano il segno. Ma ora il timore era ancor più fondato, considerata la posizione presa da Erdogan, a favore di Hamas (da lui definito “movimento di liberazione”) nel pieno del conflitto di Gaza.

Erdogan, ieri (17 novembre) non ha tradito le attese. Nella conferenza stampa tenuta assieme al cancelliere tedesco Olaf Scholz, ha sostenuto che Israele a Gaza ha ucciso “13mila persone”, una stima addirittura superiore a quella del Ministero della Sanità palestinese (che parla di 12mila vittime), fra cui anche “bambini” violando quindi precetti ebraici. «Bombardare ospedali o uccidere bambini non è nella Torah. Non si può fare», ha detto Erdogan, sottolineando che gli israeliani – più forti di Hamas dato che dispongono dell’arma atomica – «Bombardano gli ospedali. Di fronte a tutto questo non dovremmo levare la nostra voce?». La sua è un’accusa alla Germania, a suo dire paralizzata dai sensi di colpa per la Shoah. «La guerra israelo-palestinese non dovrebbe essere valutata con una psicologia del debito. Parlo liberamente perché non dobbiamo nulla a Israele».

Il presidente Frank Walter Steinmeier e il cancelliere Scholz hanno difeso il “diritto di esistere” di Israele, pregando l’interlocutore di «non mettere in discussione» il «diritto di difendersi» dello Stato ebraico. Scholz ha definito “assurde” le accuse di Erdogan contro Israele. «Non è un segreto che abbiamo, in parte, opinioni molto diverse sul conflitto in corso», ha detto Scholz in una breve conferenza stampa accanto a Erdogan. Ma «soprattutto nei momenti difficili, abbiamo bisogno di parlarci direttamente». Ha comunque ribadito: «L’attacco di Hamas significa che Israele deve proteggersi e deve essere in grado di difendersi». «Non può rimanere il fatto che un’organizzazione terroristica che governa questa regione intraprenda queste attività da lì, ancora e ancora, con una forza militare incredibile. Questo deve finire, e questo è un obiettivo che si deve sostenere – noi lo facciamo, in ogni caso».

La Germania, in questa crisi, più che nei precedenti conflitti con Gaza, ha mostrato molto la sua vicinanza con Israele. Il massacro di 1400 israeliani da parte di Hamas il 7 ottobre scorso è stato vissuto come uno shock dall’opinione pubblica. In ricordo di un’altra drammatica ricorrenza, quella della “notte dei cristalli” (il primo pogrom su larga scala organizzato dai nazisti), la Porta di Brandeburgo è stata illuminata con i colori della bandiera israeliana, con la scritta evocativa “Mai più è adesso”, a sottolineare la possibilità che lo sterminio del popolo ebraico possa ripetersi. I media tedeschi sono fra i più favorevoli alla causa israeliana, rispetto a quelli degli altri Paesi europei. E anche sul piano politico, il governo Scholz si è opposto alle proposte di cessate-il-fuoco, pur perorando la causa di pause umanitarie per evacuare i civili.

Erdogan ha deciso di rivolgersi ai vertici tedeschi con parole estremamente dure, proprio per la linea fin qui seguita dalla Germania. Ma non parla a loro. In un venerdì, giorno sacro per i musulmani, parla soprattutto alla comunità turca in Germania, forte di 3 milioni di immigrati. E, più in generale, alla comunità musulmana tedesca che è ancora più numerosa e radicalizzata: basti considerare la comparsa di bandiere islamiste (fra cui quelle del movimento fondamentalista Hizb ut Tahrir) in più di una manifestazione a sostegno della Palestina, nelle città tedesche.

Il presidente turco, prima di tutto, alza i toni anche per aumentare la posta in gioco. I tedeschi, che avevano programmato questa visita da maggio (ben prima del conflitto mediorientale, dunque) volevano discutere degli accordi sui rifugiati. Quelli che la Turchia può, quando vuole, riversare sull’Europa, attraverso l’Egeo o la rotta balcanica e per tenere i quali ha finora ottenuto 4,9 miliardi di aiuti dall’Ue. L’altro argomento in discussione è la vendita di 40 cacciabombardieri Eurofighter Typhoon, bloccata proprio dalla Germania. Erdogan, anche nel corso della sua visita ha dichiarato di poterli comprare anche altrove, ponendosi in una posizione di superiorità: «La Germania può venderceli o meno. La Germania è per caso l’unico Paese che produce aerei militari? Noi possiamo produrli e comprarli da tanti altri Paesi». Anche dalla Russia, eventualmente? Anni fa, aveva fatto scalpore l’acquisto di sistemi anti-aerei russi S-400 da parte della Turchia. Che attualmente è l’unico Paese della Nato a disporre di un moderno sistema anti-aereo di produzione russa.

Ma le sue parole sono indirizzate, appunto, ai musulmani tedeschi. Ai turchi in Germania, in particolar modo. Quei cittadini immigrati (soprattutto negli anni ’50 e ’60 per ricostruire un Paese distrutto dai bombardamenti e ancora carente di uomini) che Erdogan, aveva invitato a non farsi assimilare: «Siete parte della Germania, ma anche della Grande Turchia – aveva detto nel corso della sua visita nel 2011 – Sì, integratevi nella società tedesca, ma non assimilatevi. Nessuno ha il diritto di privarci della nostra cultura e della nostra identità». I frutti elettorali sono stati raccolti. Nelle ultime elezioni turche, ad esempio, oltre il 67% dei turchi in Germania ha votato per il presidente islamico. Una percentuale molto più alta rispetto a quella della stessa Turchia, dove è stato riconfermato con il 52% dei voti.

Non si tratta solo di voti o di un calcolo politico. Per “vostra identità”, Erdogan intende soprattutto quella islamica. E in Germania è l’associazione turca Milli Gorusche controlla le moschee e i centri culturali, diffondendo una visione dell’islam in linea con quella dei Fratelli Musulmani. L’enfasi sulla causa dei “fratelli” di Hamas non è casuale.

5975.- Parigi, Berlino e Londra: vietato manifestare per la Palestina.

Così anche Vienna. E Budapest vieta le manifestazioni pro organizzazioni terroristiche, mentre gli arabi si schierano con gli arabi. La battaglia di Israele e dell’Occidente non è e non deve essere contro i palestinesi, contro gli arabi, ma contro Hamas e tutto ciò che gli ha portato consensi e risorse, altrimenti, così, si fomentano le divisioni, si invita all’emulazione e si fa il gioco di Hamas, di Netanyahu, di Khomeyni e di chissà chi altro, Biden, per esempio. Impossibile che questo messaggio non detti la linea politica nelle cancellerie europee. Sembra quasi che i nostri governi siano stati imbarcati dalla portaerei USS Ford, che mirino a colpire l’Iran, quindi, a destabilizzare il Medio Oriente, anziché a dare impulso alla politica dei due stati, complementari fra loro, indicata dall’ONU. La via fra la Cina e l’Europa sarebbe impedita e, infatti, Pechino ha preso le distanze da Tel Aviv dichiarando di opporsi ad azioni che intensificano i conflitti e minano la stabilità regionale.

La Repubblica dell’Algeria e della Tunisia hanno espresso «la piena solidarietà con il popolo e il governo della Palestina

Proseguendo l’Italia in questa prospettiva, verrebbe meno il Nuovo Piano Mattei, mentre la politica ondivaga di Erdoğan si affermerebbe.

Da Pagine Esteri, l’articolo di Marco Santopadre, 13 Ott 2023.

Parigi, Berlino e Londra: vietato manifestare per la Palestina

Pagine Esteri, 13 ottobre 2023 – Manifestare a sostegno dei diritti del popolo palestinese sta incredibilmente diventando un atto che in alcuni paesi europei può essere considerato un reato.
I governi di Francia, Germania e Regno Unito, in particolare, hanno varato in queste ore delle misure dirette a impedire le manifestazioni pubbliche di solidarietà con la causa palestinese e a colpire addirittura la libera espressione di opinioni critiche nei confronti di Israele.

Scontri a Parigi, vietata ogni manifestazione per la Palestina 
La Francia è il paese che ha imposto finora il divieto più draconiano. Il ministro dell’Interno francese Gérald Darmanin, ha proibito ogni genere di manifestazione contro l’assedio e i bombardamenti israeliani che, mentre scriviamo, hanno già causato la morte di 1600 persone nella Striscia di Gaza. Darmanin ha comunicato la misura ai prefetti di tutto il Paese attraverso un telegramma, nel quale sono contenute le “rigide consegne” da applicare.

Le associazioni di solidarietà, i partiti di sinistra e le comunità palestinesi e arabe hanno però deciso di infrangere il divieto e scendere comunque in piazza. A Parigi ieri alcune migliaia di persone si sono radunate in Place de la République, ma sono state attaccate dalle forze dell’ordine in tenuta antisommossa che hanno tentato, senza successo, di disperdere i presenti usando manganelli, cannoni ad acqua e gas lacrimogeni. Nella capitale francese la polizia ha effettuato dieci fermi. Manifestazioni più piccole si sono tenute ieri anche a Tolosa, Nimes, Bordeaux, Nantes e altre località.
Già lunedì scorso gli agenti avevano caricato e disperso circa 150 persone che si erano radunate in piazza a Lione per protestare contro l’occupazione della Palestina.

Il governo francese non sembra volersi limitare a impedire le manifestazioni pacifiche, violando uno dei principi basilari della sua stessa costituzione. Darmanin ha annunciato infatti che il Nuovo Partito Anticapitalista (NPA), una formazione di sinistra radicale, è oggetto di un’indagine in quanto accusato di “favoreggiamento del terrorismo” a causa di una dichiarazione diffusa dalla sua segreteria in cui si esprime solidarietà alla resistenza palestinese. Anche la France Insoumise, il principale movimento d’opposizione di sinistra del paese, è oggetto di un tentativo di linciaggio politico e mediatico perché i suoi principali esponenti, pur condannando l’azione di Hamas e l’uccisione di numerosi civili israeliani, si rifiutano di definire “terroristica” l’organizzazione palestinese.
Inoltre il Ministero degli Interni ha annunciato l’apertura di un iter che dovrebbe portare allo scioglimento e alla chiusura di alcune associazioni e organizzazioni che accusa di apologia dell’antisemitismo o del terrorismo, citando in particolare la sigla “Palestine Vaincrà”, legato alla sinistra palestinese, già oggetto di provvedimenti persecutori negli anni scorsi.
Come se non bastasse il ministro ha affermato che i cittadini stranieri autori di eventuali reati legati alla propaganda filopalestinese «devono vedersi sistematicamente revocato il permesso di soggiorno ed essere espulsi».

La Germania contro Hamas, ma non solo
Apparentemente, il governo tedesco – formato da socialdemocratici, verdi e liberali – sembra per ora voler proibire esclusivamente le manifestazioni affini al movimento islamista palestinese Hamas, ma l’applicazione di questa misura viene già applicata in maniera relativamente indiscriminata.
La polizia di Berlino ha infatti già vietato due manifestazioni previste mercoledì a sostegno dei diritti del popolo palestinese nella capitale perché «avrebbero rappresentato una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico».
Comunque mercoledì a Berlino sono scese in piazza alcune migliaia di persone contro la quale si è scagliata la polizia mobilitata in forze, che ha realizzato 140 fermi e ha denunciato 13 persone per diversi reati. I manifestanti si sono radunati soprattutto nel quartiere di Neukoelln che, insieme a quello di Kreuzberg, ospita una notevole comunità araba e turca.

Anche in Germania, come in Francia, l’esecutivo intende sciogliere alcune associazioni e organizzazioni propalestinesi. Lo stesso cancelliere Olaf Scholz, nel corso di un intervento al Bundestag, ha annunciato l’intenzione di sciogliere l’associazione Samidoun, accusata di aver festeggiato a Berlino l’attacco di Hamas contro Israele. In realtà la “rete di solidarietà con i prigionieri palestinesi” Samidoun è stata fondata nel 2011 da alcuni membri del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), un partito della sinistra marxista palestinese che è inserito nelle liste nere dell’Unione Europea ma le cui attività finora non erano state bandite in Germania.
Scholz ha aggiunto che chiunque bruci le bandiere di Israele commette un reato e verrà punito.

Kissinger: la Germania ha sbagliato ad accettare troppi immigrati

Così, Kissinger, soffiando sul fuoco. ndr


Sulla vicenda interviene dagli Stati Uniti l’ex segretario di stato americano Henry Kissinger, che in un’intervista concessa all’emittente televisiva “Welt Tv”, commentando le manifestazioni filopalestinesi verificatesi nei giorni scorsi in numerose grandi città europee, ha affermato che la Germania ha compiuto un «grave errore» accogliendo per anni un numero eccessivo di migranti appartenenti a «culture, fedi religiose e idee» troppo diverse rispetto a quelle del paese e dell’UE nel suo complesso. La «accoglienza eccessiva», ha affermato il centenario ex segretario di Stato, nato in Germania ma fuggito negli USA nel 1938 per sottrarsi al nazismo, a sua avviso «ha creato un gruppo di pressione in ogni Paese” che ha praticato per anni politiche migratorie poco caute.

Anche in Austria, la polizia di Vienna ha vietato una manifestazione pro-palestinese, motivando la decisione con lo slogan “Dal fiume al mare” usato per pubblicizzare la protesta, ritenuto un appello alla violenza. «Fondamentalmente è questo: “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”, uno slogan dell’Olp adottato da Hamas» ha spiegato il capo della polizia della capitale austriaca, Gerhard Puerstl.

«L’Ungheria non consentirà alcuna manifestazione a sostegno delle “organizzazioni terroristiche”» ha dichiarato oggi alla radio pubblica ungherese il primo ministro Viktor Orban (stretto alleato del governo israeliano), aggiungendo che tutti i cittadini ungheresi dovrebbero sentirsi al sicuro, indipendentemente dalla loro fede o origine.

Londra: anche sventolare la bandiera palestinese potrebbe essere vietato
Anche il governo conservatore del Regno Unito ha impresso un giro di vite alla libertà di espressione e manifestazione. Nei giorni scorsi si sono già svolte alcune manifestazioni a favore della Palestina sia a Londra sia in altre città ma il ministro dell’Interno Suella Braverman ha esortato la polizia ad essere inflessibile nei confronti di comportamenti e slogan ritenuti inaccettabili e a valutare se sventolare la bandiera palestinese possa essere considerato un reato assimilabile all’esaltazione del terrorismo.

Braverman ha inviato una lettera ai capi della polizia britannica per sottolineare che «non sono solo i simboli e i canti espliciti pro-Hamas a destare preoccupazione», ed ha invitato le forze di sicurezza a valutare se i canti o i simboli esposti possano essere intesi come «espressione di un atteggiamento violento». Quattro persone sono già state arrestate nel corso di una manifestazione organizzata a Manchester. – Pagine Esteri

5893.- L’India si lega al Mediterraneo allargato. L’Italia è nel progetto

Un salto avanti rispetto alla Nuova Via della Seta e un risultato grande per il presidente Meloni. Collegare India-Middle Eas—Europe con l’Economic Corridor (Imec) significa guardare al futuro perché non è un semplice progetto per le comunicazioni stradali e ferroviarie. Certo, dal punto di vista politico, è più semplice pensare a collegare l’India con il Golfo che non il Golfo con l’Europa. L’Imec si propone con grande impatto e non esageriamo vedendovi una proposta di ridisegnare i rapporti fra i paesi dell’Occidente. L’Italia è parte di un’alleanza militare in chiave anti russa e di una Unione europea molto conforme agli interessi statunitensi e, di quando in quando, ai nostri. Ecco che chi vuole che il Mediterraneo allargato torni essere un crocevia, non solo di questo corridoio, deve avere una proposta per la rifondazione dell’Ue e crederci, per poterci confrontare, uniti, in una situazione paritaria con il Global South.

Da Formiche.net, articolo di Emanuele Rossi | 10/09/2023 – 

L’India si lega al Mediterraneo allargato. L’Italia è nel progetto

L’annuncio dell’Imec – l’infrastruttura che collegherà India, Medio Oriente ed Europa – è un colpo di scena geopolitico che (per quanto atteso) trasforma gli equilibri della connettività globale. L’Italia, come spiega Meloni dal G20, è parte del progetto. “L’accordo rappresenta il primo tentativo concreto di contrastare le strategie infrastrutturali cinesi”, spiega Rizzi (Ecfr) e per l’Italia si aprono due grandi opportunità 

Durante la riunione del G20, è stato presentato un ambizioso piano infrastrutturale per collegare l’India al Medio Oriente e all’Europa. Questo progetto trasformativo mira a stimolare la crescita economica e migliorare la cooperazione politica tra le nazioni partecipanti. Viene definito India-Middle Eas—Europe Economic Corridor, acronimo internazionale: Imec. In realtà il corridoio è doppio, biforcato in una porzione orientale che connette India e Golfo, e una settentrionale che collega il Golfo all’Europa.

Se ne sentirà parlare molto, perché è di fatto un’alternativa alla Belt & Road Intiative (Bri) e dunque ha una connotazione geopolitica concorrente con la Cina.

“Questa è un’impresa monumentale”, ha sottolineato il presidente statunitense Joe Biden, che ha presentato l’opera in una sessione laterale al vertice alla presenza dei rappresentanti di Emirati Arabi Uniti (ideatori e motori del progetto: “Senza di te credo che non saremmo mai stati qui”, ha detto Biden al leader emiratino Mohammed bin Zayed), Arabia Saudita, India, Unione Europea, Francia, Germania e Italia. La “grandissima importanza” di cui Biden ha parlato assume un valore speciale per Roma.

Spazio per l’Italia

Il governo di Giorgia Meloni sta formalizzando l’uscita dalla Bri, pur mantenendo in piedi il partenariato strategico con la Cina — a cui si agganciano le relazioni sino-italiane. Avere la possibilità di essere già dentro Imec è un elemento positivo per Roma, che ha una connotazione geostrategica naturalmente centrale nel Mediteranneo (che di Imen è il punto arrivo finale e gancio verso il resto d’Europa).

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In questo progetto l’Italia può “svolgere un ruolo decisivo, grazie anche alla forza della sue aziende, nei settori marittimo e ferroviario”, ha detto Meloni – e in effetti, realtà come Fincantieri o Ferrovie sono all’avanguardia nel settore, ma anche altre società possono portare exprtise di primissimo livello. Il corridoio proposto promette infatti di facilitare il commercio, agevolare il trasporto delle risorse energetiche, securatizzare le supply chain, creare cavi connessioni energetiche innovative, rafforzare la connettività digitale. Obiettivi che si prefissa anche la Bri, che è stata lanciata 10 anni fa ed è in fase di bilanci (non sempre positivi).

“L’accordo rappresenta il primo tentativo concreto di contrastare le strategie infrastrutturali cinesi e di dare sostanza a quella Partnerhsip for Global Infrastructure and Investments (Pgii) che dopo il suo lancio un anno fa era rimasta sostanzialmente sulla carta”, spiega Alberto Rizzi, esperto dì Geoeconomia dell’Ecfr. 

La Pgii è uno sforzo collaborativo del G7 per finanziare progetti infrastrutturali nei paesi in via di sviluppo basati sui principi di fiducia del Blue Dot Network (Bdt), progetto congiunto tra Usa, Giappone e Australia che punta su investimenti per infrastrutture di alta qualità.  Biden ha già accolto con favore l’intenzione italiana di entrare nel comitato direttivo del Bdt. Il meccanismo ha l’intenzione di promuovere standard elevati negli investimenti infrastrutturali pubblico-privato in tutto il mondo. L’idea di fondo è spingere nuovi modelli rispetto a quelli cinesi che hanno mostrato debolezze dal punto di vista di efficienza e affidabilità (anche a livello politico, con molti Paesi che entrati in partnership sulla Bri si sono trovati stretti nelle cosiddette trappole del debito).

Per Rizzi, “rafforzare i collegamenti con l’India risulta fondamentale sia in ottica diplomatica, avvicinando Delhi a Bruxelles e Washington, sia economica, unendo il continente europeo al membro G20 con il più alto tasso di crescita”. Qual è il termine della sfida? “Se l’asse marittimo appare di semplice realizzazione, diverso è il discorso per quello ferroviario: le connessioni tra monarchie del Golfo sono già oggi in ritardo rispetto alla tabella di marcia e servirà un deciso cambio di passo”.

Tutto ciò apre due grandi opportunità per l’Italia: “Da un lato le sue aziende possono giocare un ruolo chiave nello sviluppo delle infrastrutture dei Paesi di transito e dall’altro la posizione permette di trasformare la penisola in una componente fondamentale del corridoio”, spiega Rizzi. “Un’ambizione che però si può realizzare solo completando l’interoperabilità tra porti e ferrovie, ad oggi ancora piuttosto limitata, specialmente al Sud”.

Tempi e costi del progetto 

Il consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense, Jake Sullivan, ha illustrato come questa rete si allinei alla visione dell’amministrazione Biden su investimenti estesi e di un’efficace leadership americana in collaborazione con altre nazioni. L’americano prevede che l’infrastruttura promuoverà lo sviluppo economico, favorirà l’unità tra le nazioni del Medio Oriente e trasformerà la regione in un polo economico, allontanandosi dalle sfide, dai conflitti e dalle crisi storiche. Chiaramente, nessuno degli attori ai tavoli è stato esplicito, per prima la Casa Bianca, ma è evidente l’offerta alternativa alle mire geopolitiche cinesi che Imec rappresenti anche nella narrazione strategica che l’accompagna.

Amos Hochstein, uno dei più nevralgici consiglieri del presidente Biden con il compito di coordinatore l’Infrastruttura globale e la sicurezza energetica, ha fornito una tempistica approssimativa: Imec sarà avviato de facto il prossimo anno. Nei prossimi 60 giorni, i gruppi di lavoro svilupperanno un piano completo e stabiliranno le tempistiche più dettagliatamente, spiegano le fonti: la fase iniziale si concentrerà sull’individuazione delle aree che necessitano di investimenti e sulla connessione dell’infrastruttura fisica tra i Paesi. La previsione è che i piani possano essere messi in atto nell’arco dell’anno successivo, seguiti dalla sicurezza dei finanziamenti e dall’avvio della costruzione.

Anche la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha accolto con favore l’iniziativa, sottolineando il suo potenziale per aumentare il commercio reciproco e la fiducia. Von der Leyen ha descritto l’iniziativa come un “ponte verde e digitale tra continenti e civiltà”, evidenziando anche l’inclusione di cavi per la trasmissione di elettricità e dati. Inoltre, ha presentato un “Corridoio Transafricano” che collega il porto angolano di Lobito a zone senza sbocco sulla costa nella Repubblica Democratica del Congo e alle regioni minerarie di rame dello Zambia. 

Queste iniziative, così come il Global Gateway europeo, sono modelli e proposte di cooperazione tra il Nord e il Sud del Mondo. Anche per questo, tenendo a mente l’idea del Piano Mattei e il tema del prossimo G7 (che sarà proprio quel contatto col Global South, su cui anche il G20 indiano ha avuto un focus), per l’Italia assumono altissimo valore. Ancora di più se si considerano che l’Inda è tra gli attori protagonisti: per Roma, che in primavera ha innalzato i rapporti con New Delhi a livello di strategic partnership, l’India è già sponda di progetti di connessione (un esempio il Blue Raman, progetto di connessione Sparkle-Google per connettere tramite cavi sottomarini l’Europa e il Subcontinente).

Oltre che digitalmente, il corridoio ferroviario e marittimo Imec promette di collegare fisicamente vaste regioni del mondo, promuovendo anche il commercio di prodotti energetici come l’idrogeno. I dettagli sul costo e sul finanziamento del progetto rimangono non divulgati, ma il principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohammed bin Salman, ha menzionato una cifra di 20 miliardi di dollari durante l’annuncio. Non è chiaro se questa cifra rappresenti l’impegno esclusivo dell’Arabia Saudita.

5859.- Grande Orban! L’Ungheria entrerebbe in guerra se le sue forniture energetiche venissero attaccate.


Non solo la politica USA obbedisce ai propri interessi. Nonostante le minacce di Bruxelles, lo scorso ottobre, l’Ungheria chiese aiuto a Putin e Gazprom concesse all’Ungheria di dilazionare di tre anni i pagamenti del gas. Ora Orban minaccia la guerra nel caso di attentati terroristici contro il South Stream.

In guerra contro chi?

Orban Prendendo di mira la Germania, il primo ministro ha affermato che la sua nazione
non rimarrebbe passiva se i suoi interessi vitali fossero minacciati A differenza della Germania, l’Ungheria non rimarrebbe in silenzio se le sue rotte di approvvigionamento energetico venissero sabotate, ha detto il primo ministro Viktor Orban a Tucker Carlson in un’intervista
rilasciata mercoledì su X (ex Twitter). Parlando della distruzione del gasdotto russo- tedesco Nord Stream, Orban ha ricordato che Budapest aveva immediatamente bollato l’incidente come un attacco terroristico quando ebbe luogo lo scorso settembre. Tuttavia, la Germania e l’Europa occidentale continuano a rifuggire da questa descrizione, ha aggiunto.

Perdita di gas dal gasdotto Nord Stream 2 vicino a Borholm, Danimarca, il 27 settembre
2022 © Difesa danese / Anadolu Agency tramite Getty Images

“C’è un altro gasdotto… [che porta] il gas dalla Russia attraverso il corridoio meridionale (alla] Turchia, Bulgaria, Serbia, [e] Ungheria.
Insieme al presidente serbo (Aleksandar Vucic] abbiamo chiarito che se qualcuno vorrà fare la stessa cosa con il corridoio meridionale, come è stato fatto con quello settentrionale, lo considereremo un motivo di guerra, “, ha affermato Orban. “Probabilmente puoi farlo con i tedeschi, ma non puoi farlo con questa regione.” Carlson ha insistito sul fatto che era “molto ovvio” che l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Joe Biden avesse distrutto i gasdotti Nord Stream, direttamente o tramite procura – un’affermazione che la Casa Bianca ha costantemente negato. Orban ha lasciato intendere di essere d’accordo con la valutazione di Carlson.

L’Ungheria non accetterà atti terroristici contro i gasdotti dalla Russia. La dipendenza politica di Viktor Orbán dal gas russo è considerata un freno per la strategia europea; ma questa strategia cosa ha di europeo?

L’Ungheria e la Serbia considereranno un attacco alla via di importazione del gas dalla Russia come un casus belli, ha detto Viktor Orban. Lo ha detto il capo del gabinetto ungherese in una conversazione con il giornalista americano Tucker Carlson. Secondo lui, Budapest e Belgrado reagiranno immediatamente se ciò che è successo al Nord Stream dovesse succedere al South Stream.

Scott Ritter –