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6220.- Alta Tensione. Ministro degli esteri russo convoca ambasciatori di Francia e Regno Unito, mentre lo Stato maggiore ha dichiarato l’inizio delle esercitazioni delle forze nucleari tattiche. – AFV

La domanda che da convinti europeisti ci poniamo è: A quale titolo il presidente Emmanuel Macron e il ministro David Cameron hanno impegnato l’Unione europea e la Nato con dichiarazioni bellicistiche e con forniture di missili superficie – superficie Storm Shadow/Scalp? La miglior difesa è l’attacco, ma la domanda vale anche per la Casa Bianca che ha confermato l’invio di missili a lunga gittata AtacMS a Kiev, per rispondere agli attacchi di Mosca. E, come leggeremo, l’Italia sembra non essere da meno.

Da nova-project, di Micheli Fabrizio, 7 maggio 2024

Oggi pomeriggio sia l’ambasciatore britannico Nigel Casey (nella foto, non felicissimo) che l’ambasciatore francese Pierre Levy sono stati convocati al Ministero degli Esteri a Mosca, dove sono rimasti rispettivamente per trenta e quaranta minuti. Non hanno rilasciato dichiarazioni, ma ci ha pensato il Ministero degli Esteri russo. All’ambasciatore inglese è stato chiesto conto delle parole di David Cameron, secondo il quale l’Ucraina è autorizzata a usare armi britanniche per colpire il territorio russo, e gli è stato notificato che il governo russo le considera un’escalation molto seria: se dovesse verificarsi un’eventualità del genere, la Russia si riserva il diritto di colpire obiettivi militari inglesi “sia sul territorio dell’Ucraina che altrove”. Non sembra invece che all’ambasciatore francese siano stati fatti discorsi di obiettivi militari da colpire, ma poco dopo Macron ha dichiarato che la Francia sostiene l’Ucraina ma non è in guerra né con la Russia né col popolo russo, e non cerca un cambio di regime a Mosca.
Per dare un po’ più di sostanza al discorso fatto agli ambasciatori, ad ogni modo, poco prima del loro ingresso al Ministero lo Stato maggiore russo ha dichiarato che, su ordine di Putin, ha iniziato le preparazioni per esercitazioni delle forze nucleari non-strategiche (cioè tattiche) “nel prossimo futuro”, nel Distretto Militare Meridionale (che comprende Russia meridionale, territori annessi e Crimea) e con la partecipazione della flotta (ovvero, che le esercitazioni in questione saranno condotte nel Mar Nero). Le esercitazioni, continua lo Stato Maggiore, sono effettuate in risposta alle “affermazioni provocatorie e alle minacce di certi funzionari occidentali” nei confronti della Federazione Russa.
È chiaro che le esercitazioni non saranno condotte con missili nucleari, ma che verranno testati solo i meccanismi di dispiegamento, comando e controllo. Ad ogni modo è un’escalation seria, che viene in risposta a una serie di escalation altrettanto serie da parte di Francia e Gran Bretagla – da cui appunto la convocazione degli ambasciatori. Le dichiarazioni di Macron potrebbero lasciare intendere che il messaggio è stato recepito, considerando anche che, a quanto pare, i colloqui con Xi Jinping non hanno portato ai risultati da lui sperati (quanto queste speranze poi fossero fondate ognuno può immaginarlo): se nei prossimi giorni dalla Francia non si parlerà più di inviare le truppe, la collaudata (ma un po’ rischiosa) tattica “escalate to de-escalate” potrebbe essersi rivelata vincente.
Per quanto riguarda le testate tattiche, visto che se ne parla come fossero fuochi d’artificio solo un po’ più rumorosi: non si sa quante la Russia ne abbia, perché non sono regolate da nessun trattato. Sono certamente meno potenti delle armi nucleari strategiche, ma vanno comunque da un minimo di uno a un massimo di 50 chilotoni, che non è poi pochissimo – per mettere le cose in prospettiva, la bomba di Hiroshima era di 15 chilotoni. Sappiamo con certezza che nell’arsenale russo ci sono testate nucleari tattiche per gli Iskander, per i Kh-59M (lanciati dai Su-24M, Su-30, Su-34 e Su-35S), per i Kalibr (probabilmente), per le bombe a caduta libera (il cui impiego ormai non è più ipotizzabile)e anche proiettili per l’artiglieria da 1 a 3 chilotoni: i 3BV1 da 180 mm, i 3BV2 da 203 mm, i 3BV3 da 152 mm e i 3BV4 da 240 mm. Buona parte dei proiettili nucleari per l’artiglieria è stata deattivata e distrutta, ma sicuramente qualcosa è rimasto, e non è difficilissimo farne di nuovi.

PS – tanto per andare sul sicuro, Tajani ha detto che l’Italia non ha mandato armi che possono colpire il territorio russo.

Francesco Dall’Aglio

Ma sia i missili anglo-francesi sia quelli americani sia, infine, quelli eventualmente italiani non risolveranno la crisi di uomini combattenti di Kiev. Malgrado ciò, dal Il Fatto Quotidiano del 1° maggio si legge: …

“L’Italia invia a Kiev un Samp-T e anche i missili da crociera”

Samp/T e Storm Shadow. L’Italia supera due altre linee rosse negli aiuti – che mai avrebbe inviato, parola di ministri della Difesa e degli Esteri – a Kiev. Il sistema di difesa aerea richiesto dal premier Zelensky infatti sta per essere trasferito all’Ucraina nel nono pacchetto italiano che il ministro Guido Crosetto sta per firmare. Eppure lui stesso aveva negato questa possibilità all’alleato per non lasciare sguarnito il nostro Paese che di Samp/T ne ha solo 5. Di questi, dopo la distruzione a gennaio da parte di un raid russo della batteria inviata in Ucraina appena 7 mesi prima, l’Italia ne avrebbe solo uno nel nostro Paese: uno sarebbe in Kuwait, uno in Romania e uno in Slovacchia.

A “muoversi” verso Kiev sarebbe proprio la batteria slovacca, dislocata nel distretto di Bratislava, per il rafforzamento del fianco orientale della Nato nell’ambito della crisi ucraina, tanto che il premier di Praga se n’è già lamentato. A darne notizia il sito Aktuality che ha riportato l’indignazione di Robert Fico: “Ho ricevuto un messaggio dal governo italiano che il sistema di difesa sarà ritirato dalla Slovacchia perché ne hanno bisogno altrove”, ha dichiarato lasciando intendere che arriverebbe a Kiev e lanciando l’allarme sulla mancanza di protezione delle strutture strategiche del suo Paese nonché delle centrali nucleari. La Slovacchia, infatti, ha trasferito i suoi sistemi anti-aerei S-300 all’Ucraina.

Lamentele slovacche a parte, il Samp/T sarà fornito di non molti missili: pare sotto la decina. Questo perché, se di sistemi di difesa richiesti da Zelensky – frutto del programma franco-italiano Mamba1 sviluppato da Thales e Mbda Italia e Francia – non siamo molto forniti, dato anche il costo (si va dai 500 milioni a batteria), di munizioni in giro per l’Europa se ne trovano sempre meno. E i Samp/T montano i missili Aster30 che hanno un raggio d’azione di 100 km per l’intercettazione di aerei e 25 km per quella dei missili e che vanno da un minimo di 8 a un massimo di 48 a batteria per un costo medio di 1 milione di euro.

A proposito di collaborazione, il ministero della Difesa italiano persevera nel segreto sulle armi inviate a Kiev. Ma la conferma della partecipazione italiana alla produzione dei missili a lungo raggio Storm Shadow anglo-francese destinati a Kiev secondo il vanto del ministro inglese Grant Shapps in un’intervista al Times, arriva dalla relazione annuale dell’Unità di controllo sull’invio degli armamenti (Uama). Nel report 2023, infatti, tra i programmi di co-produzione internazionale approvati campeggia “Storm Shadow – Sistema di armamento aria/superficie”. Paesi produttori: Italia, Gran Bretagna, Francia. Imprese coinvolte: Mbda Italia-Leonardo. I missili da caccia in grado di raggiungere il suolo dai 250 ai 300 km hanno anche il marchio italiano, quindi, come dichiarato dal ministro britannico. “Penso che lo Storm Shadow sia un’arma straordinaria”, si è detto convinto Shapps mentre faceva da cicerone al sito di produzione della Mbda vicino Londra. “Sono il Regno Unito, la Francia e l’Italia che stanno posizionando queste armi per l’uso, in particolare in Crimea – ha detto – sottolineando come “queste stanno facendo la differenza”.

L’Italia non ha mandato armi che possono colpire il territorio russo; ma attenzione! Quando i piccoli giocano con i grandi rischiano sempre di farsi male.

Il programma congiunto a cui l’Italia si è aggiunta a giugno 2023, nella fase iniziale prevedeva un investimento di 100 milioni di euro con l’obiettivo proprio di svecchiare i primi Storm Shadow. Stando alla relazione dell’Uama, le aziende italiane avrebbero dedicato al programma 12 milioni. Ma scorrendo l’elenco di armamenti inviati, il nome del missile da crociera della Mbda compare più volte sotto forma di pezzi di ricambio, serbatoi o altre componenti, e anche di missili da addestramento. Il destinatario finale non è specificato. E la Difesa italiana non conferma che sia Kiev. L’Italia ha acquistato per la prima volta 200 Storm Shadow dalla Mbda nel 1999 e li ha utilizzati in Libia nel 2011. Ma le parole di Shapps – che puntavano a convincere la Germania a inviare a Kiev i Taurus – non paiono campate in aria. Sul suolo ucraino, infatti, Storm Shadow francesi ci sono già arrivati, colpendo la Crimea.

6217.- Putin avvia esercitazioni nucleari vicino l’Ucraina: “Pronti a colpire dopo le minacce occidentali”

Mai quanto Macron, ma Joe Biden fa il gradasso. Ha inviato missili balistici AtacMS MGM-140 a Kiev, ma non doveva e non fermerà i russi con le armi. Putin avverte sempre. E vale per tutti. Biden ha perso anche in Ucraina, ma non può ammetterlo, come non vuole ammetterlo Londra che due anni fa fece saltare l’accordo già siglato da russį e ucrāini. Con Biden, non solo gli Stati Uniti hanno perso la faccia, ma anche noi membri di un’alleanza non più difensiva abbiamo perso. Quanto ancora dovremo perdere? Sui missili balistici, il ministero degli Esteri russo ha convocato l’ambasciatore britannico a Mosca. Convocherà anche l’ambasciatore USA o si limiterà ad abbattere i missili? Speriamo in Donald Trump.

Da Il Secolo d’Italia del 6 Mag 2024 13:28 – di Robert Perdicchi

Alta tensione tra Europa, Nato e Russia nel giorno in cui il presidente francese, Macron, autore dell’annuncio sul possibile invio di truppe europee in Ucraina, riceve il presidente cinese Xi. Mosca, per reazione a quelle che considera delle minacce, si prepara a compiere esercitazioni con armi nucleari al confine con l’Ucraina. Attraverso il ministero della Difesa, ha infatti annunciato i preparativi per le esercitazioni militari che includeranno l’uso di “armi nucleari non strategiche” a fronte di quelle che descrive come “dichiarazioni e minacce provocatorie” da parte di “funzionari occidentali”. Le esercitazioni coinvolgeranno “formazioni missilistiche del Distretto Militare Meridionale” ed è ipotizzabile quindi che le manovre avverranno non lontano dal confine con l’Ucraina.

La reazione di Putin alle dichiarazioni di Macron

In una dichiarazione pubblicata sul suo account Telegram, il ministero della Difesa russo ha affermato che l’esercitazione è stata ordinata dal presidente Vladimir Putin “al fine di aumentare la prontezza delle forze nucleari tattiche a svolgere missioni di combattimento”. “Su istruzioni del Comandante in Capo Supremo delle Forze Armate della Federazione Russa – si legge un comunicato del ministero della Difesa di Mosca – lo Stato Maggiore Generale ha iniziato i preparativi per lo svolgimento di esercitazioni nel prossimo futuro, con formazioni missilistiche del Distretto Militare Meridionale e con il coinvolgimento dell’aviazione e delle forze navali”.

“Durante le manovre saranno svolte una serie di attività per esercitarsi nella preparazione e nell’uso di armi nucleari non strategiche”, ha dichiarato, prima di sottolineare che l’obiettivo è quello di “mantenere la prontezza del personale e delle attrezzature” per “garantire incondizionatamente l’integrità territoriale e la sovranità dello Stato russo”.

La dotazione della Russia per le esercitazioni nucleari

Il presidente russo Vladimir Putin ha incaricato lo Stato Maggiore Generale di avviare esercitazioni sull’uso di armi nucleari non strategiche. Le esercitazioni saranno dedicate “ai preparativi e al dispiegamento” di armi nucleari tattiche e hanno come obiettivo quello di “garantire l’integrità territoriale e la sovranità dello Stato russo”, in risposta a “dichiarazioni provocatorie e minacce contro la Russia da parte di certe personalità occidentali”. Ma quante armi nucleari ha la Russia e chi le controlla? Ecco i punti chiave sull’arsenale nucleare russo.

Quante armi nucleari ha la Russia?

La Russia, che ha ereditato le armi nucleari dell’Unione Sovietica, possiede il più grande deposito di testate nucleari al mondo. Secondo la Federation of American Scientists, Putin controlla circa 5.580 testate nucleari.

Di queste, circa 1.200 sono state ritirate ma sono ancora in gran parte intatte attendono lo smantellamento, mentre sono circa 4.380 quelle immagazzinate per essere utilizzate da lanciatori strategici a lungo raggio e forze nucleari tattiche a corto raggio.

Delle testate accumulate, 1.710 sono quelle strategiche schierate: circa 870 su missili balistici terrestri, circa 640 su missili balisticilanciati da sottomarini e forse 200 su basi di bombardieri pesanti. Circa altre 1.112 testate strategiche sono immagazzinate, insieme a circa 1.558 testate non strategiche. “In futuro, tuttavia, il numero di testate assegnate alle forze strategiche russe potrebbe aumentare man mano che i missili a testata singola verranno sostituiti con missili dotati di testate multiple”, ha affermato la Fas.

I missili balistici intercontinentali (Icbm) in possesso della Russia hanno la capacità di raggiungere e distruggere le principali città del mondo come Londra o Washington. Tale missili possono raggiungere il Regno Unito in solo 20 minuti una volta lanciati dalla Russia.

In quali circostanze verrebbero utilizzate?

Con il decreto del 2 giugno 2020, Putin ha aggiornato le linee guida per l’impiego dell’arsenale atomico. Il documento, reso pubblico per la prima volta nella storia, stabilisce le condizioni per le quali un presidente russo prenderebbe in considerazione l’uso di un’arma nucleare: in generale come risposta a un attacco che utilizza armi nucleari o altre armi di distruzione di massa, o all’uso di armi convenzionali contro la Russia “quando l’esistenza dello Stato è messa in pericolo”.

La Russia effettuerà un test nucleare?

Putin ha detto che la Russia prenderebbe in considerazione la possibilità di testare un’arma nucleare se lo facessero gli Stati Uniti. L’anno scorso ha firmato una legge che revoca la ratifica da parte della Russia del Trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari (CTBT).

Dal crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, secondo l’Arms Control Association, solo pochi paesi hanno testato armi nucleari: gli Stati Uniti l’ultima volta hanno effettuato test nel 1992, Cina e Francia nel 1996, India e Pakistan nel 1998 e Corea del Nord nel 2017. L’Unione Sovietica ha effettuato l’ultimo test nel 1990. Il Trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari è stato firmato dalla Russia nel 1996 e ratificato nel 2000. Gli Stati Uniti hanno firmato il trattato nel 1996 ma non lo hanno ancora ratificato.

Chi darebbe l’ordine di lancio russo?

Il presidente russo è l’ultimo a decidere sull’uso delle armi nucleari russe. La cosiddetta valigetta nucleare, o “Cheget” (dal nome del monte Cheget nelle montagne del Caucaso), è sempre con il presidente. Si ritiene che anche il ministro della Difesa russo, attualmente Sergei Shoigu, e il capo di stato maggiore delle forze armate, attualmente Valery Gerasimov, abbiano tali valigette. Essenzialmente, la valigetta è uno strumento di comunicazione che collega il presidente ai suoi vertici militari e quindi alle forze missilistiche attraverso la segretissima rete elettronica di comando e controllo “Kazbek”. Kazbek supporta un altro sistema noto come “Kavkaz”.

Filmato mostrato dalla televisione russa Zvezda nel 2019, ha mostrato quella che si diceva fosse una delle valigette con una serie di pulsanti. In una sezione chiamata “comando” sono presenti due pulsanti: un pulsante bianco “avvia” e un pulsante rosso “annulla”. La valigetta viene attivata da una flashcard speciale, secondo Zvezda.

Se la Russia pensasse di dover affrontare un attacco nucleare strategico, il presidente, tramite le valigette, invierebbe un ordine di lancio diretto alle unità di comando e di riserva dello stato maggiore che detengono codici nucleari. Tali ordini si riversano rapidamente attraverso diversi sistemi di comunicazione alle unità missilistiche strategiche, che poi lancerebbero i missili contro gli Stati Uniti e l’Europa.

Se fosse confermato un attacco nucleare, Putin potrebbe attivare la cosiddetta ‘Dead Hand’ o ‘Perimeter’, un sistema automatico per la rappresaglia termonucleare gestito da Intelligenza Artificiale di ultima istanza: essenzialmente i computer, dopo aver scansionato il territorio russo e valutato attraverso una moltitudine di fattori se è in corso un attacco nucleare, lancerebbero un missile di comando che ordinerebbe attacchi nucleari da tutto il vasto arsenale della Russia.

6208.- Balcani in Ue, la ricetta di Tremonti per l’Europa di domani

Grande mossa di Giulio Tremonti, che surclassa sia Joe Biden sia Jens Stoltenberg: Da un lato, come isolare la Federazione Russa con una semplice mossa geopolitica; da un altro, come usare il potenziale geopolitico europeo senza dover fondare uno Stato sovrano, anzi, rafforzandone con l’ulteriore allargamento la debolezza in politica estera. Infine, una mano non da poco all’Erdoğan balcanico. Rispetto alle dichiarazioni sul disarmo europeo a pro di Kiev di Stoltenberg possiamo esprimere differenti pareri. Mario Donnini

Da Formiche.net, articolo di Francesco De Palo

L’ex ministro dell’Economia, dal palco della convention pescarese di Fratelli d’Italia, sostiene che per evitare nuovi sconvolgimenti globali all’Europa occorre un’accelerazione sulle politiche di allargamento con il coinvolgimento dell’intero costone balcanico

26/04/2024

Tutti i Paesi del costone balcanico entrino domattina in Europa: solo in questo modo l’Ue farebbe una mossa geopolitica di lungo periodo. Lo ha detto il presidente della Commissione Esteri della Camera, Giulio Tremonti, dal palco della conferenza programmatica di FdI in corso a Pescara. L’occasione è una riflessione sulla difesa europea dinanzi ai fronti bellici in atto, ma non solo, visto il coinvolgimento oggettivo tanto della cybersicurezza, quanto delle frizioni sul Mar Rosso accanto ai fronti caldi di Kyiv e Gaza. Ma proprio le prospettive di reazione europea rappresentano, da un lato, il vero elemento di novità di questa fase di guerre e, dall’altro, il possibile terreno comune dove iniziare a costruire politiche europee davvero unitarie.

Riunificazione balcanica

Perché un’accelerazione europea nei Balcani significa sanare potenziali nuovi fronti di tensione? Secondo Tremonti quando finirà la guerra in Ucraina non inizierà al contempo la pace. Ovvero i problemi dell’Europa non saranno risolti semplicemente con il cessate il fuoco, dal momento che i luoghi di contrasto restano quelli fuori dai sicuri confini dell’Ue. E cita un nome su tutti, i Balcani, che secondo Churchill sono luoghi in cui si fabbrica più storia di quanta ce ne sia. “Un’ipotesi plausibile secondo me è che dobbiamo accettare tutti i Balcani ora nell’Ue, salvo l’obbligo di adempiere a tutti i criteri. Sarebbe una rivoluzione”, spiega l’ex ministro dell’economia. Ovviamente un attimo dopo bisognerà modificare i criteri di voto, “ma sarebbe una mossa lungimirante, non puoi cancellare la democrazia, ma cambiare le maggioranze di governo sì”.

Un passaggio, quello della riunificazione balcanica, da sempre oggetto delle riflessioni europee di Giorgia Meloni soprattutto in merito alle politiche di allargamento, in un settore dove l’Italia può agire da pivot.

E aggiunge che al netto delle difficoltà di questa scelta, difficile e dura, non vi sono alternative dato il progressivo spiazzamento che l’Europa ha rispetto al resto del mondo, “dopo 20 anni di gestione fatta da tecnici non eletti”. Ragionare sulle politiche per l’Europa, secondo Tremonti, è l’unica strada da seguire per evitare di dover affrontare emergenze dopo emergenze sempre con l’acqua alla gola.

Spese per la difesa

Ma come provvedere alla messa in sicurezza di politiche ad hoc se non con maggiori investimenti nella difesa? Lo sottolinea con veemenza il sottosegretario alla Difesa Isabella Rauti, intervenendo al dibattito “Forte, libera e sovrana” quando dice che occorre investire il 2% del Pil in difesa, “un impegno assunto da tutti i Paesi Nato”, dinanzi alla media attuale europea dell’1,5%: “Il ministro Crosetto ha insistito in Europa perché questo impegno venisse svincolato dal Patto di stabilità, si è persa un’occasione non da noi ma da Bruxelles. All’indomani del voto delle prossime elezioni europee mi auguro si delinei una maggioranza diversa che potrà assumere una nuova visione in questa direzione”.

Di cambio di passo ha parlato il presidente di Leonardo Stefano Pontecorvo con riferimento agli investimenti in difesa, panorama che nemmeno la guerra in Ucraina ha cambiato. E cita dei numeri significativi: nel 2023 l’Europa ha investito come acquisizioni di sistema 110 mld di euro, gli americani 250. I nostri 110 miliardi sono stati distribuiti su 30 diverse piattaforme, quelli americani su 12. Il risultato finale è che su ogni piattaforma gli americani investono 20 mld di ricerca, noi 4 mld. Quale sarà il prodotto migliore? Per cui la prospettiva è quella di lavorare tramite aggregazioni europee rispetto ai grandi giganti mondiali russi, cinesi e americani. “Si tratta di un problema di visione”.

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6206.- GAZA. Via libera degli USA all’offensiva israeliana su Rafah. Israele in cambio attuerà un attacco limitato contro l’Iran che, secondo funzionari americani, dovrebbe scattare dopo la Pasqua ebraica.

Dalla Casa Bianca un No all’ingresso della Palestina nell’ONU e un appoggio incondizionato alla “mietitura araba”. Infatti, Israele miete altri morti nel Nord della Striscia, a decine. Il genocidio impazza e l’Iran, il Libano e la Siria sono in pericolo; la Turchia è in travaglio.

من البيت الأبيض لا لدخول فلسطين إلى الأمم المتحدة ودعم غير مشروط لـ«الحصاد العربي». والحقيقة أن إسرائيل تحصد عشرات القتلى في القطاع، وإيران ولبنان وسوريا في خطر.

Dalla redazione di Pagine esteri, 18 Aprile 2024

GAZA. Via libera degli USA all’offensiva israeliana su Rafah

della redazione

Pagine Esteri, 18 aprile 2024 – Una fonte egiziana ha rivelato al quotidiano Al-Arabi Al-Jadid che l’Amministrazione Biden ha approvato il piano d’attacco del gabinetto di guerra israeliano contro Rafah, in cambio Israele non lancerà un attacco su larga scala all’Iran. Inoltre funzionari americani hanno detto alla rete ABC che Israele non attaccherà Teheran prima della fine della Pasqua ebraica (22-29 aprile).

Al Arabi Al Jadid aggiunge le forze egiziane nel Nord Sinai sono in piena allerta lungo il confine con la Striscia di Gaza per far fronte allo scenario di un’invasione di Rafah. Il Cairo è in allarme da lunedì scorso, da dopo i colloqui avuti con Israele relativi proprio ai preparativi per la nuova fase dell’offensiva militare nel sud di Gaza.

Il piano israeliano prevederebbe la suddivisione di Rafah in quadrati numerati che verranno presi di mira uno dopo l’altro, spingendo i civili palestinesi al loro interno a scappare, in particolare verso Khan Yunis e Al-Mawasi. La fonte egiziana ha affermato che, nell’ambito dei preparativi egiziani, la capacità di assorbimento dei campi per sfollati nella città di Khan Yunis, che sono supervisionati dalla Mezzaluna Rossa egiziana, è stata aumentata e la quantità di aiuti che vi entrano è cresciuta.

Intanto la tv Kan riferisce che il gabinetto di guerra israeliano avrà difficoltà ad attuare la risposta originale, pianificata e approvata inizialmente contro l’Iran. Una risposta ci sarà, ma molto probabilmente sarà diversa da quanto previsto nella notte tra sabato e domenica. Gli alleati occidentali, ha aggiunto la rete televisiva, sanno “che Israele risponderà ma che nessuno può garantire che la risposta non porti ad un’ampia escalation” con l’Iran. Pagine Esteri

6171.-  La Turchia in Africa: ambizioni e interessi di una potenza regionale 

Da Istituto Affari Internazionali, n.208, di di Giovanni Carbone, Federico Donelli, Lucia Ragazzi e Valeria Talbot,

Giovanni Carbone è professore di Scienze Politiche all’Università Statale di Milano e responsabile del Programma Africa dell’ISPI. 

Federico Donelli è docente di Relazioni Internazionali all’Università di Trieste. 

Lucia Ragazzi è Research Fellow per il Programma Africa dell’ISPI. 

Valeria Talbot è Senior Research Fellow e responsabile dell’Osservatorio Medio Oriente e Nord Africa dell’ISPI. 

1. MAPPARE LA PRESENZA TURCA IN AFRICA 

Giovanni Carbone 

Nel corso degli ultimi vent’anni la Turchia è emersa come uno degli attori esterni più attivi e dinamici nel continente africano, divenuto sempre più un’arena di competizione non solo delle tradizionali potenze globali ma anche di medie potenze emergenti. La proiezione africana di Ankara rientra nell’ambito di una politica estera che nell’era del Partito Giustizia e Sviluppo (Akp), al potere dal novembre 2002, ha puntato su una maggiore diversificazione delle relazioni politiche ed economiche, ampliandole oltre i tradizionali partner occidentali, nonché sulla penetrazione di nuovi mercati a livello globale anche nell’ottica di accrescere lo status internazionale del paese. Il 2005 è l’anno che inaugura ufficialmente la nuova politica africana della Turchia, dopo l’adozione della Strategy for enhancing the economic and commercial relations with Africa nel 2003. L’azione della Turchia nel continente africano può essere suddivisa in tre distinte fasi – la prima dal 2005 al 2010, la seconda dal 2011 al 2015, la terza a partire dal 2017 – caratterizzate da diversità di approccio, attori e strumenti, pur mantenendo tutte quel pragmatismo di fondo tipico della politica estera dell’Akp. Ragioni di carattere tanto strategico quanto economico sono alla base della cosiddetta apertura della Turchia al continente africano dal Nord Africa al Corno, dal Sudafrica al Sahel. In tutte queste aree Ankara ha portato avanti un’agenda che coniuga una pluralità di interessi e azioni in diversi ambiti (diplomatico, economico, umanitario e culturale), cui si è aggiunto di recente anche il settore della difesa, con l’ambizione di giocare un ruolo di media potenza che propone un modello di sviluppo alternativo a quello dei paesi occidentali o della Cina. L’estensione delle aree di interesse strategico ha inoltre indotto la Turchia a dislocare, in alcuni paesi, una presenza militare sul terreno, trovandosi così a competere con altri attori esterni anche su questo piano. 

L’Africa è la regione in cui la più che ventennale strategia di ampliamento delle relazioni esterne della Turchia appare più intensa, diversificata e visibile. A eccezione della Cina, che può contare su risorse straordinarie e su una guida politica fortemente centralizzata e continuativa, nessun altro paese ha dispiegato in maniera così rapida e sistematica una serie di reti istituzionali – politico-diplomatiche, economiche, militari e anche culturali – che attraversano il continente e ne connettono le diverse parti ad Ankara. Un approccio che mostra quanto l’interesse turco per l’Africa sia parte di una strategia di lungo periodo, che coinvolge la totalità della regione, e non frutto di interventi occasionali e opportunistici, come ad esempio le incursioni russe degli anni recenti. 

Relazioni diplomatiche e vie di comunicazione 

Prima componente del tessuto di relazioni che la Turchia è andata costruendo in questi anni è la rete delle rappresentanze diplomatiche, punto di riferimento del più ampio attivismo di Ankara. La strategia di espansione era stata ufficializzata nel 2008, con l’annuncio dell’intenzione di aprire quindici nuove missioni in Africa, tra ambasciate e consolati. Una volta avviato, tuttavia, l’incremento delle sedi è risultato nei fatti ancora più consistente. La copertura diplomatica diretta in Africa è infatti passata da un mero 22% degli stati della regione nel 2009, con sole 12 ambasciate, all’80% dei paesi nel 2023, con 43 ambasciate1 (speculare l’ampliamento di quelle africane in Turchia, passate da 10 a 38)2. L’estensione della rete turca è oggi superata, per numero di sedi, solo da paesi come Stati Uniti, Cina, Francia e Regno Unito (l’Italia, ad esempio, si ferma a 29). Oltre alle isole minori che fanno parte del continente africano – come Capo Verde o Mauritius – sono lasciati senza rappresentanza diretta solo paesi demograficamente e geograficamente piccoli o molto piccoli (eSwatini, Lesotho, Guinea-Bissau, Liberia) e due soli stati di dimensioni territoriali (Repubblica Centrafricana) o demografiche (Malawi) più rilevanti. A Mogadiscio, in Somalia, in uno dei contesti più difficili e insicuri – dove solo una dozzina di paesi, circa la metà dei quali africani, mantengono ambasciate – Ankara ha il suo più grande complesso ambasciatoriale a livello globale. 

1 “Turkey is making a big diplomatic and corporate push into Africa”, The Economist, 23 aprile 2023. 

2 M.S. Kalaycioglu, “Iran and Turkey: Competing for Islamic Africa”, iGlobeNews, 13 aprile 2023.  

A una rete così densa corrisponde un attivismo bilaterale continuativo, manifesto nella frequenza delle visite diplomatiche effettuate direttamente dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan – che in una ventina d’anni, inizialmente come primo ministro e dal 2014 come presidente, ha effettuato circa 50 missioni nel continente, visitando oltre 30 stati africani3 – e dei suoi ministri degli Esteri, oltre al corrispondente flusso di visite di rappresentati africani nella capitale turca. 

3 U. Farooq, “Erdogan seeks to boost ties at Turkey-Africa summit”, Al Jazeera, 18 dicembre 2021. 

4 J. Pearson, “Inside Turkish Airlines’ Incredible Africa Growth”, Simple Flying, 1 settembre 2021. 

5 B. Babali, “The Scramble for African Aviation”, The Business Year, 24 novembre 2022. 

Ad arricchire i legami anche lo status di osservatore presso l’Unione Africana (UA) riconosciuto alla Turchia dal 2005 – che il governo turco proclamò “Anno dell’Africa” – e, dal 2008, quello di partner strategico dell’UA. Una posizione, quest’ultima, ottenuta in precedenza solo da pochi importanti paesi (Cina, India, Giappone e Corea del Sud). Sempre nel 2008 venne organizzato a Istanbul, per il primo anno, un Turkey-Africa Partnership Summit che, tra i temi dell’incontro, delineò termini e forme della “partnership strategica” tra Ankara e UA. Con il summit – al quale parteciparono 49 paesi africani, variamente rappresentati da capi di stato, di governo o dei dicasteri degli Esteri – il governo turco assumeva e mostrava un profilo di alto livello, facendo proprio un costume che si stava diffondendo tra grandi economie avanzate ed emergenti, ovvero quello di riunire appunto i paesi africani, collettivamente, in consessi a loro specificamente dedicati (l’Italia ha organizzato incontri di questo tipo a partire dal 2016). Un secondo e un terzo summit – rispettivamente nel 2014 a Malabo, in Guinea Equatoriale, e nel 2021, con 39 paesi africani, di nuovo ad Istanbul – hanno poi dato continuità a questa pratica. 

Al reticolo di sedi di ambasciate sul terreno è stata fin da subito affiancata un’altra trama, quella delle tratte aeree di Turkish Airlines che connettono Istanbul (o, in misura minore, Ankara) a un’ampia maggioranza di capitali africane, nonché ad alcune città secondarie di rilevanza economica o portuale, come Douala in Camerun, Pointe-Noire in Congo-Brazzaville, Port Harcourt in Nigeria, Durban in Sudafrica e Mombasa in Kenya. Il numero delle destinazioni africane ha toccato il picco massimo nel 2019 – ben 52, un aumento di dodici volte rispetto alle quattro destinazioni servite dalla compagnia di bandiera nel 2004, scendendo poi a 44 nel 2021 in virtù dell’impatto della pandemia di Covid-19 sul traffico aereo. Lungi dall’avere un significato esclusivamente politico-diplomatico, l’investimento ha pagato a tutto tondo. Il numero di passeggeri è cresciuto di quasi venti volte, da 320.000 a oltre 6 milioni l’anno (2004-2019), anche grazie al successo di Turkish Airlines nel posizionarsi come vettore per passeggeri europei attraverso l’hub geograficamente favorevole di Istanbul4. Il ritorno economico per la compagnia è stato netto, rendendo quelle africane destinazioni importanti da un punto di vista meramente commerciale5. 

Relazioni in ambito economico 

Gli investimenti politico-diplomatici turchi hanno contribuito a produrre risultati economici di successo che vanno ben oltre quelli del settore di trasporti e aviazione. Nel 2008 l’intento dichiarato dal governo era stato quello di far crescere il volume complessivo degli scambi commerciali da 17,3 miliardi di dollari a 30 miliardi di dollari in soli due anni6. I tempi necessari a raggiungere questo obiettivo si sono in realtà dimostrati ben più lunghi e il totale dell’interscambio resta ancora distante da quello della Cina (282 miliardi di dollari nel 20227) e, pur in misura minore, anche di India, Stati Uniti e dalle maggiori economie europee. Ma i 30,4 miliardi di dollari di scambi toccati nel 2022 – il 38% (11 miliardi di dollari) con i paesi subsahariani, tra i quali il Sudafrica occupa il primo posto con 1,6 miliardi di dollari8 – rappresentano comunque un’espansione del volume di sei volte in vent’anni, rispetto ai 5,4 miliardi di dollari di partenza del 2003. Per dare un termine di paragone, gli scambi Italia-Africa nello stesso arco di tempo (2003-2022) sono cresciuti solo di una volta e mezzo (da 26,6 a 68 miliardi di euro, con oltre un terzo dell’incremento dovuto alle carissime importazioni di energia africana dello scorso anno). Non solo, ma gli scambi turchi consistono per oltre il 70% di esportazioni, una bilancia più favorevole di quella di Pechino, per la quale la quota di export resta sotto il 60% (per l’Italia la bilancia commerciale è di norma in disavanzo, con esportazioni sotto il 50% del volume complessivo degli scambi; nel 2022 si è scivolati sotto il 33%). Gli obiettivi, nel frattempo, erano già stati esplicitamente rilanciati dal presidente Erdoğan – che vuole che il paese raggiunga rapidamente i 50 e poi i 75 miliardi di dollari di interscambio – in occasione dell’ultima edizione del Turkey-Africa Economic and Business Forum, una sede di periodica promozione e concertazione dei legami economico-commerciali tra le due parti9. 

6 “The Turkey-Africa summit”, DW, 17 agosto 2008. 

7 R. Bociaga, “China-Africa trade soars on spike in commodity prices”, Nikkei Asia, 27 gennaio 2023. 

8 “Turkey is making a big diplomatic and corporate push into Africa”, cit.; “Turkish exports to Africa break a record in 2022”, Move 2 Turkey, 11 gennaio 2023. 

9 “A trade volume of USD 21 Billion Is Targeted with Africa”, Business Diplomacy. 

10 H. Ryder, “Emerging power rivalries in Africa: Is China really ahead of Turkey?”, Africa Report, 10 gennaio 2022; A. Dahir, “The Turkey-Africa bromance: key drivers, agency, and prospects”, Insight Turkey (23:4), 2021; “Third Turkey-Africa Partnership Summit delivers ‘win-win’ agreements”, African Business, 18 dicembre 2021. 

11 U. Farooq, “Erdogan seeks to boost ties at Turkey-Africa summit”, cit. 

A complemento del commercio, la presenza di aziende turche in Africa si è moltiplicata anche attraverso gli investimenti diretti esteri (Ide), il cui incremento nel corso del tempo è stato ancora più marcato, passando dai 100 milioni di dollari del 2003 ad almeno 2 miliardi di dollari nel 2022 (alcune fonti parlano di 6-7 miliardi di dollari)10. Un’ampia quota degli Ide di Ankara – quasi un terzo del totale – fa capo all’Etiopia, che beneficia di una buona parte dei 25.000 posti di lavoro creati, secondo alcune stime, dalle imprese turche nella regione11. 

Anche per le relazioni economiche con i singoli paesi africani, la strategia turca contempla una rete articolata e ramificata che poggia su 45 “consigli di imprese”, emanazioni del 

Consiglio per le relazioni economiche estere (Deik) e ulteriore elemento del fitto tessuto di connessioni della Turchia con i diversi territori della regione. L’Africa del nord, in parte il Corno d’Africa, di cui è perno appunto l’Etiopia, e l’Africa orientale rappresentano aree più prossime alla Turchia e includono quindi i paesi ai quali Ankara ha guardato per primi. Ma il governo turco non si è mai limitato alle sole sub-regioni africane “vicine” e, anzi, in anni recenti ha investito nel rafforzamento del proprio posizionamento in Africa occidentale. È a questa specifica regione, ad esempio, che nel 2018 è stato dedicato il primo di una serie di Turkey-Ecowas Business and Economic Forum (ed è in questa stessa area che si registra anche una recente spinta ad aumentare la cooperazione nel campo della sicurezza)12. 

Tanto il commercio quanto gli investimenti turchi in Africa tendono a concentrarsi nell’industria delle costruzioni, dell’acciaio e del cemento, ma anche nei beni per la casa, nell’elettronica e nel tessile13. Nel settore di costruzioni e infrastrutture, in particolare, società turche, come Summa, Limak, Albayrak e altre, hanno effettuato nel continente lavori per circa 78 miliardi di dollari. Nel 2022, ad esempio, hanno spuntato un contratto da 1,9 miliardi di dollari per la costruzione di una nuova linea ferroviaria in Tanzania. A Mogadiscio, in Somalia, sono imprese turche ad aver ricostruito diverse strade e il parlamento nazionale, sostenute finanziariamente dagli aiuti allo sviluppo di Ankara, e ad avere in mano la gestione del porto e dell’aeroporto internazionale, dopo averli ristrutturati14. Un ulteriore comparto ritenuto strategico dal governo è l’agroalimentare, al centro fin dal 2017 di diversi incontri ministeriali Turchia-Africa e oggetto di accordi già stipulati con sei paesi della regione15. 

12 M. Özkan, A. Kanté, “West Africa and Turkey forge new security relations”, Institute for Security Studies (ISS), 31 marzo 2022; K. Hairsine, B. Ünveren, “Turkey deepens its defense diplomacy in Africa”, DW, 28 ottobre 2022. 

13 “Third Turkey-Africa Partnership Summit delivers ‘win-win’ agreements”, cit. 

14 “Turkey is making a big diplomatic and corporate push into Africa”, cit. 

15 S. Orakçi, “The Rise of Turkey in Africa”, Al Jazeera Centre for Studies, 9 gennaio 2022. 

16 U. Farooq, “Erdogan seeks to boost ties at Turkey-Africa summit”, cit.  

Relazioni nel settore della sicurezza 

Se l’espansione diplomatica ed economica turca in Africa è seguita da vicino da oltre un decennio da analisti e media internazionali, a richiamare attenzione negli anni più recenti è stata l’evoluzione delle relazioni turco-africane nell’ambito della sicurezza. Due sono i punti di forza della Turchia nel settore: la capacità di fornire armi tecnologicamente avanzate, di dimostrata efficacia ed economicamente accessibili; e quella di poter offrire forti competenze nell’antiterrorismo e nella lotta ai movimenti estremisti16. 

La cooperazione negli ambiti della sicurezza e della difesa non è in realtà una novità, ma si è sviluppata gradualmente, e non riguarda solo l’export di armamenti turchi. Aveva infatti tutt’altra natura. La coraggiosa decisione di insediare a Mogadiscio, in Somalia, la base militare denominata Camp Turksom – la maggiore tra le basi di Ankara all’estero – 

inaugurata nel 2017 e da allora impegnata nella formazione delle forze di sicurezza del governo della Repubblica Federale di Somalia ne è un chiaro esempio. La struttura ospita contemporaneamente tra 1.000 e 1.500 soldati somali e vanta di aver addestrato circa due terzi dei 15.000 militari in servizio in un paese che da anni fatica a recuperare stabilità a fronte delle violenze dei jihadisti di al-Shabaab. Oltre alla formazione nella base Turksom, unità specializzate di soldati somali completano il loro perfezionamento direttamente in Turchia, a Isparta. La lotta al terrorismo ha portato il governo turco ad appoggiare anche, nel Sahel centro-occidentale, i cinque paesi le cui popolazioni soffrono da anni gli attacchi dei jihadisti, soprattutto sostenendo la loro cooperazione nel G5 Sahel, prima che questo consorzio militare entrasse in fase di stallo a seguito dei colpi di stato e cambi di governi in Mali e Burkina Faso. Più in generale, ben 30 stati africani hanno siglato accordi di sicurezza di vario tipo con la Turchia, mentre in un’ambasciata su tre sono presenti addetti militari17. 

In una certa misura, i soldati turchi sono intervenuti anche direttamente in scenari africani, partecipando a missioni multilaterali di peacekeeping dal Mali al Centrafrica. Ma si tratta di una partecipazione contenuta: i 68 turchi attualmente impegnati in missioni delle Nazioni Unite in Africa sono più numerosi di norvegesi (53), francesi (46), svedesi (35), americani (34) o italiani (4), ma sono solo un decimo dei 623 tedeschi e un venticinquesimo dei 1.794 cinesi18. 

Come detto, è nel comparto della vendita di armamenti che è emerso da alcuni anni un forte dinamismo turco che ben si combina con la relativa domanda africana. La quota turca del mercato delle armi del continente resta minima se raffrontata ai maggiori produttori (Russia, Stati Uniti, Cina e Francia, nell’ordine) – è attualmente inferiore all’1% – ma sembra avviata verso una crescita marcata. Un volume d’affari che ha oscillato tra i 60 e gli 80 milioni di dollari circa tra il 2015 e il 2020 è infatti improvvisamente balzato a 461 milioni di dollari nel 2021, ultimo dato disponibile19. 

La Turchia fornisce agli africani una varietà di prodotti, dalle navi militari ai veicoli blindati, dai sistemi di sorveglianza alle armi leggere20. L’aspetto che maggiormente ha destato attenzione e preoccupazione negli osservatori occidentali è stato il recente balzo in avanti compiuto dalle imprese turche nel proporsi con successo come fornitori di droni per uso militare. I droni turchi più noti sono senz’altro i Bayraktar TB2, venduti a paesi come l’Etiopia – che nel corso del 2022 li ha usati per superare lo stallo nel conflitto del Tigrai e sconfiggere le forze ribelli – Nigeria, Marocco e Tunisia. Ma più recentemente anche al  Niger, alle prese con i diversi gruppi jihadisti attivi attraverso vaste zone del Sahel centro-occidentale e sul versante nord-occidentale del bacino del Lago Ciad, e al Togo, preoccupato di proteggere dalle incursioni di questi ultimi le regioni settentrionali di confine21.

17 N.T. Yaşar, “Unpacking Turkey’s security footprint in Africa. Trends and implications for the EU”, SWP, 30 giugno 2022. 

18 United Nations Peacekeeping, Troop and police contributors, dati al 31 maggio 2023. 

19 H.A. Aksoy, S. Çevik e N. T. Yaşar, “Visualizing Turkey’s Activism in Africa”, Centre for Applied Turkey Studies, 3 giugno 2022. 

20 N.T. Yaşar, “Unpacking Turkey’s security footprint in Africa. Trends and implications for the EU”, SWP, 2022.  

Man mano che i droni turchi si sono dimostrati un’arma efficace e comparativamente a buon mercato, nonché di uso, gestione e manutenzione relativamente facile rispetto ad altre risorse aeree, altri potenziali acquirenti si sono fatti avanti, tanto che ora si parla di liste di attesa di tre anni. Tra i vantaggi aggiuntivi offerti dai turchi ai compratori africani c’è quello di non dover rendere conto di intenti ed effetti dell’uso dei droni, nonché di guadagnare autonomia rispetto ad altri fornitori – si pensi in particolare alla Francia per i paesi francofoni – diversificando così le fonti di approvvigionamento. 

21 P. Melly, “Turkey’s Bayraktar TB2 drone: Why African states are buying them”, BBC, 25 agosto 2022. 

22 “Third Turkey-Africa Partnership Summit delivers ‘win-win’ agreements”, African Business, 18 dicembre 2021. 

23 R.İ. Turan, “‘Turkey rejects orientalist approaches towards African continent’”, Anadolu Agency, 18 ottobre 2021. 

Relazioni di cooperazione allo sviluppo, umanitaria e culturale 

La rotazione verso sud dello sguardo turco è comunemente letta, almeno in parte, come decisione di percorrere altre strade a seguito del congelamento dell’ipotesi di un ingresso di Ankara nell’Unione europea (UE). Anche per questo non sorprende che, nell’approccio all’Africa, la Turchia si posizioni esplicitamente come modello e leader alternativo all’Occidente, tanto nella retorica scelta quanto nelle prassi seguite. Un modo di proporsi che, con sfumature diverse, è adottato con un certo successo anche da Mosca, Pechino e altri attori in cerca di spazio e alleati nel continente. Nel corso della stessa pandemia di Covid-19, le scelte e gli atteggiamenti europei nei confronti dell’Africa sono diventati un’opportunità per attaccare apertamente le discriminazioni e gli interessi occidentali e il loro gravare sul continente22. 

La leadership turca non perde quindi occasione di sottolineare agli interlocutori africani la propria diversità rispetto ai paesi con un passato di colonizzatori e una storia, o anche un presente, di sfruttamento delle risorse africane. La Turchia, così come proposta da Erdoğan di fronte al parlamento dell’Angola, è una “nazione che nella sua storia non ha la macchia e la vergogna del colonialismo”, ma una “vittoria contro potenze imperialiste”23. Ankara rifiuta “gli approcci orientalisti occidentalocentrici” e le discriminazioni nei confronti degli africani, a cui la legano relazioni di rispetto reciproco e fratellanza che vanno indietro di dieci secoli. Anche per questo predilige la non ingerenza negli affari interni dei partner africani, ai quali non cerca di imporre alcuna condizione o pressione come quelle legate al rispetto dei diritti umani, della democrazia o dello stato di diritto richiesto dagli occidentali. Più in generale, la Turchia combatte le “ingiustizie nel sistema globale”, denunciando i comportamenti ancora apertamente “coloniali” delle potenze occidentali in Africa, e chiede una profonda riforma dell’architettura di sicurezza internazionale, poiché “il mondo è più grande di cinque” (il riferimento è ai membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu)24. Non sono mancate le reazioni critiche a questo tipo di postura turca, accusata dal presidente francese Emmanuel Macron, ad esempio, di alimentare i risentimenti africani25. 

24 Ibidem. 

25 Marie Toulemonde, “How Erdoğan turned Turkey into a key player in Africa via economy, religion, arms…”, Africa Report, 8 June 2023. 

26 Ö. Yıldırım, “Turkey’s Maarif Foundation educating over 17,000 students in Africa”, Anadolu Agency, 18 ottobre 2021. 

La promozione di una specifica immagine e reputazione per la Turchia avviene anche attraverso un’ampia serie di strumenti e ambiti che vanno dagli aiuti allo sviluppo all’assistenza umanitaria, dalle iniziative nel campo della formazione e della religione islamica ai mezzi di informazione. 

Sul fronte degli aiuti allo sviluppo e dell’assistenza umanitaria, ad esempio, Ankara è divenuta un attore sempre più visibile tanto attraverso l’operato di istituzioni governative, quanto attraverso quello delle Ong che finanziano o gestiscono progetti di vario genere, dallo sviluppo agricolo alle strutture sanitarie, come ospedali e cliniche, a quelle educative, come scuole e madrase. L’agenzia per lo sviluppo turca, l’Agenzia turca per la cooperazione e il coordinamento (Tika), ha sedi in 22 paesi africani, e per meglio controllare e indirizzare gli aiuti allo sviluppo, la quota complessivamente instradata attraverso organismi internazionali è scesa drasticamente dal 60% nel 2003 al 2% nel 2019, segnalando una volontà di privilegiare interazioni bilaterali dirette. Anche in questo caso è osservabile chiaramente la predisposizione turca a stringere legami dapprima con i paesi della metà orientale del continente: 13 delle 22 sedi di Tika sono nei paesi ad est di una linea immaginaria che unisce Tunisi a Dar es Salaam in Tanzania (e appena oltre, alle isole Comore), senza lasciarne uno solo senza rappresentanza. Le rimanenti nove sono distribuite in maniera più disomogenea tra i restanti 41 stati. Degli interventi di assistenza umanitaria si occupa invece la Mezzaluna rossa turca (Türk Kizilay), attualmente impegnata in Somalia – dove l’organizzazione fu molto attiva già nella risposta alla drammatica carestia del 2011 – Etiopia, Sudan, Sud Sudan e Libia. 

Ugualmente significativi e sistematici sono stati gli sforzi in ambito di cultura e istruzione. La costruzione, grazie a finanziamenti turchi, della Moschea nazionale del Ghana, realizzata ad Accra in stile ottomano come replica della Moschea Blu di Istanbul e inaugurata nel 2021, ha avuto indubbio valore simbolico sul piano delle relazioni religiose. Ma in termini di ampiezza, gli interventi più consistenti sono di altro tipo. Da un lato, la presenza di 175 scuole in 25 paesi africani gestite dalla Maarif Foundation (Türkiye Maarif Vakfi) e frequentate da circa 17.000 studenti26. La fondazione è stata creata dal governo nel 2016 anche con lo scopo di trasferire ad Ankara il controllo delle numerose scuole aperte in parti diverse del mondo dal movimento gulenista (Hizmet), con il cui fondatore, Fethullah Gülen, Erdoğan aveva duramente rotto il precedente sodalizio. Dall’altro, borse di studio per accedere alla formazione in Turchia, una risorsa di cui hanno beneficiato circa 

60.000 giovani africani. In parallelo procede poi l’Istituto Emre Yunus, che promuove la conoscenza della lingua turca in Africa. 

L’ultimo fronte a cui si è dedicato il governo è quello dell’informazione, cruciale per veicolare l’immagine del paese ritenuta più giusta e utile. Ad Addis Abeba, capitale etiope e sede dell’UA, nel 2014 è stato aperto l’ufficio regionale africano dell’agenzia di stampa pubblica Anadolu Agency. L’obiettivo, per nulla nascosto, è di contrastare il predominio nell’informazione globale, dei grandi gruppi mediatici occidentali, inclusi Bbc, Cnn, France 24, Reuters e Afp, sia producendo contenuti sia formando i giornalisti africani, di concerto con le attività di media turchi con sede in altre grandi città dell’area subsahariana, come Dakar, Nairobi, Johannesburg, Cape Town, Khartoum e Abuja27. Stessa funzione assolve il canale di lingua inglese Trt World, lanciato nel 2015 dalla radiotelevisione statale Trt (Türkiye Radyo ve Televizyon) e affiancato, dal 2022, da un’emittente analoga in lingua francese (Trt Français) rivolta direttamente alle aree e popolazioni francofone del continente. 

6163.- Centralità del Mediterraneo, centralità dell’Italia e della Nato con gli occhi alla Turchia

L’Italia è “impegnata per la sicurezza del Mediterraneo, delle rotte del Mar Rosso e dell’Europa”. É il ponte che unisce l’Africa all’Europa. Anche la Turchia, impegnata nella regione Transcaucasica e nel Corno d’Africa, può contribuire alla sicurezza delle rotte che uniscono l’Asia al Mediterraneo. Sta alla Nato di favorire la cooperazione fra Italia e Turchia.

Così MedOr mette l’Italia e la Nato al centro del Mediterraneo

Da Formiche.net, di Lorenzo Piccioli, 14 marzo 2024

Alla kermesse che si è tenuta presso la sede del Centro Alti Studi per la Difesa, le dinamiche securitarie del Mediterraneo allargato vengono affrontate secondo i punti di vista nazionale, europeo e atlantista. Che devono essere integrati per dare una risposta efficace

14/03/2024

Che il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo fosse centrale non vi erano dubbi. Ma nel nuovo contesto di disordine internazionale, qual è il ruolo dell’Italia in un bacino che sta diventando sempre più turbolento, sia come attore statale a sé stante che come membro dell’Europa e della Nato? È questo il tema dell’evento “Italia, Europa, Nato e il Futuro del Mediteranneo” organizzato dalla Fondazione Med-Or e dal Centro Alti Studi della Difesa, la cui sede ha ospitato l’evento che si è svolto il 13 marzo. Ad animare il dibattito, introdotto dal presidente del Casd Amm. Giacinto Ottaviani e moderato dalla giornalista Monica Maggioni, il presidente della Fondazione Med-Or Marco Minniti, il rappresentante permanente della Repubblica Italiana presso la Nato Marco Peronaci, l’ambasciatore degli Stati Uniti presso la Repubblica Italiana Jack Markell, il Capo di Stato Maggiore della Difesa Giuseppe Cavo Dragone e il ministro della Difesa Guido Crosetto.

E proprio dalla centralità del Mediterraneo e dal suo disordine parte il ragionamento della tavola rotonda. “Si pensava che le grandi partite del pianeta si giocassero in altri mari, dal Pacifico all’Indiano, invece dobbiamo imparare che il Mediterraneo sarà sempre più centrale per gli equilibri del pianeta”, ha affermato durante il suo intervento Minniti, che ha suggerito la presenza di un filo rosso tra la guerra in Ucraina, il bacino mediterraneo e il conflitto in Medio Oriente, segnali di una crisi dell’ordine mondiale. “Se vogliamo costruire un percorso di pace in Ucraina come in Medioriente è naturale dover pensare a una ricostruzione di un nuovo ordine mondiale. E per farlo non possiamo non immaginare il coinvolgimento del sud del mondo”, ha proseguito il presidente di Med-Or, che ha indicato nell’Italia un punto di congiunzione tra il Mediterraneo e l’Europa intera elogiando il ruolo di guida assunto da Roma nella missione Aspides nel Mar Rosso, “una missione che è giusto che l’Unione europea abbia fatto”.

Nel Mar Rosso, è un imperativo per l’Italia e l’Europa prendere la difesa delle rotte commerciali così come delle infrastrutture strategiche, ha proseguito Peronaci riprendendo quanto detto da Minniti, e in particolare dei cavi sottomarini, “a cui bisogna prestare la massima attenzione, soprattutto nel contesto di una guerra ibrida”.

Il ruolo del Mediterraneo nel “connettere il mondo” viene riaffermato anche durante l’intervento dell’ambasciatore Markell, che ha ricordato come il esso rappresenti la priorità numero uno della politica estera italiana, non solo come attore statale ma come parte dell’Alleanza Atlantica, la quale “è impegnata per la sicurezza del Mediterraneo e dell’Europa”. Ed è anche grazie alle “security partnership” che la robustezza delle relazioni tra Stati Uniti e Italia è oggi più forte che mai, afferma l’ambasciatore, che ringrazia Roma per il suo “incrollabile sostegno”.

Sulle minacce che aleggiano sul Mediterraneo, e sulla necessità di prevenire che esso si trasformi in un’area di guerra ibrida, incentra il suo discorso Cavo Dragone. Il Capo di Stato maggiore della Difesa si è mostrato preoccupato dell’“arco di crisi che avvolge l’Europa. Dobbiamo evitare che le dinamiche pericolose si concretizzino in armi ibride puntate verso l’Italia e l’Europa”, ponendo in particolare l’accento sulla disinformazione, resa sempre più pericolosa dalle nuove tecnologie, che “è una minaccia invasiva che si sviluppa in maniera strutturata attraverso molteplicità di centri strategici e flussi finanziari rilevanti. Essa ha assunto una dimensione transnazionale, e questo richiede un’azione congiunta di Unione europea e Nato”.

“I prossimi due anni saranno i più bui dal dopoguerra ad oggi: non c’è mai stato un così grande caos nell’ordine mondiale”, ha detto il ministro della Difesa Crosetto, secondo cui negli ultimi decenni “abbiamo raccontato un mondo diverso da quello che viviamo oggi. Non è possibile garantire la sicurezza con le stesse regole e tempistiche di cinque anni fa: il mondo è cambiato”. Il ministro ha rimarcato come la Difesa abbia una incidenza totale nelle nostre vite, e che per la sua importanza cruciale essa andrebbe esonerata dal dibattito politico. “C’è del lavoro da fare a livello nazionale, anche di tipo culturale, bisogna spiegare che un investimento nella Difesa è un investimento per la sicurezza”. E ha lanciato l’apertura della Nato a nuovi partner: “Il valore numerico è importante e uno degli obbiettivi della Nato è di non farsi percepire come qualcosa che è contro tutto ciò che non è Nato, non solo in Africa ma anche in India o nell’America Latina”.

6162.- Macron di fronte ai francesi: domani guerra?

Boulevard Voltaire, Georges Michel, 14 mars 2024. Traduzione libera.

Cari francesi, armarsi costa, prima, in soldi e, poi, in vite umane. Preparatevi, intanto a far sprofondare ulteriormente la Francia nella spirale viziosa del debito. È il risultato – per ora -dell’accordo bilaterale di sicurezza recentemente concluso. firmato tra Francia e Ucraina. Macron è un altro che affida la propria sopravvivenza politica alle armi. E la Nato che dice? Già, c’è la Nato.

“Il Presidente riferirà sulla situazione in modo educativo”, ha riferito la stampa giovedì mattina. I francesi non sono bambini, ma ehi… In ogni caso, era giunto il momento che Emmanuel Macron si rivolgesse direttamente ai francesi dopo i suoi scatti guerrafondai delle ultime settimane e dopo che il Parlamento ha discusso e parlato questa settimana sull’accordo bilaterale di sicurezza recentemente concluso. firmato tra Francia e Ucraina. Un bel momento, soprattutto perché due terzi (68%) dei nostri connazionali ritengono che il Capo dello Stato abbia sbagliato ad assumere posizioni percepite come falchi, secondo un sondaggio Odoxa-Backbone Consulting realizzato a fine febbraio per Le Figaro.

Commenti che “hanno creato una forma di paura”, ha sottolineato un deputato del Rinascimento, secondo La Nouvelle République, che ha aggiunto: “Dobbiamo rassicurare, dire che stiamo facendo di tutto per evitare la guerra, che la Francia utilizza sempre i canali diplomatici e che non dobbiamo mai abbandonare l’Ucraina. » Così, questo giovedì sera, intervistato da Anne-Sophie Lapix e Gilles Bouleau, Emmanuel Macron ha voluto fare un po’ di pedagogia. Almeno all’inizio della sua intervista. “Sei seduto di fronte a me. Stai in piedi? NO. Escludi di alzarti alla fine del colloquio? Sicuramente non lo escluderai. » Riferimento alle sue recenti dichiarazioni secondo le quali non escluderebbe l’invio di truppe di terra in Ucraina. Il paragone è un po’ noioso, ma il Presidente sembra contento della sua scoperta. Ha rassicurato i francesi? Probabilmente no. È convinto che la Francia utilizzi ancora i canali diplomatici? Anche meno. Che non dovremmo mai abbandonare l’Ucraina? Sì, su questo punto il messaggio era chiaro.

Macron non si è sentito rassicurato.

Innanzitutto sulla situazione tattica sul terreno, laggiù, in prima linea: “La situazione è difficile”, riconosce il presidente. “Un eufemismo”, risponde Gilles Bouleau. Traduciamo: la situazione tattica è negativa per gli ucraini. Ma Macron va oltre ricordando che “la guerra è sul suolo europeo”, che “non è una finzione lontana da noi”. È ovvio che i francesi lo sanno ma probabilmente non vogliono crederci, bisogna ammetterlo. E così Macron non ha voluto rassicurare affermando che lì è in gioco la sicurezza dell’Europa, della Francia e dei francesi. “Guerra esistenziale per la Francia e l’Europa”, ha detto senza mezzi termini. Ha rassicurato sull’invio di soldati francesi in Ucraina? Nessuno dei due. “Forse ho ragione a non essere specifico. » Questa è la famosa “ambiguità strategica”. Non ne sapremo di più. Tuttavia, Le Monde ha rivelato, il 14 marzo, che Macron, il 21 febbraio, in un salotto dell’Eliseo, ha dichiarato “con aria chiara”: “In ogni caso, il prossimo anno dovrò mandare dei ragazzi a Odessa . » Affermazione formalmente smentita dal Palazzo il 14 marzo. Ambiguità strategica.

“Siamo pronti”, afferma…

Rassicurare che “le cose si stanno muovendo” cercando di dimenticare il feroce diniego ricevuto dagli alleati dopo il suo intervento alla conferenza a sostegno dell’Ucraina del 27 febbraio. Lo vedremo dopo l’incontro con Scholz il 15 marzo. Macron voleva rassicurarci sulle nostre capacità militari. Abbiamo un “modello di esercito completo”, ama sottolineare. Un modello che le persone scontente definiscono “campione”… E il capo delle forze armate ha menzionato il nostro recente impegno nel Sahel per dimostrare la nostra capacità operativa. Anche se Bouleau ribatte che non si trattava esattamente dello stesso tipo di nemico e di guerra di quella condotta in Ucraina, Macron mette da parte l’argomentazione. “Siamo pronti”, afferma. La Francia produce meno di cento obici al giorno, quanto consumano gli ucraini in pochi minuti? Cercheremo munizioni in tutto il mondo e accelereremo il ritmo. Tutto questo è costoso. All’Ucraina sono già stati dati 4,8 miliardi. Ne sono previste altre 3. Dovremo contrarre prestiti sui mercati internazionali? Non escluderlo. E per ricordare cosa abbiamo fatto durante il Covid (“a qualunque costo”?) per tenere a galla il Paese. Quindi, preparatevi a far sprofondare la Francia un po’ più a fondo nella spirale infernale del debito.

E la diplomazia in tutto questo? “Sono disposto a guidare le discussioni”, afferma Macron. Probabilmente non sarà lui a condurre queste discussioni il giorno in cui arriveranno… “Ma faccia a faccia quando non diciamo la verità…” aggiunge. Chiaramente, il tempo in cui la Francia si posizionava come una grande nazione diplomatica è finito.

6151.- Il Piano Mattei si chiamerà Mustafà Kemal Ataturk.

Mentre a Bruxelles e a Parigi qualche cerebroleso blatera di guerra, mentre gli italiani si stracciano le vesti per i poveracci di Gaza e la politica estera italiana si spende per l’Ucraina, per metà già acquistata dalle multinazionali USA, l’unico vero statista occidentale, Recep Tayyip Erdoğan, sta creando in Africa e nei Balcani un’area di influenza che gli consentirà di farci marciare dietro alla sua fanfara.

La Turchia allunga i suoi tentacoli sul Corno d’Africa

Da Pagine esteri, di Marco Santopadre, 23 Feb 2024

La Turchia allunga i suoi tentacoli sul Corno d’Africa

Pagine Esteri, 23 febbraio 2024 – Non sono soltanto gli Stati Uniti ad aver in parte approfittato dello scompiglio e dall’allarme suscitati nel Corno d’Africa dallarichiesta etiope di uno sbocco al mare, perso all’inizio degli anni ’90 con l’indipendenza dell’Eritrea.

Anche la Turchia, uno dei paesi più influenti nel continente africano, sta rafforzando la sua presenza militare nel Corno d’Africa offrendosi come alleato militare e garante dei confini e dello status della Somalia e di Gibuti.

L’accordo tra Etiopia e Somaliland genera allarme 
I due paesi hanno reagito con estrema preoccupazione all’intesa siglata a gennaio tra il governo di Addis Abeba e quello del Somaliland, uno stato somalo che da decenni è di fatto indipendente da Mogadiscio, che consente lo sfruttamento di un porto e di una base militare sulle coste del Golfo di Aden.

In base all’accordo, all’Etiopia verranno concessi 20 km di costa del Somaliland per almeno 50 anni e la costruzione di una base militare, in cambio della concessione ad Hargheisa di una quota della compagnia di bandiera etiope Ethiopian Airlines e del riconoscimento, da parte di Addis Abeba, dell’indipendenza del Somaliland.

Con Gibuti e Somalia, negli ultimi giorni, Ankara ha siglato due importanti accordi di cooperazione militare, schierandosi esplicitamente contro le rivendicazioni etiopi e ottenendo così un ruolo di maggiore spicco nel controllo del Mar Rosso.

Anche l’Egitto si è immediatamente schierato al fianco della Somalia, considerando nullo l’accordo tra Somaliland ed Etiopia (paese con cui il Cairo ha un contenzioso sullo sfruttamento delle acque del Nilo) e respingendo ogni «ingerenza negli affari interni della Somalia» e qualsiasi tentativo «di minare la sua integrità territoriale».

Truppe somale addestrate in Turchia

La Turchia sfrutta la debolezza della Somalia
Nei giorni scorsi, quasi all’unanimità, il parlamento federale della Somalia ha ratificato un accordo di difesa e sicurezza sottoscritto dal governo di Mogadiscio con la Turchia l’8 febbraio. Formalmente il documento mira a «rafforzare le relazioni bilaterali e la stabilità della regione, nonché a combattere il terrorismo e la pesca illegale». «La Somalia avrà ora un vero alleato, un amico e un fratello sulla scena internazionale» ha commentato con toni trionfalistici il primo ministro somalo Hamza Abdi Barre.

In base all’accordo, che avrà una durata di dieci anni, la Turchia fornirà addestramento e attrezzature alla Marina somala – al momento quasi inesistente – per consentire a Mogadiscio di proteggere le sue risorse marine e le acque territoriali da minacce come il terrorismo, la pirateria e le “interferenze straniere”. In cambio la Turchia riceverà il 30% delle entrate provenienti dalla Zona economica esclusiva somala, nota per le sue abbondanti risorse marine, e Ankara avrà un’autorità completa sulla gestione e sulla difesa delle acque della Somalia.

Già nel 2016 Somalia e Turchia avevano firmato un memorandum d’intesa sulla cooperazione energetica e mineraria poco dopo l’autorizzazione concessa da Mogadiscio alle compagnie turche ad effettuare operazioni di perforazione ed esplorazione petrolifera al largo delle sue coste. Nel 2017, poi, la Turchia ha aperto un’importante struttura militare di addestramento a Mogadiscio, Camp Turksom, dove ogni anno 200 consiglieri militari turchi addestrano ogni anno centinaia di soldati somali impegnati nel contrasto alle milizie jihadiste.

Il nuovo accordo consentirà ora alla Turchia, la cui la marina già pattuglia da quattordici anni il Golfo di Aden, di schierare le proprie navi da guerra in uno dei quadranti geopolitici più importanti del pianeta.

Gibuti non vuol perdere il monopolio del commercio etiope
E ora, dopo la Somalia, anche il piccolo ma strategico stato di Gibuti ha deciso di serrare i ranghi della cooperazione militare con la Turchia. Nel corso di una cerimonia che si è svolta lunedì ad Ankara, il ministro della Difesa turco, Yasar Guler, e l’omologo gibutino Hassan Omar Mohamed hanno firmato tre accordi relativi all’addestramento militare e alla cooperazione finanziaria. All’incontro ha partecipato anche il comandante delle forze terrestri turche, generale Selcuk Bayraktaroglu.

Nel giugno del 2022, il governo di Erdogan ha già consegnato a Gibuti droni armati Bayraktar TB2. Con una popolazione di meno di un milione di abitanti, il piccolo Paese del Corno d’Africa è un partner strategico per Ankara nel Corno d’Africa, grazie alla sua posizione lungo il Golfo di Aden e il Mar Rosso, vitali per il commercio e la sicurezza globali.

Finora dai porti di Gibuti passa l’85% dell’import/export dell’Etiopia, ma se Addis Abeba ottenesse effettivamente uno sbocco sul mare le merci provenienti o dirette in Etiopia passerebbero dal porto di Barbera, in Somaliland, causando un forte danno economico al piccolo stato. Pagine Esteri

6148.- Washington è disposta a scatenare una guerra nucleare, ma se i bersagli sono in Europa.

L’avvertimento di Putin di una risposta nucleare alla entrata diretta in guerra della NATO a fianco dell’Ucraina è esplicito.

Di Sabino Paciolla, 6 Marzo 2024

Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog l’articolo scritto da Melkulangara Bhadrakumar un diplomatico indiano con esperienza trentennale, di cui la metà passata in paesi come la Russia. L’articolo è pubblicato sul blog di Bhadrakumar. Visitate il sito e valutate liberamente le varie opzioni offerte e le eventuali richieste. Ecco l’articolo nella mia traduzione. 

Valdimir Putin, presidente della Russia
Valdimir Putin, presidente della Russia

Lo spettro dell’Armageddon è stato evocato abbastanza spesso durante i due anni di guerra in Ucraina, tanto che il riferimento ad esso nel discorso sullo stato dell’Unione pronunciato giovedì dal presidente russo Vladimir Putin ha avuto un suono familiare. Qui si annida il rischio di un’errata valutazione da parte del pubblico occidentale, secondo cui Putin avrebbe solo “gridato al lupo”.

Tre cose devono essere notate all’inizio. In primo luogo, Putin è stato esplicito e diretto. Sta avvisando in anticipo che è obbligato a rispondere con la capacità nucleare se la statualità russa è minacciata. Rifuggendo da allusioni o da oscuri accenni, Putin ha fatto una dichiarazione cupa e di portata epocale.

In secondo luogo, Putin si è rivolto all’Assemblea Federale di fronte alla crème de la crème dell’élite russa e ha fatto capire all’intera nazione che il Paese potrebbe essere spinto a una guerra nucleare per la sua autoconservazione.

In terzo luogo, si sta delineando un contesto specifico determinato da statisti occidentali avventati e impetuosi che cercano disperatamente di evitare un’imminente sconfitta nella guerra, che hanno iniziato in prima istanza, con l’intenzione dichiarata di distruggere l’economia russa, creare instabilità sociale e politica che avrebbe portato a un cambio di regime al Cremlino.

In realtà, la prognosi del Segretario degli Stati Uniti Lloyd Austin, pronunciata giovedì durante un’udienza del Congresso a Washington, secondo cui “la NATO si troverà a combattere con la Russia” in caso di sconfitta dell’Ucraina, è la manifestazione di una situazione difficile che l’Amministrazione Biden si trova ad affrontare dopo aver condotto l’Europa sull’orlo di un’abissale sconfitta in Ucraina, generando gravi incertezze sulla sua ripresa economica e sulla deindustrializzazione a causa del contraccolpo delle sanzioni contro la Russia.

In parole povere, Austin voleva dire che se l’Ucraina perde, la NATO dovrà andare contro la Russia, perché altrimenti la credibilità futura del sistema di alleanze occidentali sarà in pericolo. È un appello all’Europa affinché si mobiliti per una guerra continentale.

Anche le dichiarazioni del Presidente francese Emmanuel Macron di lunedì della scorsa settimana sono state un’articolazione di questa stessa mentalità, quando ha scatenato una tempesta accennando alla possibilità di inviare truppe di terra in aiuto di Kiev.

Citando Macron, “Oggi non c’è consenso sull’invio ufficiale di truppe di terra, ma… nulla è escluso. Faremo tutto il necessario per garantire che la Russia non possa vincere questa guerra. La sconfitta della Russia è indispensabile per la sicurezza e la stabilità dell’Europa”.

Macron ha parlato dopo un vertice di 20 Paesi europei a Parigi, dove un “documento riservato” in discussione aveva lasciato intendere “che alcuni Stati membri della NATO e dell’UE stavano considerando l’invio di truppe in Ucraina su base bilaterale”, secondo il primo ministro slovacco Robert Fico.

Fico ha detto che il documento “fa venire i brividi”, in quanto implicava che “alcuni Stati membri della NATO e dell’UE stanno considerando di inviare truppe in Ucraina su base bilaterale”.

La rivelazione di Fico non sarebbe stata una sorpresa per Mosca, che ha ora reso di dominio pubblico la trascrizione di una conversazione confidenziale tra due generali tedeschi, avvenuta il 19 febbraio scorso, in cui si discuteva dello scenario di un potenziale attacco al ponte di Crimea con missili Taurus e di un possibile dispiegamento di truppe da parte di Berlino in Ucraina, a dispetto di tutte le smentite pubbliche del Cancelliere Olaf Scholz.

Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha definito la trascrizione “una rivelazione sconvolgente”. È interessante notare che la trascrizione rivela che i militari americani e britannici sono già dispiegati in Ucraina – cosa che Mosca sostiene da mesi – e anche altri dettagli.

Questo è il momento della verità per la Russia. Dopo aver imparato a convivere con il costante aggiornamento degli armamenti occidentali forniti all’Ucraina, che ora includono missili Patriot e jet da combattimento F-16, dopo aver segnalato invano che qualsiasi attacco alla Crimea o qualsiasi attacco al territorio russo sarebbe stato considerato una linea rossa; dopo aver evitato con delicatezza la partecipazione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna alle operazioni per riportare la guerra in territorio russo – la bellicosa dichiarazione di Macron della scorsa settimana è stata la proverbiale ultima goccia per il Cremlino. Essa prevede l’invio di truppe occidentali per combattere e uccidere i soldati russi e conquistare territori per conto di Kiev.

Nel discorso di giovedì, quasi interamente dedicato a una road map estremamente ambiziosa e lungimirante per affrontare le questioni sociali ed economiche nell’ambito della nuova normalità che la Russia ha raggiunto anche in condizioni di sanzioni occidentali, Putin ha lanciato un avvertimento all’intero Occidente mettendo sul tavolo le armi nucleari.

Putin ha sottolineato che qualsiasi (ulteriore) superamento delle regole di base non scritte sarà inaccettabile: finché gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO forniranno assistenza militare all’Ucraina ma non attaccheranno il suolo russo e non si impegneranno direttamente in combattimenti, la Russia si limiterà a usare armi convenzionali.

In sostanza, l’essenza delle osservazioni di Putin sta nel rifiuto di accettare un destino esistenziale per la Russia organizzato dall’Occidente. Il ragionamento che sta alla base non è difficile da comprendere. In parole povere, la Russia non permetterà alcun tentativo da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati di rimodellare la situazione sul campo, intervenendo in prima linea con personale militare della NATO supportato da armamenti avanzati e capacità satellitari.

Putin ha messo la palla nel campo occidentale per decidere se la NATO rischierà un confronto nucleare, che ovviamente non è una scelta della Russia.

Il contesto in cui si sta svolgendo tutto questo è stato inquadrato in modo pittoresco dal leader di un Paese della NATO, il primo ministro ungherese Viktor Orban, che nel fine settimana, rivolgendosi a un forum di diplomatici di alto livello ad Antalya, sulla Riviera turca, ha sottolineato che “gli europei, insieme agli ucraini, stanno perdendo la guerra e non hanno idea di come trovare una via d’uscita da questa situazione”.

Orban ha dichiarato: “Noi europei siamo ora in una posizione difficile”, aggiungendo che i Paesi europei hanno preso il conflitto in Ucraina “come una loro guerra” e si sono resi conto tardivamente che il tempo non è dalla parte dell’Ucraina. “Il tempo è dalla parte della Russia. Per questo è necessario fermare immediatamente le ostilità”.

“Se pensate che questa sia la vostra guerra, ma il nemico è più forte di voi e ha dei vantaggi sul campo di battaglia, in questo caso siete nel campo dei perdenti e non sarà facile trovare una via d’uscita da questa situazione. Ora, noi europei, insieme agli ucraini, stiamo perdendo la guerra e non abbiamo idea di come trovare una via d’uscita da questa situazione, una via d’uscita da questo conflitto. È un problema molto serio”, ha detto Orban.

Questo è il nocciolo della questione. In queste circostanze, il punto cruciale è che sarà una speciosità catastrofica da parte della leadership e dell’opinione pubblica occidentale non cogliere la piena portata del severo avvertimento di Putin, secondo cui Mosca intende ciò che ha detto, ossia che considererà qualsiasi dispiegamento di forze occidentali in Ucraina da parte dei Paesi della NATO come un atto di guerra.

Certo, se la Russia dovesse rischiare una sconfitta militare in Ucraina per mano delle forze NATO in fase di dispiegamento, e le regioni del Donbass e della Novorossiya rischiassero di essere nuovamente sottomesse, ciò minaccerebbe la stabilità e l’integrità dello Stato russo – e metterebbe in discussione la legittimità della stessa leadership del Cremlino – e la questione dell’uso delle armi nucleari potrebbe diventare più aperta.

Per ribadire il concetto, Putin ha passato in rassegna l’inventario russo che rafforza la sua superiorità nucleare odierna, che gli Stati Uniti non possono assolutamente eguagliare. E ha ulteriormente de-classificato alcune informazioni top-secret: “Gli sforzi per sviluppare diversi altri nuovi sistemi d’arma continuano, e ci aspettiamo di sentire ancora di più sui risultati ottenuti dai nostri ricercatori e produttori di armi”.

Melkulangara Bhadrakumar

6143.- Hamas annuncia la morte di 7 ostaggi ‘in un raid di Israele’

L’Ue condanna la strage a Gaza. Borrell: “Carneficina inaccettabile”. Parigi chiede un’inchiesta indipendente.

BRUXELLES, 02 marzo 2024, Redazione ANSA

Hamas annuncia la morte di 7 ostaggi  'in raid di Israele ' -     RIPRODUZIONE RISERVATA

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Hamas ha annunciato su Telegram la morte di 7 ostaggi israeliani “in seguito a un bombardamento sionista”, rendendo noti per ora i nomi di tre dei sette: Haim Gershon Perri, Yoram Itach Metzger e Amiram Israel Cooper.

Hamas ha aggiunto che farà sapere i nomi degli altri quattro “dopo aver avuto conferma delle loro identità”. La fazione islamica ha poi detto che “il numero dei prigionieri nemici che sono stati uccisi come risultato delle operazioni militari dell’esercito nemico nella Striscia può superare i settanta”. 

L’Ue ha condannato intanto la strage avvenuta ieri a Gaza, dove 112 palestinesi sono morti e altri 760 sono rimasti feriti, quando una folla si è precipitata verso un convoglio di aiuti alimentari. Divergenti le due versioni: Hamas sostiene che l’esercito israeliano ha aperto il fuoco sulle persone, mentre Israele riconosce un “tiro limitato” da parte dei soldati che si sono sentiti “minacciati”.

“Privare le persone degli aiuti umanitari costituisce una grave violazione” del diritto umanitario internazionale, ha affermato Borrell. “Deve essere garantito l’accesso umanitario senza ostacoli a Gaza”, ha aggiunto il capo della diplomazia europea.

La presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen di dice “profondamente turbata dalle immagini provenienti da Gaza. Occorre fare ogni sforzo per indagare sull’accaduto e garantire la trasparenza. Gli aiuti umanitari sono un’ancora di salvezza per chi ne ha bisogno e l’accesso ad essi deve essere garantito. Siamo al fianco dei civili, sollecitiamo la loro protezione in linea con il diritto internazionale”, scrive su X.

“Sconvolto e disgustato dall’uccisione di civili innocenti. Il diritto internazionale non ammette doppi standard. Dovrebbe essere avviata immediatamente un’indagine indipendente e i responsabili ritenuti responsabili. È urgentemente necessario un cessate il fuoco per consentire gli aiuti umanitari forniti da agenzie specializzate adeguatamente finanziate come l’Unrwa per raggiungere i civili”. Lo dichiara su X il presidente del Consiglio europeo Charles Michel.

Parigi chiede “un’inchiesta indipendente”. “Un cessate il fuoco va immediatamente istituito per consentire la distribuzione dell’aiuto umanitario”, scrive il presidente francese, Emmanuel Macron, su X. Macron ha espresso “profonda indignazione. Esprimo la mia più forte condanna per queste sparatorie e chiedo verità, giustizia e rispetto del diritto internazionale”.

Il capo della diplomazia europea Josep Borrell sempre ieri sera su X aveva denunciato “una nuova carneficina” e vittime “totalmente inaccettabili”. “Sono inorridito dalle notizie di ulteriori massacri tra i civili di Gaza che erano alla disperata ricerca di aiuti umanitari”, si legge nel post. “Queste morti sono completamente inaccettabili”, ha detto l’alto rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, aggiungendo: “Privare le persone degli aiuti umanitari costituisce una grave violazione” del diritto umanitario internazionale. “Deve essere garantito l’accesso umanitario senza ostacoli a Gaza”.

VideoGaza, Israele mostra un video con l’assalto della folla ai camion di aiutihttps://www.ansa.it/sito/video/incorporaVideo.html?video=//vs.ansa.it/sito/video_mp4_export/m20240229154828299.mp4&photo=https://www.ansa.it/webimages/img_621x414/2024/2/29/0d77382c5a3907bebc471e40b9a51bca.jpg&title=TITLE

Israele ha liberato la scorsa notte a sorpresa circa 50 detenuti palestinesi che erano stati arrestati dopo il 7 ottobre. I media citano un comunicato dello Shin Bet (sicurezza interna) e dell’esercito secondo cui la decisione è giunta in seguito ad un sovraffollamento nelle carceri. Ma il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir ha scritto su X che in realtà quelle scarcerazioni sono state decise dallo Shin Bet come gesto di distensione in vista del Ramadan. Una mossa a suo parere errata, ha aggiunto, essendo avvenuta ”nel giorno in cui due ebrei sono stati uccisi in un attentato” in Cisgiordania.

Negli ultimi 10 giorni le forze israeliane impegnate a Gaza hanno ucciso ”450 terroristi di Hamas”: lo ha affermato il portavoce militare israeliano Daniel Hagari. ”Dall’inizio della guerra – ha aggiunto – abbiamo eliminato oltre 13 mila terroristi”. Il portavoce ha aggiunto che l’esercito ha ”smantellato le strutture militari” della ‘Brigata Khan Yunis’ di Hamas (nel sud della Striscia) e che sta completando l’opera nei vicini rioni di Amal ed Abassan. Nel nord della Striscia, ha aggiunto, le forze israeliane operano nel campo profughi Shati e nel rione Zeitun di Gaza City ”sulla base di nuove informazioni di intelligence”.

‘Usa forniranno aiuti a Gaza con lanci da aerei militari’

Gli Stati Uniti dovrebbero iniziare a consegnare aiuti a Gaza tramite lanci da aerei militari. Lo riporta il Wall Street Journal citando alcune fonti, secondo le quali il Pentagono dovrebbe iniziare la campagna umanitaria nei prossimi giorni. La Casa Bianca dovrebbe annunciare l’iniziativa a breve.

Tajani, cessi il massacro di palestinesi, liberare gli ostaggi

“La posizione dell’Italia ieri è stata molto chiara: siamo angosciati, preoccupati e condanniamo ogni violenza contro la popolazione civile, israeliana e palestinese. Con grande fermezza chiediamo la liberazione degli ostaggi e che cessi il massacro dei civili palestinesi. Siamo favorevoli a un cessate il fuoco per portare aiuti umanitari in quantità tali da non provocare ciò che è accaduto ieri” e “abbiamo chiesto a Israele di fare un’inchiesta rigorosa su ciò che è accaduto per accertare ogni responsabilità”. Lo ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani in conferenza stampa alla Farnesina.

Per gli aiuti umanitari “intendo riunire i rappresentanti di organizzazioni quali Croce Rossa, Fao, Mezzaluna rossa per vedere di poter coordinare iniziative umanitarie a favore della popolazione palestinese” e “proseguire quell’azione a sostegno dei bambini che possono essere curati nel nostro Paese”, ha sottolineato il ministro.

In un’intervista al QN, Tajani aveva chiesto di “convincere Israele e Hamas a un cessate il fuoco immediato per permettere l’arrivo degli aiuti umanitari, la liberazione degli ostaggi”.  “Chiediamo al governo Netanyahu di accertare ciò che è successo in queste ore e di proteggere i civili – prosegue – Contemporaneamente, pensiamo di aiutare i palestinesi con un miglior coordinamento degli aiuti da inviare a Gaza delle organizzazioni umanitarie: dalla Croce rossa alla Fao”.

Gli Usa bloccano all’Onu il testo di condanna per strage a Gaza

Gli Stati Uniti hanno bloccato nella notte, nella riunione del consiglio di sicurezza dell’Onu, una dichiarazione di condanna della strage sulla folla in attesa di aiuti ieri a Gaza. Gli Usa, secondo fonti diplomatiche, si sono opposti al fatto che Israele venga citata ma le discussioni continueranno. In un testo visionato dall’AFP, l’Algeria ha presentato al Consiglio di Sicurezza una bozza di dichiarazione che esprime la “profonda preoccupazione” dei suoi 15 membri, sottolineando la responsabilità delle “forze israeliane (che) hanno aperto il fuoco”. “Quattordici membri hanno sostenuto questo testo”, ha assicurato l’osservatore permanente della Palestina all’Onu Riyad Mansour dopo la riunione. “Le parti stanno lavorando sulla formulazione per vedere se possiamo raggiungere una dichiarazione”, ha detto il vice ambasciatore statunitense Robert Wood, riferendosi alla possibilità di un accordo in una data successiva.

“Il problema è che non abbiamo tutti i fatti”, ha aggiunto affermando di voler trovare una formulazione che garantisca che “sono state fatte le necessarie verifiche di colpevolezza”. Il Segretario generale delle Nazioni Unite si è detto “scioccato” da questi eventi, che ha condannato, e ha chiesto una “efficace inchiesta indipendente” per identificare i responsabili. “La situazione umanitaria della popolazione civile di Gaza peggiora di giorno in giorno. Siamo di fronte a una catastrofe senza precedenti”, ha commentato l’ambasciatore francese Nicolas de Rivière. “Non è la prima volta che lo dico: il Consiglio di Sicurezza deve assumersi tutte le sue responsabilità”, ha aggiunto, chiedendo ancora una volta un “immediato cessate il fuoco umanitario”.

La Cina condanna ‘fermamente’ la morte dei civili a Gaza

La Cina ha dichiarato di “condannare fermamente” l’uccisione di decine di palestinesi durante una consegna di aiuti nel nord della Striscia di Gaza. “La Cina è scioccata da questo incidente e lo condanna con forza”, ha dichiarato la portavoce del ministero degli Esteri Mao Ning. “Esprimiamo il nostro dolore per le vittime e la nostra solidarietà per i feriti”.