5677.- Vi spiego le colpe di Occidente e Russia nel caos Kosovo

Aggiornato 6 giugno

Ricordiamo bene la diaspora dei serbi kosovari, le distruzioni dei bombardamenti, le mine, i morti di ogni età e ovunque, l’arrivo dei nuovi padroni dall’Albania. Vogliamo aggiungere qualcosa di vissuto a questa analisi puntuale di Carlo Jean. Forse, oggi, è possibile parlare di una “manina” russa, ma, ieri, l‘intervento russo si limitò a onorare l’alleanza con la Serbia e la “manaccia” parlava americano. A Pristina, c’è addirittura una statua di Bill Clinton. Inoltre, l’Albania, sia pure soltanto di nome, è un paese islamico e la Serbia è ortodossa, come la Grecia che ci costrinse ad attraversarla di notte, per non essere visti dalla popolazione. A 12 chilometri a sud dalla città di Peć, a Visoki Dečani, c’è il grande monastero della Chiesa ortodossa serba in Kosovo guardato a vista dai Leopard italiani. All’interno, si conservano i cimeli della battaglia del Kosovo tra serbi e turchi. Dobbiamo molto ai serbi.

Anzitutto, una premessa: I popoli dei Balcani non sono radicati nei loro territori come noi e quando ne occupano uno fanno la pulizia etnica, ad evitare rigurgiti. Mi spiegarono così le teste dei bambini serbi sfasciate sui muri, le colonne di auto bruciate con sopra le masserizie e dentro le famiglie fuggiasche e con i corvi a centinaia che inzuppavano il becco negli occhi dei morti. Ovunque, morti e odore di morte. Tutto questo avvenne sotto l’egida e per volontà della Nato perché, allora, il leader degli albanesi Ibrahim Rugova chiedeva soltanto l’autonomia. I media furono, ieri come oggi, ligi al comando. Ci raccontarono di un villaggio dove l’esercito serbo era entrato facendo molti morti, ma non dissero che il giorno avanti i ribelli albanesi erano entrati nel liceo falciando i ragazzi. Ecco perché la Nato bombardò Belgrado nel 1999. Funziona così.

Repetita iuvant. Dal n. 5665:

“Era il 1998 e, a Tirana, si offriva la nostra consulenza al governo albanese di Phatos Nano, comunista. C’erano in ballo più cose, dalla difesa all’ordine pubblico e, per me, sopratutto, l’assetto della difesa aerea e del traffico aereo in Albania. La fiducia ottenuta mi consentì di assistere alle spedizioni di armi, in partenza al sabato sera verso il Nord, il Kossovo, per armare la popolazione albanese.

Il Kossovo è serbo. Al tempo, tuttavia, gli albanesi kosovari, prolifici, avevano superato per numero l’etnia serba, ma non si parlava di indipendenza. Fu così che un sabato sera, alla periferia di Tirana, assistetti al carico dei  Kalašnikov, ma a dirigere le operazioni c’erano due miei amici americani, esperti di agricoltura, che tutto sapevano, rispettivamente della cisterna volante KC-135 e dell’elicottero da attacco. A cena ci raccontavamo le nostre esperienze e giuro che sapevano di agricoltura quanto io di astronavi. Il legame che unisce la Russia alla Serbia è ben noto. Due considerazioni: La sostituzione etnica dei serbi ha funzionato in Kossovo con un referendum perché la Nato lo ha voluto. Non devono funzionare i referendum dei russofoni della Crimea e del Donbass perché la Nato non lo vuole.

Quelli che, oggi, chiamiamo Kossovari sono in buona parte gli albanesi diseredati che vedemmo risalire in colonne umane dall’Albania per occupare le case, le terre, le aziende dei serbi in fuga sotto le bombe della NATO, quindi, anche italiane, Mattarella, ministro della Difesa e D’Alema presidente del Consiglio regnanti. Le televisioni, invertendo la bussola, li spacciavano per albanesi in fuga dall’esercito serbo e diretti a Sud. Proprio il contrario.

L’Aeronautica doveva costruire un aeroporto per la Brigata Multinazionale West e lo facemmo, poi, in 52 giorni. Le immagini del satellite facevano strada alla ricerca del sito, ma non volevamo terreni di privati. Ero andato, così, diverse volte, anche da solo, in esplorazione durante la guerra. Cercando dove fare base, a una curva mi apparvero due cadaveri gonfi, sembravano due cavalli, ma erano due serbi, marito e moglie. Lei con i piedi mozzati, per far godere il porco e lui legato con il filo spinato e, poi, mitragliato. “Sei stato tu?” chiesi in albanese al porco, nuovo proprietario, che si faceva avanti …” L’ultima volta, non più in guerra, fu un incubo: Strade vuote, percorse dal vento: qualche cane, un branco di cavalli spaesati, non un’anima! Un ristorante bruciato fumava ancorafinché un giorno apparvero i primi due carri della brigata Ariete, uno in guardia, l’altro in retroguardia. Era finita.

Oggi, siamo davanti a un’altra guerra ibrida in stile Ucraina e in Europa. I serbi sono rimasti solo nel Nord e sono quelli che, oggi, a ragione, protestano per il sindaco albanese. Che quella decina di comuni del Kosovo, abitati da serbi abbiano diritto a non avere un sindaco albanese è sicuro. Restituiamo almeno quei comuni alla Serbia e pace sia.

  • 5 Giugno 2023
Kosovo

di Carlo Jean. Da Start Magazine

L’Occidente ha contribuito all’instabilità attuale nei Balcani. Ma dietro al caos in Kosovo potrebbe esserci la “manina” della Russia. L’analisi del generale Carlo Jean

La situazione in tutti i Balcani Occidentali rimane caratterizzata da una notevole instabilità e un potenziale dello scoppio di nuovi conflitti, derivata dall’indisponibilità delle popolazioni di convivere in Stati multietnici. I gruppi etnici minoritari non accettano di essere dominati da quelli maggioritari. Questi ultimi vogliono dominare. Non riconoscono un livello di autonomia dei primi, simile a quello previsto nell’Alto Adige dagli accordi De Gasperi-Gruber. Le due aree “calde” in cui “covano” nuovi conflitti etnico-religiosi contro le istituzioni unitarie imposte dall’Occidente sono la Republika Srpska – “Entità” della Bosnia-Erzegovina (BiH) con la Federazione Croato-Musulmana – e il Kosovo, in cui la popolazione serba (5-10% del totale), concentrata nel Nord del paese, è maggioritaria in una decina di comuni.

LE RESPONSABILITÀ DELL’OCCIDENTE

Nei due paesi, l’Occidente non ha permesso che la guerra facesse il suo mestiere, cioè creasse una nuova situazione di pace e stabilità, come avvenuto nella Krajina di Knin, da cui la popolazione serba fu cacciata dai croati. In quella zona non esistono problemi. Nella Federazione croato-musulmana, la convivenza è facilitata dal fatto che essa è divisa in 10 “Cantoni” sostanzialmente monoetnici, dotati di ampia autonomia e uniti anche dalla comune ostilità verso i serbi.

L’instabilità attuale è derivata dal fatto che l’Occidente, dominante dopo la fine della guerra fredda, ha voluto imporre i suoi valori – democrazia, rispetto delle minoranze, ecc. Tale impostazione ideologica caratterizzò la politica di Clinton, chiaramente ispirata alle tesi di Fukuyama sulla “fine della storia”. Il pragmatismo di Lord Carrington e dell’Amb. Cuteleiro, alla base della loro proposta del 1992 di “cantonizzazione etnica” della BiH, fu rigettato addirittura con orrore. Avrebbe comportato modifiche dei confini e trasferimenti semi-forzati di popolazioni. Agirono anche altri fattori quali la volontà di punire Belgrado per i suoi eccessi di violenza e per i suoi stretti legami storici con la Russia, nonché di rafforzare i legami con la Turchia, in cui le forze filo-occidentali stavano perdendo la maggioranza rispetto a quelle islamiche. I turchi chiedevano di vendicare i massacri dei musulmani bosniaci e kosovari nelle terre che erano state “la perla” dell’Impero Ottomano (la Bosnia gli aveva fornito un gran numero di amministratori e l’Albania di militari). Le richieste erano sostenute dalla lobby balcanica, costituita dai milioni di discendenti di rifugiati dai Balcani fuggiti in Turchia a seguito delle sconfitte ottomane.

USA E GERMANIA CONTRO LA SERBIA

L’avversione per la Serbia, ritenuta la sola responsabile del caos nei Balcani, era forte soprattutto negli USA, ma anche in Germania, che favorì Slovenia e Croazia per la secessione da Belgrado. Tale orientamento anti-serbo raggiunse livelli semi-isterici nel SACEUR (gen. USA Clark). Egli dette l’ordine al comandante della KFOR che stava iniziando a schierarsi nel Kosovo, di bloccare anche con la forza il reparto russo che si dirigeva a tappe forzate su Pristina. Fortunatamente, l’allora comandante della KFOR – il gen. britannico Michael Jackson – rifiutò di obbedirlo, evitando l’inasprimento della crisi con Mosca (che comunque per protesta contro l’attacco NATO alla Serbia abbandonò platealmente nel maggio 1999 il Summit dell’OSCE a Istanbul).

La NATO, con la sua forza d’interposizione KFOR, opera in Kosovo nel quadro della UNMIK (Missione dell’ONU) per l’amministrazione transitoria del Kosovo, creata dalla Risoluzione ONU 1244 del 1999. Dovrebbe coordinare – oltre che la KFOR – anche la missione UE, incaricata della ricostruzione e dello sviluppo, e quella dell’OSCE, responsabile della sicurezza interna e del controllo degli armamenti. Come già avvenuto in BIH, l’ONU ha sin dall’inizio dimostrato la sua inefficacia.

Ciascuna organizzazione agisce di testa sua. Con la dichiarazione unilaterale dell’indipendenza kosovara, le cose si sono ulteriormente complicate. Nessuno dispone dei poteri e, soprattutto, della volontà di far fronte ai nazionalismi dei due gruppi etnici, sempre più radicalizzati.

COSA C’ENTRA LA RUSSIA

L’aggressione russa all’Ucraina ha ravvivato il radicalismo – specie quello serbo – sia in BiH sia in Kosovo. Mosca li fomenta, anche per distrarre l’Occidente dal sostegno a Kiev, creando nuovi problemi. Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, si è più volte incontrato con Putin, per chiederne il sostegno per una maggiore autonomia da Sarajevo, se non per l’annessione a Belgrado della sua Entità. Nell’ultimo incontro, avvenuto all’inizio dello scorso maggio ne ha ricevuto ampi incoraggiamenti, oltre che denaro e armi.

Mosca ha fornito a Belgrado larghi sconti sulle forniture energetiche e anche armi moderne, specie controaeree. Assieme alla Cina ha sostenuto le ragioni della minoranza serba in BiH e Kosovo e di Belgrado nelle loro proteste per le provocazioni da parte del governo di Pristina, in particolare per il divieto di immatricolare con targhe serbe le automobili dei serbi kosovari e poi per l’elezione di sindaci di etnia albanese nei comuni a maggioranza serba. I serbi-kosovari vorrebbero che le elezioni fossero annullate, fatto che il governo di Pristina non può accettare. Per impedire che i kosovari-albanesi eletti sindaci (con il 3% degli aventi diritto al voto) nelle città a maggioranza serba di insediarsi nelle sedi comunali. Sono scoppiati violenti disordini in cui sono state coinvolte anche unità della KFOR, che hanno avuto decine di feriti. Sembra – ma la cosa non è verificata, anche se non è inverosimile – che ad esse abbiano partecipato anche nazionalisti serbi, in particolare le tifoserie calcistiche, già protagoniste di molti massacri in BiH. Taluni sostengono che siano stati presenti anche mercenari russi del Gruppo Wagner, utilizzati in vari casi dal Cremlino per interventi di cui intende negare il coinvolgimento. Si tratta di ipotesi non provate.

LA PROBABILE “MANINA” DEL CREMLINO DIETRO ALL’INSTABILITÀ NEL KOSOVO

Che ci possa essere la “manina”, almeno incoraggiante del Cremlino mi sembra probabile. Rientra nella logica strategica. Mi ha perciò sorpreso l’affermazione fatta in una nota trasmissione televisiva che la Russia non c’entra nulla con il riacutizzarsi delle tensioni in Kosovo (e in BiH), unita alla tronfia affermazione “la geopolitica è una cosa seria” e che l’interesse nazionale italiano dovrebbe indurre il nostro Governo a sostenere la Serbia, con cui il commercio è aumentato del 23% (trascurando il fatto che per l’effetto “fine Covid” il commercio estero della Serbia è aumentato del 36%, per cui l’Italia è passata dal 3° al 4° posto dei partner commerciali di Belgrado). Trascurato è stato anche il fatto che l’interscambio italiano con la Serbia è superiore solo di poco più del 10% rispetto a quello con l’Albania. Mi sembra perciò evidente che ta l’autoproclamato esperto di geopolitica e strategia non abbia la più pallida idea di quello di cui sta parlando. Non è la prima volta né purtroppo non sarà neppure l’ultima.

L’ACCORDO DI NORMALIZZAZIONE DEL KOSOVO È MORTO E SEPOLTO

Nel caos del Kosovo, una cosa è certa: l’“Accordo di Ohrid” del maggio 2023 sulla “normalizzazione del Kosovo”, derivato dalla proposta franco-tedesca, e firmato dal presidente kosovaro, Albin Kurti e da quello serbo, Aleksandar Vucic, è morto e sepolto. Ispirato al modello “due Germanie”, esso non riconosceva esplicitamente l’indipendenza del Kosovo, ma la sua possibilità di accesso alle organizzazioni internazionali. Prevedeva inoltre una soluzione per il problema delle targhe e la creazione di una Commissione di monitoraggio per la soluzione pacifica delle dispute. Non trattava invece del problema – a parer mio essenziale – delle elezioni amministrative locali, da rimandare a tempi migliori.

Vucic era stato indotto a firmare l’accordo di Ohrid come pre-condizione per l’accesso all’UE, ma era stato subito contestato dai nazionalisti serbi, che sfilavano con la “Z” russa dell’”operazione militare speciale” stampata sulle magliette. Ciò l’aveva indotto a votare contro l’ammissione del Kosovo al Consiglio d’Europa, vanificando l’impegno preso a Ohrid.

Insomma, l’accordo, anche se parziale e imperfetto, è morto appena nato. Si è tornati al punto di partenza, sperando che la situazione non si aggravi ulteriormente, in attesa che gli eventi in Ucraina creino un quadro in cui sia possibile una revisione dell’intero sistema geopolitico e di sicurezza europeo. Solo allora sarà forse possibile un riesame pragmatico anche degli assetti della ex-Jugoslavia. Esso potrà essere effettuato pacificamente solo con un’UE capace di utilizzare la forza, oltre che l’attrazione del suo soft power e della sua ricchezza per imporre nelle aree di suo più diretto interesse una soluzione pragmatica corrispondente ai suoi interessi di avere dei Balcani stabili e, per quanto, possibile compatibile con i propri valori.

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