3778.- Italia e Africa Orientale, ieri e oggi.

Mentre stiamo subendo un’invasione criminale di migranti economici, è giusto ricordare cosa fecero gli italiani per l’Africa e cosa fecero gli africani per l’Italia: A Cheren (1941), la battaglia finale degli italiani in Africa Orientale, 10.000 eritrei, somali, etiopici, tutti soldati italiani, diedero la vita combattendo come leoni, fino all’arma bianca. Parlano due Medaglie d’Oro al Valor Militare. Oggi, la politica del governo invita chi viene dall’Africa a rischiare la vita in mare per godere delle risorse prese agli italiani. Non è solidarietà, ma traffico di esseri umani e ha uno scopo. Un’invasione, le cui cifre vanno già a sei zeri, di gente, in massima parte senza legge, senza arte né parte, destinata ad essere ghettizzata o a delinquere, assolutamente non integrabile con quei numeri. Prima e durante il discusso ventennio, l’Italia investì nell’Eritrea, nella Somalia, nella Libia e nell’Etiopia conquistata le sue risorse e tutta la sua civiltà. La follia della guerra impossibile e il successivo saccheggio degli alleati distrussero questo patrimonio. Nessuno vi parlerà della resistenza degli eritrei italiani condotta per due anni contro gli occupanti inglesi. La cronaca di oggi di quei popoli è ben diversa.

VI° Battaglione Arabo Somalo

di Adam Basettoni

Difficile ad oggi spiegare ciò che fu emotivamente la A.O.I ad un giovane italiano. L’Italia di inizio del ‘900 era uno Stato giovane, povero, proletario e contadino e soprattutto un Paese di emigranti. Migliaia e migliaia di compatrioti cercavano fortuna ed una vita migliore nelle lontane Americhe. Eravamo un popolo ricco di braccia, ma non di opportunità di lavoro per le sue genti . Con l’avvento del Fascismo la musica cambió. L’Italia ebbe uno sviluppo industriale , sociale , sanitario , scolastico , unico al mondo. I territori di Libia , Somalia e soprattutto Eritrea divennero un potenziale enorme ed i flussi migratori vennero incanalati in quelle terre per non mandare i nostri ragazzi oltre oceano. Eritrea .. fu un laboratorio del Fascismo. Si ebbe mano libera su quella che poteva essere la società ideale. L’Italia spese fior di quattrini per trasformare quel fazzoletto d’Africa . L’idea di trasformare un Paese in suolo Italiano per andarci a lavorare, di trattare un impero come un luogo dove bisognava portare delle cose» anziché depredarlo è “l’innovazione” del colonialismo italiano e fascista, diverso da quello inglese e francese”, così annota nel 1936 il giornalista Evelyn Waugh. Si costruiscono strade, chiese, abitazioni, si coprono i mercati, si porta acqua e luce per incoraggiare l’arrivo della piccola borghesia riottosa a lasciare casa. L’Africa italiana diventerà un insolito esempio d’industrioso ingegno, artigianato capace di formare, ovviamente per poterla utilizzare, manodopera locale, meccanici, sarti, falegnami, fioristi, panettieri, fabbri, calzolai. Apprendistato e scuole d’arti e mestieri, aperte (parzialmente) anche ai nativi, lasciano un segno, visibile ancora oggi. Basti pensare al “lessico italiano” della ferrovia, voluta per motivi commerciali per far viaggiare merci e persone dal porto di Massawa, il più importante dell’Africa Orientale Italiana, verso l’altopiano.

La littorina Asmara-Massaua. La prima tratta, disegnata dall’ingegner Eugenio Olivieri, venne costruita alla fine dell’ottocento per esigenze militari, e ultimata nel 1911.  Racconta, l’anziano ferroviere eritreo, le vicende della più straordinaria linea ferroviaria del mondo e soddisfa, con orgoglio e competenza, in un perfetto italiano, ogni curiosità. Lui sa tutto sulla storia della ferrovia Asmara Massaua, 118 chilometri di binari, 30 gallerie, 26 ponti e viadotti, partendo da più di 2400 metri di altezza per arrivare al mare.

Ancora oggi agli anziani in Eritrea se gli viene chiesto se quel muro lo hanno fatto gli Italiani ti risponderanno di sì ma se gli chiedi se sono sicuri di questo ti risponderanno : “no….ma se non lo hanno fatto gli Italiani certamente sono stati loro che ci hanno insegnato a farlo “.– costruzione di una rete ferroviaria impressionante per l’arditezza ingegneristica.– costruzione di migliaia di chilometri di strade (molte bitumate) e di numerosi ponti;– ampliamento e potenziamento del porto di Massaua che divenne il principale porto del Mar Rosso ed un importante centro per la pesca (pesce, perle, madreperla, conchiglie);– costruzione di ospedali e dei prima inesistenti servizi sanitari (ambulatori, dispensari, lebbrosari e tubercolosari);– costruzione di acquedotti e della diga di Gasc per garantire le irrigazioni delle piantagioni;– sviluppo zootecnico (ovini, caprini, bovini) e agricolo del grande altopiano (cereali, semi oleosi, legumi, sisal) e del bassopiano (cotone, caffè, tabacco), fin giù verso il deserto della Dancalia (palme, sanseviera, aloe, senna);– costruzione della teleferica Asmara-Mar Rosso (la più lunga linea aerea “trifune” mai costruita al mondo) indispensabile per superare agevolmente i 2.300 metri di dislivello tra Asmara e il Mar Rosso;– costruzione di stabilimenti (tessili, alimentari, conciari, del legno, della carta e metalmeccanici) e di una rete di piccoli laboratori per l’artigianato locale;- costruzione di scuole di ogni ordine e grado e di scuole per le popolazioni indigene – costruzione tra il 1936 e il 1941 di gran parte della capitale Asmara (con popolazione a maggioranza italiana) che divenne una città moderna sia come urbanistica che come edifici pubblici e servizi e per questo fu soprannominata la “Piccola Roma” dove gli architetti fecero a gara per costruire case ed edifici pubblici in art decó, razionalismo L’integrazione tra gli italiani e la popolazione locale fu completa e la dimostrazione più lampante fu l’apporto dei reparti di Ascari eritrei (oltre centomila uomini) che combatterono a fianco dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, con un numero minimo di diserzioni rispetto all’elevata percentuale di diserzioni registrata nei reparti coloniali delle altre nazioniNon solo, dopo la sconfitta dell’Italia e l’occupazione inglese nel 1941, reparti di Ascari fiancheggiarono gli italiani ancora alla macchia nella guerriglia contro gli inglesi fino alla fine del 1943.Perdemmo i nostri territori nel 1941 . Il problema è che in queste terre storicamente non si insediò mai la retorica esasperata della Resistenza al Fascismo perché chiaramente non vi fu. L’amore degli italiani per l’Eritrea e ció che aveva rappresentato continuó per tanti anni. Gli alleati saccheggiarono il Paese smontando pezzo a pezzo la nostra industria e misero le basi per la distruzione che negli anni a venire incendiarono la nostra terra e coinvolse in maniera tragica i nostri fratelli eritrei. Inutile girarci intorno . L’Eritrea dal 1922 al 1941 è una spina nel fianco alla retorica antifascista della sinistra italiana. La resistenza qui si fece ma contro gli Inglesi e fu accanita.(Fronte di Resistenza ed i Figli d’Italia).Gli Ascari mai si girarono contro gli Italiani perché essi stessi si sentivano italiani . Fu la storia che obbligó gli italiani a girare le spalle a quelle amate terre, agli amati Eritrei e a quasi 50 anni di sacrifici, lavoro, investimenti, sudore e sangue. VAE VICTIS, Viva l’Italia , Viva l ‘Eritrea 🇮🇹🇪🇷

Dall’Eritrea all’Etiopia. Il Negus Hailè Selassiè

Hailè Selassiè: «Sono molto dolente che le circostanze di questa guerra non consentano di fare la conoscenza personale del generale Nasi, verso il quale professo la più alta ammirazione e la più viva riconoscenza per le direttive di politica indigena, inspirata ad un largo senso di giustizia e di umanità, da lui adottate e imposte durante tutto il periodo del suo vice-governatorato generale. Le migliaia di abissini da me interrogati dopo il mio ritorno in Etiopia mi hanno fatto, senza eccezioni, unanimi commoventi grati elogi del trattamento usato dal generale Nasi verso le popolazioni native dell’impero».

Con la sconfitta degli italiani in Africa Orientale il 20 gennaio 1941  l’Imperatore Hailè Selassiè fece ritorno in Africa per rientrare trionfalmente, con il supporto degli inglesi, in Addis Abeba il 5 maggio 1941. Però «gli etiopici non tardarono molto ad accorgersi che gli inglesi liberatori […] ostentavano un disprezzo, un distacco razziale, di cui, in genere, gli italiani non erano capaci». (Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero).

GeneraleGuglielmo_Nasi

Il 17 giugno 1941 l’ex ministro italiano in Etiopia Renato Piacentini incontrerà il Negus, il quale dichiarerà la sua amarezza e sconforto verso gli inglesi che non gli avevano concesso nessuna autorità, contrariamente a quanto convenuto a Londra, tanto che pure la polizia indigena dipendeva direttamente dall’ufficio politico britannico, ed egli era stato relegato nel palazzo imperiale senza alcuna sovranità.«Sono molto dolente – dichiarerà Hailè Selassiè – che le circostanze di questa guerra non consentano di fare la conoscenza personale del generale Nasi, verso il quale professo la più alta ammirazione e la più viva riconoscenza per le direttive di politica indigena, inspirata ad un largo senso di giustizia e di umanità, da lui adottate e imposte durante tutto il periodo del suo vice-governatorato generale. Le migliaia di abissini da me interrogati dopo il mio ritorno in Etiopia mi hanno fatto, senza eccezioni, unanimi commoventi grati elogi del trattamento usato dal generale Nasi verso le popolazioni native dell’impero». (da una una dichiarazione del 5 febbraio 1946, rilasciata da Piacentini al generale Nasi. Vedi documenti AB, ONU, Somalia, b. 2/b, alleg. 5)Dichiarazione confermata il 6 luglio 1965 dall’allora ministro per la Riforma dell’Amministrazione Luigi Preti, in visita in Etiopia: «Ti confermo quanto ti è stato riferito all’Ambasciata Italiana in Etiopia circa il giudizio positivo espresso dall’Imperatore Hailè Selassiè nei confronti dell’Italia. Soggiungo che nell’incontro che ebbi con lui, mi parlò molto bene anche del Generale Nasi ed ebbe particolari espressioni di lode per le imponenti Opere di viabilità realizzate dagli italiani in quella terra». (Documento n. prot. 06998, citato da Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero)..di © Alberto Alpozzi – Tutti i diritti riservati

I racconti dell’ascari Beraki Ghebreslasie, “fedele soldato italiano”

Dalla guerra italo-abissina alla difesa di Gondar. L’incredibile epopea di un anziano reduce che, con la nostra uniforme, seppe servire con fierezza e orgoglio la nostra e… la sua Patria.

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Beraki Ghebreslasie un anziano cittadino di 94 anni. Lo incontro in una casa di riposo per anziani del comune di Roma in cui vive ospite da molto tempo. Il colore scuro della pelle ricorda la sue origini etiopi, ma stringendomi la mano si affretta presentarsi come “fedele soldato italiano”. Nato ad Adinebri, ma vissuto in Eritrea si arruolò nel 1933 nel Regio Esercito e combattè a fianco dei nostri sodati nella seconda guerra italo-abissina del 1935-1936 e nell’ultima resistenza a Gondar contro gli Inglesi nel 1941, sotto il comando del Generale di Corpo d’armata Guglielmo Nasi.Ghebreslasie un Ascari che giurò fedeltà alla bandiera italiana e combatté per essa fino alla resa dell’Africa Orientale Italiana. Gli ascari erano soldati indigeni volontari inquadrati nelle formazioni regolari del Regio Corpo Truppe Colonia italiano. Le loro origini risalivano al 1889, con la costituzione dei primi quattro battaglioni eritrei, i cui componenti ricevettero l’appellativo di “Ascari”, dall’arabo “Ascar”, soldato. Indossavano una divisa i cui caratteri distintivi erano un copricapo denominato “tarbusc” e una fascia avvolta in vita, denominata “etag”, con i colori dell’arma o dell’unità. Ghebreslasie combatté dapprima come semplice ascaro, partecipando alla conquista dell’Etiopia e successivamente con il grado di Sciumbasci, l’equivalente del nostro maresciallo, nel 1941 alla difesa del ridotto di Gondar, capoluogo della regione dell’Asmara. Ho ripercorso con lui le vicende belliche di quegli anni di cui serba un ricordo vivido ed emozionale, quasi come se da allora il tempo per lui si fosse fermato.

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“Io ero fiero di essere un soldato italiano. Lo sono stato sempre. Sia nella vittoria sia nella sconfitta. Mi sono arruolato per rendere onore alla mia bandiera, quel tricolore sotto cui sono nato e fu proprio quando gli inglesi lo minacciarono che io mi sentii offeso nell’orgoglio e lottai oltre le possibilità fisiche e mentali, oltre anche all’umana paura, pur di compiere il mio dovere di soldato. Per il mio Re Vittorio Emanuele III ho sofferto la fame, perso il sonno e provate dolore. Però ho sempre avuto la convinzione che servire l’Italia sarebbe stata la missione più nobile della mia vita. Avevo ragione.”

Massaua-Asmara, la teleferica più lunga del mondo capolavoro dell’ingegneria italiana

Di Alberto Alpozzi fotogiornalista,

Diversi asmarini mi hanno richiesto di parlare della teleferica in Eritrea. Molti di loro non l’hanno conosciuta ma io ho avuto questa fortuna avendola a due passi da casa. Ancora ragazzino guardavo estasiato i carrelli che penzolavano lungo le funi della teleferica, a due passi da casa mia a Godaif. Erano gli anni dal 49 al 50 e gli inglesi non avevano ancora smantellato questa colossale opera che ci rubarono prima di andarsene via da Asmara, nel 1952. Per chi veniva giù dal posto di blocco per Decamerè verso Asmara, a ridosso del villaggio di Godaif sulla sinistra si trovava il deposito di autobus della Salvati e, proprio di fronte, il terminale della teleferica. Era un area che con gli amici bazzicavamo in cerca di emozioni, sino a spingerci a salire sui primi tralicci per avvicinarci ai carrelli fermi in sospensione nel vuoto. Asmara, sino agli anni ’40 era il collettore del traffico mercantile marittimo proveniente dal Mar Rosso e diretto nel cuore di quello che era stato l’Impero coloniale italiano.

Da Asmara, a 2.400 metri di altitudine si irradiavano due grandi direttrici: verso Adua, Axum, Gondar, da un lato, prendendo la camionabile per Adi Ugri e Makalle, Dessiè, Addis Abeba dall’altro, sulla camionabile per Decamerè. L’altezza era un grande impedimento per il trasferimento delle merci dal porto di Massaua ed ecco che nel 1911 arriva in Asmara la ferrovia a scartamento ridotto che fu in grado di colmare il gran salto, attraversando serpeggiamenti da capogiro lungo le pendici dell’Acrocoro Eritreo.

Ma la potenzialità della ferrovia era troppo scarsa per sopperire alle crescenti proporzioni del traffico che si sviluppava anche su gomma, lungo la strada degli italiani che in 113 Km portava da Massaua alla capitale. Ecco quindi che nacque il progetto per realizzare la teleferica, la grande opera di ingegneria italiana, considerata all’epoca la più grande del mondo. Con l’avvento della teleferica la corrente dei traffici mercantili verso l’interno viene raddoppiata. Quest’opera ammirata da tutto il mondo fu affidata alla ditta Cerretti & Tafani mentre le funi furono fornite dalla dai fratelli Redaelli di Milano. I potenti motori erano della Franco Tosi di Milano. Aveva un sistema a tre funi. Due avevano funzione portanti e costituivano le vie di corsa di due correnti di vagoncini con opposto senso di marcia, mentre la terza aveva una funzione traente e collegava fra loro i vagoncini trainabili nel loro moto.

Furono impiegati 1.000 tonnellate di parti meccaniche, altrettanto pesavano le funi e circa altre 2.000 ton. di carpenterie metalliche. Sotto il profilo qualitativo la teleferica era quanto di meglio poteva offrire l’industria mondiale. Ben 75 Km. di viaggio aereo di vagoncini per trasportare nei due sensi oltre 30 ton. di merce, da Campo Marte, Mai Atal, Dogali, Sabarguma, Embatkalla, Ghinda, Nefasit.

Poi gli inglesi la rubano, la distrussero per privarci di una risorsa che avrebbe fatto ancora più grande l’economia dell’Eritrea e anche perché si vergognavano di non aver mai avuto ingegneri bravi come i nostri.

di Pasquale Santoro – Foto sono tratte dal sito eritreaeritrea

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