5233.- A proposito di democrazia e di Democrazia Cristiana

Andreotti era legato alla mafia?

L’onorevole Giulio Andreotti Era legato a Cosa Nostra ed è bene che tutti lo sappiano per comprendere meglio il nostro Paese e certi tentativi di resurrezione della DC. Giuseppe Rotundo, “Parlo di mafia”, 24 giugno 2022.

Il 2 maggio 2003 è stato giudicato e condannato dalla Corte d’Appello di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. Era stato assolto in primo grado, il 23 ottobre 1999. Nell’ultimo grado di giudizio, la II sezione penale della Corte di Cassazione ha citato il concetto di “concreta collaborazione” con esponenti di spicco di Cosa Nostra fino alla primavera del 1980, presente nel Dispositivo di Appello. Il reato commesso non era però più perseguibile per sopravvenuta prescrizione e quindi si è dichiarato il “non luogo a procedere” nei confronti di Andreotti.

Suprema Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, sentenza n.49691/2004 (Presidente: G. M. Cosentino; Relatore: M. Massera) Depositata in Cancelleria il 28 dicembre 2004.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri:
1) Dott. Giuseppe M. Cosentino Presidente
2) Dott. Antonio Morgigni Consigliere
3) Dott. Francesco De Chiara Consigliere
4) Dott. Maurizio Massera Consigliere Rel. Est. 5) Dott. Carla Podo Consigliere
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA

Sui ricorsi proposti dalla Procura Generale presso la Corte di Appello di Palermo e da Andreotti Giulio, nato a Roma il 14.1.1919, avverso la sentenza della Corte di Appello di Palermo in data 2.5.2003.

Qui sotto le considerazioni conclusive della sentenza della Corte di Cassazione a cui si fa riferimento. Per una lettura della sentenza completa, scrivere a gendiemme@gmail.com.

13 – Le considerazioni conclusive 

A questo punto, esaurita la disamina dei due ricorsi, debbono essere tratte le considerazioni conclusive da cui scaturiranno le statuizioni della Corte. 

Come si è rilevato nel primo paragrafo della parte motiva della presente sentenza, la partecipazione all’associazione criminosa si sostanzia nella volontà dei suoi vertici di includervi il soggetto e nell’impegno assunto da costui di contribuirne alla vita attraverso una condotta a forma libera, ma in ogni caso tale da costituire un contributo apprezzabile e concreto, sul piano causale, all’esistenza o al rafforzamento del sodalizio. 

Non è, dunque, sufficiente una condivisione meramente psicologica o ideale di programmi e finalità della struttura criminosa, ma occorre la concreta assunzione di un ruolo materiale al suo interno, poiché la partecipazione implica l’apporto di un contributo nella consapevolezza e volontà di collaborare alla realizzazione del programma societario. 

D’altra parte, in mancanza dell’inserimento formale nel sodalizio, è soltanto la prestazione di contributi reali che rende concreta ed effettiva, e non meramente teorica, la disponibilità e nel contempo ne materializza la prova. 

In definitiva, la Corte di Appello non si è discostata da questa impostazione, perché ha ancorato l’asserita disponibilità dell’imputato ad una serie di fatti e di considerazioni che ha ritenuti tali da rafforzare il sodalizio criminoso, anche per effetto dell’apprezzamento e della collaborazione manifestati nei confronti di alcuni dei suoi vertici. 

A tale proposito è sufficiente ricordare le opinioni di Bontate e di altri uomini d’onore sul rafforzamento della loro posizione personale e dell’intera organizzazione per effetto delle presunte amichevoli relazioni intrattenute con Andreotti e, per contro, il disappunto di Rima per non essere riuscito ad instaurare rapporti analoghi. 

Pertanto la Corte palermitana non si è limitata ad affermare la generica e astratta disponibilità di Andreotti nei confronti di Cosa Nostra e di alcuni dei suoi vertici, ma ne ha sottolineato i rapporti con i suoi referenti siciliani (del resto in armonia con quanto ritenuto dal Tribunale), individuati in Salvo Lima, nei cugini Salvo e, sia pure con maggiori limitazioni temporali, in Vito Ciancimino, per poi ritenere (in ciò distaccandosi dal primo giudice) l’imputato compartecipe dei rapporti da costoro sicuramente intrattenuti con Cosa Nostra, rapporti che, nei convincimento della Corte territoriale, sarebbero stati dall’imputato coltivati anche personalmente (con Badai amenti e, soprattutto, con Bontate) e che sarebbero stati per lui forieri di qualche vantaggio elettorale (quantomeno sperato, solo parzialmente conseguito) e di interventi extra ordinem, sinallagmaticamente collegati alla sua disponibilità ad incontri e ad interazioni (il riferimento della 

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Corte territoriale è alla questione Mattarella), oltre che alla rinunzia a denunciare i fatti gravi di cui era venuto a conoscenza. 

Quindi la sentenza impugnata, al di là delle sue affermazioni teoriche, ha ravvisato la partecipazione nel reato associativo non nei termini riduttivi della mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una concreta collaborazione, sviluppatasi anche attraverso l’opera di Lima, dei Salvo e di Ciancimino, oltre che nella ritenuta interazione con i vertici del sodalizio (basti pensare, ancora una volta, il suo riferimento alla vicenda Mattarella), la cui valenza sul piano della configurabilità del reato non è inficiata dalla considerazione che la soluzione realmente adottata non fu quella politica da lui propugnata, ma quella omicidiaria da lui avversata. 

Ne deriva che la costruzione giuridica della Corte territoriale resiste al vaglio di legittimità proprio perché essa ha interpretato i fatti di cui è processo -esprimendo tale suo convincimento in termini che lo rendono non censurabile in questa sede – nel senso che Andreotti, facendo leva sulla sua posizione di uomo politico di punta soprattutto a livello governativo, avrebbe manifestato la propria disponibilità – sollecitata o accettata da Cosa Nostra – a compiere interventi in armonia con le finalità del sodalizio ricevendone in cambio la promessa, almeno parzialmente mantenuta, di sostegno elettorale alla sua corrente e di eventuali interventi di altro genere. 

Piuttosto la Corte territoriale si è posta in contrasto logico con il delineato concetto di partecipazione nel reato associativo e con l’elaborazione giurisprudenziale in tema di permanenza del partecipe nell’organizzazione criminale nel momento in cui non ha considerato che la sua struttura ne implica necessariamente l’indeterminatezza temporale, con la conseguenza che l’intraneus recede dalla compagine criminale solo ponendo in essere una concreta condotta che ne implichi e dimostri l’irreversibile distacco. 

Ma il già indicato (in precedenza) errore di diritto si è rivelato in concreto inconferente in quanto quel Giudice (ed anche ciò è stato già considerato) ha risolto la questione del recesso con rilievi di merito, insindacabili in questa sede. 

La costruzione della Corte d’Appello, giuridicamente non censurabile solo in virtù delle effettuate precisazioni e fatto salvo il limite appena sopra delineato, è stata poi raffrontata alla realtà processuale per verificarne la compatibilità con le risultanze acquisite, verifica il cui controllo va effettuato tenendo presente l’ovvia precisazione che la cognizione della Corte di Cassazione non consente apprezzamenti di merito ed è limitata al riscontro di eventuali via di motivazione. 

I rapporti con Lima, con i Salvo e con Ciancimino, gli effetti che ne sono derivati, il loro significato ai fini della decisione sono stati descritti e valutati dalla sentenza impugnata sulla base di apprezzamenti di merito espressi in termini logici e conseguenti, quindi razionalmente incensurabili. 

La ricostruzione dei singoli episodi e la valutatone delle relative conseguenze è stata effettuata in base ad apprezzamenti e interpretazioni che possono anche non essere condivise e a cui sono contrapponibili altre dotate di uguale forza logica, ma che non sono mai manifestamente irrazionali e che, quindi, possono essere stigmatizzate nel merito, ma non in sede di legittimità. La Corte di Appello ha ritenuto provati i due incontri con Bontate, riferiti da Marino Mannoia, il quale ha partecipato personalmente al secondo mentre ha avuto cognizione del primo senza esservi presente, perché essa ha apprezzato – in termini non palesemente illogici – adeguati allo scopo i riscontri di carattere generale e le deduzioni di carattere logico che li confortano, dalla medesima analiticamente illustrati. 

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Inoltre, mentre del primo è stata affermato il carattere non determinante ai fini della ricostruzione prescelta, il secondo incontro è stato apprezzato come dimostrativo della crisi irreversibile dei pregressi, asseriti rapporti tra i due interlocutori principali, anche se sulla base di un ragionamento logico conseguente alla valutazione di fatti noti, o ritenuti accertati, piuttosto che sulla prova diretta e specifica del recesso dal sodalizio. 

La Corte territoriale ha ritenuto attendibile anche l’episodio Nardini, pur nella affermata problematica credibilità di Mammoliti, in quanto sufficientemente riscontrato e, quindi, lo ha valutato anche se ad effetti piuttosto limitati. Considerazioni analoghe attengono all’intervento per aggiustare il processo Rimi, utilizzato dalla sentenza impugnata essenzialmente allo scopo di inferirne l’affidamento dei vertici di Cosa Nostra sulla possibilità di rivolgersi ad Andreotti e richiederne l’intervento allo scopo di superare situazioni pericolose per l’organizzazione. 

Per contro e sul versante opposto, la Corte palermitana ha negato pregnante valenza probatoria ai fatti accaduti nel periodo successivo all’avvento dei “corleonesi”, quali il preteso regalo ad Andreotti di un quadro da parte di Bontate e Calò, gli interventi dell’imputato, sia pure modesti e non decisivi, espletati a favore di Sindona, i cui legami con Bontate e Badalamenti ha ritenuto provati, la telefonata proveniente dalla sua segreteria nel settembre 1983 per assumere informazioni sulla salute di Giuseppe Cambria, persona legata ai Salvo, di cui, però, ha posto in dubbio la riferibilità all’imputato, il trasferimento nel 1984 di detenuti siciliani dal carcere di Pianosa a quello di Novara, per il quale ha ipotizzato un interessamento esclusivo di Lima, l’incontro avvenuto nel 1985 con Andrea Manciaracina, uomo d’onore vicino a Riina, la convinzione in seno a Cosa Nostra, pur in assenza della prova di un suo intervento, di poter ricorrere ad Andreotti per aggiustare il maxiprocesso, la cui importanza per il sodalizio criminoso era innegabile. Pertanto il Collegio rileva conclusivamente: 1) la Corte di Appello ha delineato il concetto di partecipazione nel reato associativo in termini giuridici non condivisibili, ma l’erronea definizione teorica è stata emendata per effetto della successiva ricostruzione dei fatti, da cui essa ha tratto il convincimento di specifiche attività espletate a favore del sodalizio; 2) pure la cessazione di tale partecipazione è stata delineata secondo una prospettazione giuridica non corretta, ma poi anche riguardo ad essa la Corte territoriale ha non irrazionalmente valutato come concreta dimostrazione del necessario recesso un episodio che ha insindacabilmente ritenuto essere di certo avvenuto; 3) gli episodi considerati dalla Corte palermitana come dimostrativi della partecipazione al sodalizio criminoso sono stati accertati in base a valutazoni e apprezzamenti di merito espressi con motivazioni non manifestamente irrazionali e prive di fratture logiche o di omissioni determinanti; 4) avendo ritenuto cessata nel 1980 la assunta partecipazione nel sodalizio criminoso, correttamente il giudice di appello è pervenuto alla statuizione definitiva senza considerare e valutare unitariamente il complesso degli episodi articolatisi nel corso dell’intero periodo indicato nei capi d’imputazione; 5) le statuizioni della Corte di Appello concernenti l’insussistenza di una delle circostanze aggravanti contestate e la teorica concedibilità delle circostanze attenuanti generiche non hanno formato oggetto di impugnazione specifica e, quindi, sono passate in giudicato, precludendo qualsiasi ulteriore indagine perché la cessazione della consumazione del reato nel 1980 ne ha determinato la prescrizione. Inoltre essa ha ritenuto ulteriore fatto confermativo della asserita dissociazione l’emanazione del D.L. 12 settembre 1989, n. 317, di cui l’imputato è stato un fiero propugnatore; 6) al termine di questo articolato “excursus”, il Collegio ritiene di dover riprendere l’osservazione iniziale: i giudici dei due gradi di merito sono pervenuti a soluzioni diverse; non rientra tra i compiti della Corte di Cassazione, come già reiteratamente precisato, operare una scelta tra le stesse perché tale valutazione richiede l’espletamento di attività non consentite in sede di legittimità; in presenza dell’intervenuta prescrizione, poi, questa Corte ha dovuto limitare le sue valutazoni a verificare se le prove acquisite presentino una evidenza tale da conclamare la manifesta illogicità della motivazione della sentenza in ordine all’insussistenza del fatto o all’estraneità allo stesso da parte dell’imputato; 7) ne deriva che, mancando tali estremi, i ricorsi vanno rigettati. 

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Al rigetto del ricorso dell’imputato consegue per il medesimo l’onere delle spese ai sensi dell’art. 616 c.p.p.. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso del Procuratore Generale e dell’imputato e condanna quest’ultimo al pagamento delle spese processuali. 

Roma, 15 ottobre 2004.
Il Consigliere Estensore Il Presidente. 

Si da atto che la presente motivazione è stata letta e approvata dal Collegio, ai sensi dell’art. 617 c.p.p., nelle camere di consiglio del 21 e 28 dicembre 2004. 

DEPOSITATO IN CANCELLERIA il 28 dicembre 2004 

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