783.-Nell’ospedale italiano che a Misurata salva i libici feriti nella guerra all’Isis

 

Un omaggio ai chirurghi italiani e libici che a Misurata stanno facendo un opera santa.

immagine1Allestiti dai militari pronto soccorso e sale operatorie: “Così curiamo decine di uomini colpiti dai jihadisti a Sirte”

immagine2REPUBBLICA, Operazione Ippocrate, di VINCENZO NIGRO

MISURATA – La battaglia di Sirte. Raccontata dai medici italiani. “C’è stato un giorno, uno in particolare, ci arrivavano molti feriti, colpiti alle spalle, uno dopo l’altro: tutti colpiti alle spalle. Noi li stabilizzavamo, li trasferivamo nelle camere operatorie, li operavamo. Poi però abbiamo chiesto a qualcuno, e abbiamo capito cosa era successo: a Sirte i terroristi li avevano attirati in un tranello, li avevano fatti scendere in qualcuno dei tunnel scavati da loro sotto la città e all’improvviso avevano iniziato a sparare loro alle spalle. Un altro giorno, credo attorno al 6 o 7 ottobre, ci sono arrivati feriti a decine, forse 50 o 60: è stato il giorno più pesante, c’era stata una battaglia feroce, abbiamo operato dalla prima serata per tutta la notte fino alla mattina dopo, senza fermarci. Noi operiamo senza alzare la testa, senza fare domande, non c’è neppure tempo. Ma poi capiamo cosa succede: se ci sono solo i feriti colpiti dai proiettili dei cecchini, al capo, al torace è una giornata in cui le parti si studiano da lontano. Oppure arrivano i feriti nei conflitti a fuoco delle giornate più dure, soldati colpiti agli arti, al torace, con proiettili più piccoli rispetto a quelli devastanti dei cecchini. Poi le fratture, le ferite agli arti e all’addome, le schegge che sono tipiche delle mine, degli IED, le bombe improvvisate che l’Isis adopera a Sirte”.

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Dal 18 settembre i medici italiani sono arrivati a Misurata, la città di Libia impegnata in prima linea a Sirte contro i terroristi dell’Is. Il primo nucleo dell’ospedale fu un piccolo ma efficientissimo “Role 1” dell’Aeronautica militare, una struttura essenziale, schierata in poche ore. Poi via nave nel porto di Misurata sono arrivati i container che sono serviti a costruire il “Role 2”, un vero ospedale da guerra. Le camere operatorie, il laboratorio di analisi, la sala gessi, le sale di radiologia, tutte collegate fra di loro con tende gonfiabili. Marzio Simonelli, il direttore dell’ospedale, spiega che le tende e i container sono stati piazzati in un’area dell’aeroporto di Misurata dove sono gli edifici dell’ex accademia aeronautica libica: “Le stanze, la sala mensa dei cadetti erano state appena rinnovate, così li abbiamo potuti utilizzare immediatamente per il nostro personale ma anche per creare 50 posti letto in strutture di muratura in cui i nostri infermieri possono seguirli meglio”. L’ospedale italiano già oggi garantisce la chirurgia generale e vascolare, quella ortopedica e maxillo-facciale, la neuro-chirurgia e quella plastico-ricostruttiva. “E’ un aiuto di grandissima qualità, che sta migliorando giorno per giorno, c’è un’armonia completa fra medici libici e italiani” dice Khalid Abufalgha, il coordinatore medico misuratino che parla italiano. E a sentire i medici italiani, anche loro imparano molto dai colleghi libici impegnati in prima linea: ricevono e trasmettono esperienza. Incontriamo i chirurghi Stefano Ciancia, Sergio Ferranti, Luigi Marrocco, Vincenzo Piccinni; assieme a tutti gli altri lavorano quando serve 24 ore su 24 con i loro colleghi libici. “Abbiamo visto come è organizzato l’ospedale centrale di Misurata, dove arrivano i feriti dal fronte esaminati all’ospedale da campo che hanno allestito alla periferia di Sirte. Sono bravissimi, eccezionali nel “triage”, nella divisione dei casi fra i gravissimi, i gravi e quelli che possono essere trattati con minore urgenza. I libici sono grandi chirurghi di guerra, rapidi anche se necessariamente sommari, noi li affianchiamo all’ospedale centrale, li affianchiamo nei loro team, ciascuno di noi con loro, con i nostri infermieri e i libici”.

I medici italiani spiegano che, appena arrivano, ai pazienti si devono assicurare due cose: innanzitutto che le via aeree, la trachea, i bronchi, i polmoni siano liberi, che i feriti possano respirare e non muoiano in pochi minuti magari per una stupida ostruzione. Poi devono controllare che non ci siano ferite, magari traumi interni che li dissanguino. Poi si ragiona sull’urgenza degli interventi da effettuare, la riduzione delle fratture, la composizione di quelle ossa che possono danneggiare altri organi. “Al tavolo parliamo tutti in inglese, anche i libici fra di loro parlano in inglese, fra medici e infermieri, e scrivono le cartelle cliniche in inglese. I feriti vengono stabilizzati, operati e poi se serve rioperati per evitare che danni potenziali prodotti dai primi interventi possano diventare permanenti”.

Un altro chirurgo italiano spiega: “La ferita da guerra per definizione è sporca, e per definizione va trattata da subito come una “ferita sporca”: dobbiamo fermare e prevenire le infezioni, dobbiamo disinfettare bene e di continuo le ferite, somministrare subito gli antibiotici, e anche quando il paziente viene assegnato alle retrovie quella è la complicazione peggiore: magari li salviamo per le ferite, ma li perdiamo per le infezioni che finiscono facilmente fuori controllo”. Ai colleghi libici infatti gli italiani suggeriscono di non aprire le ferite, le fratture per provare a intervenire in scarse condizioni di igiene, magari a Sirte. Ma di bloccare gli arti o le parti colpite con dei fissatori ortopedici e di trasferire subito i feriti a Misurata, all’ospedale civile oppure a quello italiano.

La battaglia di Sirte, interminabile, ormai dovrebbe essere per davvero agli sgoccio, “ma il vostro lavoro qui è importantissimo”, dice Khalid, il medico che parla italiano. E il comandante di tutta la missione, il generale Antonio Maggi, conferma, “lavoreremo per seguire i feriti, che se arrivano da noi sono molto gravi, che vanno stabilizzati, salvati ma poi anche seguiti”.

La catena della salvezza per i soldati libici è stata organizzata facendo perno sull’ospedale civile, appena rinnovato e in condizioni di vera eccellenza europea. I feriti arrivano innanzitutto lì, e le equipe italiane con i 6 chirurghi e una ventina di infermieri di altissimo livello iniziano ad operare lì. “Nelle giornate più pesanti dall’ospedale civile spostiamo nelle sale operatorie del nostro ospedale quelli che operiamo da noi e poi ricoveriamo nei nostri posti letto”, dice il direttore Simonelli.

Ma in città oramai nei momenti di tregua i medici libici e italiani naturalmente assistono anche i feriti: “Ci sono moltissimi incidenti stradali, anche gravi, ci sono decine di incidenti domestici, ustioni, fratture. E’ arrivata 3 giorni Dua, una bimba di 3 anni, rompendo una vetrata si era ferita, aprendo con un taglio il braccio destro per quasi tutta la lunghezza, vene e tendini erano esposti. L’abbiamo ricucita con amore, è tornata a casa e la seguiremo”. I medici italiani hanno fatto i loro turni di guerra in Afghanistan, in Iraq, in Ciad, dove un ospedale italiano in una missione Ue ha salvato decine di civili feriti dalla guerra del Sud Sudan. “Qui in Libia ho capito per davvero cos’è ”Isis, un mostro che colpisce innanzitutto i musulmani”, dice uno dei chirurghi.

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Tra i feriti gravi c’è Bay Abdallah, un soldato di 22 anni, di Obari, nel sud della Libia. Colpito alla testa da un cecchino. Gli italiani gli hanno asportato temporaneamente un tassello di osso della scatola cranica per permettere al cervello colpito dal proiettile di espandersi per assorbire l’ematoma. Ha una potente infezione, che riescono a tenere sotto controllo. Non ha voce, non pronuncia una sola parola. Ma parla con gli occhi e con le mani: “Fatemi guarire, non voglio tornare a casa, voglio tornare a combattere”.

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